Omelie di Monsignor Riboldi - Anno Liturgico 2005/2006

Omelie di Monsignor Antonio Riboldi e altri commenti alla Parola, a cura di miriam bolfissimo
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Omelia del giorno 23 Luglio 2006

Messaggio da Redazione » ven lug 21, 2006 12:31 pm

Omelia del giorno 23 Luglio 2006

XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Venite in disparte e riposatevi


Sono giorni questi in cui tanti partono per un momento di riposo o vacanze. Si vuole lasciare alle spalle una vita il più delle volte divenuta una corsa senza più momenti di silenzio o di distensione.
C’è nel Vangelo un racconto del “riposo” momentaneo di Gesù, quando si ferma a Betania, presso una famiglia di amici per riposare un poco.
Lo accolgono le due sorelle Marta e Maria. “Marta si mise subito a preparare per loro ed era molto affaccendata. Sua sorella invece, che si chiamava Maria, si era seduta ai piedi del Signore, e stava ad ascoltare quello che diceva.
Allora Marta si fece avanti e disse: “Signore non vedi che mia sorella mi ha lasciata sola a servirTi? Dille di aiutarmi”.
Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi per troppe cose! Una cosa sola è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore e nessuno gliela porterà via” (Lc l0, 40-41) Con un esempio Gesù così descrive ciò che tante volte noi siamo: “affannati ed eccessivamente affaccendati, fino al punto da non saper più conoscere serenità e, quel che è peggio, quale è la parte migliore della nostra vita: quella cioè che davvero fa
bene: un bene che dà respiro all’anima e fa respirare chi incontriamo.
Siamo tutti “tentati” di farci prendere, il cuore e l’anima, da tante preoccupazioni, che poi si risolvono in bolle di sapone. che però lasciano il pericoloso segno del vuoto dell’anima.
Se c’è una cosa che non riesco ad accettare e mi fa davvero soffrire è sentire tanti che a volte mi credono “impegnato al punto da non avere più tempo per me, per gli altri, per Dio stesso”.
E’ una convinzione che vorrei i miei amici e quanti mi conoscono non avessero mai.
So distinguere gli impegni, affrontarli con serenità, con un occhio sempre attento al solo bene della vita che è l’amore di Dio e i1 bene dei miei fratelli che si accostano.
Tutti è vero, siamo chiamati all’impegno responsabile della propria vita che è essenzialmente bella quando è fare la volontà di Dio, che non toglie mai la serenità.
Quello che invece fa male è farsi prendere dall’affanno che davvero distrugge la serenità e rischia di mandare in frantumi la serenità di chi ci accosta per averla. Racconta il Vangelo di oggi il ritorno degli apostoli dalla missione, che aveva loro dato, di andare per tutti i villaggi, senza borsa, o sandali o bastoni, o altro, ma ricchi solo della novità del Vangelo.
Immagino l’accavallarsi dei racconti pieni di meraviglie per quello che avevano sperimentato, nella missione, di villaggio in villaggio.
E’ grande la tenerezza di Gesù che li ascolta e li invita al riposo. “In quel tempo gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco. Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono a correre là a piedi e li precedettero.
Sbarcando vide molta folla e si commosse per loro, erano come pecore senza pastore e si mise a insegnare loro molte cose” (Mc 6,30-34).
E’ un piccolo racconto della vita di Gesù tra di noi, che suscita immensa commozione, per la sua delicatezza di anima, quella delicatezza che prima chiede un aiuto nella missione, poi accoglie con incredibile attenzione quello che certamente con enfasi raccontavano gli apostoli e, senza alcun commento, li invita a riposare un poco, “fuori dal chiasso del mondo e della vita”. E deve essere stata una esperienza di incredibile dolcezza quella degli apostoli nel vedere Gesù ascoltare “le grandi cose che Dio aveva operato in loro, docili al comando della missione”.
E sottolinea il Vangelo come erano
talmente “mangiati” dalla folla che accorreva a Gesù, “che non avevano neppure il tempo per mangiare”.
Tutto questo commuove Gesù, che non si lascia certamente prendere da una stupida ricerca di gloria davanti a quelle folle che lo seguivano, ma sfugge Lui e mette al riparo i suoi con quel “riposatevi un poco in disparte”.
Come è diversa la nostra vita, troppo simile a quella di Marta, piena di affanni e preoccupazioni, che forse pensano il riposo, anche durante il giorno, come “una bestemmia all’impegno”. MA c’è gente, anche importante, che sa “ogni giorno ritirarsi in disparte” e fare riposare l’anima per poi entrare nell’impegno con serenità ed equilibrio.
Ho un ricordo che ha come segnato la mia vita. Dopo il terremoto del Belice, quando si costruivano le prime baracche e si cercava di strappare dalle tende insopportabili la gente, costruita la prima cappella in legno, sollecitai l’allora presidente del Consiglio On.le Moro a farci visita per rendersi conto di persona del dramma della Valle del Belice dopo il terremoto e come erano ben poche le speranze. Accettò di venire e venne, ricordo, l’8 maggio, giorno della supplica alla Madonna di Pompei. Il Prefetto di Palermo, che lo accompagnava volle donarci per l’occasione un grande quadro della Madonna di Pompei.
Quando alle ore 11 iniziò l’ora di adorazione, che allora precedeva la supplica, l’On.le Moro volle essere partecipe della adorazione. Lo ricordo inginocchiato in prima fila, per una intera ora, con un raccoglimento che impressionò l’assemblea. Capimmo che in quel momento si faceva interprete dei nostri dolori e delle nostre speranze. Con noi recitò la supplica e quando uscimmo dalla cappella volle visitare le baracche.
Non fece alcun discorso, ma era chiaro che il Belice era entrato nei suoi programmi. E fu veramente così.
Qualche anno dopo fu lui, dopo avere ricevuto i bambini in visita alle grandi Autorità a Roma, a dare voce alla ricostruzione con un decreto che mise fine alla disperazione ed aprì immediatamente le porte alla ricostruzione. Non dimenticherò mai quell’ora di preghiera, davanti al Santissimo, di un uomo di Governo.
Un esempio da proporre oggi a quanti hanno nelle mani le sorti del nostro paese che ha bisogno di pace e di speranza. Ha bisogno di “uomini di buona volontà”, che sappiano farsi carico delle nostre attese.
L’augurio che faccio a quanti di noi hanno il dono di poter avere un tempo di riposo, è quello di trovare tempo per mettere ordine nella vita, ossia saper discernere ciò che di bello, come la fede, la bontà, la voglia di santità, è rimasto in noi e quanta dannosa polvere invece si è posata fino a nascondere il “bello dell’anima”.
Bisognerebbe avere quell’amore al silenzio, che si riempie della voce di Dio, e che si trova nella solitudine. Così la chiamava S. Agostino: “beata solitudo, sola beatitudo”, ossia beata la solitudine, sola beatitudine. E’ quella solitudine di cui vediamo ama circondarsi il Santo Padre, quando va in vacanza nella Valle d’Aosta. E così faceva il grande Giovanni Paolo II.
Il Vangelo di oggi concede poco tempo al riposo degli apostoli, in barca, sul lago. Perché “molti li videro partire e capirono e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e lo precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore e si mise a insegnare molte cose”.
Gesù oggi credo che, vivendo tra di noi, provi tanta compassione per innumerevoli poveri di cui poco ci si cura e che certamente non godono di vacanza, ma devono combattere giorno per giorno per una vita di sopravvivenza. Vede tanti ammalati che lottano per la vita e stentano a trovare compagnia in questo tempo.
Vede tanta gente che, anche se è in vacanza, soffre per una “solitudine” interiore che la fa sentire come straniera pur in mezzo a tanta gente.
A tutti questi và il mio pensiero e la mia preghiera, che vuole farsi vicina per essere conforto: una preghiera ed una amicizia che in qualche modo possa avverare le parole di Gesù: “Venite in disparte e riposatevi un poco”. Quanta gente ha davvero bisogno di trovare un pastore che si prenda cura di loro e tutti in qualche modo possiamo esserlo.
Amo la montagna e ogni anno sono ospite di una famiglia in Trentino vicino a Madonna di Campiglio.
Scelgo sempre la montagna perché, oltre al recupero della salute e delle forze, mi dà modo di sperimentare quella “beata solitudo” di cui parla S. Agostino e, nel silenzio, “guardarmi dentro”, cercando di rendere sereno il cielo della mia anima, in modo che veda il volto di Dio. Non solo, ma la montagna dà sempre occasione di incontrare persone che chiedono di essere ascoltate, accolte e di sentire che non è morta l’aria meravigliosa della amicizia. E’ un grande dono.
Ma un grazie speciale va a quanti, come volontari della carità, spendono il loro tempo di riposo, recandosi presso le missioni per dare una mano ai bisognosi. E sono tanti. Proprio in montagna un giorno incontrai una famiglia che dedicava il guadagno di un anno di lavoro per poter recarsi insieme presso una missione e lì fare dono di sé, dei risparmi, tornando poveri di risorse, ma ricchi della felicità che viene dall’amare.
Non rimane allora che dire a tutti voi, miei amici, “venite in disparte in compagnia di Gesù, sulla sua barca, fuori da tutto e con Lui, che è la vera salute dell’anima, riposatevi un poco”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Messaggio da Redazione » sab lug 29, 2006 12:14 pm

Omelia del giorno 30 Luglio 2006

XVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Una umanità che ha fame


C’è una realtà davanti a cui vorremmo chiudere gli occhi per non vedere, le orecchie per non sentire, è quella di milioni di fratelli e sorelle che in ogni parte della terra pare si rivolgano a noi per chiedere un pezzo di pane. E per pane intendiamo tutto quello che è vita: dalla possibilità di mangiare e bere, alla possibilità di esercitare il diritto dovere del lavoro e quindi conoscere la bellezza di una famiglia, ancora di più scoprire il vero senso della vita, perché tante volte si ha tutto e si “ha fame” della felicità, dell’amore.
E nessuno, davanti alla giustizia e a Dio può chiudere porte e finestre a questa moltitudine che ci interpella.
Chi di noi non ha incontrato un fratello o una sorella che tende la mano o bussa allo nostra porta per conoscere almeno la pietà?
E ancora di più, chi non ha incontrato fratelli, sorelle, amici magari, che non cercano il pane materiale, ma quel pane dell’anima che solo Dio può darci e dà tante volte attraverso la nostra bontà?
“Non chiedo nulla a nessuno, mi diceva un giorno una giovane, riesco a tirare avanti i miei giorni, anche se con tanta difficoltà. Non tutti nascono con la fortuna di avere tutto e non tutti hanno la possibilità di farti partecipare al bene che hanno: ma cerco chi mi ascolti e mi accolga e mi offra un pezzo di pane che è l’affetto, tante volte più necessario del pane fatto di farina. Ma come è difficile trovare queste persone. E la vera bontà è qui”.
Rovistando nei ricordi della mia vita, ci fu un lungo tempo in cui, dopo il terremoto, si era tutti costretti a vivere in anguste baracche che sembravano fatte per negare la speranza. Era difficile per me, loro padre, parlare di Pane del cielo. Ci provavo tante volte, recandomi frequentemente nelle loro baracche, dove si radunavano in attesa di parole di speranza. Facevo loro catechesi: parlavo dell’amore di Dio, della Provvidenza. Mi ascoltavano attenti. Ma alla fine, congedandosi, mi rivolgevano la domanda che era il “solo pane che credevano necessario”: “Ma quando si ricostruiranno le nostre case?” Capivo che quella povertà impediva di guardare in Alto.
Venne il momento della ricostruzione: sorsero le prime case e quindi sembrava avessero raggiunto il tutto della vita. Ma presto si rivelò che la casa non era il tutto. C’era un di più che andava oltre la casa, oltre questa nostra vita, ossia la gioia di Dio. Racconta Giovanni l’apostolo, nel Vangelo: “Gesù andò dall’altra parte del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e una grande folla lo seguiva vedendo i segni che faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli...Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da Lui e disse a Filippo: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?. Diceva questo per metterlo alla prova: egli infatti sapeva bene quello che stava per fare”. In soccorso alla povertà di Gesù e dei suoi discepoli viene Andrea con una frase che svela la povertà di tutto il mondo ieri, oggi e il poco che possiamo fare. “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma cos’è questo per tanta gente?” E Gesù disse: “Fateli sedere”. “C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto. Li raccolsero e riempirono dodici canestri, con i cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo! Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò sul monte, tutto solo” (Gv 6, 1-15).
Gesù non aveva voluto sottrarsi alla carità, che in quel momento gli suggeriva quella moltitudine che era accorsa per sentirlo, certamente per vedere i grandi segni di guarigione che operava, ma non andava oltre.
Lo cercavano forse per ragioni che stavano a cuore a Gesù, che non si sottraeva alla compassione della gente, ma non era “la ragione” del suo essere tra di loro. Dio va sempre oltre i segni di amore, che si fermano a questa vita: i suoi sono come l’invito a seguirLo oltre, dove non ci sarà più fame, il Cielo. E proprio partendo da questo prodigio, verrà il momento in cui farà il discorso stupendo, il discorso che “va oltre”, dicendo: “Io sono il pane della vita”. E’ allora che la mentalità dell’uomo, davvero terrena, sarà incapace a seguirLo e Lo abbandonerà. Il discorso della Eucarestia.
Come è uguale la gente di oggi e di sempre a quella folla, che forse vede in Dio solo uno che fa segni risolvendo problemi della terra, ma è incapace di accogliere il grande discorso della santità.
Certo è stata una meravigliosa lezione, che va bene per tutti noi, quello di preoccuparsi o di occuparsi dei “poveri”, ossia di una moltitudine che manca del necessario. La carità temporale è una realtà che continuamente bussa alla porta di tutti. Guai a fare finta di non vedere. Faremmo la figura del sacerdote e del levita che sulla strada che, da Gerusalemme conduce a Gerico, incontrano l’uomo semivivo, derubato, maltrattato e abbandonato. La morte di quel povero uomo, che poteva venire salvato dalla carità, sarebbe stata la condanna che Gesù pronuncerà nel giudizio universale. Occorre essere capaci di interrompere il ritmo della nostra quotidianità e fermarsi, scendere dalla nostra tranquillità, per riportare a vita il semivivo.
E di poveri che vivono sotto la soglia della sopravvivenza ce n’è dappertutto. Il mio pensiero corre, con il vostro, ai tanti che fuggono dai loro paesi, e cercano sicurezza tra di noi, ossia gli immigrati. E non sempre trovano accoglienza.
Quando ero parroco, d’estate, mi recavo a visitare i tanti nostri fratelli che cercavano lavoro e quindi sostentamento alle famiglie in Germania, Svizzera.
Stavo con loro per giorni, condividendo la misera provvisorietà, in attesa di riuscire a dare serenità ai loro cari. E quante volte più che di sdegno, mi sono sentito il cuore colmo di lacrime, nel vedere come venivano questi emigrati sopportati, usati, ma non considerati. E mai dimenticherò che un giorno di festa volendo seguirli in una serata presso un meraviglioso parco, mi vidi respinto con loro da un cartello che
diceva: “Vietato ai cani e agli italiani”. Se questa è civiltà...non certamente carità!
Che non succeda a nessuno lo stesso. Saremmo davvero lontani dall’esempio di Gesù che ebbe compassione dei cinquemila che erano accorsi a Lui e li sfamò.
Ma c’è un mondo di poveri di cuore, poveri di serenità, poveri di gioia. Una moltitudine che si sente sola, come non esistesse o non ci fosse posto nel cuore di chi è vicino. Vivono in un mondo popoloso come non esistessero e cercano disperatamente qualcuno che si accorga almeno che esistono e doni il pane del sorriso e della amicizia. E’ anche a questa moltitudine che Gesù ci invita a “dare da mangiare”.
Ripenso al cuore dei santi della carità, cominciando se volete da Madre Teresa di Calcutta. Sembrava avesse due braccia immense che sapevano accogliere tutti i poveri del mondo. Non aveva paura del come dare da mangiare. Sapeva che Dio riempiva i cesti. “Un giorno, mi raccontò, avevo bisogno a Calcutta di un medicinale che si poteva trovare solo in America. Non sapevo che fare. Il mattino aprendo la porta trovai un cesto pieno di tante cose e bene in vista, sopra tutte, vi era il medicinale che cercavo”. Se questo non è “collaborazione della bontà di Dio” con quella dell’uomo, non saprei proprio come definire Dio amore.
E Dio lo fa sempre quando si incontra con la povertà di chi vorrebbe donare. Manda sempre chi sa riempire le mani per riempire mani di altri. Come sarebbe bello fare sentire che Dio è così vicino.
Vorrei dirlo in questo momento, a chi si sente “povero di cuore”, che occorre alzare gli occhi al Padre e incontreremo anche colui di cui Dio si serve per comunicare quella gioia che il pane del mondo non sa dare.
Scriveva Quoist: “Non ci siamo ancora adeguati al modo di agire del Padre. E’ umiliante avere continuamente bisogno degli altri, è esaltante scoprire che gli altri hanno bisogno di noi. Non dobbiamo metterci in condizione di chi possiede dei beni, e “si occupa” di chi non ne ha, ma di chi desidera spartire da pari a pari. Non dobbiamo essere sempre coloro di cui si ha sempre bisogno, ma coloro che a volte hanno bisogno degli altri. Non dobbiamo essere coloro che danno sempre senza tregua, ma coloro che guidano e inducono altri a donare. Quando aiutiamo qualcuno a superarsi, lo facciamo diventare maggiormente uomo e persona, figlio libero e generoso come lo desidera il Padre.
Cosa possiamo dare di più bello all’uomo che “l’essere uomo?”
Signore aiutaci a prodigarci di meno, ma non ad amare di meno. Aiutaci a rendere grandi gli altri, mentre noi diventeremo piccoli, a dare di meno e a chiedere a loro di più, a renderli atti a salvare invece che a salvarli. Allora, Signore, noi saremo non benefattori, non dei padri, ma dei fratelli per i nostri fratelli” (Appuntamento con Cristo).

