LA BANDA DEGLI SPECCHI ROTTI -Completo-

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RobyMAD
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LA BANDA DEGLI SPECCHI ROTTI -Completo-

Messaggio da RobyMAD » ven lug 27, 2007 9:30 pm

Introduzione
Tanto tempo fa (circa sedici mesi) circolò in questo forum un racconto dal titolo "La banda degli specchi rotti". Nonostante fosse incompleto e bislacco, fu visitato (e spero letto) da moltissime persone. Ora, visto che da quest'idea stanno nascendo cose interessanti (una scenetta dal soggetto simile è già stata recitata in un teatro all'aperto, etc...) mi sembrava giusto mettere il racconto completo a vostra disposizione. Il contenuto potrebbe sembrare un po' strano e maleducato, ma se non avete paura...

LA BANDA DEGLI SPECCHI ROTTI

Capii d’aver toccato il fondo quando tirai un pugno allo specchio del bagno. Mi ferii la mano. Piccole gocce di sangue cadevano sul pavimento e io immobile continuavo a fissare la mia immagine riflessa. Disprezzavo i miei occhi, il mio naso, la stupida bocca. Maledii ogni parte di me stesso, anche quelle coperte dal rosso che a stento intravedevo.
A nessuno importava cosa stessi facendo in quel momento, nessuno aveva mai voluto capirmi, dunque nessuno mi avrebbe rimpianto se sarei saltato giù dal balcone del quinto piano. Se mi fossi suicidato in un luogo sperduto, nessuno mi sarebbe venuto a cercare.
Forse sarei stato apprezzato dai vermi: troppo poco per la mia ambizione!
Decisi che avrei sfidato ogni stupida regola che conoscevo, che avrei fatto vedere a tutti quanto fosse stupido il loro modo di pensare. Sarei diventato la persona più ricca, più famosa, più richiesta e più fantastica del mondo e l’avrei fatto superando il limite della ragione.
Mi lasciai andare alle più sfrenate fantasie e tentai di vivere come se tutto fosse un sogno.
È triste giocare da solo: la prima cosa che feci fu trovare degni compagni.
Mi ricordai il caso di due gemelle, Chicca e Paola, diventate famose per le loro grottesche avventure.
Le due splendide persone in questione, definite dai giornali «un’emozione vivente» e apparse in numerose trasmissioni d’attualità, erano l’una prigioniera delle emozioni dell’altra. É popolare che quando una gemella prende l’influenza, l’altra cadrà malata poco dopo, ma provate a enfatizzare il concetto.

Erano le 16:00. Chicca era seduta in biblioteca impegnata a studiare, mentre Paola era nella sala d’attesa di uno studio dentistico. Un affascinante ragazzo, anche lui in attesa per un intervento odontoiatrico, notò Paola e con una scusa qualunque l’avvicinò. Lei ebbe un colpo di fulmine: il ragazzo era così elegante, aveva una voce stupenda… ed era intelligente, maledettamente.
Paola capì che la conversazione stava diventando troppo intima, allora con una scusa si alzò e andò a buttare la prima cartaccia trovata in tasca nel cestino del corridoio, ma lui la seguì.
Paola non seppe resistergli e lo baciò.

Erano le 16:00.
Chicca era in biblioteca e provò un ardente desiderio per Elena, l’amica del cuore, che si trovava accanto a lei.
Elena era affascinante, sexy, irresistibile.
Chicca desiderò baciarla. Si spaventò e uscì dalla stanza. Sapeva che le emozioni erano causate da qualcosa che stava vivendo Paola, che lei era eterosessuale, ma l’infatuazione per l’amica era reale. Avrebbe voluto saltarle addosso.
Si chiuse in bagno e aspettò che l’emozione passasse.
Trascorsero una ventina di minuti ed Elena andò a cercarla: perlustrò le macchinette del corridoio, si guardò bene attorno, ma Chicca era sparita.
Elena chiamò l’amica al cellulare, per scoprire perché l’aveva piantata in asso.
Chicca vide «Elena» apparire sul display. Le s’accese un fuoco fatuo che la fece scattare verso l’amica: la baciò prima sul collo, poi in bocca, mentre con la mano sinistra le accarezzò la schiena, si fece breccia tra i jeans e le massaggiò il sedere.
Elena rimase immobile, sorpresa da tanta passione. Quando s’accorse che la cosa cominciava a piacerle, spintonò Chicca e scappò via.
Intanto Paola stava limonando col ragazzo conosciuto dal dentista, in via Fenomena; una sperduta strada di Torino frequentata principalmente da coppiette, guardoni e un paninaro.

