MARCHIO DI ORIGINE PROTETTA ...Il radicchio nel mondo

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Giammarco De Vincentis
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MARCHIO DI ORIGINE PROTETTA ...Il radicchio nel mondo

Messaggio da Giammarco De Vincentis » gio ott 06, 2005 12:21 pm

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All’attenzione del Dottor. Giorgio Setti

Come da colloquio telefonico del giorno 29-03-06, le invio questa email:

Sulla vostra rivista Edagricola Terra e Vita “il Sole 24 ore”, , N° 48 - 3 - 9 Dicembre 2005 alla pagina 52 è apparsa la foto che riproduce una cassetta di Radicchio della Azienda Agricola Orto. Be.Mar.s.s. con sede in San Benedetto dei Marsi AQ, in Abruzzo.
Nel vostro articolo, in un certo senso  si mette in dubbio la qualità del nostro prodotto.
La foto fa riferimento ad una confezione con scritto www.radicchio.it il radicchio Italiano prodotto nell'altopiano del fucino.
Credo che come responsabile dell azienda debba avere la possibilità di difendere il mio prodotto, con una replica sul vostro giornale, che ho sempre reputato una rivista di alto livello ed oggi ne sono ancora piu’ convinto perché molti miei clienti, sparsi per tutto il territorio Nazionale, hanno letto l’articolo di cui vi parlo.
Non è vero che noi siamo un problema o quelli della confusione, ma siamo quelli che abbiamo dato la continuità alla produzione del radicchio nel periodo estivo dal 15 giugno al 15 settembre quando non è possibile raccogliere un prodotto di qualità, nelle zone della costa del Veneto dove per gran parte dell’anno si produce radicchio.
Molti commercianti del nord Italia hanno fatto una fortuna con il nostro radicchio, gli stessi che in questi ultimi tempi si stanno spostando nei nuovi mercati Europei, per produrre a meno costo.

La piana del fucino si trova a 700 m. slm ed ha un clima adatto soprattutto in estate per portare a maturazione ortaggi di qualità, il radicchio è solo uno dei tanti.
La nostra è una zona dove la nebbia non fa da padrona, molti dei trattamanti chimici che si fanno nella zona del radicchio del nord est, per combattere umidità e marciume, non sono necessari, perché il clima ventilato è a favore di un radicchio sano e genuino.

Oggi si continuano a fare distinzioni di radicchio, di chioggia e di altri radicchi in Italia, quando il vero problema è quello che il seme del radicchio ha oltrepassato ogni frontiera e quindi dovremo difenderci da produttori di altre nazioni, che sono alle porte del grande mercato italiano e europeo, la Cina è troppo lontana ma dal nord Africa hanno già guardato verso i nostri mercati.
L’Italia ha la fortuna di avere un clima che varia dal nord al sud permettendoci di prorurre radicchio in ogni mese dell’anno e sarebbe un peccato bloccare la produzione in alcuni periodi, perché sulle nostre tavole arriverebbe solo un prodotto conservato e a caro prezzo.
Sono uno di quelli che pensa che piu’ ne siamo e piu’ si possa far conoscere questo ortaggio sulle tavole di ogni paese del mondo, e che il mercato sarà di quelli che garantiranno di piu’ i consumatori.
Qualche anno fa ho acquisito il domuinio web della parola radicchio.it, al che, ho offerto a chi fosse stato interessato, di propagandare in modo del tutto gratuito la propria zona di origine, per far conoscere il radicchio nel mondo cybernatico, ma al contrario sono stato obbligato a far scomparire le parole radicchio di Treviso e radicchio di Chioggia in quelle pagine web dove esse erano presenti, perché minacciato di denuncia.
Cosi è nata l'idea di chiamare il mio radicchio, il radicchio Italiano, prodotto nell'altopiano del fucino.
Molto del nostro raccolto viene lavorato nel nord Italia, vorrei proprio vedere cosa scrivono i comemrcianti, nelle confezioni, quando si tratta di specificare la zona di appartenenza, in questo caso si deve chiamare radicchio del Fucino e non di Chioggia o Trevisano.
In inverno invece molto radicchio viene prodotto nelle marche, nelle puglie e in sicilia.
Anche in questo caso la gran maggioranza del radicchio viene lavorata e confezionata nel nord , dove continuano a chiamarlo radicchio di treviso precoce o radicchio di chioggia.
Forse dovremo guardare di piu’ le etichette ma non solo per vedere le zone di appartrenenza, ma per sapere cosa mangiamo, sono d’accordo nel dire che non vale la bella confezione ma quello che contiene nel suo interno, ma anche che i problemi sono altri per questa coltivazione.
La mia è un azienda che da la possibilità al consumatore di accedere tramite il nostro sito internet, http://www.radicchio.it/ortobemar in tempo reale, ai dati che fanno riferiemento al sistema di autocontrollo H.A.C.C.P. dove è possibile conoscere con quali prodotti trattiamo i nostri campi e confrontare il numero del lotto delal confezione con quello delle tabelle.