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 13 Agosto 2006

Messaggio da Redazione » gio ago 10, 2006 12:17 pm

Omelia del giorno 13 Agosto 2006

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Perché mi cercate?


Questa volta Gesù pone una domanda non solo a quella folla che lo cerca, ma la pone a ciascuno di noi, se anche noi siamo oggi uno che “cerca Gesù”.
E’ una domanda che mette in discussione la nostra fede e la nostra relazione con Dio.
E’ un poco come quando uno di noi incontra uno in cui ha fiducia e vorrebbe vivere all’ombra di quella fiducia, per non sentirsi solo, e chiede: “Dimmi chi sono io per te?”
E’ una domanda difficile anche per noi e tra di noi.
Facile incontrare persone che dicono di essere “amici”, ma la loro amicizia è superficiale ed è come appoggiare la fiducia su una canna sbattuta dal vento, ossia fragile, se non vuota di valori da comunicare.
Così racconta l’episodio Giovanni l’apostolo: “In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là, e nemmeno i suoi discepoli (dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci), salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao, alla ricerca di Gesù.
Trovatolo al di là del mare gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”
Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perchè avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il pane che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perchè su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”.
Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” Rispose Gesù: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che Egli ha mandato”
(Gv. 6,24-35)
Mettiamoci nei panni per un momento di quella folla che, accortasi della fuga di Gesù “perché lo volevano fare re”, non ha alcuna intenzione di perderLo. Si impossessa delle barche che erano a riva e non si dà pace fino a che non Lo trova.
Ma cosa attendeva quella folla da Gesù? Perchè Lo cercavano?
La risposta la dà Gesù stesso: “In verità, in verità vi
dico: voi mi cercate non perchè avete visto dei segni, ma perchè avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il pane che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”.
Sembra una scena dei nostri giorni.
Quando si viene a sapere che in qualche parte avviene qualcosa di straordinario, come apparizioni vere o presunte della Madonna, la gente imita quella folla e subito corre da ogni parte, nella speranza che avvenga qualche miracolo, o del corpo o di altra natura. Raramente ci si domanda la ragione della visita che la Mamma Celeste fa all’umanità, come a Lourdes, Fatima, La Salette.
Rimane allora la domanda centrale: “Perchè mi cercate?”, Ossia quale è la ragione della vostra ricerca? Cosa attendete dal Cielo?
E’ vero che Dio, tante volte prova compassione delle nostre sofferenze e compie “i segni” del suo amore, che sono i miracoli.
Ma i veri miracoli sono le conversioni, che sono in fondo avere trovato Dio.
Si affaccia così il grande problema della ricerca di Dio, che è il Bene assoluto, l’Amore infinito, che non conosce tempo o limiti.
E riuscire in questo è davvero o dovrebbe essere la grande opera da compiere.
Ma bisognerebbe possedere quella passione della folla, che si mette alla ricerca di Gesù, come è nel Vangelo.
Viene da chiedersi: Gesù, ossia Dio, davvero è un bene grande da farci ‘impazzire’ dalla voglia di conoscerlo e quindi entrare nella sua vita?
Per avere questa passione bisogna almeno tentare di entrare nel Cuore di Dio con la fede.
Ma pare che tante volte altro o altri interessi ci attirano, al punto da confinare Dio all’ultimo posto.
Avverte S. Paolo oggi: “Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente. Voi non così avete imparato a conoscere Cristo, né proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,20-24).
Credo che tutti abbiamo sperimentato la grande gioia, immensa a volte, nello scoprire l’infinita meraviglia che è nella amicizia: ossia nel sapere di avere scoperto in qualcuno “un tesoro” senza di cui non è possibile vivere. Non è la bellezza di uno che è felicità:
neppure la ricchezza o l’importanza è il vero tesoro della amicizia.
Il tesoro è il cuore di chi si è offerto per essere conosciuto e donato.
E quando si ama così, è come avere scoperto il vero bene della vita.
Si vive dell’amore degli amici veri.
Come è difficile anche solo spiegare cosa voglia dire scoprire l’amore!
Veramente è l’impronta che Dio ha messo in noi e che noi purtroppo tante volte non sappiamo di avere e quindi rischiamo di vivere alla periferia della vita vera.
Chi non ha conosciuto giovani, uomini, donne, talmente ‘innamorati’ di Dio, che spandono serenità e gioia in chi li accosta?
E come davvero si illuminano i loro occhi quando pregano, quando contemplano Dio!
Capita spesso di trovarmi a tu per tu con giovani soprattutto soli, magari seduti in luoghi solitari, dove è più facile “vedere la vita”.
Chiedevo un giorno ad uno di questi: “Che ne dici di quei tuoi compagni che durante la Messa
cantano: “Gesù, tu sei la mia vita, altro io non ho!” Ma sono tanti i giovani o gli adulti che non riescono a capire il senso delle tue affermazioni sulla gioia di avere scoperto Gesù. Giovani come te hanno scelto di gettare dietro le spalle ogni voglia di mettersi in cammino per almeno conoscere Dio, come quella folla, preferendo svendersi a idoli di cartapesta che non hanno cuore.
Chi è davvero pazzo? tu o loro?”
Scese il prezioso silenzio delle riflessioni.
Alla fine, con un grande sorriso, che era il volto della gioia, mi disse: “So quello che mi chiede avvicinarmi a Dio ed entrare nella sua vita. E’ un cammino duro… però alla fine che farei senza Lui? Chi potrei trovare che ogni istante, sopratutto nei momenti difficili, ti mostri il suo sorriso che è l’amore?
Padre, sarà follia, ma posso confermarlo: “Lui è la mia vita, altro io non ho”.
E’ con commozione che scrivo quello che Agostino dice del suo amore ritrovato a Gesù: “Stimolato a rientrare in me stesso sotto la Tua guida, entrai nell’intimità del mio cuore e lo potei fare perché Tu ti sei fatto mio aiuto.
Entrai e vidi, con l’occhio dell’anima mia, una luce inalterabile sopra il mio stesso sguardo interiore e sopra la mia intelligenza. Non era una luce terrena e visibile che splende dinanzi allo sguardo di ogni uomo. Era un’altra luce...Chi conosce la verità conosce questa luce.
O eterna verità e vera carità e cara eternità.
Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi, mi hai sollevato in alto perchè vedessi quanto era da vedere e ciò che da solo non sarei mai stato in grado di vedere.
Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo potentemente dentro di me.
Tremai di amore e di terrore. Mi trovai lontano come in una terra straniera dove mi pareva di udire la tua voce dall’alto che diceva “Io sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me.
Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai creato tutte le cose, si renderà alimento della mia debolezza da bambino.
Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica, e tanto nuova, tardi ti ho amato.
Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo.
Io, brutto, mi avventavo nelle cose belle che tu hai creato. Eri con me ed io non ero con te.
Mi tenevano lontano da te quelle creature, che se non fossero in te, neppure esisterebbero.
Mi hai chiamato, mi hai gridato, hai infranto la mia sordità.
Mi hai abbagliato, mi hai folgorato e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato. E ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace” (dalle Confessioni di S. Agostino).
E’ la meravigliosa storia di un uomo, S. Agostino, che ha dato la giusta risposta alla domanda “perchè mi cercate?”
E tanti, come Agostino, nella storia ed oggi, vivono la stessa ricerca di Dio.
Vorremmo tutti poter sottoscrivere le parole di Agostino...ma forse crediamo di non farcela o ci lasciamo catturare dalle creature, come Agostino, scordando il Creatore.
Ma un desiderio dovrebbe essere in tutti noi:
cominciare a fare posto alla ricerca di Gesù fino a trovarlo, come fece quella folla di Cafarnao.
E’ certamente questa “la grande e necessaria opera della vita”.
Riusciremo?
E’ troppo bello il traguardo per rinunciare. Ne va di mezzo, fra l’altro, non solo la nostra felicità qui, ma quella eterna, dove Gesù apparirà nella sua gloria.
Prego tanto per voi. E BUON FERRAGOSTO!