Questa è forse l’avventura grottesca più raccontata dalle due gemelle, ma a mio parere ce ne sono alcune più divertenti.
Dovreste aver capito che convincere queste due persone rappresentò il primo tassello per la costruzione della squadra più strampalata del mondo; la mia.
A dir la verità c’era anche un interesse personale: pensai sarebbe stato facilissimo portarmi a letto una delle due. Bastava stare solo con Paola, ad esempio, mentre un modello pagato da me corteggiava l’altra gemella.
D’altronde uno può essere come vuole, persino un bastardo egoista, giusto?

L’altro membro della squadra doveva essere e fu Arcadia, la brunetta più famosa di Torino, almeno tra gli studenti di Scienze della comunicazione.
Arcadia era un’appassionata di pubblicità e si era da poco laureata con una splendida e pallosa tesi dal titolo: «Il patibolo del soggetto.» La discusse durante un pomeriggio autunnale, al cospetto di molte teste stimate nell’ambito propagandistico. Si fece breccia nelle loro teste e riuscì a entrare nella più importante agenzia di Torino. Era felicissima: si sentiva come una piccina cui erano offerte caramelle al cioccolato.
Arcadia contribuì alla creazione di molte campagne di successo; ma la sua stella smise di splendere quando Giorgio, il boss dell’agenzia di cinquantasette anni –anche se ne dimostrava settanta a causa della sua mania di fumare sigari- s’innamorò di lei perdutamente.
Arcadia si guardò bene dal concedergli una possibilità, così fu vittima di Mobbing e fu costretta a licenziarsi.
Per uno strano gioco del destino, Arcadia fu ballonzolata tra un lavoro e l’altro senza riuscire più a raggiungere il livello d’inizio carriera; così, un giorno, in preda alla depressione, decise di suicidarsi.
Prima di buttarsi dal «ponte dei suicidi» di Torino, scrisse un commovente sms ad Andre (l’amico del cuore) nel quale esplicitò il desiderio che, al boss Giorgio, venisse urlata la frase: «Come ti sei permesso, anche se non te l’ho data.»
Funzionò: Giorgio sentì la frase quando rispondeva al telefono, la leggeva nelle mail, nei siti internet, sui muri di casa. Andre realizzò la catena di Sant’Antonio a scopo vendicativo più riuscita della storia.
La moglie di Giorgio chiese spiegazioni e dato che il boss inventò scuse poco convincenti, lo lasciò.
La vendetta di Arcadia si compì e la cosa più importante, per me, è che sopravvisse alla caduta dal ponte. La spassosa vicenda raccontata con dovizia dai telegiornali, fu una delle notizie del 2002 che m’appassionò di più.
Grazie al tentato suicidio, Arcadia divenne la più importante firma di un mensile per donne. Le scrissi molte volte per convincerla a conoscermi, ma non rispose. Scrissi allora altre lettere con altri nomi, ma nessuna fu mai pubblicata.
Mi stufai e lasciai perdere, ma mentre escogitavo la squadra dei miei sogni, la memoria mi rimandò subito al suo viso. Sarebbe stata perfetta.

Fu difficile convincere Chicca, Paola e Arcadia a lasciare le loro carriere per seguire la mia avventura, ma deve ancora nascere la mente che non riesco a manipolare. Oggettivamente forse alcune mie «astuzie» potrebbero sembrare più riprovevoli del comportamento di «Giorgio il boss», perciò scelgo di non spiegarvi tutto.

È arrivato il momento dirvi chi sono, o meglio, cosa: IO SONO ILLUSIONE.
La gente mi considera intelligente, carino, buono e … mettete al posto dei puntini ogni aggettivo positivo che conoscete. Gli amici mi considerano leale e i famigliari, straordinario; ma purtroppo io sono più spietato con me stesso. Per descrivermi in modo semplice ed efficace, direi che sono un «inganno». La mia qualità più grande è il capire le persone e per questo sono riuscito a ottenere la sufficienza senza il minimo sforzo in moltissime cose.
Proverò a spiegarvi le cose con un esempio: immaginate che qualcuno vi chieda di cucinare una torta. Se siete dei cuochi farete un lavoro stupendo, se siete incapaci a cucinare, o v’iscrivete a un corso di cucina o la comprate fatta, ma io NO! Farei la panna montata, la spolvererei con cacao amaro e mi presenterei con qualcosa di diverso, chiedendo scusa per non aver trovato il lievito ed elogiandomi per la capacità di aver sopperito con tanta creatività alla situazione difficile. Vi garantisco che novantanove su cento, la cosa funziona.

