Francesco Petrarca

Poeti celebri di affermata fama nazionale e mondiale
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Francesco Petrarca

Messaggio da Beldanubioblu » sab apr 08, 2006 1:35 pm

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Francesco Petrarca


nacque ad Arezzo nel 1304.
Figlio di un notaio fiorentino esiliato per motivi politici, fin da piccolo fu costretto a seguire i lunghi spostamenti del padre, che lo portarono prima in altre città toscane e poi ad Avignone, in Francia, dove all’epoca si era trasferito il Papato. Il suo primo maestro fu il dotto Convenevole di Prato, al cui magistero seguirono gli studi giuridici, presto oscurati dalla passione per i classici greci e latini. Dopo la morte della madre, Eletta Cangiani, Francesco ritorna ad Avignone, dove decide di prendere gli ordini minori, a differenza di suo fratello Gherardo che voterà invece la sua esistenza al sacerdozio, nel monastero di Montrieux. Nel 1330, il poeta entra al servizio del Cardinale Giovanni Colonna, ma risulta che già fosse stato stipendiato da Giacomo, fratello del porporato. I rapporti con il Cardinale non furono facili, nonostante Petrarca godesse nella casa di prestigio e libertà. Giovanni volle sempre mantenere un ruolo di dominus, atteggiamento ben diverso da quello mostrato da Giacomo, coetaneo, compagno di studi ed intimo amico del poeta. La situazione precipitò quando Francesco non nascose il suo sostegno nei confronti della rivoluzione antinobiliare di Cola di Rienzo, indirizzata anche contro la famiglia Colonna; perciò quando da Parma alla fine del luglio del 1348 giunse notizia della morte del Cardinale, fu solo il triste epilogo di un rapporto nei fatti già compromesso, vivo solo sotto un aspetto formale.
Il periodo 1347-1348 fu in realtà un periodo costellato di eventi funesti. Dopo la scomparsa di Giovanni Colonna lo raggiunse la morte di Laura, stroncata dalla peste ad Avignone nel luglio del 1348. Quando ne ebbe notizia Petrarca si trovava a Verona. Di ritorno dalla Provenza in autunno aveva scelto come dimora la casa di Parma, città dalla quale di sovente si spostava per recarsi in Veneto e in Emilia. Il tempo aveva quasi completamente cancellato la sua passione per Laura, una figura ormai viva solo in metaforizzazioni simboliche, estranea al desiderio ma già presenza immortale nelle sue rime giovanili. L’non cliccare, giunto all’immaginario poetico, riempiva l’universo ideologico e concettuale del poeta. È difficile stabilire quanto questi eventi abbiano inciso sull’animo di Francesco, ma essi ebbero una forte valenza simbolica, di frattura e di passaggio da una stagione all’altra della vita, che lo indussero a comprendere di essere giunto a un momento esistenziale decisivo.
Viaggi ed esperienze non erano certamente mancati in una vita in alcuni casi dispersiva, con fughe, ribellioni e prese di posizione sostenute, però, con poca convinzione, visto il perdurare di due punti di riferimento: Avignone e la famiglia Colonna.
Nei confronti della città francese, Petrarca nutriva una assoluta indifferenza, trasformatasi successivamente in odio, per il luogo ed per il tipo di vita al quale lo costringeva il potere politico espresso dalla curia papale. Avignone, però, e di questo Francesco era consapevole, aveva influito fortemente sulla sua formazione come luogo di scambio politico e culturale, in un secolo denso di eventi. L’arrivo, presso il papato di scrittori e dotti provenienti da tutta Europa favoriva il confronto e il dibattito, unitamente alla conoscenza che si accumulava nelle numerose biblioteche private e al fiorente mercato letterario. Tutti elementi fondamentali per la formazione di Francesco, intellettuale lontano dalla scuola e dalle università, orientato a un apprendimento basato sull’interscambio personale, all’interno di circoli selezionati, e nel contatto fisico con i libri.
I Colonna, nonostante essere al loro servizio gli fosse pesato, furono per Francesco ugualmente importanti, dato che solo per loro tramite gli si aprirono diverse possibilità. L’influenza della famiglia in Francia ed in Italia era fondata su una una fitta rete di relazioni che permisero al poeta di accedere ai luoghi dove la ricerca storica e filologica prosperava, spalancandogli le porte di biblioteche e ambienti altrimenti inaccessibili, per venire in possesso di volumi rari e costosi. La stessa incoronazione sul Campidoglio di Roma nell’aprile del 1341 fu promossa dai Colonna, con un'azione prima sotterranea e poi di palese supporto. Fu quello il momento decisivo per la consacrazione di Francesco Petrarca nell’olimpo dei letterati più importanti e famosi d’Europa. Anche la scoperta della città eterna si lega ai Colonna: l’essere stato accolto sotto l’ala protettrice della famiglia gli permise di vivere a fondo l'esperienza romana, conoscere la città, sentirsi cittadino di quella patria ideale vagheggiata in gioventù.
Alla morte del Cardinale, nulla più lo tratteneva ad Avignone, così non aveva impedimento alcuno a trasferirsi in Italia, ma una scelta di quel tipo avrebbe comportato profondi rivolgimenti con l’assunzione di nuovi punti di riferimento, ambientali, sociali e politici. In Italia molti avevano espresso il desiderio di ospitarlo, cosicché qualsiasi scelta doveva, per forza di cose, essere accuratamente motivata, con la conseguenza di una nuova empasse che durò alcuni anni.