Concludo nel dire che non serve fare la guerra tra di noi, produttori Italiani, ma che dobbiamo organizzarci per difenderci da chi invece approfitta della nostra debolezza nel pagarci il nostro raccolto sempre meno e di venderlo ai consumatori ad un prezzo inaccessibile.
Il radicchio sta facendo diventare sempre piu’ poveri i contadini e piu’ ricche le grandi catene di distribuzione.


Sono a vostra disposizione per qualsiasi chiarimento al telefono 348-382599.


da il centro cronaca della Marsica del 02-Aprile 2006

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Giammarco De Vincentis
Ultima modifica di Giammarco De Vincentis il gio apr 13, 2006 8:51 pm, modificato 14 volte in totale.
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NOTE COLTURALI PER IL RADICCHIO

Messaggio da Redazione » sab mar 18, 2006 11:26 pm

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IL MARCHIO DI DENOMINAZIONE DI ORIGINE PROTETTA

I produttori di radicchio del Fucino sono nel mirino dei consorzi di valorizzazione del radicchio del Veneto.

Il radicchio come si sa è una cicoria che in Italia è stata prodotta per la prima volta nelle campagne del Veneto, tra la provincia di Venezia e quella di Treviso, ma negli ultimi e 20 anni questo ortaggio ha messo le radici in diverse regioni Italiane, tra le quali l’ Abruzzo, nell’altopiano del Fucino, dove riesce a maturare anche nel periodo estivo, grazie al suo clima ottimale, caldo di giorno e fresco di notte.
Il Fucino che si trova a circa 700 m slm, oltre al clima favorevole, ha un terreno adatto alla coltura di ortaggi, producendo ottime qualità e un prodotto sano perchè protetto da umidità e nebbia, che sono i nemici di ortaggi che maturano in territori piu’ vicini al mare.
Il radicchio del Fucino non teme concorrenza, non è secondo a nessuno e se ha preso la sua fetta di mercato, è grazie alla professionalità dei coltivatori della nostra terra.
L’unico problema al momento è che il nostro radicchio non ha un nome che fa riferimento alla sua zona di provenienza.
Fino a ieri abbiamo venduto il radicchio del Fucino, scrivendo in fattura radicchio tipo Chioggia o radicchio tipo Trevisano ma da domani non potremo piu’ farlo.
E’ arrivato il momento di dargli un nome e non possiamo chiamarlo radicchio tondo o radicchio lungo, come qualcuno ci ha suggerito di fare.
Appena l’altro ieri ho ricevuto in azienda la visita di due funzionari del ministero delle politiche agricole, i quali sono venuti a controllare se era vero che io spacciassi il radicchio del Fucino con quello Trevisano .
Qualcuno ha fatto nei confronti della mia azienda la Orto.Be.Mar. una accusa, che alla fine si è rilevata falsa, perché nell’imballaggio che contiene i prodotti lavorati della mia campagna c’è scritto che è stato prodotto nell’altopiano del Fucino.
Su internet all’indirizzo web http://www.radicchio.it/ortobemar il mio radicchio lo chiamo la rosa del Fucino, il cuore d’Abruzzo oppure il radicchio Marsicano, dipende dalla varietà, questo pero’ non mi permette di scriverlo sulle fatture perché questi nominativi o marchi non sono stati registrati.
Non è certo solo compito mio trovare il marchio di identificazione di un prodotto che è di tutto il Fucino, io posso dare il mio piccolo contributo o suggerimento e mettere a disposizione il sito web per propagandare i prodotti della nostra terra.
Lancio un appello agli organi competenti affinché il nostro radicchio abbia un marchio di qualità e di denominazione di origine protetta, cosi anche noi nel periodo estivo, possiamo pretendere che nessuno possa vendere sul mercato, il radicchio del Fucino come radicchio di Treviso o di Chioggia, cosa che accade ancora oggi quando molti commercianti acquistano il radicchio grezzo ai nostri contadini e lo lavorano nei magazzini di altre zone di Italia.
Da un po’ di tempo si legge sui giornali che finalmente abbiamo la carota del Fucino, mi auguro che presto il nostro radicchio venga battezzato .