Arrivò il momento di cominciare anche senza un piano preciso. È che ero stufo di stare a casa a fare da soprammobile cattura-polvere.
Pubblicai un annuncio su un settimanale locale abbastanza letto che faceva:
“Banda degli specchi rotti” offre aiuto per casi bizzarri in cui nessuno vi darebbe credito. Chiamate a tutte le ore il numero 310 4875463. Prezzi modici.
L’idea di puntare sui casi bizzarri mi venne in mente mentre ero sul cesso e leggevo le istruzioni di montaggio di uno stuzzicadenti elettrico, che mi era stato regalato da un amico di penna giapponese.
Sfogliando le incomprensibili e noiosissime istruzioni, la mentre si rifugiò nei ricordi di molti casi reali ai confini della realtà: lo sapete che nel Regno Unito si è scoperto che le pillole di camomilla, diluite nell’acqua, creano una pozione magica in grado di far rinvigorire gli alberi di Natale? Oppure che un pappagallo, abbaiando come un cane, ha messo in fuga un ladro?
È il caso che mi spieghi meglio, perché salvo che non siate depressi e sognatori come me non troverete il nesso tra queste notizie e ciò che voglio realmente fare. Quello che bramo è vendicarmi della società con ciò che essa ha prodotto è che rifiuta: me! Le mie assistenti! E i casi disperati che si rifiuta di difendere!
Dubitai della mia sanità mentale, lo ammetto. Volli uno psicologo col quale potermi confrontare, un compagno d’avventure maschio che comprendesse e condividesse con me rutti e scoregge. E poi ci stava proprio bene un dottore della mente nella mia squadra.
Ebbi a disposizione tutta la giornata per cercarlo, perché il telefono dei casi bizzarri (aveva la forma di un canguro, era costato niente e aveva una suoneria potentissima! Cosa potevo volere di più!) restò muto. In realtà non era molto logico cercare altri collaboratori mentre la mia attività non decollava, ma io ho sempre odiato ragionare.
Chiamai il primo nome che mi capitò sott’occhio nelle pagine gialle. Gli spiegai la mia idea e presi appuntamento per l’indomani, verso le dieci del mattino. Fui felice: avevo trovato un’altra persona che credeva in me.

Mi vestii con la cravatta dei Simpson e andai all’appuntamento tutto eccitato. Volevo fare una buona impressione.
La sala d’attesa dello studio era stupenda: c’erano un casino di quadri raffiguranti personaggi di cartoni animati e un cartello con su scritto: UNA PERSONA SU DIECI VA DALLO PSICOLOGO. È NORMALE.
Riflettei su quel dato. Ogni volta che sono stato al cinema, o a teatro, avevo decine, o addirittura centinaia di schizofrenici furiosi seduti accanto: era una fortuna che fossi ancora vivo. Oppure, tra le dieci ragazze che conosco… brrr, ho i brividi al solo pensiero.
Lo psicologo mi chiamò:
«Il signor Tomeo?»
«Sono io.»
«Prego, si accomodi».
Mi sedetti sul divanetto e cominciai a spiegare la mia idea di creare una squadra investigativa dell’assurdo, per dimostrare al mondo che io c’ero e che potevo essere utile.
Livio (scoprii essere il nome dello psicologo) era molto gentile e interessato a ogni parola che io dicevo:
«Allora io dovrei evitare che le tue azioni non danneggino gli altri, giusto?»
Io gli risposi che era più o meno così e che gli avrei dato 1000euro per ogni caso in cui m’aiutava. A quel punto mi squillò il cellulare. Risposi.
«Pronto?»
«Salve, sono Francesca. Mia figlia è pazza, la prego, mi aiuti.»
Mi ero imbattuto nel primo caso. Detestavo già la voce squillante di quella donna, ma le dissi di calmarsi e:
«Chiamo gli altri e vengo subito da lei. Non si preoccupi, penseremo noi a sua figlia.» Tranquillizzata mamma Francesca, feci per uscire quando Livio m’afferrò per il braccio.
Lo guardai in viso: voleva che rimanessi, glielo lessi negli occhi. L’avevo impressionato. In soli dieci minuti avevo trovato il primo lavoro e un nuovo amico: era stata una giornata fantastica!
Gli dissi che dovevo proprio andare e che sarei tornato quando possibile per trovare un accordo definitivo. Mi liberai dalla sua presa con una mossa di kung fu e salutandolo vidi l’espressione perplessa che aveva. Volli incoraggiarlo: «Penso che andremo d’accordo. È già scritto.» Mi sono sempre vantato di capire le persone.
Livio andò dalla segretaria e le chiese l’indirizzo dello strano individuo con cui aveva appena parlato. L’avevo impressionato. Ottenne il mio cognome e scoprì dove abitavo.
Chiamai gli elementi della squadra. Arcadia rispose al primo squillo, le gemelle si fecero desiderare un po’ di più.