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 20 Agosto 2006

Messaggio da Redazione » mer ago 16, 2006 11:10 am

Omelia del giorno 20 Agosto 2006

XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Un annuncio incompreso


Come il solito, cerchiamo di immaginarci tra la folla impressionata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Crede di avere trovato finalmente uno che l’avrebbe liberata dai mali che sembrano la grande ombra che oscura la vita. Ieri, oggi, sempre.
Davvero non siamo nell’Eden, ma sembra che tutto sia vittima di un disordine di giustizia, di mancanza di senso nella vita, e quello che fa male, di essere gli uni contro gli altri, anziché essere gli uni con gli altri. Ed a volte sembra di avere i sentimenti di stanchezza che ebbe il profeta Elia. “In quel tempo Elìa si inoltrò nel deserto, una giornata di cammino, e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perchè io non sono migliore dei miei padri”.
Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.
Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. Egli si alzò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua.
Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.
Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli
disse: “Su, mangia perchè è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l’Oreb” (1Re 19,4-8).
Meraviglia la forza di quel pane venuto dal cielo e di quell’acqua che dettero la forza incredibile di riprendere il cammino, per quaranta giorni e quaranta notti.
Ma è la ‘figura’ di quanto Gesù propone non solo a quella folla che lo aveva rincorso, ma a tutti noi, ieri, oggi, sempre. Avevano la certezza che da Lui potevano ottenere materialmente quei miracoli che la scienza non sa fare.
Miracoli che si limitano al benessere del corpo; miracoli che si fermano al benessere qui, ma il più delle volte non sfiorano il benessere della vita che va oltre.
Quante volte capita che la nostra fede in Dio si fermi sulla soglia di un miracolo chiesto e non ottenuto e quindi si sciolga, a volte, con lo sdegno di chi non è stato ascoltato.
Ma è proprio vero che Dio non ascolta? E dove e come, davvero, Dio si fa vicino a noi, mostrando il suo infinito amore, che va certamente oltre quanto chiediamo, anche se quello che chiediamo, come una guarigione, è di per sé cosa buona?
Se riduciamo la grandezza dell’ amore nell’avere un bene che di per sé è buono, ma molto limitato, abbiamo certamente una fede molto labile e fuorviante.
Gesù, nel suo discorso alla folla, va oltre questo limite e ci fa dono di un amore che più grande di così non può esistere, se non in Dio.
Racconta Giovanni l’evangelista: “In quel tempo i Giudei mormoravano di lui perchè aveva detto: “lo sono il pane disceso dal cielo”.
Una affermazione davvero non facile a capirsi con il metro del materialismo di ieri e di sempre.
Ed allora quella folla, passando da un entusiasmo che l’aveva spinta a rincorrerLo, esprime critica e mormorazione. Incredibile! Riesce difficile spiegarsi come si possa passare da una ricerca appassionata di una persona, al cercare di farla a pezzi nella stima e nell’amore.
“E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre.
Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”
La risposta di Gesù non si fa attendere: “Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato: e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta infatti scritto nei
profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio”.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti: questo (il mio) è il pane che discende dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,41-52).
Incredibile, meraviglioso, che Gesù spieghi chi davvero Lui è per noi: “il pane della vita”.
E sappiamo tutti come quando parliamo di pane parliamo di crescita di vita corporale...anche se oggi magari si mangia altro.
Ma che Gesù affermi che Lui si lascia sbriciolare, fino a diventare pane perchè noi conosciamo la gioia della vera vita, per chi non sa cosa voglia dire dare tutto quando si ama, può esaltare o fare ‘mormorare’.
Eppure a volte, anche noi quando vogliamo esprimere come vorremmo vivere dell’amore di un altro,
diciamo: “Potessi ti mangerei” ossia vivrei non solo con te, ma di te. Parole forti e meravigliose che chissà quante volte abbiamo sentito o dette.
E sembrano in qualche modo spiegare quello che Gesù diceva alla folla.
L’amore, quello vero, che è la gioia e la bellezza del cuore, dono del Padre, quando è grande, ‘vive’ di chi ama e chi è amato diventa “pane della vita”. “Se non ci fosse quella persona che amo tanto, morrei. Lui, lei è in fondo “il pane della mia vita”.
Forse troppe volte quando parliamo di amore, parliamo di un sentimento che sfiora solo la superficie della nostra esistenza e non è felicità piena:
dura quanto dura e finisce nell’album dei ricordi, dove finiscono tanti sposi e spose e tanti amici, che credevano di amarsi ma non hanno saputo essere “pane della vita”.
Ed è proprio qui che veniamo a conoscere la povertà nostra e del nostro cuore.
Ma anche quando riusciamo a diventare ‘pane’ per chi amiamo, il nostro è sempre povero amore.
Ma che Gesù si offra ad essere pane della vita, pane disceso dal cielo, davvero fa impressione, o almeno dovrebbe dare tale serenità e forza, in ogni circostanza, perchè se sostenuti da tale “Pane” si può tutto, ma davvero tutto.
Mia mamma in questo era davvero maestra. Da ragazza fino alla morte non lasciava passare giorno senza nutrirsi di quel “pane” ossia di Dio.
E volle che la comunione le venisse data ogni giorno, anche da ammalata, da immobilizzata, ma - lucida. Un giorno che, tornando da non so dove, le portai un bouquet di fiori, credendo di farla felice, mi guardò con aria seria e espresse il suo stupore con questo amaro rimprovero: “Tu vescovo mi porti i fiori…sono più intelligenti i tuoi fratelli che mi hanno portato la Santa Comunione. Senza “quel pane” non avrei certamente la forza di portare sulle spalle la famiglia”.
E, subito dopo la mia Prima Comunione, volle che ogni mattina prima di andare a scuola mi recassi in Chiesa per ricevere Gesù. Era tempo di digiuno.
Tornavo di corsa a casa dopo la Comunione per fare colazione. Ho sempre davanti agli occhi mia mamma che mi attendeva sulla porta di casa. In una mano vi era un pezzo di pane e nell’altra la cartella per la scuola. Quel pezzo di pane doveva essere la mia colazione. Davanti al mio lamento, ‘ho fame’,
rispondeva: “Nella vita meglio una buona Comunione che una bella colazione!” Dove è finito oggi questo desiderio del “pane della vita”, ossia del dono che Gesù fa di Sé, fino a diventare nostro pane? L’eclissi di Dio, come qualcuno definisce oggi l’assenza negli uomini dei valori della vita e quindi dell’amore, certamente è dovuta a questo “pane” che non raccogliamo, per la ragione che non conosciamo ancora la totalità di Dio, che si dona fino a farsi vita.
E allora capita; come nel racconto di Elia, il senso di vuoto che ci fa desiderare di morire. Dovremmo allora nutrirci di quel pane che è alla portata di tutti, per avere la forza di camminare fino “all’Oreb”, la montagna di Dio.
Mi piace offrire a voi quanto di sé disse il grande Giovanni Paolo II, che certamente è maestro di vita cristiana a proposito dell’Eucaristia.
“Quando penso alla Eucaristia, guardando alla mia vita di sacerdote, di Vescovo, di Successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti, i tanti luoghi in cui mi è stato concesso di celebrarla.
Ricordo la chiesa parrocchiale di Niengrowic, dove svolsi il mio primo incarico pastorale, la collegiata di S. Floriano a Cracovia, la cattedrale di Wawel, la basilica di S. Pietro e le tante basiliche e chiese di Roma e del mondo intero. Ho potuto celebrare la S.
Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare.
L’ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città. Questo scenario così variegato delle mie celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico.
Perchè anche quando viene celebrata nel piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, “sull’altare del mondo”.
Essa unisce il cielo e la terra.
Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per restituire tutto il creato, in un superiore atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla”
(Ec. et Euc. n.8).
Come “camminando sui passi” del S.Padre, ricordo una visita ad Auschwitz, il famoso campo di sterminio, visitato recentemente da Papa Benedetto XVI.
Ottenni di celebrare (cosa rarissima) la S. Messa accanto a quello che è chiamato il ‘muro delle fucilazioni’. A fianco erano le celle dove furono fatti morire di fame e sete i dieci condannati tra cui il S.
Massimiliano Kolbe. Ed era come un sentire il canto di Massimiliano che incoraggiava i condannati.
Quel “canto” mi dava tutta la bellezza del “pane disceso dal cielo”, che era la forza del martirio.
Avrei voluto che non finisse mai quella Messa...
Ma ho sempre l’impressione che tra vita e Messa non vi siano spazi vuoti.

Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: www.vescovoriboldi.it
E-mail: riboldi@tin.it



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Omelia del giorno 27 Agosto 2006

XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Più vicino di così…eppure


I miei amici, voi, che “camminate con me” alla ricerca, ancora di più alla conoscenza di Dio – che è già tantissimo – sapete che questa conoscenza non è solo “vedere il volto di Dio”, ma va oltre, in questa vita, perchè diventa partecipazione alla nostra difficile traversata nel deserto di questo mondo.
Lo ripeto tante volte, e non mi stancherò mai di affermare questo principio che, se è vero che ogni uomo è creatura del Padre, è vero che il Padre lo ha fatto partecipe di ciò che è: AMORE.
Non è possibile vedere nella vita un grande dono, se non si conosce e non si vive l’amore.
Amare è farsi partecipe dell’altro: è farsi dono per l’altro.
Da qui il meraviglioso dono dell’Eucaristia in cui Gesù afferma di essere il pane del mondo, della vita.
“Gesù disse alla folla: lo sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno ma gia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(Gv.6, 51) “Dunque il Signore è con noi- affermava Paolo VI - dunque Cristo è presente nella vita vissuta della nostra società; dunque non tanto commemoriamo un avvenimento del passato (l’istituzione della Eucaristia) quanto celebriamo una realtà presente; dunque non siamo tanto noi che accompagniamo Gesù per le nostre strade, ma è piuttosto Lui che accompagna noi per le vie della nostra storia. E’ lui che si unisce, da misterioso pellegrino, ai nostri passi e si innesta nelle nostre vicende, anzi nelle nostre vite, anzi nelle nostre anime.
L’Eucaristia utilizza Cristo nel tempo. L’Eucaristia rende possibile e reale la sua silenziosa, ma viva presenza. Dovunque i santi segni del pane e del vino consacrati non la simboleggiano, ma la contengono, la moltiplicano, la rendono disponibile, accessibile, adorabile.
L’Eucaristia è un mistero di presenza. La difficoltà ed insieme la grandezza di questa teologia sono intuite anche dal fanciullo, anche dal popolo non iniziato.
Nella immensa dottrina cristiana Gesù è presente!
Come e perché sarà compito di studio aperto al divino che si offre, ma per ora ci basta, ci soverchia questo formidabile pensiero: Gesù è presente” ( 13.6.1963) Anche solo leggendo superficialmente queste parole del grande Paolo VI, cogliamo la grande intimità che lui aveva con Gesù che si offre “pane disceso dal cielo” per essere con noi.
E viene da chiedersi allora come mai proprio l’Eucaristia, da pochi, da troppo pochi, è accolta, apprezzata.
Basterebbe vedere come sempre di più sono i cristiani che la disertano, giudicandola con una superficialità che la dice lunga sulla conoscenza del mistero dei misteri.
Fa male, credetelo, vedere sempre più la gente disertare la Messa, preferendo l’altare del Week End.
Come se il solo riposo o divertimento possano prendere il posto, nella vita, che è solo di Dio.
Dovremmo interrogarci, e seriamente, perchè la domenica non è più il giorno del Signore: il giorno in cui la famiglia di Dio si unisce, partecipa al banchetto di Dio, si ciba della sua carne e del suo sangue.
Si è come smarrito ciò che dicevano, a costo della vita, i martiri di Abilène: “Senza domenica non possiamo vivere!”
C’era un tempo, forse perchè la semplicità di vita dava tanto spazio a Dio e ai valori dell’anima, in cui la Messa era punto centrale, non solo della domenica, ma della settimana…quasi a dare ragione a quello che affermava Paolo I. “Gesù è presente, Gesù è vicino.”
Ricordo come da ragazzo, al mattino, dedicato alla S.Messa, le strade sembravano un canto di festa e la gente con gioia andava a Messa.
Era veramente una festa incontrarsi sulla piazza antistante la Chiesa e dopo dare senso alla “famiglia che è la Chiesa di Dio”, fermandosi sul sagrato a dirsi i fatti della vita, intrecciare o ricordare amicizie, sentire che tutti si era una cosa sola...in quel Gesù che in Chiesa nella Comunione ci aveva riunito ad un solo banchetto “il suo”. Infonde tanta tristezza, oggi vedere la Messa un di più, che “se avanza tempo” ci si va; lasciando il primo posto ad altre cose che sono “creature” che certamente non hanno la potenza del Cuore di Dio che si dona.
Paradossalmente, per la mancanza di sacerdoti, tante piccole frazioni o paesi, non riescono più ad avere il dono della Eucaristia della domenica. “Vedendo la mia chiesa quasi sempre chiusa, la domenica sembra “muta”, ho come l’impressione di un vuoto
interiore: ossia che mi manchi Qualcuno o qualcosa di molto importante che era quella chiesa dalle porte spalancate che, come una casa, accoglieva tutti e in quella “casa” con la Messa si ritrovava la forza di vita”.
Così la pensano tanti, che non hanno più il prete che celebra la Messa.
Penso alle tante nostre missioni, dove il missionario, per la vastità del territorio da amministrare, non sempre la domenica può in alcune stazioni celebrare.
Ma quando la gente sa che vi è la celebrazione, per la mancanza di comodità, che noi non conosciamo, a volte partono a piedi il giorno prima per essere presenti alla festa. E la Messa - mi raccontano i missionari è una festa così grande ed animata che a volte, dura due o tre ore. Davvero l’Eucaristia è una festa.
Il Vangelo di oggi ci parla della discussione tra i Giudei, di fronte alle parole di Gesù “Come può costui, dicono, darci la sua carne da mangiare?”
E Gesù disse: “In verità, in verità, vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perchè la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”
Parole davvero divine, forse troppo grandi per noi che, troppe volte ci lasciamo sedurre da “piccole parole”
che illudono e non sono vita.
Da poco, come sapete, ho ringraziato Dio per i miei 55 anni di servizio pastorale. E non vi nascondo che il momento più bello della giornata è il momento della Messa. Pronto a rinunciare a tutto, ma non alla Messa.
A volte, viaggiando, l’unica preoccupazione è trovare il tempo per la Messa.
Ricordo,dopo il terremoto del Belice, quando tutto era distrutto e l’unica ricchezza erano le macerie del paese e la gente totalmente smarrita, ero talmente occupato di portare sollievo e speranza da non trovare spazio e tempo per la Messa.
Due giorni dopo il terremoto, mentre stavo con altri componendo le salme nelle bare, venne a farmi visita un delegato di Paolo VI. “HA bisogno di qualcosa? Le manca qualcosa?” mi chiese. “Sì, risposi, mi manca la cosa più importante: un posto e il tempo per celebrare la Messa. Il resto è pienezza di carità”.
“Non si dia pensiero, mi rispose l’alto prelato, quello che sta facendo è più che un pontificale”. Ma quando riuscii a mettere insieme una tenda, ritrovai la gioia di poter celebrare la Messa e mi sembrava che tutto divenisse più facile… anche la carità. Davvero posso testimoniare che è veramente bello, sopportabile tutto, sentire vicini tutti quelli che amo, voi compresi, se l’Eucarestia è il “centro della vita”.
Voglio ancora una volta cedere la parola al grande Giovanni Paolo II, che così scrive nella sua enciclica “Chiesa e Eucarestia”. “Pochi anni or sono ho celebrato il cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio. Sperimento oggi la grazia di offrire alla Chiesa questa Enciclica sull’Eucarestia, nel Giovedì Santo che cade nel mio venticinquesimo anno di ministero petrino.
Lo faccio con il cuore colmo di gratitudine. Da oltre mezzo secolo, ogni giorno, da quel 2 novembre 1946, in cui celebrai la mia prima Messa, nella cripta di San Leonardo nella cattedrale di Wawel, i miei occhi si sono raccolti sull’ostia e sul calice in cui il tempo e lo spazio si sono in qualche modo contratti e il dramma del Golgota si è ripresentato al vivo, svelando la sua misteriosa “contemporaneità”. Ogni giorno la mia fede ha potuto riconoscere nel pane e nel vino consacrati il divino Viandante che un giorno si mise al fianco dei due discepoli di Emmaus per aprire i loro occhi alla luce e il loro cuore alla speranza.
Lasciate, miei carissimi fratelli e sorelle, che io renda con intimo trasporto, in compagnia e a conforto della vostra fede, la mia testimonianza di fede nella santissima Eucarestia “Ave, verum corpus natum de Maria Virgine, - vere passum, immolatum in cruce pro homine”
Qui c’è il tesoro della Chiesa, il cuore del mondo, il pegno del traguardo a cui ciascun uomo, anche inconsapevolmente, anela. Mistero grande, che ci supera, certo, e mette a dura prova la capacità della nostra mente di andare oltre le apparenze.
Qui i nostri sensi falliscono -“visus, tactus gustus in te
fallitur”- è detto nell’inno “Adoro te devote - ma la sola fede, radicata nella parola di Cristo e consegnata ai suoi Apostoli ci basta” (Ecc.et Eu. n.59) E prego con le stesse parole della Enciclica: “il Buon Pastore, vero pane, o Gesu, pietà di noi: nutrici e difendici portaci ai beni eterni della terra dei viventi.
Tu che tutto puoi e sai, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi.”