Il mito poetico di Laura aveva oramai esaurito le sue espansioni e metaforizzazioni simboliche, riducendosi alla riproduzione, tra revisioni ed accorgimenti, di racconti ed immagini. Solo un evento esterno avrebbe potuto imprimere una svolta rivitalizzante; così la scomparsa di Laura, forse dolorosa per l’amante, stimolò invece forti suggestioni simboliche per il poeta, costretto ora a cercare nuove vie o, perlomeno, a ripercorrere, in altro modo, quelle già conosciute. Francesco aveva perduto il suo universo ed ora, angosciato, cercava il futuro della propria poesia, sospesa tra la volontà di un ritorno ad un rassicurante passato ed un’incerta prospettiva ventura. La scelta fu di natura intimistica: il poeta decise di raccogliere la sua produzione, ordinarla e ad essa affidare l’immagine di sé.
Viaggiatore irrequieto, Petrarca sarà protagonista di numerosi spostamenti tra il 1347 ed il 1351, che toccheranno città come Parma, Verona, Padova, Mantova, piccoli centri come Carpi e Ferrara. Grande rilevanza avrà il suo viaggio a Roma nel 1350 in occasione del Giubileo. Durante questo viaggio, il poeta fece tappa a Firenze ed anche ad Arezzo, circostanze che potrebbero collegarsi ad un desiderio di ritornare alle proprie radici. Né la città dei suoi avi né quella natale suscitarono tuttavia in lui particolari emozioni. Gli unici avvenimenti interessanti furono l’incontro con Lapo di Castiglionchio il Vecchio e la conoscenza di Giovanni Boccaccio, il quale diventerà il suo più importante amico. Il vero ritorno alle origini fu il viaggio a Roma, città sempre in grado di suscitargli grandi entusiasmi, ma assolutamente cambiata rispetto agli anni della gloriosa incoronazione in Campidoglio, tanto da indurre Francesco ad accettare nel 1351 l’invito di Clemente VI a tornare ad Avignone.
La Provenza ospitò Petrarca per altri due anni, un periodo di intenso lavoro, nei quali trovò una nuova vena artistica, ma proprio allora, improvvisa, maturò la decisione di rientrare in Italia. Lasciata la terra di Francia nel 1353, dove non avrebbe mai più fatto ritorno, obbedendo al suo spirito irrequieto e curioso, scelse come dimora Milano, una città sconosciuta, dove la sua natura di uomo senza radici poteva ritrovare nuovo vigore.
Fu però a Valchiusa che nacque in Petrarca l’idea di raccogliere, con un criterio ordinatore e di ampliamento, le rime sparse, sottoposte fino agli ultimi anni di vita a un'intensa attività di edizione e di riorganizzazione, che testimonia il suo genuino interesse per la poesia in volgare.
Il cambiamento introdotto da Petrarca si basa fondamentalmente sull'imposizione di regole, disciplina, ordine alla poetica contemporanea, come avveniva nel Duecento, tesaurizzando e ampliando le potenzialità della lingua poetica toscana che Dante aveva messo in evidenza. Saranno una serie di esclusioni a caratterizzare questo nuovo modello che tanto influenzerà i rimatori a venire; generi, temi e lingua non dovranno mai andare oltre uno specifico canone letterario, duttile, armonico e scevro dalle accidentalità del parlato. La produzione originale sarebbe andata negli anni man mano scemando, lasciando il posto ad un certosino lavoro di cesura e ordinamento, foriero anche su questo terreno di epocali novità in quanto la frammentarietà, tipica fino ad allora del componimento poetico, veniva abbandonata per creare, attraverso le singole liriche, momenti intimi tra loro collegati in un disegno complessivo morale, introspettivo e personale, a testimonianza della propria esperienza di uomo, amante e poeta. Francesco, però, avrà sempre presente l’originaria frammentarietà delle rime, definendole sparse o fragmenta, pur consapevole dell’organicità del proprio lavoro.
Nella redazione definitiva il Canzoniere sarà formato da 366 rime, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. L’innamoramento e la morte di Laura giustificano la divisione dell’opera in due parti, in vita e in morte di Madonna Laura. La prima parte è segnata da un grande numero di rime legate alla vicenda d’amore e si conclude con un elogio di Laura, simbolicamente raffigurata attraverso l’alloro, Arbor Victoriosa, triumfale, 263, esaltata anche per virtù e castità. La seconda è aperta da una canzone che osserva l’errore dell’infatuazione, I’vo pensando et nel penser m’assale, 264, a causa della quale Francesco ha creduto, sbagliando, in un bene fatuo. È il senso voluto imprimere da Francesco all’ordine delle sue rime a caratterizzarne la specificità come risultato di una complessa elaborazione, con spostamenti di collocazione dettati dagli scopi senza tenere conto della data di composizione, ma rispondenti all’ideale sviluppo che quei frammenti dovevano delineare, anche, se necessario, attraverso la composizione, di rime atte a colmare i vuoti di quel disegno. La costruzione di una sorta di romanzo della propria vita e del proprio amore, nel quale gli avvenimenti risiedessero nelle sfumate allusioni, nascoste o visibili nelle sue rime, sempre seguendo quel disegno specifico maturato negli anni della riflessione, il periodo compreso tra il 1332 e il 1348: questa è l’intenzione sottesa alla creazione da parte di Francesco Petrarca del Canzoniere.
