
Umberto Saba nasce a Trieste il 9 marzo 1883 da Rachel Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Ben presto la madre viene abbandonata dal marito, e il piccolo è mandato a vivere presso una contadina slovena, l'amatissima Peppa, con il quale manterrà sempre un rapporto d'intenso affetto. La sua carriera scolastica è breve: frequenta il ginnasio soltanto per pochi mesi e abbandona quasi subito per lavorare all'Accademia del Commercio, perciò la sua formazione avviene soprattutto tramite quelle che egli poi definirà "le sterminate letture d'infanzia": letture di Leopardi, Foscolo, Petrarca, Manzoni.
Nel 1905 si trasferisce a Firenze con l'amico filosofo Giorgio Fano, e qui rimane fino al 1910. A Firenze prende contatti con gli ambienti intellettuali della città, tra cui la rivista La Voce, in cui lavora un concittadino del poeta, Scipio Slapater; contatti che però saranno sempre di reciproca incomprensione, soprattutto in seguito al rifiuto di Slapater di pubblicare sulla rivista Quello Che Resta Da Fare Della Vita un breve manifesto di poetica scritto da Saba.
Nel 1908 presta il servizio militare e successivamente sposa Lina, l'ispiratrice di molte liriche, da cui avrà una figlia, Linuccia. Nel 1910 esce a spese del poeta il primo libro di versi, "Poesie"; poi, nel 1911, scoppia una grave crisi in famiglia, e per un certo periodo il poeta lascia la moglie, ma poi la coppia si riappacifica definitivamente. Nel 1913 nel teatro La Fenice di Trieste viene rappresentato per la prima e ultima volta (con clamoroso insuccesso) il dramma in un atto "Il letterato Vincenzo", unico e modesto testo teatrale scritto da Saba. Dopo la prima guerra mondiale, cui partecipa anche il poeta ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, Saba rileva a Trieste una vecchia libreria antiquaria, tuttora esistente, alla quale si dedicherà per il resto della vita.
Nel 1921 riunisce nel "Canzoniere" tutte le sue poesie pubblicate, ma non ottiene il favore della critica, tanto da rinchiudersi in una sorta di scontrosa solitudine. Nel 1929 si sottopone a una terapia psicoanalitica con il dottor Edoardo Weiss, allievo di Freud, per curarsi da una nevrosi cui era afflitto, ma questa esperienza si conclude quasi subito, poiché lo specialista si trasferisce a Roma; tuttavia queste sedute avranno un significato importante per Saba, perché gli confermeranno alcune sue intuizioni circa l'importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e di conseguenza la psicoanalisi gli apparirà come uno strumento importantissimo per la conoscenza dell'animo umano e quindi della realtà e della storia. Freud sarà uno dei suoi "maestri di vita" e considererà le sue opere, dopo quelle di Copernico e Darwin, come tra le più fondamentali nel pensiero moderno.
Nel 1938 avviene un cambiamento nella vita di Saba dovuto all'introduzione delle leggi razziali; di conseguenza deve abbandonare Trieste e rifugiarsi a Roma, che abbandona dopo avere trascorso quelli che egli definirà i mesi più felici della sua vita (il poeta è circondato dal calore e dalla stima di numerosi intellettuali e scrittori), per l'impossibilità a trovare un lavoro. Si trasferisce a Milano, dove viene ospitato da una famiglia amica, sino al suo rientro a Trieste dopo le elezioni del 18 aprile 1948; nella città natia trascorre gli ultimi anni della sua vita tra ricoveri prolungati in clinica, dovuti alla sua nevrosi e alla morte della moglie, e riconoscimenti ufficiali sulla sua produzione poetica (nel 1951 riceve il premio dell'Accademia dei Lincei, nel 1953 la laurea honoris causa dell'università di Roma). Alla fine della sua vita compone ancora delle raccolte di versi e un romanzo rimasto incompiuto, "Ernesto". Muore a Gorizia, in una clinica privata, il 25 agosto del 1957.
