Charles Baudelaire

Poeti celebri di affermata fama nazionale e mondiale
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Beldanubioblu
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Charles Baudelaire

Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 5:53 pm

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Charles Baudelaire

nasce a Parigi, in una casa del Quartiere Latino, il 9 aprile del 1821. Il padre, già sessantenne, muore nel 1827 e la madre, Caroline Dufaÿs, ancora giovane, sposa il tenente colonnello, e in seguito generale, Jacques Aupick, il quale, a causa della propria freddezza e rigidità e anche del perbenismo borghese, si guadagnerà l’odio del figliastro.
Baudelaire frequenta prima il Collège Royal di Lione e poi il Collège Louis-le-Grand della sua città, scuola da dove viene espulso nel 1839. Ha già capito e deciso che la vocazione irreprimibile deve essere quella del poeta e dell’uomo di lettere, del dandy e del flâneur. Ma questa vocazione viene contrastata con forza soprattutto dal comandante Aupick, che preferirebbe una professione borghese, più tranquilla e meno scandalosa e inutile.
Nel 1841, spinto dalla famiglia, Baudelaire si imbarca su una nave diretta a Calcutta, ma dopo soli dieci mesi interrompe il viaggio per fare ritorno a Parigi, dove, ormai maggiorenne, entra in possesso dell’eredità paterna (centomila franchi), che gli permette di vivere per qualche tempo in grande libertà.
È il suo periodo di maggiore felicità e il più memorabile della sua esistenza: abita in un bellissimo appartamento nel quartiere più alla moda di Parigi, veste in maniera ricercata, frequenta i migliori letterati dell’epoca. Intanto, nella primavera del 1842, conosce Jeanne Duval, un’attrice meticcia che gli starà, tra alti e bassi, vicina per sempre.
Ma quando, dopo due anni, M.me Aupick scopre che il figlio ha già speso circa la metà del lascito paterno, consigliata dal marito, intraprende una procedura per poter ottenere un curatore a cui venga affidato il compito di amministrare con maggiore oculatezza il resto dell’eredità. Da ora in avanti, Baudelaire sarà costretto a chiedere al proprio tutore persino i soldi per un paio di pantaloni.
Il suo esordio come poeta risale al 1845 con la pubblicazione di A une dame créole, mentre, per vivere, è costretto a collaborare a riviste e giornali con articoli e saggi che saranno poi raccolti in due libri postumi, L’art romantique e Curiosités esthétiques.
Durante la rivoluzione del 1848, Baudelaire va anch’egli sulle barricate e qualcuno, si dice, lo sente incitare la folla e gridare: "Andiamo a fucilare il generale Aupick". Nel 1850 scopre Edgar Allan Poe, il grande scrittore americano alla cui opera dedicherà alcuni anni di vita con saggi e traduzioni.
Nel 1857, a trentasei anni, pubblica Les fleurs du mal. All’inizio non è possibile parlare di grande successo letterario, ma piuttosto di un vero e proprio scandalo: il libro viene processato per immoralità e l’editore, Poulet-Malassis, deve sopprimere sei poesie. Solo nel 1861 uscirà la seconda e definitiva edizione, riveduta e arricchita di nuovi poemi.
Intanto, le condizioni di vita di Baudelaire continuano a peggiorare, e peggiora anche il suo stato di salute, anche a causa dell’alcol e dell’oppio. Di queste esperienze rimane testimonianza soprattutto nel libro Les paradis artificiels ( 1860). Invecchia precocemente, ma proprio in questi anni lavora con alacrità. Comincia a comporre i poemi in prosa di Le spleen de Paris, che usciranno postumi nel 1869.
Nel 1860 subisce la prima crisi cerebrale. Dall’anno precedente al 1866 prepara anche Mon coeur mis à nu. Nel 1866 esce Le peintre de la vie moderne, opera dedicata a Constantin Guys.
Con la speranza, attraverso una serie di conferenze, di guadagnare un po’ di denaro, nel 1864 parte per il Belgio. Vi trascorre, invece, giorni di assoluta miseria, tra indicibili sofferenze fisiche e morali. Proprio in quel paese, nel 1866, a Namur, mentre sta visitando la chiesa di Saint-Loup, viene colpito da un attacco di emiplegia e di afasia. Rimane paralizzato nel lato destro del corpo. Il 31 agosto del 1867, a Parigi, nella casa di cura del dottor Duval, Charles Baudelaire muore a quarantaquattro anni. È sepolto nel cimitero di Montparnasse, insieme alla madre e al detestato patrigno.
Nel 1949 la Corte di Cassazione francese riabilita la sua memoria e la sua opera.


fonte:http ://spazioinwind.libero.it/


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BENEDIZIONE


Allorché, per decreto delle potenze supreme, il Poeta appare in questo mondo attediato, sua madre impaurita e carica di maledizioni stringe i pugni verso Dio che l'accoglie pietoso:
- "Ah, perché non ho partorito un groviglio di vipere piuttosto che nutrirmi in seno questa cosa derisoria? Maledetta sia la notte d'effimeri piaceri in cui il mio ventre ha concepito la mia espiazione!