Un medesimo criterio organico lo ritroveremo anche nelle opere in latino che il poeta stava componendo in quello stesso periodo, opere erudite, ispirate dalla conoscenza di testi storici e morali degli antichi, una sorta di riproposizione del modello cristiano e letterario delle raccolte di exempla, risalenti esse stesse a Valerio Massimo e Svetonio autori di raccolte e biografie di personaggi illustri. Il De viris illustribus, destinato a delineare il profilo di uomini politici e guerrieri, come Romolo e Catone, e di personaggi biblici, quali Abramo, Mosé ed Ercole, è l’opera nella quale il segno della nuova tendenza di Petrarca è più forte, imprimendo nel suo percorso culturale lo spostamento dai temi giuridici e teologici ad argomenti storici e morali atti a scandagliare la storia e la conoscenza dell’uomo. I Rerum memorandum libri, raccolta di aneddoti, vicina al modello di Valerio Massimo, va anch’essa in questa direzione con una particolare attenzione all’esempio morale come guida indispensabile per l’uomo. L’interesse storico si esprime invece nel poema in esametri Africa, voluto per celebrare la grandezza e la gloria di Roma, ma interrotto al IX libro. L’opera doveva avvicinarsi al modello classico della poesia, mescolando, memore dell’insegnamento virgiliano, motivi epici e sentimentali, intrecciando le gesta di Scipione, liberatore della città eterna, con la tragica vicenda amorosa di Massinissa e Sofonisba.
Gli onori e la persistente passione amorosa diverranno per Francesco uno stimolo ad interrogarsi sulla sua esistenza terrena, minacciata dall’allontanarsi dalla prospettiva eterna, dettata dalla cristianità. Francesco indagò la contrapposizione tra la vita contemplativa e quella mondana, allora per lui prevalente, giungendo ad una profonda introspezione dell’esistenza, divisa tra la gioia e la paura della morte, temi analizzati nel Secretum, dialogo in tre libri sulla conflittualità dei suoi sentimenti, i cui interlocutori sono Sant’Agostino e Francesco, il poeta incapace di sradicare il male dalla sua anima, pur conoscendone l’origine. Il Secretum è un dialogo interiore alla presenza della verità, dove il ruolo di maestro e guida spirituale è riservato ad Agostino, il quale rappresenta anche la coscienza stessa del poeta che, appellandosi alle Sacre Scritture ed ai testi morali degli antichi, osserva la vera natura del male, insito nella volontà, ma dovuto, secondo Francesco, alla fragile natura umana sempre in balia della fatalità e del destino che le è riservato. Il primo libro osserva gli ostacoli frapposti inconsapevolmente dall’uomo stesso sulla strada della propria salvezza. Il secondo libro analizza, canonicamente, i vizi capitali, puntando l’attenzione sull’acedia-la latina aegritudo-, l’accidia, quella condizione angosciosa causata all’uomo dal terrore della morte. Nel terzo libro il significato di amore e gloria come beni eterni o tramiti verso la perfezione morale e l’immortalità viene confutata, sgombrando l’animo di Francesco dalla fede in questa effimera illusione. La contrapposizione tra la vita contemplativa ed il materialismo esistenziale diventa nelle ultime pagine del Secretum un problema di natura culturale e letteraria, con Francesco che si chiede se sia ancora possibile per lui occuparsi di scrittori pagani, o metterli da parte, intensificando il suo rivolgersi al Creatore. Petrarca confessa così la volontà di completare gli studi eruditi, sebbene consapevole del loro limite e del suo desiderio di santità. L’amore per i classici è per Francesco una scelta culturale ed esistenziale, universo cui è necessaria la contemplazione dovuta alla religione: la solitudine diventa l’impegno morale del laico che, dedito durante la giornata a nobili occupazioni, studia, conosce se stesso e quale ruolo gli è riservato nel mondo.
Il De vita solitaria, composto a Valchiusa nel 1346-1347, mostra questa vita ideale, affiancandosi, e non contrapponendosi, alla contemplazione dell’esistenza ascetica e monastica. Il De ocio religioso, un trattato sulla vita ascetica, scaturito da una visita al caro fratello Gherardo a Montrieux, è la consacrazione della felicità monastica, condizione privilegiata per la tradizione cristiana. Francesco pare anelarla quale risoluzione degli affanni, delle paure, dei dolori e delle insicurezze dell’umanità.
Durante la difficile e complessa rielaborazione delle rime sparse, Francesco concepì anche i Trionfi, un poema in volgare intriso della sua riflessione ideologica, presentata sotto forma di narrazione simbolica. Il titolo è ispirato dalle spettacolari e successive rappresentazioni, cui il poeta immagina di assistere come in una visione significativa sul vero senso della vita. Le parti del poema- composto di terzine come la Commedia dantesca- sono sei, derivanti dal modello del sommo poeta anche per l’alternarsi di personaggi e situazioni esemplari, illustrate da una guida che accompagna Francesco in questo viaggio immaginario. L’impianto è invece petrarchesco per quanto concerne la disposizione delle parti, risalenti ai temi della meditazione del poeta operata nei Rerum vulgarium Fragmenta e nel Secretum. Francesco protrarrà la composizione dei Trionfi fino agli ultimi anni della sua vita, conclusasi il 19 luglio del 1374 ad Arquà, sui Colli Euganei, dove si era trasferito dal 1370 dopo che Francesco di Carrara gli aveva donato un terreno.
Figura prestigiosa, già quando era in vita, Petrarca ha influenzato gli intellettuali di ogni epoca, diventando il primo fulgido esempio di una nuova, autonoma ed apprezzata professionalità, quella del dotto finalmente abile a districarsi tra le asprezze della politica e gli incanti del metro poetico, segnando quel passaggio epocale che ha donato all’uomo di lettere la giusta dignità, tante volte negatagli in passato a causa di pregiudizi antichi e senza fondamento.
A cura della Redazione Virtuale