San Benedetto dei marsi li 06-10-2005

Giammarco De vincentis
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Inviata per email da Silvano Tiozzo

Messaggio da Redazione » mar apr 11, 2006 8:02 pm

To: radicchio
Sent: Tuesday, April 11, 2006 7:08 PM


IGP: pro e contro delle denominazioni geografiche protette.
Riflessioni ad alta voce
La tutela e la valorizzazione delle produzioni, accanto alla qualità dei prodotti, sono senza dubbio le strade principali che il mondo orticolo dovrà percorrere nei prossimi anni per salvaguardare il proprio reddito.
In tale ottica la difesa del nome diventa un primo e fondamentale passo per limitare la concorrenza e in tal senso le denominazioni geografiche protette (IGP) colgono appieno questa opportunità per il mondo agricolo aprendo, tuttavia, ad alcune contraddizioni che, se non gestite correttamente, rischiano di disorientare il consumatore.
Se delimitare aree geografiche che godono di una profonda tradizione nella coltivazione di un ortaggio, per condizioni pedo-climatiche e socio-economiche, risulta fondamentale, non solo per politiche di tutela e valorizzazione ma anche per scelte strategiche di pianificazione e programmazione produttiva nel territorio; se definire e divulgare rigorosi disciplinari di produzione risponde all’esigenza di rendere trasparente il processo di produzione e garantire la sicurezza del consumatore; qualcosa ci sarebbe, invece, da dire nel legare in via esclusiva un nome geografico ad un prodotto.
Secondo il disciplinare IGP infatti solo il radicchio coltivato in un certo numero di comuni veneti si potrà chiamare radicchio rosso di Chioggia (o meglio radicchio di Chioggia dopo le ultime decisioni della CE) le restanti produzioni, infatti, non solo non potranno fregiarsi, giustamente, del marchi IGP ma non potranno neppure essere denominate come radicchio di Chioggia e si chiameranno quindi radicchio rosso tondo o rosa rossa di… tondo rosso del …. chi ha più fantasia inventi.
In primo luogo da un seme che ha un nome si ottiene, da che mondo e mondo, un prodotto con lo stesso nome. Da qui infatti la proposta di mettere mano alle denominazioni della varietà iscritte al registro nazionale con dura presa di posizione del mondo sementiero.
A tal riguardo si è arrivati addirittura a proporre che il seme rimanga iscritto al registro come cicoria rossa di Chioggia da cui si potrà ottenere radicchio di chioggia o rosso tondo a seconda che la coltivazione avvenga in zona IGP o al di fuori dalla stessa. Decisione salomonica per mettere tutti d’accordo, ma che non fa chiarezza nei confronti del consumatore.
Se questa è la sola differenza (è cioè ricadere in un dato territorio comunale), per cui un prodotto derivato dallo stesso seme e magari ottenuto con lo stesso disciplinare di coltivazione, dallo stesso imprenditore, possa fregiarsi o meno di un marchio, per il quale si chiede al consumatore di riconoscere un valore aggiunto, a mio modesto parere questa è la strada per togliere a quel marchio ogni valore competitivo.
Il radicchio coltivato nella aree delimitate dal disciplinare IGP deve essere distinguibile nei confronti del consumatore non semplicemente per il nome sulla confezione ma per la qualità che offre. Freschezza, standard di lavorazione e servizio, continuità di offerta (che vuol dire anche rieducare alla stagionalità), tecniche agronomiche rispettose dell’ambiente, salubrità nei confronti del consumatore, etica nei confronti dei lavoratori, programmazione e pianificazione rigorosa della produzioni, massa critica di prodotto. Su questi valori si deve basare la sfida competitiva sul mercato e non sul nome perché se così non fosse domani potremo trovarci un semplice radicchio rosso tondo di un’area senza alcuna tradizione produttiva che risponde meglio a questi requisiti di un radicchio rosso di Chioggia IGP e allora come faremo a spiegare al consumatore che deve preferire il prodotto a marchio?.