Poi che m'hai scelta fra tutte le donne perché divenissi disgustosa al mio triste marito, non potendo rigettare nelle fiamme come un biglietto amoroso questo mostro intristito,

farò ricadere il tuo odio che m'opprime sul maledetto strumento della tua cattiveria e torcerò talmente quest'albero miserabile che esso non potrà innalzare i suoi germogli impestati."

Inghiotte così la schiuma del suo odio e, ignara degli eterni disegni, prepara essa stessa in fondo alla Geenna i roghi consacrati ai delitti materni.

Tuttavia, assistito da un Angelo invisibile, il figlio ripudiato s'inebbria di sole, e in tutto quel che beve e che mangia trova ambrosia e nettare vermiglio.

Gioca col vento, discorre con la nuvola, s'ubbriaca, cantando, del Calvario; e lo Spirito che lo segue nel suo pellegrinaggio, piange al vederlo gaio come uccello di bosco.

Tutti coloro che egli vuole amare l'osservano intimoriti o, rassicurati dalla sua tranquillità, fanno a gara a chi gli caverà un sospiro, sperimentando su di lui la propria ferocia.

Mescolano al pane e al vino destinati alla sua bocca cenere e sputi impuri; con ipocrisia buttano quanto egli tocca, s'incolpano d'aver posto il piede sulle sue orme.

Sua moglie va gridando per le piazze: - "Poi che mi trova tanto bella da adorarmi, farò come gli idoli antichi, come essi vorrò che egli m'indori, e m'indori ancora;

m'ubbriacherò di nardo, di incenso e di mirra, di genuflessioni, di carne e di vino, per sapere se io possa, in un cuore che m'ammira, usurpare, ridendo, gli omaggi destinati alla divinità.

E, stanca di queste farse empie, poserò su di lui la mia forte e fragile mano; le mie unghie, come quelle delle arpie, sapranno farsi strada sino in fondo al suo cuore.

Simile ad un uccellino che palpita e che trema gli strapperò il rosso cuore dal petto e lo butterò, sprezzante, al mio animale favorito perché se ne sazi."

Verso il cielo, ove il suo occhio mira uno splendido trono, il Poeta sereno leva le pie braccia, e i grandi lampi del suo spirito lucido gli precludono la vista dei popoli inferociti:

- "Sii benedetto, mio Dio, che concedi la sofferenza come un rimedio divino alle nostre vergogne e come l'essenza più pura ed efficace per preparare i forti a sante voluttà.

So che tu tieni un posto al Poeta nelle file beate delle tue Legioni, e che tu l'inviti all'eterna festa di Troni, Virtù e Dominazioni.

So che il dolore è la sola nobiltà cui mai potranno mordere e terra e inferno; e che per intrecciare la mia mistica corona si dovranno tassare tutti i tempi e tutti gli universi.

Ma i gioielli perduti dell'antica Palmira, i metalli ignoti, le perle del mare, montati dalla tua mano, non basterebbero al bel diadema, chiaro, abbagliante;

esso sarà pura luce attinta al focolare santo dei raggi primigeni, di cui gli occhi mortali, al massimo del loro splendore, non sono che specchi oscuri e lagrimosi.



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Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 6:01 pm

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da I FIORI DEL MALE


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LII

...Voglio narrarti, languida incantatrice! le bellezze
divine che ornano la tua giovinezza,
ti voglio dipingere la bellezza
in cui l'infanzia si allea con la maturità.

Il tuo seno che avanza e preme la stoffa cangiante,
il tuo seno trionfante e' come un bell'armadio
dalle pareti curve e lucenti
come gli scudi splendono di lampi catturati;

provocanti scudi, armati di punte rosa!
armadio dai dolci segreti, pieno di buone cose,
di vini, di profumi, di liquori
che mandano in delirio il cervello e il cuore!

Quando con l'ampia gonna vai fendendo l'aria,
sei come un bel vascello che prende il largo,
pieno di vele, e se ne va sfumando
con un ritmo dolce, e pigro, e calmo...



Tratto da "La bella Nave" ("I fiori del male", LII)

Note: La donna non è parte della nave ma la nave
stessa che nelle acque della vita incede sicura, maestosa
imperturbabile. Opere: "I fiori del male", 1857; "Paradisi
artificiali", 1860; "Poemetti in prosa", 1869.



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L'AMORE E IL CRANIO

L'Amore sta assiso sul cranio dell'Umanità e da quel trono profano, con riso sfrontato,
soffia gaio delle bolle rotonde che s'innalzano nell'aria, quasi a raggiungere i mondi al fondo dell'etere.

Il globo fragile e luminoso prende un grande slancio, scoppia e sputa la sua anima gracile come un sogno d'oro.

Odo il cranio, a ogni bolla, gemere e pregare: "Quando finirà questo gioco feroce e ridicolo?" Perché quel che la tua bocca crudele sparpaglia nell'aria, mostro assassino, è il mio cervello, il mio sangue, la mia carne!"