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 3 Settembre 2006

Messaggio da Redazione » sab set 02, 2006 5:53 am

Omelia del giorno 3 Settembre 2006

XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Insopportabile ipocrisia


Credo che tornando dalle ferie, al mare o in montagna, siamo tutti un poco sconcertati dal comportamento di tanti che credono sia lecito tutto, all’insegna del tanto diffuso “che male c’è?”
Oppure: “Siamo o non siamo liberi di fare ciò che ci pare?”
Tranne poi a essere pronti a scandalizzarci davanti a comportamenti che urtano l’etica morale.
Scendevo dalla montagna ed in un meraviglioso piazzale dove era possibile rinfrancarsi e ristorarsi, in compagnia di alcuni amici, eravamo come costretti, e desideravamo riposare un momento lì, ad assistere a una scena che credo urti la comune coscienza.
Un mio amico fece notare che non era davvero lecito fare quei ‘giochi’ in nessuna parte, ma soprattutto quando si è in un luogo che appartiene a tutti e dove tutti hanno diritto di essere rispettati.
La risposta fu una gragnuola di insulti. “Siete gente che capisce nulla del nostro tempo: appartenete al più fosco medioevo. Lasciateci vivere come vogliamo e se a voi non garba, andatevene!”
E credo proprio che a tanti di voi, anche nella vita comune, “sia nata una ribellione interna e di nausea per tante espressioni esterne: dal modo di vestire, di parlare. Tutta questa che non è etica e tanto meno libertà, (che è sempre rispetto dell’altro e prezioso uso di questo dono che Dio ci ha dato) lo chiamano relativismo.
La domanda che viene spontanea, a tanti di noi, in certe occasioni, è : “Ma se il corpo, la vita è dono di Dio, come la libertà, tutto questo non è lasciato al nostro libero arbitrio, ma deve invece rispettare la verità che è in noi!?
Eppure si parla tanto oggi di etica, ossia di un comportamento sempre e in tutto di rispetto di quelle norme che non sono frutto del capriccio dell’ uomo, ma sono quelle che davvero onorano l’uomo.
Quello che colpisce di più è constatare come, se da una parte, in certi momenti, ci si comporta irridendo l’etica, in altri momenti, ci scandalizziamo se vediamo gli stessi comportamenti in alcuni...come se ci fosse differenza tra quando si è in luoghi dove tutto è un insulto alla etica, e quando ci si trova dove si impone, almeno esternamente, di avere un comportamento rispettoso.
Questa è ipocrisia. E tutti sappiamo che a nessuno di noi piace essere considerati ‘ipocriti’, che è un vero insulto alla nostra dignità.
Leggiamo con profonda fede il Vangelo di oggi.
“In quel tempo, si riunirono intorno a Gesù i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con le mani immonde, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei, non mangiano se non si sono lavati le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza avere fatto le abluzioni e osservano molte altre cose stoviglie per tradizione, come lavatura di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogavano: “Perchè i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?” E Gesù
ripose: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”.
Chiamata di nuovo la folla, Gesù diceva
loro: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo.
Dal di dentro, infatti, dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigia, malvagità, inganno, impudicizie, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”(Mc
7,1-23)
Davvero Gesù in questo modo va oltre le apparenze e si appella a quello che possiede il vero di ciò che siamo, scegliamo, facciamo.
Un invito a chiederci se quello che facciamo, desideriamo, siamo è frutto di un cuore buono o - speriamo di no - di un cuore che a volte è ridotto come una pattumiera.
Un invito, quello di Gesù, a non fermarsi alle esteriorità, ma a risalire alla verità del cuore. Sempre.
Come dà fastidio parlare con qualcuno e accorgersi della sua ipocrisia!
Credere di essere amati, ma accorgersi che non è amore, ma una superficialità: o peggio ancora quella cupidigia di possesso che nulla ha a che vedere con l’amore, che è dono e bellezza!
Così come alle volte irrita sentire discorsi di indignazione per le tante povertà che sono nel mondo e forse vicine a noi, ma essere incapaci di dare senso alla indignazione, facendosi buoni samaritani, pronti a lenire la sofferenza o la povertà.
In questi ultimi tempi siamo stati come travolti dallo scandalo delle banche, del calcio, e di tanti altri settori.
Abbiamo come avuto l’ impressione che attorno a noi ogni forma di etica e di legalità fosse stata calpestata, ingannando i tantissimi che credevano nello sport o nella giustizia.
Il rischio è di perdere fiducia in tutto e in tutti e sarebbe un brutto vivere quello di non sapere a chi donare la fiducia e quindi fondare una amicizia, che è frutto di un cuore buono.
Quanta tristezza mette addosso sentire critiche e condanne dove invece ci vorrebbe compassione e carità.
Mi ha fatto tanta impressione un fatto.
Attendevo in una stazione di partire. All’arrivo del treno, vidi una donna che teneva fortemente a braccetto, come a sollevarlo, un giovane prete. La scena incuriosì i presenti che ebbero sarcasmi facili a immaginare.
Salito sul treno, mi misi nella cabina dove c’era questa giovane donna attraente e il sacerdote.
Venni così a sapere che quella donna era la mamma, che accompagnava il figlio malato all’ospedale e stava male. Notai la dignità di quella donna, preoccupata per il figlio, apparentemente indifferente alle malignità. C’era da arrossire e ringraziare Dio per questi dal cuore nobile.
E’ bello ascoltare quanto l’apostolo Giacomo oggi ci propone di meditare: “Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione, né ombra di cambiamento. Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perchè noi fossimo come una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi.
Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo. (Gc l, l7 - 27 ) Ascoltiamo quello che il Santo Padre, Benedetto XVI disse in una conferenza tenuta a Subiaco il 1-4-1995:
“Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia, sono uomini che attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta alla incredulità.
Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio, imparando da lì la vera umanità.
Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore aprire il cuore degli altri.
Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo le purificazioni, che dovette subire, a risalire alla luce, a ritrovare fiducia, a ritornare a fondare a Montecassino la città sul monte che, con tante rovine, rinnovò le forze dalle quali si formò un mondo intero.”
Come sarebbe bello se tutti i miei amici che mi leggono avessero un cuore ‘semplice, puro’, che conosce le ombre, che fanno male e sono causa di male, e con ‘amore le vince.
E’ un grande dono che chiedo per me e per tutti voi, carissimi.

Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: www.vescovoriboldi.it
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Omelia del 10 Settembre 2006

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Fa udire i sordi


Leggendo il Vangelo che la Chiesa ci propone oggi, che racconta la guarigione del sordo muto, sorge subito una riflessione, quella cioè di vivere un mondo che davvero stordisce per le tante, troppe parole che sentiamo e che hanno il solo potere di renderci sordi, come se queste, le parole, fossero “un inarrestabile torrente di chiasso, che dà solo fastidio.
Penso che tanti di voi, che mi leggete, avrete fuggito a volte il chiasso del mondo, per trovare “pace” nella solitudine dei monti o in qualche luogo di silenzio, come sono i conventi, che la cronaca ha raccontato molto frequentati e ricercati, per gustare il silenzio e speriamo farsi riempire finalmente dalla parola di verità che solo Dio sa dire.
E come è dolce sentirsi riempito il cuore dalla dolcezza di Dio, che si fa parola di vita eterna: parole piene di dolcezza, di incoraggiamento, di voglia di “andare oltre”, come invitava Gesù. Ed è davvero tanta la voglia, oggi, di ascoltare parole che siano dolcezza alla vita!
Così si esprime il grande profeta Isaia, che, quando parlava, donava solo parole suggerite dal Padre. “Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il luogo riarso si muterà in sorgenti di acque” (Is 35,4-7).
E sono davvero tanti oggi gli “smarriti di cuore” che hanno bisogno di coraggio e di non temere. Basta guardarci attorno.
La parola dolce, quella vera, che va diretta al cuore, è come l’acqua fresca di una sorgente: disseta l’anima, assetata di verità.
Quante volte, chiamato da ogni parte a donare, a essere di aiuto ai troppi “sordomuti” del nostro tempo, rimango meravigliato di quanta sete la gente abbia davvero di sentire parole che siano come l’eco di Dio che ci parla oggi! E’ incredibile come la gente abbia voglia di chiarezza. E di questo ringrazio il Signore che mi fa dono della sua parola, per farne a mia volta dono a chi mi ascolta.
Credo sia un dono offrirvi testimonianze di come la gente “è smarrita” e attende una parola che faccia quella chiarezza che solo Dio sa offrire.
Ogni anno, in una cittadina, si dedicava una settimana alla festa: una festa dove non c’era posto per Dio.
Tutto lo spazio era dato al “chiasso”, che conosciamo bene. La città era come avvolta in questo indescrivibile rumore, che è difficile chiamare festa...a meno che questo “carnevale” possa meritare il nome di festa.
Era da anni che alcuni volenterosi tentavano di creare uno spazio per la riflessione...come a volere rompere la notte dell’anima e farle conoscere uno sprazzo di cultura e spiritualità.
Venni chiamato per un incontro con la città. Dettai il titolo all’incontro: “Dio è il solo respiro dell’anima e la sua vera gioia”. Al momento di aprire la serata nella grande aula non c’erano più di venti persone. “E’ la risposta che la città dà ogni anno al nostro tentativo di elevazione dell’anima”. “Attendiamo, dissi, il quarto d’ora proprio degli indecisi, incapaci di fare uno strappo alla mentalità corrente”. Si riempì a poco a poco la grande sala, al punto che tanti furono costretti a stare fuori, accontentandosi di sentire dalle finestre aperte. Parlai con serenità di Dio e del bello di stare magari in silenzio nel suo ascolto. L’incontro durò più di un’ora. Erano le undici e, vedendo che nessuno si alzava per andarsene, ne chiesi il perché. “Padre, viviamo ogni giorno l’amarezza del chiasso e abbiamo bisogno di parole vere, questa sera ce le ha offerte.
Facciamo fatica a rituffarci nel buio della città. Ci parli ancora”. Parlai ancora e alla fine dissi: “Occorre sapere conservare nel cuore la verità che viene dall’ascolto ineffabile di Dio. Si può”.
E a fatica la sala si svuotò, lasciando in tutti il ricordo di una “Voce che si può conservare…se si vuole”.
Molti di voi avrete certamente almeno sentito parlare del grande poeta don Clemente Rebora. Era mio padre spirituale. Con lui trascorrevo a volte le mie vacanze alla famosa Sacra di S. Michele in Val di Susa. Visse, i primi quaranta anni, scrivendo meravigliose poesie, ma lontano da Dio. Come fede si sentiva muto e sordo. Ma venne il giorno in cui Dio irruppe nella sua vita. Cominciò la sua ricerca di Dio accostandosi al Card. Shuster, vescovo di Milano, che a sua volta, vedendo la seria ricerca di Dio, lo affidò a Padre Bozzetti, grande uomo di spirito e conoscitore delle anime. Rebora non resistette alla grazia. Chiese di entrare nell’Istituto della carità, dei Padri Rosminiani, e iniziò un cammino davvero di corsa verso la santità. Convertendosi fece un taglio netto con il passato, tanto che al momento di darsi a Dio, distrusse un patrimonio di poesie ed opere letterarie.
E’ rimasta famosa la sua poesia “strascè”, ossia una poesia dedicata allo straccivendolo che si portava via il suo passato. E del suo passato non parlò più.
Accompagnandolo nelle passeggiate, per i sentieri della Sacra, parlavo sempre io, cercando di raccontargli le poche cose che sapevo di letteratura o altro. Rispondeva sempre con lo stesso tono: “Bravo!”
anche quando, alla luce della sua esperienza passata, avrebbe dovuto dirmi “ignorante!”.
La sua unica passione era stare in silenzio con Dio e parlare di Dio. Una volta che gli feci notare questo suo atteggiamento, la risposta fu “Voi avete cominciato ad amare Dio da piccolo. Io ho da recuperare 40 anni vissuti nel nulla”. E proprio a lui, come a tanti che sanno ascoltare la Parola e a volte te la offrono con pudore e gioia, pare si riferisca il Vangelo di oggi.
“In quel tempo, Gesù, di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli. E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua:
guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e
disse: “Effatà”, cioè, “Apriti!” E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi parlavano e pieni di stupore dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e parlare i muti” (Mt 7,31-37).
Il Signore ha dato a noi tutti, credo, il dono dell’ascolto e della parola. Lui solo sa quanto bene possiamo comunicare con la parola, se ispirata, colma di amore e verità. Fa tanto bene incontrare amici, gente che, quando parlano, non si lasciano prendere la mano dalle facili sciocchezze o, peggio ancora, da parole che fanno male, ma sanno come spalancare le porte del cielo! E questo ancora di più nelle famiglie, tra sposo e sposa o tra semplici amici. Non ci si stancherebbe mai di ascoltare! Da parte mia sono davvero felice di essere con voi ogni settimana; di stare un poco con voi e nutrirci della Parola del Signore. Non finirò mai di ringraziare il Padre per questo dono. Credo che per voi - me lo confermano le tante lettere che mi scrivete - sia questo incontro un momento prezioso: un angolo di silenzio e ascolto. Fa bene. So come tanti di voi, non solo attendono l’arrivo della omelia, ma – vera condivisione di gioia - ne fanno dono agli amici, a conoscenti.
Alla fine di Agosto, fui invitato a Tortona per fare la Novena alla Madonna della Guardia, che lì ha un suo maestoso santuario, tenuto dai Padri di don Orione:
un santuario circondato dalle tante opere di carità che la fantasia di questo santo sapeva diffondere in modo davvero incredibile. Ero emozionato dal vedere come la gente si passava la voce, ripeteva ciò che offrivo da meditare e invitava tanti, al punto che la grande basilica faceva fatica a contenere tutti. E con quanta gioia accoglieva la Parola. E’ in quei momenti che noi, “cultori della Parola”, possiamo misurare la grande sete di ascolto, la sete di quella verità che fa piazza pulita del pessimismo buio dell’anima, tanto diffuso, e mostra la bellezza di Dio!
Grazie, carissimi, perché così non siete più “sordi” e neppure “muri”, lasciandovi accarezzare dalle dita di Gesù.
Con la Chiesa prego: “Il Signore è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero.
Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi; il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione” (Salmo145).