Paola soffriva la macchina: sedeva al posto della suocera, o della morte, o accanto a me. Dietro stavano Arcadia e Chicca.
Decisi subito di far loro uno scherzo.
Paola aveva jeans e maglietta color verde pastello. La trovavo sexy, davvero.
Le tastai una coscia. Lei s’innervosì e mi tirò uno schiaffo, che io parai prontamente: tutto calcolato.
Guardai lo specchietto: Arcadia si stava tenendo la guancia. Chicca aveva avuto la stessa reazione della sorella e d’istinto aveva schiaffeggiato Arcadia, che non capiva. Mi misi a ridere e quando le risate cessarono, esclamai:
«Fantastico, fantastico!»
Paola mi rimproverò:
«Guarda che anche se hai in mano quelle informazioni… ti ammazzo se fai un altro gesto simile.»
Sì, Sì. Tra un riso e un altro le diedi ragione.

Francesca vagava per la casa, come a cercare un indizio misterioso. La cucina era vuota, senza più voci, occupata solo da poche mosche. Il cielo si adombrava di cupe nuvole, che parevano minacciare chi in quella casa tormentava la figlia con le sue manie. Dal fondo buio del bagno apparve Sofia, la figlia:
«Ti sei calmata, mamma?»
«Io voglio solo il tuo bene!»
E lo vuoi in questo modo?
Francesca era molto superstiziosa. Si era convinta che il 17 portava sfiga e voleva che Mario, il ragazzo di sua figlia, non avesse nessuna caratteristica che riportasse a questo numero.
Durante una cena organizzata con astuzia, controllò che Mario non avesse il diciassette di piede (scontato); non avesse diciassette nei (già meno scontato e più complicato da verificare); non avesse diciassette capelli o diciassette di quoziente intellettivo… … … .
Il problema sopraggiunse quando Francesca fece per controllargli "l'attrezzo". Le dita incavatici di vecchiezza scavavano giù, giù, nell’inguine villoso di lui, quando Mario imbarazzato si divincolò.
Gli occhi di Sofia, a stento, emergevano dalla cupezza del suo viso: piena d’odio caricò la mano e tirò uno schiaffo alla madre.
«Che cazzo ti salta in mente?» Anche se non era stata abituata a dire parolacce e anzi, le dava fastidio sentirle, questa se la godette pienamente.
Francesca si accarezzò la guancia e pianse. Il moccolo gocciante le cadde sulla mano che stringeva la coscia, impiastricciandola. Non capì più nulla, mentre la figlia continuava a «sputargli addosso» tutto l’orrore e l’odio, accumulato in 26 anni.

Un portone di legno mezzo marcio immetteva in uno dei giardini più curati che abbia mai visto. Sembrava di stare dentro una fiaba di Tim Burton, ma senza l’atmosfera gotica che contraddistingue il regista.
Arcadia mi guardò strafottente:
«Vedi di comportarti d’adulto, almeno per cinque minuti.»
Io le chiesi di prestarmi lo specchietto del trucco, poi rubai anche quello di Chicca e Paola. Stavo completando il rituale che mi era appena passato per la testa, quando Paola mi chiese: «Che cos’è questa puzza?».
Mi vergognavo a dirle che per colpa del kebab che avevo appena mangiato, le mie scoregge resuscitavano anche i morti, così inventai l’improbabile scusa che le vecchie abitazioni spesso hanno impianti fognari fuori norma, che possono causare questi inconvenienti: avrei dovuto fare l’attore, perché ci cascò.
Arcadia intervenne:
«Secondo me è tutta una sua fantasia.»
«La mia fantasia non è così grande.» Ribadii.
Innervosito, scagliai i tre specchietti a terra e li pestai violentemente, sino a che il vetro di ognuno fu spappolato in mille pezzetti. Un po’ più calmo, presi il fermo-sterzo dell’auto e fracassai lo specchietto destro dell’Opel Agila. (Comprai quell’auto dopo aver assaporato il suo slogan pubblicitario: «Prima… Ha Ha, poi… hahaaa!» Era un’auto esattamente come me, che non è capita da chi si sofferma alla prima impressione.)
Nell’inquietudine pensai di picchiare qualcuno, ma ciò andava contro la mia filosofia: io sognavo che il mondo vedesse che la pazzia è l’unica via bella della vita, e fracassare un’auto per divertirsi è bello, fracassare la faccia di qualcuno, invece, è tutta un’altra cosa.
Sorrisi e urlai:
«Sette anni di sfiga, ma almeno resteremo in vita!»
Avevo appena inventato lo slogan della «banda degli specchi rotti.» Suonava proprio bene, ero tutto eccitato: visto la possibilità d’incontrare persone pericolose disposte a ucciderci per i loro interessi, questo piccolo rituale ci avrebbe portato sfiga, è vero, ma ci avrebbe di conseguenza garantito l’immortalità.
Chicca era delusa, forse ci teneva a quello specchietto.
L’accarezzai e le assicurai che presto se ne sarebbe comprato uno più bello: visto la bellezza della villa, avrei sparato una parcella al di fuori di ogni immaginazione. Avrei guadagnato in un giorno più di quando mio padre guadagnò in tutta la sua vita.