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AL LETTORE

La stoltezza, l'errore, il peccato, l'avarizia, abitano i nostri spiriti e agitano i nostri corpi; noi nutriamo amabili rimorsi come i mendicanti alimentano i loro insetti.
I nostri peccati sono testardi, vili i nostri pentimenti; ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni e ritorniamo gai pel sentiero melmoso, convinti d'aver lavato con lagrime miserevoli tutte le nostre macchie.

È Satana Trismegisto che culla a lungo sul cuscino del male il nostro spirito stregato, svaporando, dotto chimico, il ricco metallo della nostra volontà.

Il Diavolo regge i fili che ci muovono! Gli oggetti ripugnanti ci affascinano; ogni giorno discendiamo d'un passo verso l'Inferno, senza provare orrore, attraversando tenebre mefitiche.

Come un vizioso povero che bacia e tetta il seno martoriato d'un'antica donna, noi al volo rubiamo un piacere clandestino e lo spremiamo con forza, quasi fosse una vecchia arancia.

Serrato, brulicante come un milione di vermi, un popolo di demoni gavazza nei nostri cervelli, e quando respiriamo, la morte ci scende nei polmoni quale un fiume invisibile dai cupi lamenti.

Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l'incendio, non hanno ancora ricamato con le loro forme piacevoli il canovaccio banale dei nostri miseri destini, è perché non abbiamo, ahimé, un'anima sufficientemente ardita.

Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, fra i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi,

uno ve n'è, più laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo.

È la Noia! L'occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato - tu, ipocrita lettore - mio simile e fratello!


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LA DISTRUZIONE


Incessantemente, vicino a me, s'agita il Demonio, e mi vagola dattorno come un'aria impalpabile; io l'inghiotto e sento che mi brucia i polmoni e li riempie d'un desiderio eterno e colpevole.
Conoscendo il mio grande amore per l'Arte prende, qualche volta, le sembianze della più seducente delle donne, e con speciosi pretesti da ipocrita avvezza le mie labbra ai filtri più infami.

Lontano dallo sguardo di Dio, mi porta, ansante, rotto dalla stanchezza, nelle profonde e deserte piane della Noia,

e getta sui miei occhi confusi vesti lordate, ferite aperte, tutto il sanguinoso apparato della Distruzione!


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UNA MARTIRE


Disegno di ignoto
In mezzo a flaconi, a stoffe laminate e mobili voluttuosi, a marmi, quadri, abiti profumati dalle pieghe sontuose,

in una camera tiepida ove, come in una serra, l'aria è rischiosa e fatale, e mazzi di fiori nelle loro bare di vetro esalano l'ultimo spiro,

un cadavere decapitato versa, simile a un fiume, sul cuscino sazio, un sangue rosso, vivo, che la tela beve come un avido prato.

Simile alle pallide visioni che suscita l'ombra e che ci avvincono gli occhi, la testa, con la massa della sua scura criniera e i suoi gioielli preziosi

riposa sul comodino da notte, come un ranuncolo: uno sguardo, vuoto e bianco come il crepuscolo sfugge dagli occhi arrovesciati.

Sul letto, il tronco nudo, senza scrupoli, rivela nel più completo abbandono il segreto splendore e la bellezza fatale che la natura gli diede;

una calza rosa, ornata d'oro, è rimasta sulla gamba, come un ricordo: la giarrettiera, come un occhio segreto che brucia, dardeggia uno sguardo di diamante.

Lo strano aspetto di questa solitudine e d'un grande, languido ritratto, dall'occhio e dall'atteggiamento provocanti, rivelano un amore tenebroso,

una gioia colpevole, delle feste bizzarre piene di baci infernali, di cui godeva lo sciame degli angeli dannati volteggianti fra le pieghe delle tende;

e tuttavia, a vedere la magrezza elegante della spalla dal contorno risentito, l'anca un po' puntuta e la vita guizzante come un rettile irritato,

come risulta giovane... La sua anima esasperata e i suoi sensi, morsi dal tedio, s'erano aperti alla muta assetata dei desideri ardenti e perduti?

E l'uomo vendicativo che, da viva, malgrado tanto amore non hai potuto saziare, sfogò sulla tua carne inerte e compiacente l'immenso suo desiderio?

Rispondi, impuro cadavere! E, sollevandoti con braccio febbrile per le trecce irrigidite, testa paurosa, dimmi, ha egli sui tuoi denti freddi impresso un ultimo addio?

- Via dal mondo schernitore, via dalla folla impura e dai magistrati curiosi, dormi in pace, strana creatura, nella tua tomba misteriosa;

il tuo sposo vaga per il mondo e la tua forma immortale gli veglia accanto, quando dorme; ti sarà fedele e costante sino alla morte, come tu lo sei a lui.