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 17 Settembre 2006

Messaggio da Redazione » mer set 13, 2006 7:22 pm

Omelia del giorno 17 Settembre 2006

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Una domanda inquietante


Viviamo uno accanto all’altro: forse sappiamo tutto delle abitudini o dei difetti (poco delle virtù) di tanti, ma difficilmente conosciamo la verità della persona che incontriamo o che ci sta accanto. Quando non costruiamo una immagine che non solo non corrisponde a chi veramente è, ma addirittura è solo l’idea che ci siamo fatti, nel bene e nel male.
Quante volte abbiamo dovuto ricrederci, accostando da vicino una persona e conoscendone l’animo!
Capita a volte che due si incontrano, dicono di amarsi, si sposano e dopo. poco tempo, qualcuno rimane deluso da chi condivide da sempre la vita nel matrimonio, ed esclama: “Se ti avessi conosciuto prima!” Non è forse, viene da obbiettare, il tempo del fidanzamento, tempo prezioso non solo per approfondire la vocazione del sacramento del matrimonio, ma anche per conoscersi fino in fondo, sapendo che la conoscenza è la grande via dell’amore?
Gesù nell’ultima cena, la cena eucaristica, in cui effuse tutto il suo indicibile amore di Figlio di Dio, un amore che ci accompagna per l’eternità, ad un certo punto disse: “Amatevi come io vi ho amati… Non vi chiamo più servi ma amici perché vi ho fatto conoscere il Padre”. Tutto questo per introdurre il Vangelo di oggi.
“Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo: e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: Chi dice la gente che io sia? Ed essi gli risposero: Giovanni il Battista, altri Elìa e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo. E impose severamente loro di non parlare di lui a nessuno… Poi, sorprendendo i suoi, che forse si erano fatti chissà quale idea su Gesù, cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, per venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”.
Gesù faceva questo discorso apertamente (come a smontare idee totalmente errate sulla Sua presenza tra di noi). “Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma Gesù voltatosi e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Deve essere rimasto molto male, Pietro, per un così pesante rimprovero. E se Gesù dovesse oggi chiedere a me, a voi: “Chi sono io per te?” Quale sarebbe la risposta che daremmo? Non e facile entrare nella meravigliosa conoscenza di Gesù:
quella conoscenza profonda che costruiva i santi di tutti i tempi ed era la loro infinita gioia. Ieri e oggi e sempre.
Facciamoci prendere per mano dalle parole di quel grande conoscitore di Gesù che era Paolo VI, che così risponde alla domanda di Gesù “E voi chi dite che io sia?”.
“Rispondiamo, Gesù è il Figlio di Dio fatto uomo.
Questa affermazione è il fulcro della rivelazione e del cattolicesimo. Ha una importanza somma. Riguarda la questione della nostra conoscenza di Dio e della nostra relazione con Lui; è la base della questione religiosa. Riguarda la nostra concezione dell’uomo:
interessa direttamente i destini della vita. Riguarda ancora, di conseguenza, il modo di definire i rapporti tra gli uomini; riforma la storia. Riguarda ancora il valore da dare alle cose: pervade il campo economico, la visione artistica, lo sforzo pedagogico.
Diventa la sapienza del mondo, l’entusiasmo delle anime. E’ l’affermazione che obbliga il mondo, ogni coscienza, a prendere una posizione spirituale e morale decisiva sul significato e valore della propria esistenza. Ha cominciato a svegliare e mettere in moto dei poveri pastori nel primo momento in cui la Sua presenza è stata annunciata alla terra. Non lascerà più indifferente alcuna generazione e alcuna manifestazione di vita. Sarà l’insonnia del mondo.
Sarà l’aspirazione somma della spiritualità. Sarà la forza che consola, che guarisce, che nobilita l’uomo:
la sua nascita, il suo amore, il suo dolore, la sua morte. Sarà il dramma della salute e della rovina, della verità e dell’errore, del bene e del male. Sarà la vocazione del mondo all’unità e all’amore, sarà la costante energia a perseverare in ogni secolo e in ogni circostanza, nella ricerca del bene e della pace:
sarà lo spirito di pietà, di intelligenza, di santità e di forza, che solleverà a grandezza e pienezza le anime migliori di questa misera terra. E’ una affermazione troppo importante, per rimanere ignavi, superficiali, insinceri, frettolosi dinanzi ad essa.
Bisogna considerarla con l’umiltà, la vigilanza e la purezza di cuore di chi, riconoscendo la verità, è disposto a consacrarle a vita” (dalle omelie di Paolo VI).
Alla luce di queste meravigliose considerazioni, quale è la nostra conoscenza di Gesù? Cosa rappresenta nella nostra vita, nelle nostre scelte vocazionali, in tutto insomma?
C’è chi passa una vita intera alla sua ricerca, e più si accosta a Lui, gli fa strada, più viene avvolto da una meravigliosa luce interiore che davvero è il solo volto di Dio impresso nell’anima di ogni uomo e che troppe volte è ignorato.
Quanto fa male constatare che per troppi Gesù conta poco o niente per la vita! Come se Lui non fosse vicino a noi, non fosse la vera felicità, che cerchiamo altrove in ciò che nulla ha a che vedere con la vera gioia che è Gesù.
Voglio citare quanto ha detto quella “martire del nostro tempo” che è stata Annalisa Tonelli, uccisa in Africa, dove si era recata per condividere la sua vita con “gli ultimi del mondo”. “Lasciai l’Italia dopo anni di servizio ai poveri della mia città. Trentatré anni dopo grido il Vangelo con la mia vita e brucio dal desiderio di continuarlo a gridare così sino alla fine. Questa è la passione di fondo, insieme a una passione invincibile per le creature ferite e minorate senza colpa, al di là della razza, della cultura e della fede. Voglio e volevo seguire solo Cristo. Quando mi decisi a partire per l’Africa, tutto mi era contro. Ero giovane e, dunque, non degna di ascolto e di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata dagli indigeni di altro colore… Ero cristiana e dunque rifiutata e temuta. Poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore per nessuno. Ma io, ripeto, volevo seguire solo Gesù e nulla mi interessava fuori di Lui”.
Parole di una testimone di Gesù, che davvero scuotono la nostra freddezza, che non sa cosa sia la passione che suscita l’amore di Dio, quando ci facciamo prendere la mano da Lui e ci lasciamo condurre passo dopo passo alla visione della grandezza del Suo amore.
E’ vero che l’amore è sempre esigente, quando per amore intendiamo un donarci senza riserve o limiti, fino al martirio. Ma l’amore è la sola gioia per l’uomo… se entra in questa luce.
Gesù, come a togliere ogni speranza ai discepoli, ieri e oggi, che Lui non è il figlio dell’uomo che ci voleva per fare giustizia in questo mondo e assicurare quasi un benessere qui, togliendo sofferenze o altro, dopo avere aspramente ripreso Pietro, con quelle dure
parole: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” … “convocata la folla insieme ai suoi discepoli disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà: ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”
(Mt 8,27-35).
Deve davvero avere sorpreso i suoi e la folla questa regola del seguire Gesù. Apparentemente dura, ma è la regola di chi sceglie di amare Cristo o anche i fratelli.
Gesù stesso, l’amore infinito per noi, questa regola del dono totale di sé, per amarci, l’ha vissuta fino al totale dono di Sé sulla croce. E leggendo la vita di quanti ieri e oggi seguono Gesù, troviamo che questo è quanto hanno fatto e fanno...fino a chiedere di sacrificarsi per Lui, trovando in questo la vera espressione dell’amare.
E che amare voglia dire “dare la vita” a chi si ama, lo possiamo vedere tutti i giorni in tanti ammalati che accolgono la sofferenza come “compiere ciò che manca alla passione di Gesù”. In questo caso “rinnegare e sacrificare” non è certamente masochismo, ma è gioia, la gioia di “essere candela che si consuma per essere luce e quindi ricevere luce”.
In questo spirito comprendiamo la grandezza del sacrificio quando è amore. Come quello di Maria che sul Calvario “stette”, come a riempirsi dei dolori del Figlio. Proprio vero che amore e dolore stanno insieme come due fratelli inseparabili. L’uno non ha valore senza l’altro: ma l’uno con l’altro spiega il Paradiso.
“Di null’altro - scrive Paolo ai Galati, questo innamorato di Gesù, che affermava che per lui “vivere è Cristo” - di null’altro, ripeto, mi glorio se non della croce di Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso e io per il mondo” (Gal. 6,14).

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Omelia del giorno 24 Settembre 2006