Io amo tutto ciò che riguarda la criminalità e la devianza. Lo studioso che preferisco è Merton, che nel 1968 affermò:
«Ogni qualvolta vi sia un’accentuazione del valore del successo – si tratti di successo scientifico, di accumulazione di ricchezza o, con un po’ d’immaginazione, delle conquiste di un Don Giovanni, - si verificherà un fenomeno di una diminuita conformità alle norme istituzionali che stabiliscono quale comportamento sia appropriato per raggiungere quella particolare forma di successo e, in misura maggiore, cosa accadrà a quelli che si trovano socialmente svantaggiati per affrontare la competizione. La causa, quindi, che produce una tensione in direzione dell’anomia, è il conflitto che s’instaura fra le mete culturali e la possibilità di usare i mezzi istituzionali, qualunque sia il carattere delle mete.»Visto che è un concetto complicato, che ho faticato io stesso a capire, proverò a rendervelo più comprensibile con un esempio:
Poniamo che nella società in cui vivete, avere una cuffia da doccia con sopra raffigurata una gigantesca torta di compleanno che si mangia il festeggiato, sia il sogno ultimo d’ogni ragazzo diciottenne. (Io stesso ne possiedi 2 :D ). Ora, le classi più povere che non se la potranno permettere, avranno un comportamento anomico, cioè devieranno le regole normali per raggiungere il fine. (Ad esempio ruberanno una delle mie due cuffie :D ).
Io credo che questo ragionamento, per quanto semplice, sia geniale. Quando da piccolo volevo le Galatine, ma i miei genitori non volevano comprarmele, perché sostenevano che facevano male al pancino, avrei tranquillamente potuto rubarle :D .

Fummo introdotti nell’appartamento da un maggiordomo, che dopo averci sospettosamente inquadrato indicò la stanza da raggiungere.
Francesca ci apparve davanti. Era curva, snella. Il volto, dalle orbite grigiastre, sembrava anticipare l’interiorità malsana della donna, ma tant’è, ci pagava… :
«La banda degli specchi rotti, presumo.»
«La signora che mi ha telefonato.» Risposi prontamente io.
Le mie compagne d’avventura mi guardarono come se l’umorismo appena espresso fosse fuori luogo, ma me ne infischiai e continuai:
«Ha davvero un bell’aspetto. Cosa può preoccupare una donna curata come lei?»
Francesca mi osservò come il suo maggiordomo. Sperai che fosse strabica, perché dalla direzione dello sguardo sembrava che mi stesse fissando il pacco.
Raccontò la storia della figlia e dei dubbi che aveva riguardo alla relazione con Mario.
La prima cosa che mi venne in mente fu spogliarmi davanti a lei e chiederle la mano della figlia. Io potevo: finalmente essere nella norma europea sarebbe servito a qualcosa.
«Volete del caffè?» Ci chiese dolcemente.
Paola mi prese da parte e sentenziò:
«Perché non la sbattiamo in un manicomio, quella maiala?» Guardai Chicca in cerca di conforto e quando mi accorsi del madornale errore esclamai come solo Homer Simpson sa fare:
«Do!»
Francesca si atterrì:
«Lo faccio… voglio il suo bene…», farfugliò: «…voglio che il matrimonio duri… poveretta!»
Alcuni faticheranno a credere alla veridicità della storia, ma io v’invito a riflettere su quel sito internet in Germania dove c’era scritto: «Uomini disposti – a pagamento, se ben ricordo – a farsi mangiare i genitali» e sui molti contatti che risposero positivamente. I genitali di uno sventurato furono effettivamente mangiati e la notizia fu documentata da importanti quotidiani. Ora, la mia storia probabilmente non sarà mai pubblicata, ma è altrettanto vera.
Ricordandomi di un episodio accadutomi in treno, feci un test d’intelligenza a Francesca: «Allora, un vecchietto, descrivendo la fabula di un libro dice che un killer dell’est era famoso per commettere omicidi perfetti, ma dopo dodici anni di “lavoro” commise un errore. Allora si accorse che anche un bancomat può parlare!» Cercai una torcia per puntarla in faccia a Francesca, ma non la trovai. M’accontentai di modificare il tono della voce e rendere più cupo lo sguardo: «Secondo lei, il libro in questione è: A) Di fantascienza; B)Un giallo; C) Un horror; D) Un polpettone drammatico.»
Con le mani nascoste dalle tasche, Francesca si alzò senza dire niente e andò in cucina:
«Vodka? Signori miei?»
«Con un po’ di limonata. E anche un bicchiere di limoncello» Risposi.
I ricchi sono le persone più strane del mondo: hanno il tempo d’inventarsi e sperimentare comportamenti inspiegabili ed ermetici. Avrei dovuto frequentarli più spesso. Lei, la padrona di casa studiosamente stuzzicata, al posto d’incazzarsi mi offrì da bere. Sentii la mancanza di Livio. Lui sarebbe stato in grado di spiegare…
«Allora, come ti sembra, sto andando bene?» Chiesi ad Arcadia.
«Come tuo solito.» Rispose gelida.
«Lo prenderò per un complimento.»
«Lo è, convincitene.» Replicò.
«Posso dire una cosa?» Intervenne Chicca. «Per me bisogna aiutare la figlia, questa qui è pazza, e guarda la tristezza nei suoi occhi.» Osservai la foto che mi porse. Sofia era bellissima, avrei potuto tranquillamente sposarla e farci diciassette bambini.
«Però è Francesca che ci paga.» Ricordai.
«Ti do io i soldi che hai contrattato, però aiutiamo Sofia.» Replicò Chicca.
«Tu non hai 100.000 dollari, però se accettassi di diventare la mia donna… pensi di valere 100.000 dollari?»
Chicca mi tirò uno schiaffo. Questa volta non ero pronto e mi centrò in pieno. Paola tirò uno schiaffo a un vaso che si sfracellò: «E poi siamo in Italia, scemo!» Aggiunse.