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Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 6:07 pm

DONNE DANNATE

Coricate sulla sabbia come armento pensoso volgono gli occhi verso l'orizzonte marino e i piedi che si cercano, le mani ravvicinate hanno dolci languori e brividi amari.
Le une, cuori innamorati di lunghe confidenze, nel folto dei boschetti sussurranti di ruscelli, vanno riandando l'amore delle timide infanzie e incidendo il legno verde dei giovani arbusti;

altre, camminano lente e gravi come suore attraverso le rocce piene di apparizioni, dove Sant'Antonio vide sorgere, come lava, i seni nudi e purpurei delle sue tentazioni;

e ve n'è che ai bagliori di resine stillanti, nel muto cavo di vecchi antri pagani, ti chiamano in soccorso delle loro febbri urlanti, o Bacco, che sai assopire gli antichi rimorsi.

Altre, il cui petto ama gli scapolari e nascondono il frustino entro le lunghe vesti, mischiano, nelle notti solitarie e nei boschi scuri, la schiuma del piacere e le lagrime degli strazi.

O vergini, o demòni, mostri, martiri, grandi spiriti spregiatori della realtà, assetate d'infinito, devote o baccanti, piene ora di gridi ora di pianti,

o voi, che la mia anima ha inseguito nel vostro inferno, sorelle, tanto più vi amo quanto più vi compiango per i vostri cupi dolori, per le vostre seti mai saziate, per le urne d'amore di cui traboccano i vostri cuori.



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LE DUE BUONE SORELLE

La Dissolutezza e la Morte sono due sgualdrine amabili, prodighe di baci e piene di salute, il cui fianco eternamente vergine e fasciato di stracci, preso da un perenne travaglio, non ha mai partorito.
Al poeta sinistro, nemico delle famiglie, favorito dell'inferno, artigiano malmesso, tombe e lupanari mostrano sotto le loro volte un letto che il rimorso non ha mai frequentato.

Bara ed alcova, feconde di bestemmie, a volta a volta ci offrono, come buone sorelle, piaceri terribili e dolcezze paurose.

Quand'è che vuoi sotterrarmi, Dissolutezza dalle immonde braccia? E quando, Morte, sua rivale in bellezza, verrai a innestare sui suoi mirti infetti i tuoi neri cipressi?


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LA FONTANA DI SANGUE


Mi pare, a volte, che il mio sangue fiotti come una fontana dai ritmici singhiozzi. Lo sento colare con un lungo murmure, ma mi tasto invano in cerca d'una ferita.
Fluisce attraverso la città come per un campo recintato e trasforma i selciati in isolotti, cava la sete a ogni creatura, tinge la natura in rosso.

Spesso al vino capzioso ho chiesto di addormire per un giorno il terrore che m'assilla; ma il vino rende l'occhio più acuto e l'orecchio più fino.

Ho cercato nell'amore il sonno dell'oblio; ma l'amore, per me, non è che un materasso d'aghi fatto per procurare da bere a crudeli puttane.


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ALLEGORIA


È una bella donna, di ricca nuca, e lascia che la sua chioma fluisca nel vino... Le unghiate dell'amore e i veleni della bisca scivolano e si smussano al granito della sua pelle. Ride della Morte e si beffa del Vizio, quei mostri la cui mano, sempre pronta a raschiare e falciare, ha rispettato nei suoi giochi distruttori la rude maestà del corpo sodo e dritto. Incede come una dea, riposa come una sultana; ha nel piacere la fede dei maomettani, nelle sue braccia spalancate, che il seno colma, richiama con gli occhi l'intera razza umana. Crede, sa, questa vergine infeconda, e pure necessaria al cammino del mondo, che la bellezza del corpo è un dono sublime capace di trovare un perdono a ogni infamia. Ignora Inferno e Purgatorio; quando verrà l'ora d'entrare nell'oscurità della Notte, fisserà la Morte senza odio né rimorso, come un neonato.


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LA BEATRICE


In terreni di cenere, calcinati, brulli, un giorno, mentre mi lagnavo con la natura, e, vagando senza meta, aguzzavo lentamente sul cuore la lama del pensiero, vidi, in pieno mezzodì, discendermi sulla testa una nube funebre, gravida di tempesta e d'un branco di demòni viziosi, in tutto simili a nani curiosi e crudeli. Si misero a guardarmi freddamente, e li udii - come fanno i passanti con i pazzi - ridere e bisbigliare fra di sé, scambiandosi cenni e ammicchi.
"Guardiamola a nostro piacere questa caricatura, quest'ombra di Amleto che ad Amleto si atteggia, lo sguardo vago e i capelli al vento. Non fa pena vedere questo bel tomo, questo pezzente, quest'attorucolo disoccupato, questo buffone che, perché sa sostenere il suo ruolo d'artista, pretende interessare al canto dei suoi dolori le aquile e i grilli, i ruscelli e i fiori, e vuole anche a noi, inventori di queste vecchie storie, declamare urlando le sue tirate pubbliche?"

Avrei potuto (la mia superbia, alta come le montagne, domina i nembi e il grido dei demòni) volgere semplicemente altrove il mio sguardo sovrano, se non avessi veduto in quella turba oscena - delitto che non ha fatto vacillare il sole - la regina del mio cuore dallo sguardo impareggiabile, che con essi rideva della mia cupa angoscia, a tratti gratificandoli di qualche sporca carezza.