Messaggio da Redazione » gio set 21, 2006 12:33 pm

Omelia del giorno 24 Settembre 2006

XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Servo di tutti


Ci sono atteggiamenti degli uomini, che ricordano l’origine della nostra storia. Dio, il Padre, ci aveva creati solo per la felicità, per essere come Lui e con Lui, amore che si dona ed attende il nostro dono. Non c’era nulla, ma proprio nulla, in Adamo ed Eva, che non fosse dono e, quindi, nulla ma proprio nulla da inorgoglirsi...semmai tutto doveva essere un grazie:
un grazie che era ed è l’espressione della nostra umiltà di fronte al Padre che tutto ci ha donato.
Sennonché, messi alla prova proprio su questa riconoscenza, il demonio, che nella Bibbia appare come il serpente, il più astuto degli animali, si affaccia a fare le sue proposte. Satana è la superbia
personificata: Dio è l’amore che si fa “servizio”, sempre.
Racconta la Bibbia: “Il serpente era più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva creato. Disse alla
donna: “Così Dio vi ha detto di non mangiare nessun frutto degli alberi del giardino. Rispose la donna al
serpente: No, noi possiamo mangiare i frutti degli alberi del giardino. Soltanto dell’albero che è nel mezzo del giardino Dio ha detto: Non mangiatene il frutto, anzi non toccatelo, altrimenti morirete. “Non è vero che morirete - disse il serpente - anzi Dio sa bene che se ne mangerete, i vostri occhi si apriranno, diventerete come Lui, avrete la conoscenza di tutto. La donna osservò l’albero, i suoi frutti erano certo buoni da mangiare, erano una delizia per gli occhi, era affascinante per avere quella conoscenza. Allora prese un frutto e ne mangiò. Lo diede anche a suo marito ed egli ne mangiò. I loro occhi si aprirono e si accorsero di essere nudi...Dio, il Signore, chiamò l’uomo e disse: Uomo, dove sei?. L’uomo rispose: Ho udito i tuoi passi nel giardino. Ho provato paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (Gen 3,1-11).
Una disobbedienza che costò la nostra rovina, che è la storia di sempre…anche sotto i nostri occhi. Chi, diciamo la verità, non ha ceduto alla tentazione di “sentirsi alla pari con Dio”, e non si è alle volte dato un morso al frutto proibito? Conoscendo così quella nudità che ci allontana da Dio?
Gesù, Figlio di Dio, per togliere quella nudità e restituirci così al Padre ed al Paradiso, si vestì della nostra natura umana. “Egli era Dio - afferma S. Paolo - ma non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio. Rinunziò a tutto, diventò come un servo. Fu uomo tra gli uomini e visse conosciuto come uno di loro.
Abbassò se stesso, fu obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Perciò il Padre lo ha innalzato sopra tutte le cose e gli ha dato il nome più grande”
(Fil 2,6-10).
Nessun uomo sulla terra conobbe la grandezza di Gesù, così come nessuno conobbe la immensità del suo amore che volle vestirsi dei nostri “stracci” per rivestirci degli abiti dei santi. Visse tra noi come il più semplice e povero, senza mai avanzare i titoli di superbia. Conobbe così l’umiliazione fino all’estremo, morendo come il più abbietto tra noi, sulla croce. Tutto questo per cancellare la nostra voglia di superbia. E quando ai Suoi illustrava la sua missione di amore, non veniva capito. Come nel Vangelo di oggi.
“In quel tempo Gesù e i discepoli attraversavano la Galilea, ma Egli non voleva che alcuno lo sapesse.
Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno: ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”. Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione. Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?” Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora, sedutosi, chiamò i dodici e disse
loro: “Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti, e il servo di tutti”. E preso un bambino lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel nome mio, accoglie me: chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mt 9,29-36).
Impressiona lo stridore che si legge nel Vangelo tra quello che confida Gesù, circa la sua passione e resurrezione, e quello che invece è l’oggetto delle discussioni tra gli Apostoli. Gesù confida come l’amore ha la sua luce nell’annientarsi sulla croce: gli apostoli facevano progetti “umani”, che sono in netto contrasto con l’amore che si fa dono, passando per l’umiliazione.
Forse i Dodici vedevano in Gesù la via per farsi strada tra di noi, ossia chi sarebbe diventato il primo. Sarà lo Spirito, nella Pentecoste, a illuminarli e renderli “servi”
dei fratelli, fino a dare la vita.
Se c’è una cosa che tante volte ci fa assomigliare agli Apostoli, nella vita, è quella voglia di essere “primi nella società”. Cosa non si fa per scavalcare i fratelli!
Percorrendo vie che sono una grave offesa alla giustizia. Basta guardare a quella scandalosa corsa verso la cosiddetta “carriera”. Il mio fondatore, Rosmini, vedeva nella voglia di carriera un motivo di scandalo, tale che non esitava a ritenere indegni di appartenere alla congregazione quanti brigavano per farsi strada, ossia fare carriera. E’ vero, che ognuno di noi ha il dovere di conoscere e coltivare tutti quei doni o carismi che Dio ci ha dato... ma per essere servizio ai fratelli, non per coltivare la superbia.
Sentivo una volta una mamma che educava i figli a “essere i primi in tutto” perché “se non sei primo, sei nulla” diceva. Non importa se per raggiungere questo traguardo, come quello della ricchezza, devi calpestare gli altri. Devi diventare da grande una “persona importante”, ossia che abbia lo splendore della superbia. Così una persona non conta più per quello che veramente è agli occhi del Padre, ma per quello che è agli occhi del mondo...Non importa se questa cosiddetta gloria può essere spazzata via da un nulla. Perché l’opinione pubblica come è pronta a innalzare altari, al minimo sbaglio è pronta a calpestarti nella polvere.
Quando un vescovo viene eletto PApa, gli si ricorda nella incoronazione che “è polvere” … “così passa la gloria del mondo!”
Così bolla la superbia l’ Apostolo
Giacomo: “Carissimi, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che invece viene dall’alto è innanzitutto pura; poi pacifica, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace. Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e
uccidete: invidiate e non riuscite a ottenere:
combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (Gc 3, 16).
Quello che colpisce e fa tanto bene è incontrare gente umile; senza alcuna ambizione se non quella di essere utili ai fratelli. Ti passano vicino, sembrano “ombre”, talmente si fanno da parte, ed invece emanano una luce che è quella che tutti vorremmo godere. Ho avuto la fortuna di conoscere e stare vicino a tanti di questi autentici santi, che sembra non abbiano peso, ed invece ti accorgi che sono loro il grande tesoro tra di noi. Sono uomini, donne che vivono nella semplicità...gente che non si è lasciata ingannare dal serpente, il più astuto degli animali.
Chi di noi possiede questa grande virtù, davvero è un bene prezioso, che forse non si accorge di avere, ma che è. Gente che sembra che cammini in punta di piedi per non dare fastidio e non fare ombra. Davvero sono “i Primi”, ma i “servi di tutti”.
Così sognava la Chiesa il grande mio amico Tonino Bello, vescovo: “Noi non dobbiamo chiudere gli occhi finché il mondo non dorma sonni tranquilli: noi dobbiamo essere i servi del mondo: non dobbiamo avere paura di piegarci per lavare i piedi del mondo.
Non è una Chiesa che si mimetizza; non è una Chiesa populista; non è una Chiesa ridotta a rango di ancella; non è una Chiesa schiava. La Chiesa deve giocare come serva, non come riserva del mondo; non vuole mai fare il braccio di ferro con il mondo… La Chiesa deve giocare come serva del mondo perché se mena vanto della propria bravura, tristi tempi verranno”.
Non ci resta allora che diventare “bambini”, come è nel Vangelo di oggi, e farsi prendere in braccio da Dio, perché il bambino è esattamente il contrario della superbia ed è il volto meraviglioso dell’umiltà. Ma saremo capaci di andare contro corrente oggi in cui sembra prevalere il peccato di Eva e si ha come la sensazione che, diversamente, agli occhi della gente, si è nulla? Ma con gli occhi della fede, nella umiltà, abbiamo la certezza che di quel “nulla” ha preso possesso Dio.

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Omelia del giorno 1 Ottobre 2006

Messaggio da Redazione » gio set 28, 2006 8:01 pm

Omelia del giorno 1 Ottobre 2006

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Guai a voi!


Mi è dolce ricordare a tutti i miei amici con ho il dono di f armi vicino ogni settimana, per conoscere e vivere nella luce del Vangelo, che proprio oggi inizia il mese del S. Rosario. E offro una breve riflessione dell’amato e indimenticabile Papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione sul S. Rosario.
Quanti hanno avuto la gioia di conoscerlo da vicino, come l’ebbi io fino a essergli vero amico e lui a me, sa che le sue mani sembravano intrecciarsi fino a diventare una cosa sola con il S. Rosario. E il dono che faceva a quanti lo andavano a visitare era proprio il S. Rosario. Se volete, la stessa cosa la faceva mamma. Credo proprio che Papa Giovanni Paolo II e mamma abbiano intrecciato una così lunga catena che è stata la scalata al Paradiso.
Così afferma Giovanni Paolo II: “Il S. Rosario è da sempre preghiera della famiglia e per la famiglia. Un tempo questa preghiera era particolarmente cara alle famiglie cristiane e certamente ne favoriva la comunione. Occorre non perdere questa preziosa eredità. Bisogna tornare a pregare in famiglia, utilizzando ancora questa forma di preghiera...La famiglia che prega unita, resta unita. La famiglia che recita insieme il Rosario riproduce un poco il clima della casa di Nazareth, si pone al centro Gesù, si condividono con Lui gioie e dolori, si mettono nelle sue mani bisogni e progetti, si attingono da Lui speranza e forza per il cammino” (Es. Rosario n. 41).
Ho sempre nella memoria un fatto. Anni fa, quando la criminalità organizzata mostrava tutta la sua crudeltà, cercavo di portare nelle scuole il culto della legalità, liberando i giovani dalla paura per gustare il bello della libertà, dono irrinunciabile del Padre. Al termine di un incontro gli studenti liceali, ragazzi e ragazze, mi si strinsero attorno con le lacrime agli occhi.
Vedendomi salire in macchina solo, ebbero paura per me. Mi chiesero se non avevo paura.
Risposi: “Quando viaggio mi accompagna la Madonna che sento vicina recitando il S. Rosario, che accompagno ascoltando Chopin”. Dopo una settimana ricevetti un piccolo pacco contenente tutto Chopin ed una corona del S. Rosario, accompagnato da una semplice dedica: “Questo per dirle che tutte le volte che lei viaggia con il Rosario, ascoltando Chopin, tutti noi siamo con lei a fare lo stesso”. E debbo confessare che questa compagnia incredibile la sento ancora oggi.
Gesù oggi ci invita a riflettere su due temi di grande
attualità: il primo è la diffusa gelosia o invidia per il bene che vediamo e il secondo è la condanna senza tante reticenze sullo scandalo, ossia sulle occasioni di peccato che possono a volte danneggiare talmente la vita dei fratelli e a volte in modo grave, come nei confronti di “piccoli”.
“In quel tempo, Giovanni rispose a Gesù dicendo:
Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato perché non era dei nostri. Ma Gesù disse: Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo parli male di me. Chi non è contro di noi è per noi”. (Mc 9,37).
Quante volte succede a tutti noi, di interpretare il bene che si fa, anche da chi non la pensa come noi o apparentemente si pensa non sia di Cristo, senza minimamente soffermarci alla sola visione del bene compiuto, lodando Dio perché ogni bene, lo sappiamo “viene dall’alto”. Ci dilettiamo a dire tanti “sì...ma” e cercare tutti i difetti, che non esistono, in modo da appannare il bene che l’altro compie. I giusti - e ce ne sono tanti tra di noi - non si permettono mai di giudicare il bene: lo accolgono con gioia e benedicono Dio e chi lo compie. E’ sempre difficile per tutti, tranne che per Dio che vede l’intimo del nostro cuore, capire o conoscere le ragioni che muovono o ci muovono al bene. Sappiamo che il bene che si compie da chiunque ha sempre una sua origine dal cuore, là dove Dio ha deposto il “suo alito”
e la capacità di amare. A noi resta solo di dire “grazie a Dio perché ha agitato il vento dello spirito, portando l’altro a fare il bene”.
Quante volte ci siamo imbattuti in fratelli o sorelle che ci hanno stupiti per la loro generosità nel fare il bene e magari erano ritenuti “poco di buono”. In quelle occasioni ho sempre lodato il Signore che si fa presente – senza che la persona forse se ne accorgesse - tra di noi, usando il cuore del fratello.
A volte notiamo che i nostri occhi sono velati da un’ombra di gelosia o di invidia che nota solo il male in noi o negli altri. Dovremmo imparare - lo dico prima a me - a conoscere il bene che c’è in tutti, promuoverlo, incoraggiarlo, mettendo in ombra i difetti che sono le tante ombre che ci portiamo perché siamo peccatori.
A una sposa che notava sempre i difetti nel marito, rischiando di vedere fallire i rapporti, fu
suggerito: “Provi a conoscere le qualità buone che certamente suo marito, come lei, avete, e vedrà che i difetti appariranno per quello che sono: forme di ombre che tendono ad oscurare il sole e l’amore”.
Veramente abbiamo bisogno di ottimismo, ovunque, perché questo è la primavera che sveglia i buoni sentimenti e le tante capacità di bene che tutti abbiamo. Il pessimismo, la critica, l’invidia sono l’inverno dei cuori che gela tanta voglia di fare del bene.
La seconda parte del Vangelo ha parole durissime verso chi “dà scandalo” a cominciare dai bambini. Ma chi sono per Gesù “i bambini”, per cui mostra tanto amore? Sono quelle anime semplici, che non conoscono le vie del male e la loro vita è di una limpidezza che basta un nulla, a volte, per recar loro un danno irreparabile. Sappiamo tutti come il bambino è davvero tante volte l’immagine della umiltà, della debolezza, di quella purezza che richiama la beatitudine di Gesù: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.
Ma come è difficile essere bambini oggi! Attorno ci sono tanti scandali: “Un mare di fango che lascia poco spazio al bello dell’uomo. Chi vuole difendere questa “purezza di cuore” deve portare una grande corazza per difendersi dal male. E non è facile. Pare non si abbia più nessuna paura di fare del male. E di occasioni di male ce ne offre la vita quotidiane, sulla strada che tutti siamo costretti a percorrere, nei mezzi di comunicazione! Quando poi ti permetti di rilevare lo scandalo, ti rispondono: “ma che male c’è?”
Mi trovavo un giorno ospite di amici per un convegno.
Al termine mi portarono in un ristorante. Notai che in un angolo c’erano due bambini che sembravano indifferenti a quanto accadeva attorno a loro. Erano tutti presi nel vedere videocassette. Mi accostai per rendermi conto di quello che vedevano e attirava la loro curiosità. Erano videocassette non cliccare che incautamente, forse, i genitori avevano dato perché stessero “buoni”. Feci notare la cosa alla mamma che mi rispose: “Ma che male c’è? Oggi i bambini ne sanno più di noi adulti in queste cose!” Mi vennero in mente le parole di Gesù di oggi: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina girata da asina al collo e poi venga gettato nel mare”. E mettendo in guardia ciascuno di noi per non essere motivo di
scandalo: “Se la tua mano ti scandalizza - ossia se è occasione di fare del male ad altri - tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco che con due mani andare nella geenna, nel fuoco inestinguibile...e se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo perché è meglio per te entrare nel Regno di Dio con un occhio solo che essere gettato con due occhi nella geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si consuma” (Mc 9, 37-47).
E’ davvero duro il linguaggio di Gesù: un linguaggio che è una difesa della bellezza della nostra anima, anima da bambino, contro tutto ciò che la può rovinare. E sono davvero tante le forme e occasioni di essere scandalizzati e scandalizzare, che chiede una grande difesa. Scandalizza non più di tanto il terribile male della pedofilia: una mostruosità che la dice lunga sulla perversità del male che non ha pudore alcuno di fare scempio di piccoli, diventati “merce di piacere”...come rovinare con il fango capolavori della mano di Dio! Così come vanno inascoltati tutti gli appelli ai mass media perché rispettino sempre il nostro inalienabile diritto al rispetto della nostra coscienza.
A volte, entrando in una edicola o guardando certi programmi delle TV, si ha l’impressione di essere investiti senza riguardo, da un’ondata di fango che fa male, ma tanto male, a chi ha ancora la voglia di venire rispettato nella sua bellezza di cuore e di costumi. Possibile che una società che proclama tanta voglia di legalità, ossia di rispetto alla persona, non si prenda cura di combattere questa sottile forma di illegalità che fa scempio della bellezza dell’uomo?
“Ma che uomo è mai questo?” verrebbe voglia di dire con Levi. Ma che società è mai questa che non difende il bene della persona, che non è solo quello economico, ma sopratutto quello umano?
Quanta voglia di essere “bambini secondo Gesù”, puri di cuore che possono vedere il volto di Dio! E’ una voglia che vorrei fosse di tutti.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 8 Ottobre 2006