fonte:http://www.italialibri.net


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Amor piangeva


Amor piangeva, et io con lui tal volta,
dal qual miei passi non fur mai lontani,
mirando per gli affetti acerbi e strani
l'anima vostra de' suoi nodi sciolta.

Or ch'al dritto camin l'ha Dio rivolta,
col cor levando al ciel ambe le mani,
ringrazio lui, che giusti preghi umani
benignamente, sua mercede, ascolta.

E se, tornando a l'amorosa vita,
per farvi al bel desio volger le spalle,
trovaste per la via fossati e poggi,

fu per mostrar quanto è spinoso calle,
e quanto alpestra e dura la salita,
onde al vero valor conven ch'uom poggi



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Messaggio da Beldanubioblu » gio apr 20, 2006 7:08 pm

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Benedetto sia 'l giorno

Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, e l'anno,
e la stagione, e 'l tempo, e l'ora, e 'l punto,
e 'l bel paese, e 'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi, che legato m'hanno;

e benedetto il primo dolce affanno ch'i' ebbi
ad esser con Amor congiunto,
e l'arco, e le saette ond'i' fui punto,
e le piaghe che 'n fin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ho sparte,
e i sospiri, e le lagrime, e 'l desio;

e benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e 'l pensier mio,
ch'è sol di lei, sì ch'altra non v'ha parte



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Chiare fresche e dolci acque

Chiare fresche e dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da' be' rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in Paradiso!".
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ho pace.