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Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 6:11 pm

UN VIAGGIO A CITERA


Come un uccello, gioioso, volteggiava il mio cuore, planando liberamente attorno al cordame; sotto un cielo limpido la nave scivolava, simile a un angelo inebriato da un sole radioso.
Che isola è mai quella, così nera e triste? È Citera, qualcuno risponde, terra famosa nelle canzoni, banale Eldorado dei vecchi diversi. Ma guardata dappresso, è una ben povera terra.

- Isola dei dolci segreti e delle feste del cuore! Dell'antica Venere il superbo fantasma si libra sui tuoi mari come un aroma, riempendo gli animi d'amore e di languore.

Bella isola di verdi mirti, ricca di fiori schiusi, venerata in eterno da tutte le nazioni, e in cui i sospiri dei cuori adoranti errano come l'incenso su un roseto

o come il tubare infinito del colombo! - Citera non era più che una magra terra, un deserto roccioso turbato da stridule grida. Ma vi scorgevo un oggetto singolare!

Oh, non un tempio dalle ombre silvestri, dove la giovane sacerdotessa, innamorata dei fiori, andava, il corpo bruciato da segreti ardori, dischiudendo la tunica alle brezze fuggitive...

Ma ecco che, rasentando da vicino la costa, così da intimorire gli uccelli con le nostre bianche vele, ci apparve una forca a tre bracci, nera contro il cielo come un cipresso.

Appollaiati sulla loro pastura feroci uccelli distruggevano rabbiosamente un impiccato, già sfatto: ciascuno piantando, come un attrezzo, il becco impuro in ogni angolo sanguinante di quel marciume,

gli occhi due buchi, e dal ventre sfondato i grevi intestini colavano lungo le cosce; quei carnefici, satolli di orribili delizie, l'avevano, a colpi di becco, castrato completamente.

Ai piedi, un branco di invidiosi quadrupedi, muso alzato, giravano e rigiravano: in mezzo s'agitava una bestia più grande, come un boia circondato dai suoi aiutanti.

Abitatore di Citera, figlio d'un cielo così bello, in silenzio sopportavi tutti questi oltraggi in espiazione degli infami culti e dei peccati che t'hanno negato una tomba.

Grottesco impiccato, i tuoi sono anche i miei dolori! Alla vista delle tue membra penzolanti sentivo, come un vomito, risalire ai miei denti il lungo fiume di fiele degli antichi dolori;

dinanzi a te, povero cristo così caro al ricordo, ho provato tutti i becchi e tutte le mascelle dei corvi lancinanti e delle nere pantere che un tempo amavano triturare la mia carne.

- Il cielo era incantevole, il mare calmo; ma per me tutto era tenebre e sangue, ormai, e avevo, ahimè, il cuore sepolto in questa allegoria come in uno spesso sudario.

Nella tua isola, o Venere, non ho trovato che una forca da cui pendeva la mia immagine...
- Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare senza disgusto il mio corpo e il mio cuore!


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Il gatto

Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato;
trattieni le unghie della zampa,
e lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi striati
di metallo e d'agata.
Quando le dita indugiano ad accarezzare
la tua testa e il dorso elastico
e la mano s'inebria del piacere di palpare
il tuo corpo elettrico,
vedo la mia donna in spirito. Il suo sguardo
come il tuo, amabile bestia,
profondo e freddo, taglia e fende come un dardo,
e, dai piedi fino alla testa,
un'aria sottile, un minaccioso profumo
circolano attorno al suo corpo bruno.


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A una passante


Attorno m'urlava. la strada assordante.
Alta, sottile, in lutto, nel dolor regale, una donna passò,
alzando con superba mano e agitando, la balza e
l'orlo della gonna; agile e nobile, con le gambe statuarie.

Ed io le bevevo, esaltato come un folle, nell'occhio,
cielo livido presago d'uragano,
dolcezza che incanta e piacere che dà morte.

Un lampo...poi la notte!
Bellezza fugace, il cui sguardo m'ha ridato vita a un tratto,
nell'eternità solamente potrò rivederti?

Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse!
Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada,
o te che avrei amato, o te che lo sapevi!



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Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 6:19 pm

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da Spleen e Ideale

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IL NEMICO


La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio.
Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee, è ora di ricorrere al badile e al rastrello per rimettere a nuovo le terre inondate in cui l'acqua ha aperto buchi larghi come tombe.

E chissà se i fiori nuovi che vado sognando troveranno, in un terreno lavato come un greto, il mistico alimento cui attingere forza...

O dolore,o dolore, il Tempo si mangia la vita e l'oscuro Nemico che ci divora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo.


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LA SFORTUNA


Per sollevare un così grande peso, Sisifo, ci vorrebbe tutto il tuo coraggio! Benché si lavori di lena, l'Arte è lunga, il Tempo breve.
Lontano dai sepolcri illustri il mio cuore, come un tamburo abbrunato, batte funebri marce verso un cimitero remoto.
- Non pochi gioielli vi dormono, sepolti nelle tenebre e nell'oblìo, lontano da zappe e da sonde.

E non pochi fiori vi effondono contro voglia il loro profumo, dolce come un segreto, in profonda solitudine.