Livio scriveva racconti in cui rifletteva sul senso della vita. Era molto di più di un passatempo: inventava metafore per mettere nero su bianco emozioni, sogni.
Cominciò una sera d’Ottobre, quando conobbe Penelope durante una seduta di cura. Parlarono tutto il tempo di Santi, e più in particolare del rapporto che Penelope aveva con Santa Lucia. Dopo la morte della sorella, la Santa appariva di notte per tenerle compagnia, durante le lunghe notti. Penelope, più d’una volta, si svegliò di scatto e fissando la parete sperò di diventare lei stessa Santa Lucia, così cominciò a suonare i campanelli del condominio per offrire i suoi servigi miracolosi. Fu denunciata e obbligata a seguire una cura… così arrivò allo studio di Livio che continuava a fissarla con gli occhi spalancati, cercando di capire cosa lo attirasse tanto in quella donna.
Facendosi un breve esame interiore, decise che le ricordava la nonna e più precisamente il profumo di biscotti appena cotti al forno che l’accoglieva dopo il faticoso allenamento in palestra.
Il giorno dopo, Livio confidò alla carta di essersi innamorato. Poco dopo lo confessò anche a Penelope, aumentando di 1 il suo score di donne conquistate.
Fallocrazia: era l’aggettivo con cui descriveva il principio per il quale l’uomo tende al comando e alla conquista (donne comprese).Nonostante il credo, Livio, dopo qualche giorno, rileggendo i suoi scritti, capì che era arrivato il momento di mettere la testa a posto: non che prima organizzasse feste tutte le sere, ma dopo la fatidica notte diventò più “sereno”.
Un bel giorno però, dopo tre anni durante i quali, tra una pagina e l’altra, c’erano sempre riferimenti a Penelope, qualcosa cambiò.
Il nome ricorrente uscito dalla penna in quel maledetto e apparentemente tranquillo pomeriggio fu Roberto Tomeo. In realtà, anche se ancora non lo sapeva, Roberto Tomeo sarebbe diventato l’ossessione numero 1 per il resto della sua vita.
La sera, mentre c’erano i cannelloni fumanti nel piatto, Livio corse in cortile all’improvviso: doveva curare Roberto. Come se un proiettile sparato da distanza ravvicinata nella sua testa gli avesse impresso nel cervello quest’idea. Curare Roberto, o il mondo sarebbe stato in grave pericolo. C’era il rischio di qualcosa… di proporzioni gigantesche.

Lasciai calmare Chicca, poi misi in atto il diabolico piano costruito dopo secondi e secondi di pensiero intensivo. Presi il limoncello che gentilmente Francesca mi portò, e poi cominciai a insultarla:
«Sa che da come si muove sembra una mignotta?»
Arcadia desiderò la mia morte, ma tant’è, mi faceva ridere quando mi guardava a quel modo, così le sorrisi e continuai a mettere in atto il piano.
«Francesca… mi dà l’idea di una donna… immortale, come San Francesco. Dal suo aspetto penso che sia meglio chiamarla Mummia d’ora in poi.»
Le gemelle mi accusarono di dar sfogo di cattiva educazione e mi consigliarono di chiedere scusa alla signora, anzi, cominciarono già a scusarsi per conto mio, colpevolizzando il povero limoncello di essere la causa del mio linguaggio. Volta gabbana! Dico io, il limoncello colpevole? Nossignori, dare a Francesca della “vecchia vacca” faceva parte di una geniale strategia. Mi alzai in piedi e barcollando un pochetto, come se improvvisamente i piedi mi fossero diventati tondi, lo dissi:
«Lei è una vecchia vacca.» E finalmente mi versai un altro bicchiere di limoncello. Sarebbe stato bello vivere in quella casa, così fornita di alcolici.
Guardai le gemelle, orgoglioso. E bevvi.
Arcadia, forse in imbarazzo, mi disse di calmarmi togliendomi il bicchiere, con un gesto come a voler punire un bimbo. Urlai.
Francesca, sfigurata dal pallore, con le labbra tremanti bestemmiò e chiamò il maggiordomo orinandogli di accompagnarci fuori, ma io non ero d’accordo.
Arcadia e le altre si erano già alzate, quando misi fuori combattimento il maggiordomo con due mosse di Wing Chun, un‘arte marziale cinese da me praticata. Imparai quelle mosse quando avevo solo 24 anni. In effetti, se il mio insegnante leggesse il racconto sin qui non penso che approverebbe l’uso che sto facendo dei suoi insegnamenti e probabilmente mi verrebbe a cercare per eliminarmi, ma se andasse avanti a leggere… chissà.
Vi ho annunciato che misi fuori combattimento il maggiordomo in due mosse, ora vi spiego il perché: con la prima mossa gli stavo stringendo la gola, quando con la mano gli sfiorai le labbra umide. Questo mi fece venire in mente un episodio bruttissimo:

Stavo andando a Nizza (Nice ville) in treno a trovare Angela, la mia tanghera, quando il signore che mi sedeva accanto cominciò a massaggiarmi i polpacci. Vedevo la pallottola del muscolo agitarsi come se avesse la sindrome di Parkinson. Sì che io sono lo scrittore in vita migliore del mondo e che gli avevo appena letto uno dei miei cavalli di battaglia per alleggerire il viaggio, ma come reazione mi sembrava un po’ esagerata. I polpacci, poi, perché?
Raccontai in seguito l’episodio e due saggi amici che mi aprirono gli occhi: essendo io di bell’aspetto fui vittima di un corteggiamento.

Il maggiordomo mi ricordò le labbra umide e tremolanti dell’uomo, mentre procedeva a solleticarmi il polpaccio. Panico.
La presa di strangolamento fallì, allora pensai a qualche mossa meno intima. Dovevo fare in fretta, anche perché dopo che sputacchiò e si massaggiò il collo, il maggiordomo si stava dirigendo nervoso verso me. I calci rotanti alla Chuck Norris non li so fare. Volevo optare per un calcio alle costole, ma se per caso la scarpa da ginnastica slacciata mi fosse sfuggita e avessi perso l’equilibrio, avrei potuto appoggiare il mio piede sull’inguine dell’avversario.
«Sei una babbiona.» Urlai a Francesca.
La gamba andò da sola e sferrai un calcio alla giuntura destra del povero maggiordomo che cadendo, finì addosso a un mobile e urtò la testa. Si rialzò a fatica, e scappò via, verso il telefono.
Le gemelle si misero a piangere: erano sempre state delle persone sensibili. Francesca invece cominciava a essere visibilmente spaventata.
«Presto Arcadia, trova Sofia e tienile un po’ di compagnia, non deve venire qui in sala, capito?! O domani il tuo segreto finirà sui telegiornali e sai che ho amici che possono farlo.»
Arcadia eseguì l’ordine. Chissà se si accorse che volevo solo levarmela di dosso. Odiavo quando stava li ferma a giudicare! E poi era palese che Sofia era scappata da casa, altrimenti la madre col cavolo c’avrebbe chiamato.

Cretina, caccola di brontosauro, cosce sformate, gambe a X-y e pure z, pettegola, pessima madre, gallina deforme, stupida, idiota, psicopatica è dir poco, machiavellica bastarda. E in mezzo a queste non poté mancare una citazione colta: quando Francesca mi disse che avevo infranto i suoi diritti e che sarei finito in galera per il resto della mia vita, io risposi:
«Fissi un foglio bianco, sono quelli i suoi diritti!»

Tutto soddisfatto le chiesi:
«Quante volte è stata insultata oggi?»
Francesca non rispose: probabilmente pensava che aprire bocca con me era inutile, allora le suggerii la risposta: «Bene, lei oggi è stata insultata 17 volte. Una da Paola, mia stimata collega, che l’ha definita maiala e sedici da me. Adesso, lei non ci crederà, ma sa che porta una sfiga pazzesca essere insultata 17 volte?» Le sussurrai all’orecchio: «Ho sentito spessissimo dire che molte persone sono morte d’infarto per questo. E che i loro figli sono caduti in disgrazia. L’unica sua salvezza, forse, e farsi insultare da me ancora una volta, ma io non lo farò, visto che non ne ho voglia.» «Chicca, Paola, Arcadia… andiamo!»
Le donne mi seguirono senza batter ciglio e quel che più conta, anche Francesca mi seguì.
S’inginocchiò ai miei piedi, pregandomi d’insultarla… ancora una volta.