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Era 'l giorno ch'al sol si scoloraro


Era 'l giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i' fui preso, e non me ne guardai,
che i be' vostr'occhi, Donna, mi legaro.

Tempo non mi parea da far riparo
contr'a' colpi d'Amor; però n'andai
secur, senza sospetto: onde i mei guai
nel comune dolor s'incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato,
ed aperta la via per gli occhi al core,
che di lacrime son fatti uscio e varco.

Però, al mio parer, non li fu onore
ferir me di saetta in quello stato,
ed a voi armata non mostrar pur l'arco.


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Erano i capei d'oro


Erano i capei d'oro a l'aura sparsi,
che 'n mille dolci nodi gli avolgea;
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi;

e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; e le parole
sonavan altro che pur voce umana:

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.



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Il mio adversario

Il mio adversario, in cui veder solete
gli occhi vostri ch'amore e 'l ciel onora,
colle non sue bellezze v'innamora,
più che 'n guisa mortal soavi e liete.

Per consiglio di lui, donna, m'avete
scacciato del mio dolce albergo fòra:
misero essilio! Avegna ch'i' non fora
d'abitar degno ove voi sola siete.

Ma s'io v'era con saldi chiovi fisso,
non dovea specchio farvi per mio danno,
a voi stessa piacendo, aspra e superba.

Certo, sè vi rimembra di Narcisso,
questo e quel corso ad un termine vanno;
ben che di sì bel fior sia indegna l'erba.



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Quando fra l'altre donne

Quando fra l'altre donne ad ora ad ora
Amor vien nel bel viso di costei,
quanto ciascuna è men bella di lei
tanto cresce 'l desio che m'innamora.

I' benedico il loco e 'l tempo e l'ora
che sì alto miraron gli occhi mei,
e dico: "Anima, assai ringraziar dèi,
che fosti a tanto onor degnata allora:

da lei ti vèn l'amoroso pensero,
che, mentre 'l segui, al sommo ben t'invia,
poco prezando quel ch'ogni uom desia;

da lei vien l'animosa leggiadria
ch'al ciel ti scorge per destro sentero;
sì ch'i' vo già de la speranza altèro".



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Solo e pensoso i più deserti campi


Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l'arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti;
perché ne gli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi;

sì ch'io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né si selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.



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Messaggio da Beldanubioblu » gio apr 20, 2006 7:18 pm

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Benedetto sia



Benedetto sia ' l giorno e ' l mese e l ' anno
e la stagione e ' l tempo e l ' ora e ' l punto
e ' l bel paese e ' l loco ov' io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m ' ànno ;



e benedetto il primo dolce affanno
ch ' i' ebbe ad essere con amor congiunto ,
e l ' arco e le saette ond ' io fui punto ,
e le piaghe che 'infin al cor mi vanno .


Benedette le voci tante ch ' io
chiamando il nome di mia Donna ò sparte ,
e i sospiri e le lagrime e ' l desio ;


e benedette sian tutte le carte
ov ' io fama l'acquisto , e ' l pensier mio ,
ch ' è sol di lei , sì ch 'altra non v'à parte .




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Io amai sempre


Io amai sempre et amo forte ancora

e son per amar più di giorno i n giorno

quel dolce loco ove piangendo torno

spesse fiate quando Amor m ' accora ,



e son fermo d'amare il tempo e l 'ora

ch 'ogni vil cura mi levar dintorno ,

e più colei lo cui bel viso adorno

di ben far co ' suoi esempli m' innamora .



Ma chi pensò veder mai tutti insieme ,

per assalirmi il core or quindi or quinci ,

questi dolci nemici ch ' i ' tant ' amo ?



Amor , con quanto sforzo oggi mi vinci !

E se non ch 'al desio cresce la speme ,

i ' cadrei morto , ove più viver bramo .




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Zefiro torna


Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia.

Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena;
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch'al ciel se ne portò le chiavi;

e cantar augelletti, e fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.



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Messaggio da Beldanubioblu » ven gen 18, 2008 2:55 am

Per la morte di Cino da Pistoia

Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch'è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir' tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché 'l nostro amoroso messer Cino
novellamente s'è da noi partito.

Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov'ello è gito.


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