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LA VITA ANTERIORE

Ho a lungo abitato sotto ampi portici che i soli marini tingevano di mille fuochi e che grandi, dritti e maestosi pilastri rendevano simili a grotte di basalto.
I marosi rotolando le immagini dei cieli, mischiavano in maniera solenne e mistica i possenti accordi della loro ricca musica ai colori del tramonto riflessi dai miei occhi.

È là che ho vissuto in calma voluttà, nell'azzurro, fra onde, splendori e schiavi nudi che, impregnati di profumi, mi rinfrescavano la fronte agitando palme. Loro unico scopo, rendere più profondo il segreto doloroso in cui languivo.


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ZINGARI IN VIAGGIO

Ieri s'è messa in viaggio la tribù profetica dalle pupille ardenti, caricandosi i piccoli sulle spalle e offrendo ai loro fieri appetiti il tesoro sempre pronto delle mammelle pendenti.
Gli uomini vanno a piedi sotto armi lucenti di fianco ai carrozzoni in cui stanno, accucciate, le famiglie, e girano al cielo gli occhi appesantiti dal triste rimpianto di assenti chimere.

Dal fondo della sua tana sabbiosa il grillo, vedendoli passare, rinnovella il suo canto: Cibele, che li ama, arricchisce le sue verzure,

fa sgorgare acqua dalla roccia, spuntare fiori dal deserto per questi viaggiatori cui s'apre l'impero familiare delle tenebre future.


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L'UOMO E IL MARE

Uomo libero, sempre tu amerai il mare! Il mare è il tuo specchio; tu miri, nello svolgersi infinito delle sue onde, la tua anima. Il tuo spirito non è abisso meno amaro.
Ti compiaci a tuffarti entro la tua propria immagine; tu l'abbracci con gli occhi e con le braccia, e il tuo cuore si distrae alle volte dal suo battito al rumore di questo lamento indomabile e selvaggio.

Siete entrambi a un tempo tenebrosi e discreti: uomo, nessuno ha mai misurato la profondità dei tuoi abissi; mare, nessuno conosce le tue ricchezze segrete, tanto siete gelosi di conservare il vostro mistero.

E tuttavia sono innumerevoli secoli che vi combattete senza pietà né rimorsi, talmente amate la carneficina e la morte, eterni lottatori, fratelli



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DON GIOVANNI ALL'INFERNO


Quando Don Giovanni discese verso l'onda sotterranea, ed ebbe pagato l'obolo a Caronte, un triste mendicante, l'occhio fiero come Antistene, s'impadronì dei remi con braccio fiero e vendicatore.
Come un grande branco di vittime offerte, donne si contorcevano sotto il nero firmamento, mostrando i seni cascanti, dischiudendo le vesti, mugghiando lungamente dietro di lui.

Sganarello ridendo reclamava il salario, Don Luigi con tremulo dito mostrava ai morti erranti sulle rive l'audace figlio che rise delle sue canizie.

Rabbrividendo, chiusa nel suo lutto, la casta, magra Elvira, vicina al perfido sposo che fu suo amante, sembrava chiedergli un supremo sorriso in cui brillasse la dolcezza del primo giuramento.

Eretto nella sua armatura un uomo di pietra, al timone, solcava il nero flutto. Ma l'eroe, calmo, chino sulla sua spada contemplava la scia, sdegnoso d'altro vedere.



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CASTIGO D'ORGOGLIO

A quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con più linfa e vigore, si racconta che un giorno uno dei più grandi fra i dottori, - dopo avere scosso i cuori indifferenti e averli rimescolati nelle loro nere profondità, dopo essersi aperto verso le glorie celesti strane vie a lui stesso ignote, cui erano giunti soltanto puri spiriti - come fosse salito troppo in alto e il panico l'avesse preso, gridò trasportato da un orgoglio satanico: "Gesù, piccolo Gesù, io t'ho innalzato troppo! Ma se t'avessi voluto attaccare dove ti mostri più debole, la tua vergogna uguaglierebbe la tua gloria, tu non saresti più che un risibile feto."
Subito perdette la ragione, d'un nero velo si coprì lo splendore di quel sole, il caos s'impadronì di quell'intelligenza, tempio una volta pieno di vita, d'ordine e di ricchezza, sotto i cui soffitti aveva scintillato tanta pompa. S'istallarono in lui notte e silenzio, come in un antro di cui si fosse perduta la chiave. Da allora egli fu in tutto simile alle bestie vagabonde; e quando andava, senza nulla vedere, attraverso i campi, non riconoscendo più le estati e gli inverni, sudicia, inutile, laida cosa inutile, diventava la gioia e lo zimbello dei ragazzi.


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Beldanubioblu
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Messaggio da Beldanubioblu » mer mar 14, 2007 6:28 pm

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LA BELLEZZA


Sono bella, o mortali, come un sogno di pietra e il mio seno, cui volta a volta ciascuno s'è scontrato, è fatto per ispirare al poeta un amore eterno e muto come la materia.
Troneggio nell'azzurro quale Sfinge incompresa, unisco un cuore di neve alla bianchezza dei cigni, odio il movimento che scompone le linee e mai piango, mai rido.