Messaggio da Redazione » gio ott 05, 2006 5:24 am

Omelia del giorno 8 Ottobre 2006

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Amarsi non è un gioco


Sembra impossibile, ma troppe volte si verifica.
Incontravo un giorno un fotografo con una grande cartella zeppa di foto molto belle. Erano le foto del matrimonio di due stupendi giovani, che si avvicinavano all’altare per dirsi quel “sì”, che è la parola di Maria, la sposa di Giuseppe, detta all’Angelo. Un sì che solo l’amore può conoscere nella bellezza e a volte nella durezza. Un “sì” che nel matrimonio davvero può essere il racconto della felicità che non conosce tempi e misure. Ma un “sì”
fragile che ha bisogno di nascere ogni giorno per conoscere sempre la bellezza della aurora, che si lascia alle spalle possibili notti, e va incontro allo splendore del giorno.
Quel fotografo mi fece vedere le foto, poi mi disse
sconsolato: “Le stavo portando agli sposi, ma questi, dopo pochi giorni, si sono lasciati. E adesso a chi consegno questo ricordo svanito nel nulla?”.
Se c’è una meraviglia, che sembra proprio il “tocco del Padre” in noi, è quella di amarsi, fino a fare di due una cosa sola per sempre.
Così lo racconta oggi la Sacra Scrittura: “Il Signore
disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio dare un aiuto che gli sia simile” ... Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne della mia carne e ossa delle mie ossa.
La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”.
Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una cosa sola. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Gen 2,18-24).
Il primo requisito, che si chiede sempre in questo “essere una cosa sola”, è l’amore. L’amore è la base del matrimonio: una base che dovrebbe conoscere la solidità della pietra, “come è la Chiesa”.
Un amore destinato a conoscere continuità nei secoli con il dono dei figli.
Ma, ripeto, due si sposano perché si amano. Noi cristiani inoltre affermiamo che Dio sostiene quest’amore, che non è certamente una “strada larga”, ma la famosa “via stretta” di cui parla Gesù, con il farsi vicino fino a essere aiuto e grazia nel matrimonio elevato a Sacramento.
Ed aggiungo: tutti noi, chiamati alla vita da Dio, siamo poi chiamati - vocazione - a percorrere la via della santità comune vocazione.
Il matrimonio è una vocazione. Nella fedeltà all’amore reciproco, si scala il Paradiso.
Chi di noi non si è come esaltato al solo pensiero dell’amore? E chi di noi non sa che una vita senza amore è davvero “una maledetta solitudine”, più simile all’inferno che al paradiso?
Anche la vita consacrata, la vita del sacerdozio sono una vera, incredibile professione di amore.
Meraviglioso amore. Chi è chiamato alla vita consacrata e fa voto di verginità, questo voto non lo fa per dire “no” al diritto di esprimere la propria sessualità, ma per dire “sì” a Dio, che diventa lo Sposo della sua vita.
Sono tanti i sacrifici che tale “sì” chiede: forse, come o meno di quelli di un matrimonio tra uomo e donna; ma quando ci si lascia riempire il cuore dell’amore, che Dio dona a chi gli si dona e Lui chiama, proprio come in un matrimonio, la vita è un meraviglioso racconto di gioia: una gioia che “genera”, per i pastori di anime, tanti “figli”, nel senso di Cristo.
Un “matrimonio” che ha i suoi momenti belli e quelli difficili, ma quando è vissuto come totale donazione, diventa a sua volta dono per chi non ha dono. Quanti figli ha generato Madre Teresa, nella sua verginità, alla vita ed alla dignità! Quanti ne hanno generato, e generano ancora oggi, quelli o quelle che si sono unite a Dio per sempre! Non ho nessuna difficoltà nell’affermare che senza l’amore, preferirei non esistere. La bellezza della vita sta solo nel voler bene a tutti, senza risparmiarsi.
Tornando dal viaggio che i bambini del Belice fecero a Roma, presso le massime autorità, per sollecitare la ricostruzione dei loro paesi distrutti dal terremoto, la domenica, durante la Messa mi sembrò giusto dare ragione alla mia gente di quanto avevamo fatto.
Ricordo che iniziai il discorso dicendo: “Vi domanderete perché ho fatto tutto questo. Nessun interesse personale. Solo per il grande amore che vi porto e volevo donare speranza”. Non ne so la ragione, ma scoppiai in un pianto dirotto davanti alla gente, un pianto irrefrenabile, che sembrava la diga del cuore che si era infranta e faceva uscire il grande fiume di amore.
E questa stessa gioia la vedo oggi in tanti matrimoni in cui, celebrando l’anniversario delle loro nozze di argento o d’oro, a volte si piange di commozione per essersi amati per tanto tempo e con la voglia di continuare per l’eternità.
Che poi l’amore conosca le sue difficoltà è nella povertà della nostra natura umana facile a creare nebbie, a volte non altrettanto facile a scioglierle.
“Per questo, avvicinatisi dei farisei per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: “E’ lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?” Ma egli rispose
loro: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?” Dissero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla”. Gesù disse loro: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e
femmina: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito” (Mc10,2-16).
E sappiamo che gli apostoli rimasero come scandalizzati da questa affermazione di Gesù, che parlava di fedeltà nell’amore, fino a dire: “A questo punto è meglio non sposarsi!” Che non è una soluzione accettabile. Credo che oggi, davanti alla risposta di Gesù, forse alcuni o tanti darebbero la risposta degli Apostoli.
Ma perché oggi sembra che noi uomini ci divertiamo a smantellare il bello del volersi bene in una vita nel matrimonio? Credo che siamo, inconsciamente forse, vittime di una perdita della vera natura e bellezza dell’
amore, che è dono totale, come avvertiamo se ci interroghiamo nel fondo della nostra coscienza, Ma abbiamo perso la vera natura dell’ amore dando via libera al piacere e così l’uomo e la donna rischiano di diventare merce di piacere, che nulla ha a che fare con l’amore. Ma non si può giocare con il cuore, Mai!
Quando ci si incontra, e dall’incontro spunta il desiderio di essere una cosa sola per il meraviglioso cammino del matrimonio, in quel momento possiamo diventare “altare dell’amore” destinato a crescere, o forse inconsciamente “tomba della felicità”. E Dio solo sa quanto dolore genera quello strappo della “costola”, che aveva fatto dei due una cosa sola.
Quanto dolore vi è nelle separazioni, nei divorzi, non solo negli sposi, ma nei loro cari, senza contare come i figli poi non sanno più a quale famiglia appartengano e chi chiamare papà o mamma. Ce ne rendiamo conto dell’immane dolore?
La prossima settimana la Chiesa italiana si riunirà, come sapete certamente, in quell’ evento pentecostale che è il Convegno di Verona. Nelle tracce di preparazione, oggetto di discussione e proposte nelle parrocchie, si accenna all’affetto in genere e quindi al matrimonio e alla famiglia. “Un primo ambito della testimonianza è quello della vita affettiva. Ciascuno trova qui la dimensione più elementare e permanente della sua personalità e la sua dimora interiore. A livello affettivo, infatti, l’uomo fa l’esperienza primaria della relazione buona (o cattiva), vive l’esperienza di un mondo accogliente ed esprime con la maggiore spontaneità il suo desiderio di felicità.
Ma proprio il mondo degli affetti subisce oggi un potente condizionamento in direzione di un superficiale emozionalismo, che ha spesso devastanti effetti nella verità delle relazioni. L’identità e la complementarietà sessuale, l’educazione dei sentimenti, la maternità-paternità, la famiglia e, più in generale, la dimensione affettiva delle relazioni sociali, come pure la rappresentazione pubblica degli affetti, hanno bisogno di aprirsi alla speranza e quindi alla ricchezza delle relazioni, alla costruttività delle generazioni e del legame tra generazioni”.
Sarà pur vero che ci sono tante crisi matrimoniali, o tante fughe in forme di unione che sottovalutano la fedeltà e totalità dell’amore, ma questo deve, caso mai, indurci tutti ad andare alle vere radici di quel “paradiso di Dio che è il dono dell’amore” per farlo fiorire, come del resto. avviene in tantissime famiglie che non fanno cronaca, ma sono il vero futuro e la bellezza della società.
A queste meravigliose famiglie, un grazie di cuore, perché sono preziose “testimoni del Cristo Risorto, testimoni della bellezza senza tempo, dell’amore, il plauso della Chiesa .. e di tutti.
Ai matrimoni in difficoltà dono tutto il mio aiuto a superare il momento difficile, facendosi davvero eroi del difficile. Ricordiamoci sempre che fedeltà, amore ed eternità è il bello di Dio che ci ha dato. Non perdiamolo mai: è lo sprazzo di Paradiso, che ci fa vivere serenamente qui.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 15 Ottobre 2006

Messaggio da Redazione » gio ott 12, 2006 1:22 pm

Omelia del giorno 15 Ottobre 2006

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Una cosa sola ti manca


Credo da parte mia doveroso volgere l’attenzione al grande evento ecclesiale che proprio domani si celebrerà a Verona dal 16 al 20 c.m.
E’ dal 1976 che ogni dieci anni la Chiesa italiana, dopo una preparazione a livello parrocchiale e diocesano, si interroga e si prepara per questo straordinario momento, che non esito a definire la Pentecoste del nostro tempo. E’ una Chiesa che si interroga, leggendo i segni del tempo, come essere luce per gli uomini.
Il primo convegno fu celebrato a Roma nel 1976 con il titolo suggestivo “Evangelizzazione e promozione umana”. Ero presente, chiamato a testimoniare la presenza della Chiesa in eventi eccezionali come il terremoto nel Belice. E si respirava la grande voglia di “uscire allo scoperto”, per vivere la fede in modo esemplare.
Il secondo Convegno fu tenuto a Loreto nel 1986 con il tema della “Riconciliazione”: ed era il tempo del dopo terrorismo e quindi la necessità di fondare i rapporti tra di noi, a volte scossi da esasperate forme come il terrorismo, sul perdono. Il terzo fu celebrato a Palermo dal tema “Comunione e comunità”, come a mostrare la presenza della Chiesa nel Mezzogiorno, superando tentazioni di separazione o emarginazioni.
Ed è facile, a distanza di tempo, constatare come la Chiesa abbia cercato, alla luce dello Spirito, di tracciare un cammino di civiltà dell’amore.
A Verona ha scelto un tema davvero
provocatorio: “Testimoni di Cristo Risorto, speranza del mondo”.
“Obbiettivo pertanto del Convegno Ecclesiale è chiamare i cattolici italiani a testimoniare, con uno stile credibile di vita, Cristo Risorto come la novità capace di rispondere alle attese e alle speranze più profonde degli uomini di oggi. Domande acute sorgono dai mutati scenari sociali e culturali in Italia e nel mondo, e ancor più dalle profonde trasformazioni riguardanti la condizione e la realtà stessa dell’uomo.
Nel momento di un’epoca segnata da forti conflittualità ideologiche, emerge un quadro culturale e antropologico inedito, segnato da forti ambivalenze e da una esperienza frammentaria e dispersa. Nulla appare veramente stabile, solido, definitivo. Privi di radici, rischiamo di smarrire anche il futuro. Il dominante “sentimento di fluidità” è causa di disorientamento, incertezza, stanchezza, e talvolta persino di smarrimento e disperazione. In questo contesto i cristiani, estranei e pellegrini nel tempo, sanno di poter essere rigenerati continuamente dalla speranza, perché le tristezze e le angosce del tempo, sono “gettate” nelle mani del Dio di ogni giorno. Essi accolgono pertanto con gioia l’invito evangelico rinnovato da Giovanni Paolo II “a prendere il largo”
(Doc. n.1).
E’ chiaro che il Convegno ecclesiale di Verona non è uno dei soliti convegni che si fanno, come uno scambio di prospettive o ricerca di ogni tipo. Qui la Chiesa e ogni cristiano è chiamato a riflettere su ciò che noi cristiani siamo, anzitutto nella nostra vita di fede e quindi nella società, o negli ambiti in cui Dio ci ha chiamati. I tempi che viviamo non concedono spazio a incertezze o “mode” o superficialità: chiedono di schierarsi apertamente da che parte stiamo “perché e per Chi Viviamo”: e questo non con le facili parole, ma con il totale coinvolgimento della vita.
In altre parole Gesù chiede, a chi davvero vuole seguirLo, di essere coerenti con Lui. Un cristianesimo superficiale, che è una fede di facciata, altro non fa che dare ragione a ciò che non è Cristo. Per questo si usa la parola “testimonianza”, che è vivere ciò che si è e non quello che si dice con le labbra contraddetto da quello che poi davvero si è.
“Il mondo, affermava Paolo VI, ha bisogno oggi più che di dottori, di testimoni: meglio ancora se dottori e testimoni”.
Riusciremo, insieme, a farci coinvolgere dalla Pentecoste di Verona, fino a diventare credibili di fronte ad un mondo senza fede?
Riuscirà Gesù a uscire dalla sala del Convegno come “risorto nello splendore” e coinvolgerci nella Resurrezione?
Sappiamo tutti che Dio non si accontenta delle apparenze superficiali, ma, come è nello stile dell’amore, vuole ci vestiamo del suo abito che è la
santità: ossia un “sì” senza incertezze a seguirLo.
Ci aiuta in questo l’episodio del Vangelo di oggi. “Gesù, mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale (si pensa fosse un giovane) gli corse incontro e gettandosi in ginocchio davanti a Lui, gli domandò:
Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? Gesù gli disse: Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i
comandamenti: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Ed egli allora gli disse: Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto perché aveva molti beni, Gesù volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli:
Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio! I discepoli rimasero stupefatti a queste parole, ma Gesù riprese: Figlioli, come è difficile entrare nel Regno di Dio! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio. Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra di loro: E chi mai si può salvare? Ma Gesù, guardandoli, disse: Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio! Pietro allora disse: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. E Gesù dette la sua parola che, anche se con persecuzioni, avranno cento volte tanto quello che hanno lasciato (ed era davvero poco perché erano pescatori) e la vita eterna”.
(Mc. 10,17-30).
Proviamo a entrare nelle parole meravigliose e difficili di Gesù. Gesù incontra un giovane che diremmo oggi “buono”, in regola con i comandamenti di Dio. E Gesù non lo contraddice in questa confessione, ma “lo fissò”. Mi ha sempre fatto impressione quello sguardo di Dio che si manifesta e sonda fino in fondo la disponibilità di uno di noi. “Fissatolo, lo amò”. C’è davvero tutto l’amore di Dio che mette alla prova, per vedere la capacità di trovare una risposta: una risposta di totalità nella scelta di Lui, una scelta che getta alle spalle tutti gli altri beni e considera bene appartenerGli. Se vuoi andare oltre la pura osservanza dei comandamenti, fino a farti conquistare dall’amore, “va’ vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Davanti a quel giovane, ieri e oggi e sempre, rimane un “sì” o un “no” a Dio, che chiede di essere il solo Amore da fare diventare solo bene della vita.
Ma quel giovane, così generoso nella sua osservanza, mostra il lato debole del suo rapporto con Dio, ossia l’attaccamento ai beni della terra, che “valgono più di Dio”, tanto che, “rattristato, per quelle parole, se ne andò afflitto perché aveva molti beni”. Da qui l’amarezza di Gesù di essere considerato un bene inferiore ai beni della terra. Incredibile per chi sa cosa voglia dire amare.
E mettere Dio al secondo posto suona davvero offesa grande a Gesù, da qui le parole: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio!” Ed è anche oggi una scelta, quella di mettere in primo piano i beni della terra rispetto all’amore di Dio, molto diffusa. Quello che Gesù condanna aspramente non è avere, ma fare dell’avere un idolo.
Quante volte Dio avrà fissato e amato giovani, ragazze, noi tutti, invitandoci a liberarci da un morboso amore per le cose di questa terra, e chissà quante volte avrà ricevuto una risposta negativa. E’, se vogliamo, in parte, la crisi delle vocazioni. Ricordo il giorno in cui, rispondendo di sì a Gesù che mi aveva fissato ed amato, gli dissi “sì”, seguendoLo e rinunciando a tutto, ma proprio tutto, con i voti di povertà, castità e obbedienza. In pratica, così, posso dire che per me “vivere è Cristo”. Mai ho pianto per tanta gioia come quel giorno...come il giorno che la Chiesa mi chiamò al sacerdozio. Ricordo il pianto di papà, che era davvero una roccia per la sua serietà, e tanta era la sua commozione che non riuscì a legarmi le mani, dopo l’unzione fatta dal Vescovo. Così come fu immensa la gioia nel momento in cui il Card.
Pappalardo mi unse il capo e mi ordinò vescovo, ossia pastore della Chiesa, pronto a dare la vita per Cristo.
Difficile dire a parole la gioia che si prova nel sapere di essere tutto di Dio o meglio Lui è il tutto. E’ una gioia che è il dono che effondiamo nel nostro servizio.
Dire “sì” a Dio può apparire duro, ma incredibilmente bello, se si è capaci, quel “sì”, di renderlo sola parola dell’ amore.
Voglio dedicare ai giovani, che so generosi, se lo vogliono, le parole di don Tonino Bello: “Da’ a questi miei amici e fratelli, la forza di osare di più. La capacità di inventarsi. La gioia di prendere il largo. Il fremito di sperane buone. Il bisogno di sicurezze li ha inchiodati ad un mondo vecchio, che si dissolve nei cuori...Dai ad essi, Signore, la volontà decisa di rompere gli ormeggi… La libertà è sempre una lacerazione. Stimola nei giovani una creatività più fresca e la gioia turbinosa che li metta al riparo da ogni prostituzione”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 22 Ottobre 2006