«La polizia!» Esclamò Arcadia.
«Deve averla chiamata il maggiordomo.» Lo intuii perché quell’energumeno aveva preso un po’ di coraggio e mi stava fissando, sorridente. Nello stesso tempo che uno impiegherebbe a dire «Mi viene da vomitare perché ieri ho bevuto troppo», ero già in manette, scortato dagli agenti.
Francesca lo prese a schiaffi e sbraitò: «Stupido, che cosa hai fatto, mi hai condannato a morte, ci hai condannato tutti a morte!» Poi s’inginocchiò ai miei piedi: «Vi prego lasciatelo, è stata legittima difesa, è stato il pinguino ad aggredirlo. Presi la palla al balzo: «E’ vero agente, io mi sono solo difeso. Però non sporgo nessuna denuncia, sia chiaro. Se volete possiamo chiuderla qui.»
«Adesso viene comunque alla centrale.» Minacciò l’agente capo, ma Francesca gli mise un Rolex in mano e cambiò idea.
È incredibile come sia facile far ragionare le persone. L’attività degli “specchi rotti” avrà sicuramente un futuro grandioso.
«Bene, Francesca, lascia in pace Sofia?» La intimai.
Ebbi solo un farfugliamento come risposta.
Mi diressi verso le gemelle. Erano scosse, come se non avessero mai visto due persone azzuffarsi a quel modo. Che anime candide che erano: mi commuovo al solo pensiero.
«Sono un superbo, un furioso, un prepotente. Non sono sempre stato così, fino ad oggi avevo attaccato lite una o due volte, solo quando ero esasperato, e quel che è peggio, avevo sempre perso.» Le gemelle cacciarono fuori quattro occhiacci come se avessi chiesto loro di mangiare il vetro. Continuai: «Ed è quello che avete sentito anche voi, in fondo. Avete dato a Francesca della vecchia maiala, io ho solo fatto le cose con un po’ più di stile.» Vidi un barlume di lucentezza negli occhi di Chicca, e capii che mi avevano perdonato, un poco.
M’alzai per chiudere la trattativa, quando Paola precisò: «Il maggiordomo non c’entra niente, però. E tu l’hai picchiato.»
Aveva ragione naturalmente, ma se fossimo stati cacciati da casa i miei diciassette insulti se ne sarebbero andati al diavolo. Mi tornò il mal di pancia e lanciai un flato silenzioso che fece sembrare la stanza un enorme cesso appena usato.
Fischiettando, tornai da Francesca. Ponderando bene le parole:
«No, dico… può darsi che lei faccia tutto questo per il bene di Sofia, però… adesso è scappata, vero?» E le accarezzai la guancia. La padrona della villa ebbe un sussulto. «Non si preoccupi, non le farò diciassette…»
«Prima erano solo le fogne vero…?» M’interruppe Arcadia.
Feci finta di non capire è continuai a intortare Francesca:
«Sa quante volte Sofia, scappando da lei, percorrerà diciassette chilometri? Probabilmente anche se in erezione il ragazzo… Mario se ben ricordo… misurasse… la cifra, Sofia giocherebbe con quella cifra pochissime volte dopo aver fatto un bambino. Faccia pace con lei e le dica che vuole diventare nonna.» Arcadia ghignava come una forsennata.
«Le presterò un libro di un famoso «semiotico» se vuole, che spiega come noi per evitare alcuni segni, il diciassette… del “coso” del ragazzo, di sua figlia ad esempio, costringiamo le persone a un cammino colmo di tali segni.» Cominciai a respirare rumorosamente.
Mi venne in mente Jack Nicholson mentre in Batman enunciava a Bob che era il numero 1. Con ghigno mefistofelico, scuotendo Francesca le dissi: «Lei… lei è intelligente. Ho espresso un concetto complicato, ma lei… è la prima cliente… la numero 1, capisce? Io… io mi fido di lei.»
C’erano due problemi: avevo inventato un libro inesistente e mi era venuta fame.
E forse il maggiordomo aveva ricevuto un trattamento ingiusto.
«E non tratti così il maggiordomo, le vuole bene. Anzi, gli aumenti la paga. E si ricordi che ci deve cinquanta mila euro per il servizio. Il libro promesso lo riceverà per posta, in omaggio. E sia felice!» Aggiunsi, prima di andarmene a prendere la pizza. Che buona la pizza!

Viaggio verso la pizzeria. Un vento tiepido cacciava le nubi grigie sopra di noi. Speravo succedesse una roba simile anche nell’animo delle gemelle, perché mi rendeva triste vederle così… anche se ammetterlo era fuori discussione. Tentai di concentrarmi su altro, come il vestito a scacchiera che incorniciava il seno di Arcadia, ma dopo che rischiai una dozzina d’incidenti, cambiai. Livio, chissà dove si era cacciato, si sarebbe ancora unito a noi? Pensavo.[/i]

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