I poeti, di fronte alle mie grandi pose, che ho l'aria di imitare dai più fieri monumenti, consumeranno i giorni in studi severi, perché, onde affascinare quei docili amanti, ho degli specchi puri che fanno più bella og



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L'IDEALE


Non sapranno mai, queste bellezze da vignette, questi prodotti avariati, nati da un secolo cialtrone, questi piedi da stivaletti, queste dita da nacchere, soddisfare un cuore come il mio.
Lascio a Gavarni, poeta di clorosi, il suo gregge mormorante di bellezze da ospedale: non posso trovare fra queste pallide rose, un fiore che assomigli al mio rosso ideale.

Quel che ci vuole per questo cuore profondo come un abisso sei tu, Lady Macbeth, anima forte nel delitto, sogno eschileo schiusosi in climi iperborei;

o sei tu, grande Notte, nata da Michelangelo, che torci quetamente, in una strana posa, le tue forme fatte per la bocca dei Titani.


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LA GIGANTESSA


Al tempo che la Natura nella sua possente energia, concepiva ogni giorno figli mostruosi, avrei voluto vivere vicino a una giovane gigantessa, come un gatto voluttuoso s'accuccia ai piedi d'una regina.
Avrei voluto contemplare il suo corpo fiorire con la sua anima e crescere liberamente in terribili giochi; indovinare, dalle umide brume che fluttuano nei suoi occhi, se il suo cuore covi un'oscura fiamma;

percorrere, a volontà, le sue magnifiche forme: arrampicarmi sul pendìo delle sue ginocchia enormi, e qualche volta, l'estate, quando soli malsani

la fanno, stanca, distendersi attraverso la campagna, dormire buttato all'ombra dei suoi seni, come un quieto casolare all'ombra d'una montagna.


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L'ALBATRO


Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.
Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi, candide ali, quasi fossero remi.

Com'è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco addietro così bello, com'è brutto e ridicolo. Qualcuno irrita il suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima l'infermo che prima volava.

E il Poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell'arciere, assomiglia in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante avanzare di un passo.


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LA MASCHERA


Statua allegorica di gusto rinascimentale
A Ernest Christophe, scultore


Contempliamo questo tesoro di grazie fiorentine: nell'ondulazione del suo corpo muscoloso Eleganza e Forza, sorelle divine, ugualmente abbondano. Questa donna, pezzo veramente miracoloso, divinamente forte, adorabilmente sottile, è fatta per troneggiare su letti sontuosi a carezzare gli ozi d'un pontefice o d'un principe.

- Guarda anche quel sorriso fine e voluttuoso in cui la Fatuità si muove estatica: quel lungo sguardo sornione, languido e irridente, quel viso graziosamente fine, tutto ravvolto di veli, di cui ogni tratto ci dice con aria vittoriosa: "La Voluttà mi chiama, l'Amore mi incorona!" A quest'essere maestoso, guarda che eccitante fascino la gentilezza conferisce. Avviciniamoci e giriamo attorno alla sua beltà.

O bestemmia dell'arte, o sorpresa fatale. La donna dal corpo divino, tutto una promessa di felicità finisce in alto in un mostro dalla doppia testa!

- Ma no, non è che una maschera, un ornamento ingannatore, questo volto rischiarato da una smorfia squisita. Guarda, ecco, atrocemente contratta, la vera testa e l'autentica faccia, rovesciata dietro la faccia mentitrice. Povera, grande beltà! Il magnifico fiume del tuo pianto finisce nel mio cuore turbato; la tua menzogna m'inebria e la mia anima s'abbevera ai flutti che il Dolore fa sgorgare dai tuoi occhi.

- Perché piange, lei, la bellezza perfetta che terrebbe sotto i piedi la vinta umanità? Quale male misterioso divora il suo fianco d'atleta?

- Lei piange, insensata, perché ha vissuto e perché vive! Ma quel che soprattutto ella deplora, e la fa fremere sino ai ginocchi è il fatto che domani bisognerà che viva ancora. Domani, e domani ancora, e sempre. Come noi.


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INNO ALLA BELLEZZA


Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall'abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa, mischiandoli, beneficio e delitto: per questo ti si può comparare al vino.
Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l'aurora, diffondi profumi come una sera di tempesta; i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un'anfora, che rendono audace il fanciullo, l'eroe vile.

Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? Il Destino incantato segue le tue gonne come un cane: tu semini a casaccio la gioia e i disastri, hai imperio su tutto, non rispondi di nulla.

Cammini sopra i morti, Beltà, e ti ridi di essi, fra i tuoi gioielli l'Orrore non è il meno affascinante e il Delitto, che sta fra i tuoi gingilli più cari, sul tuo ventre orgoglioso danza amorosamente.

La farfalla abbagliata vola verso di te, o candela, e crepita, fiammeggia e dice: "Benediciamo questa fiaccola!" L'innamorato palpitante chinato sulla bella sembra un morente che accarezzi la propria tomba.