Già oggi come si risponde a un consumatore che si chiede se sia da considerarsi migliore un radicchio di Chioggia IGP, ottenuto a Chioggia, o di un radicchio di Treviso Precoce, ottenuto a Treviso, con tecniche convenzionali ma usando del seme ibrido olandese, anzichè un “rosso tondo” o un “rosso lungo” ottenuto con metodo biologico o convenzionale usando semi di selezioni locali (iscritte al registro varietale da prima degli anni ‘70) in Fucino, in Trentino etc….?.
Il valore di un marchio è proporzionato alla qualità del prodotto su cui viene posto l’azione promozionale e pubblicitaria può senza dubbio valorizzarlo ma non può sostituirsi alla qualità.
Se è vero infatti che un ottimo prodotto scarsamente pubblicizzato non riesca conquistare segmenti ampi di mercato è altrettanto vero che un prodotto scadente per quanto pubblicizzato non può avere che un successo temporaneo.
Con i radicchi oggi stiamo proponendo al consumatore, molto spesso, lo stesso identico prodotto con nomi differenti. Per cui possiamo trovare aziende che in area IGP non aderiscono al consorzio e producono radicchio rosso come aziende che si trovano al di fuori delle aree tutelate e aziende che producono con lo stesso identico seme e disciplinare sia radicchio IGP che non perché parte dei terreni si trova al di fuori dei perimetri stabiliti.
In questo modo quale servizio offriamo al consumatore e quale servizio offriamo a noi stessi nei confronti della tutela dalla produzioni estere?
È come se un modello di automobile si chiamasse con un nome differente in ogni regione e presentasse conseguentemente prezzi diversi. Questo favorirebbe il consumatore o lo disorienterebbe?
Chi spiega quindi perché il radicchio che l’azienda Rossi coltiva con lo stesso seme e con la stessa tecnica in due comuni limitrofi non possa chiamarsi con lo stesso nome, che il radicchio coltivato nello stesso terreno e raccolto in due epoche diverse (prima o dopo una data imposta di inizio raccolta) si possa fregiare o meno di un marchio o ancora la produzione di un appezzamento posa essere a marchio fino ad un certo n° di kilogrammi e poi debba essere commercializzata come prodotto generico (o tutto il prodotto di quel campo è di qualità certificabile o nessuno ma certo non 10 t si e 2 no)?. Da quando al qualità risente dei confini amministrativi, o va a tempo o a quota parte?.
Le condizioni climatiche sono diverse da anno ad anno e non sarebbe pertanto più corretto definire chiaramente gli standard di qualità del prodotto da porre a marchio orientando senza dubbio la produzione nelle epoche in cui si ottiene la migliore performance qualitativa e prevedano pratiche agronomiche che favoriscano la qualità a scapito della quantità, ma senza stabilire inutili paletti che nulla offrono al consumatore e invece penalizzano fortemente la produzione?.
Se un buon imprenditore favorito dalle condizioni climatiche e nel pieno rispetto del disciplinare di produzione riesce a far fruttare al suo terreno un determinato quantitativo di prodotto con requisiti di eccellenza perché una quota parte deve esclusa dal marchio? E dalla possibilità di fare reddito per l’azienda incentivando gli imprenditori più capaci? Qual è il requisito di qualità considerato in questo caso?.
Il danno è certamente doppio l’azienda deve rinunciare ad una quota di valore aggiunto avendone sostenuto i costi di produzione, e ciò che forse è ancor più grave il consumatore si trova su mercato un prodotto di pari qualità con due nomi e si chiede perché quello a marchio debba valere di più.
Banalmente è come si vendesse una Ferrari, prodotta in esubero, marchiata Fiat ad un prezzo del 30% in meno dell’originale e si pretendesse che l’acquirente Ferrari riconosca nella scritta questa differenza di valore.