Citazioni
1. La letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità.
2. Era questo la vita: un sorso amaro.
3. L'opera d'arte è sempre una confessione.
4. Tutti gli uomini sono pazzi, e chi non vuole vedere dei pazzi deve restare in camera sua e rompere lo specchio.
http://www.newsky.it/
MOGLI E BUOI
<<La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate», scrisse lo stesso Umberto Saba a proposito di questo suo testo, ovviamente in tono di soddisfatta rivincita, quando già da più parti si inneggiava al capolavoro. Però si percepisce già qualche cosa di strano in questa affermazione: perché mai una poesia dovrebbe suscitare il riso? Potrà sembrare oscura, inintelligibile, o al contrario banale e insignificante, potrà essere accolta da sorrisetti sardonici di compatimento, ma perché riderne? Il riso non scatta a vuoto, presuppone la comprensione di un elemento comico.
Stiamo parlando, per chi non l'avesse capito, di A mia moglie, componimento che si può trovare praticamente in tutte le antologie della poesia italiana novecentesca, accompagnato spesso dai più alti elogi
Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba...
Diligentemente, Saba annuncia nel titolo l'oggetto della sua allocuzione, attacca con la seconda persona singolare il suo inno cletico e comincia a sfornare similitudini. Così cantava anche il Vate, soltanto pochi anni prima:
...e il tuo volto ebro
è molle di pioggia come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre...
Solo che Saba i suoi paragoni va a procurarseli direttamente in polleria. E una volta iniziato non si ferma più, come un caterpillar:
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue eguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Ora, a Saba è balenata un'idea, non particolarmente originale - anche se in poesia l'originalità dell'idea in effetti conta poco -, perché la ritroviamo già in Semonide di Amorgo: uno spunto, il paragone fra donne e femmine di animali, caratteristico per l'appunto della poesia satirica, e che qui si tenta di riadattare ad altri fini senza riuscire a scrollargli di dosso la comicità di cui è naturaliter intriso. Di quest'idea comunque Saba si è innamorato e non la molla più, variandola e rivariandola per sei lunghe strofe scritte in un linguaggio sciatto e pedestre, dove "dono" rima con..."dono":
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste...
E così di seguito, fino alla fine, ad ogni inizio di strofa viene chiamato in causa un animale del quale si individua una qualità che viene attribuita a Lina Saba. Nonostante molti abbiano voluto vedere in questi versi, sulla scia dell'autore, un esempio di spontaneità addirittura infantile, siamo di fronte piuttosto a una concatenazione molto raziocinante di allegorie e di incisi gnomici. Forse solo nella strofa della rondine, che è fra l'altro la più corta, Saba è riuscito almeno in parte a sciogliere questo meccanismo in un vissuto con tratti lirici:
Tu sei come la rondine
Che torna in primavera.
Ma in autunno riparte:
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.
Certa critica strutturalista è stata invece affascinata proprio dall'impianto ripetitivo che costituisce il punto più debole di questo lungo testo. Un interprete ha addirittura tratto auspici dal fatto che gli ultimi tre animali elencati da Saba siano la rondine, la formica e la pecchia, ossia, a suo dire, animali che «non sono femmine», ma solo «grammaticalmente di sesso femminile». Il che non si capisce bene cosa comporti, a parte la scarsa cultura entomologica del critico, perché formiche e api sono femmine a tutti gli effetti.
Non ci sentiamo in definitiva di condannare chi si fece delle risate sopra questa curiosa filastrocca. La moglie di Saba invece, forse meno dotata di sense of humour, rimase (è sempre lo stesso scrittore a ricordarlo) «male, molto male; mancò poco litigasse con me». Crediamo che di poesia capisse più di tanta attrezzata critica del Novecento.
Carmine Adalfei
(fonte:http://www.phemios.net/)