Venga tu dal cielo o dall'inferno, che importa, o Beltà, mostro enorme, pauroso, ingenuo; se il tuo occhio, e sorriso, se il tuo piede, aprono per me la porta d'un Infinito adorato che non ho conosciuto?

Da Satana o da Dio, che importa? Angelo o Sirena, che importa se tu - fata dagli occhi vellutati, profumo, luce, mia unica regina - fai l'universo meno orribile e questi istanti meno gravi?


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Messaggio da Beldanubioblu » lun feb 18, 2008 6:17 pm

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Tristezza della Luna


Questa sera la luna sogna più languidamente; come una
bella donna che su tanti cuscini con mano distratta e leggera
prima d'addormirsi carezza il contorno dei seni,
e sul dorso lucido di molli valanghe morente, si abbandona
a lunghi smarrimenti, girando gli occhi sulle visioni
bianche che salgono nell'azzurro come fiori in boccio.

Quando, nel suo languore ozioso, ella lascia cadere su questa
terra una lagrima furtiva, un pio poeta, odiatore del sonno,

accoglie nel cavo della mano questa pallida lagrima
dai riflessi iridati come un frammento d'opale, e la nasconde
nel suo cuore agli sguardi del sole.



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Voglia del nulla

Triste mio spirito, un tempo innamorato della lotta, la
Speranza il cui sperone attizzava i tuoi ardori, non vuole
più cavalcarti! Giaciti dunque senza pudore, vecchio cavallo
il cui zoccolo incespica a ogni ostacolo.

Rassegnati, cuor mio: dormi il tuo sonno di bruto!

Spirito vinto e stremato! Per te, vecchio predone, l'amore
ha perduto il suo gusto, e l'ha perduto la disputa; addio,
canti di ottoni e sospiri di flauto! Piaceri, desistete dal
tentare un cuore cupo e corrucciato!

L'adorabile Primavera ha perduto il suo profumo.

Il Tempo m'inghiotte minuto per minuto come fa la neve
immensa d'un corpo irrigidito io contemplo dall'alto
il globo in tutta la sua circonferenza e non vi cerco più
l'asilo d'una capanna.

Valanga, vuoi tu portarmi via nella tua caduta?


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Il Vino degli Amanti

Oggi lo spazio è splendido! Senza morsi né speroni o briglie,
via, sul vino, a cavallo verso un cielo divino e incantato!

Come due angeli che tortura un rovello implacabile oh,
nel cristallo azzurro del mattino, seguire il lontano meriggio!

Mollemente cullati sull'ala del turbine cerebrale, in un
delirio parallelo,

sorella, nuotando affiancati, fuggire senza riposi né tregue
verso il paradiso dei miei sogni.


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La Musica

Spesso la musica mi porta via come fa il mare. Sotto una
volta di bruma o in un vasto etere metto vela verso
la mia pallida stella.

Petto in avanti e polmoni gonfi come vela scalo la cresta
dei flutti accavallati che la notte mi nasconde;

sento vibrare in me tutte le passioni d'un vascello che dolora,
il vento gagliardo, la tempesta e i suoi moti convulsi

sull'immenso abisso mi cullano. Altre volte, piatta bonaccia,
grande specchio della mia disperazione
!

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Il Sole


Lungo il vecchio sobborgo, ove le persiane pendono dalle
catapecchie rifugio di segrete lussurie, quando il sole
crudele batte a raggi raddoppiati sulla città e i campi, sui
tetti e le messi, io mi esercito tutto solo alla mia fantastica
scherma, annusando dovunque gli imprevisti della rima,
inciampando nelle parole come nel selciato, urtando
qualche volta in versi a lungo sognati.

Questo padre fecondo, nemico di clorosi, sveglia nei campi
i vermi e le rose, fa svaporare gli affanni verso il cielo,
immagazzina miele nei cervelli e negli alveari. E' lui a
ringiovanire coloro che vanno con le grucce e a renderli
allegri, dolci come fanciulli, lui a ordinare alle messi di
crescere e maturare entro il cuore immortale che vuol
sempre fiorire.

Quando, simile a un poeta, scende nelle città, nobilita le
cose più vili e s'introduce da re senza rumore, senza paggi,
entro tutti gli ospedali e tutti i palazzi.


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ARMONIA DELLA SERA



Ecco venire il tempo

che vibrando sullo stelo

ogni fiore svapora

come un incensiere;

i suoni e i profumi volteggiano
nell'aria della sera;

valzer malinconico

e languida vertigine.

Ogni fiore svapora

come un incensiere;

il violino freme
come un cuore straziato;

valzer malinconico,

languida vertigine!

Il cielo è triste e bello

come un grande altare.

Il violino freme

come un cuore straziato,

un cuore tenero
che odia il nulla

vasto e nero!

Il cielo è triste e bello

come un grande altare;

il sole annega

nel suo sangue che si raggruma.

Un cuore tenero

che odia il nulla vasto e nero

raccoglie ogni vestigio

del luminoso passato!

Il sole s'è annegato
nel suo sangue che si raggruma,

il tuo ricordo in me riluce
come un ostensorio.




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Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

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