E ancora chi spiegherà ad un consumatore di New York, Monaco, Londra o di una qualsiasi altra parte del modo che non conosca la storia di questo ortaggio che è il radicchio di chioggia l’originale e non lo sia il rosso di pechino o la rosa di california? Non sarebbe meglio che si chiamassero radicchio di chioggia prodotto a pechino o in california? o, per restare in casa, in Fucino? in modo che fosse chiaro che si sta parlando di un prodotto ottenuto al di fuori della zona di origine?.
Se la risposta è no, allora mi chiedo perché dall’altro lato vengono tutelate come IGP produzioni di asparago ottenute rigorosamente con ibridi francesi o olandesi, produzioni di carote con ibridi francesi, produzioni di pomodoro con ibridi israeliani e ancora di più come mai una quota sempre più consistente di radicchio di chioggia, e del radicchio di treviso, venga ottenuta con ricorso a ibridi olandesi che stanno soppiantando le tanto declamate selezioni locali che sempre più vengono relegate al ruolo di salvaguardia del germoplasma.
La riposta è semplice perché la componente pedo-climatica e la professionalità imprenditoriale di una determinata area consentono di estrinsecare caratteristiche qualitative di pregio che il mercato riconosce e premia.
E allora su questo bisogna puntare sulla qualità e sulla professionalità sulla sostanza e non sulla forma.
Lasciamo pure che altre aree di produzione coltivino radicchio di chioggia, di treviso di verona e lo chiamino con il loro nome è un primo servizio che faremo al consumatore che già fatica a distinguere le diverse tipologie di prodotto. Lasciamo che le produzioni anche di altri paesi portino in giro i nomi delle aree di origine e delle varietà.
Nostro il compito non di fare inutili battaglie sulla proprietà del nome, ma di far conoscere ai diversi mercati la differenza fra questi radicchi e gli omonimi a marchio IGP ottenuti nelle aree di origine da una tradizione e una professionalità senza eguali. Ma la differenza si deve riconoscere e sentire e allora il consumatore sarà libero di fare le proprie scelte.
E ancora nostro il ruolo è di valorizzare il germoplasma che ci ha portato a questi traguardi e se oggi anche le multinazionali sementiere guardano con interesse a questo ortaggio è grazie al lavoro di generazioni di agricoltori che hanno saputo preservare e trasmetterci le diverse selezioni locali migliorandole nel corso degli anni con un sapiente lavoro di selezione e adattamento agronomico.
Questi materiali dovremmo saper valorizzare e porre alla base dei nostri disciplinari, certo non senza un ulteriore lavoro di selezione e miglioramento, ma questi materiali possono garantire l’unicità di un prodotto. E non le sementi ibride, o quelle ottenute con l’introduzione di OGM, (esistono già dal 1996 aziende sementiere, autorizzate della Comunità Europea alla produzione di sementi di radicchi ibride, ottenute con l’introduzione di OGM per la maschio sterilità e la resistenza al Glifosate, e che grazie alla loro costanza di risposta produttiva, alla resistenza agli erbicidi, renderanno più semplice riprodurre i processi produttivi in altri areali e appianeranno le caratteristiche estetiche e qualitative del prodotto, annullando tutte quelle differenze in nome delle quali oggi reclamiamo una unicità europea.
Solo se sapremo fare questo allora potremo chiedere al consumatore fiducia e anche quel valore aggiunto che le nostre produzioni meritano.


Silvano Tiozzo
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Messaggio da Redazione » mer lug 12, 2006 6:26 pm

La Risposta della Orto.Be.Mar. pubblicata sulla rivista del sole 24 ore nel mensile di Lugnio 2006

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