Messaggio da Redazione » gio ott 19, 2006 12:50 pm

Omelia del giorno 22 Ottobre 2006

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Chi vuol essere grande


Gesù doveva avere una grande pazienza nel tenere vicini a Sé discepoli anche se Lui stesso li aveva scelti perché stessero con Lui e quindi mandarli.
Infatti portavano in sé tutta l’ignoranza e la debolezza della natura umana che ancora non è stata sfiorata dalla sapienza dello Spirito.
Abbiamo visto come Pietro, sentendo il Maestro che preannunziava la sua morte e resurrezione, “lo prese in disparte e gli disse: Sia mai!”. E sentì il netto distacco tra quello che Lui era e, con Pietro, tutti
noi: “Vai lontano da me, satana, perché tu mi sei di scandalo. Tu non la pensi come Dio, ma come gli uomini” (Mc 8).
Erano vicino ad un Maestro “Figlio del Dio vivente”, che era l’esempio di cosa voglia dire essere considerato “nessuno” dagli uomini o forse uno che stava facendosi strada per diventare chissà cosa, come è nelle ambizioni umane: “Farsi strada”, “essere qualcuno” o, meglio, “il primo di tutti”?
Isaia così descrive Gesù nella sua profezia: “Il servo del Signore è cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire. Al Signore è piaciuto provarlo, con dolori.
Quando egli offrirà se stesso, in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo e compirà per mezzo suo la volontà del Signore...il giusto mio servo, giustificherà molti: egli si addosserà le loro iniquità”
(Is 23, 2-11).
Mi sono chiesto - e forse vi chiederete, molte volte - cosa spinge tanti a “farsi avanti”, a essere uomini “di prima pagina” nei giornali, in TV, nelle tante insipide riviste e ancora peggio nel campo della politica, che dovrebbe essere “luogo di servizio”, nella economia, nello spettacolo, ma anche in quello della violenza e della malavita organizzata… E due sono spesso le perverse ragioni: il prestigio e il potere.
Ho avuto modo di conoscere, anche se di sfuggita, alcuni appartenenti alla criminalità organizzata. Con uno di essi, invitato, ebbi la pazienza di ascoltarlo per due ore. Un incredibile sublimarsi: un continuo
chiedermi: “lo sai chi sono io?” Al punto che era o è abitudine di circondarsi da tale “rispetto”, che era proibito persino fare il loro nome, come fossero
Dio: “Non nominare il mio nome”. Incredibile.
Alla fine, volendo salutarlo, prima di congedarmi, finsi di non ricordare il nome. “Sto davvero invecchiando, mi scusi e mi capita di scordarmi i nomi”. Notai il dispetto dell’interessato. Chiesi aiuto alle guardie che erano appostate nel corridoio, ma nessuno rispondeva. Ripetei la domanda un’altra volta. Silenzio e lo stupore diventò ira. Così la terza volta. Varcando la porta della cella, mi voltai, e lo chiamai per nome. “Ho fatto questo, gli dissi, per farle comprendere che per me non esistono persone così importanti da ricordarne il nome, con un incredibile e inaccettabile rispetto”.
Ho ancora negli occhi il furore dell’interessato che se avesse potuto mi avrebbe fatto conoscere il fondo della sua ira. “Questa sera, disse, non arriverà a casa” fu la minaccia. “Arriverò, arriverò, gli dissi, perché mi protegge Dio. Se non altro per pregare per lei”.
Dove arriva la superbia dell’uomo, una superbia che non si limita e non accetta di essere quello che siamo agli occhi di Dio: “poveri figli!”.
Ma lasciamo parlare Gesù: “Si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo,
dicendogli: “Maestro noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo. Gesù disse loro: Cosa volete che io faccia per voi? Gli risposero: Concedici di sedere nella tua gloria, uno alla tua destra, e uno alla tua sinistra. Gesù rispose: Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui sono battezzato? Gli risposero: Lo possiamo. All’udire questo gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù chiamatili a sé disse loro: Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così, ma chi vuol essere grande tra voi si faccia vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto di tutti” (Mc 10,35-43).
Che lezione, carissimi, per quanti fanno della vita una lotta per essere “primi!” con il danno che ne viene per quelli che non sono primi.
E’ il mese del Rosario, quella meravigliosa devozione che tanti, ma tanti ancora coltivano, come un imparare dalla Mamma chi era Gesù. E chi meglio di lei, che sicuramente in cielo è “alla destra” del Figlio, poteva conoscere il cuore del figlio, fattosi servo nostro, fino a spargere il suo sangue per salvarci?
Piace donare a voi un piccola brano del “mio” Rosmini che ripeto, spero presto conoscerà l’onore degli altari.
Rosmini apparteneva ad una famiglia molto ricca ed importante di Rovereto, ma nel momento che Dio lo ha chiamato a dare vita all’Istituto della Carità, scelse come abitazione un luogo solitario, il Calvario di Domodossola. Ed ogni volta mi reco al Calvario, amo soffermarmi nella cella dove abitava e lavorava. E ogni volta mi mette in crisi per la povertà di quell’abitacolo, dove lui svolgeva la sua vita di uomo di Dio e grande filosofo. Davvero come “servo di tutti”.
Scrisse quel libricino stampato nel tempo in centinaia di migliaia di copie intitolato “Massime di perfezione”, adattate ad ogni tipo di persona. Nella massima intitolata “Riconoscere intimamente il proprio nulla”
scrive: “Il cristiano dunque deve imitare l’umiltà di Mosè. Quanto stentò a credere di essere lui l’eletto a liberare il popolo di Dio! Con affettuosa semplicità e confidenza rispose a Dio stesso di dispensarlo da quell’incarico, perché era balbuziente. Lo pregò di mandare invece Colui che doveva essere mandato: il Messia promesso. E tutto questo nonostante Mosè traboccasse di zelo per la salvezza del suo popolo. Il cristiano deve meditare e imitare continuamente la profondissima umiltà di Maria. Nelle divine Scritture la vediamo descritta sempre in quiete, in pace, in continuo riposo interiore. Di sua scelta la troviamo sempre in una vita umile, ritirata e silenziosa, dalla quale viene tolta se non dalla voce stessa di Dio o dai sentimenti di carità verso la sua parente Elisabetta.
A giudizio umano chi potrebbe credere che della più perfetta delle creature umane, ci fosse raccontato così poco anche nelle divine Scritture? Nessuna opera da Lei intrapresa, una vita che il mondo cieco direbbe di continua inazione, e che Dio dimostrò essere la più sublime, la più virtuosa, la più generosa di tutte le vite.
Per essa quest’umile e sconosciuta giovinetta fu innalzata dall’Onnipotente alla più alta dignità, a un seggio di gloria più elevato di quello dato a qualunque altro, non solo tra gli uomini, ma anche tra gli angeli”
(massime di perfezione, quarta, n.7).
E sorprendono le parole che S. Agostino, grande vescovo, disse del suo essere vescovo. “Ora noi che il Signore per bontà sua e non per nostro merito, ha posto in questo ufficio - di cui dobbiamo rendere conto e che conto! - dobbiamo distinguere molto bene due
cose: la prima è che noi siamo cristiani, la seconda è che noi siamo posti a capo. Per il fatto di essere cristiani dobbiamo badare alla nostra santità, in quanto siamo messi a capo dobbiamo preoccuparci della vostra salvezza. Forse molti semplici cristiani giungono a Dio percorrendo una via più facile della nostra e camminando tanto più speditamente, quanto minore è il peso delle responsabilità che portano sulle spalle. Noi invece dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori” (dal discorso sui pastori).
Come sanno interpretare bene i santi di ieri e di oggi le parole di Gesù! A volte il mondo li ignora, ma poi si impongono con i soli che danno luce e sono luce per tutti, come fu il martirio di Paola Tonelli, che aveva dedicato una vita tra i più poveri in Africa e conobbe la gloria del martirio, che è la miglior testimonianza del Vangelo di oggi. Nessuno di noi sapeva della vita di Suor Lionella. Viveva nell’umiltà del servizio e il martirio la innalzò alla gloria.
E non posso, parlando di suor Lionella, non ricordare a tutti noi che oggi la Chiesa celebra la Giornata mondiale delle missioni, una giornata che non può ridursi a una offerta doverosa a chi dà la vita, ma deve essere un rispolverare la nostra missione che viene dal battesimo.
“Essere missionari - scrive in proposito il Santo Padre – significa amare Dio con tutto se stessi, fino a dare, se necessario, la vita per Lui.
Quanti sacerdoti, religiosi, religiose, laici, pure in questi nostri tempi, gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio! Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo” (dal messaggio del Papa).

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 29 Ottobre 2006

Messaggio da Redazione » gio ott 26, 2006 5:27 am

Omelia del giorno 29 Ottobre 2006

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Coraggio! Alzati, ti chiama!


Credo che tutti, chi più chi meno, vedendo il male che vi è oggi tra di noi, non sappiamo più trovare una ragione per dare un senso alla vita. Eppure questo è un grande dono che Dio non può averci dato come fosse uno scarabocchio, di quelli che a volte anche noi facciamo e vogliamo dire niente.
C’è una bellezza che lentamente, con il dono della fede, con la ragione, dobbiamo saper scoprire.
Forse abbiamo occhi appannati o resi ciechi, dalle falsi luci del mondo, capaci di render ciechi alla vera luce. Dobbiamo saper usare “il collirio” di una fede veramente vissuta per aprirci alla luce.
Così S. Agostino in uno dei suoi soliloqui, pregava
Dio: “O Vita per cui vivono tutte le cose, Vita che mi doni la vita, Vita che sei la mia vita, Vita per la quale vivo, senza la quale muoio: Vita per la quale sono risuscitato, Vita senza la quale sono perduto, Vita per la quale godo, senza la quale sono tormentato. Vita dolce e amabile. Ti prego, dove sei, dove ti troverò per morire a me stesso e vivere in Te? Se vicino a me, nell’anima, vicino nel cuore , vicino nella bocca, perché sono malato, malato di amore perché senza di te muoio, perché pensando a te mi rianimo”.
Contengono queste parole tutta la passione di un santo che tanti anni visse come un cieco in cerca della luce e quando la trovò nella fede divenne il santo che tutti conosciamo. E il suo percorso di ricerca, da cieco a vedente, lo racconta senza vergogna nel celebre libro delle “Confessioni”.
C’è chi sembra felice di essere cieco,
accontentandosi di camminare a tastoni, affidandosi alle illusioni di falsità…ma viene il momento che la vita chiede conto di tutto questo ed è il momento o della depressione o dello smarrimento, che a volte porta al suicidio.
“Che farsene di questo ingombro, che è la vita, mi disse qualcuno, se non ne vedo la ragione, il
traguardo: meglio ancora se non scopro la bellezza ce vi è nella vita e non so come trovarla?”
E’ una vera “gemma” il Vangelo di oggi, perché invita davvero a farci immergere dalla bellezza della luce di Dio, uscendo dalla pericolosa cecità.
“Gesù mentre partiva da Gerico, insieme ai suoi discepoli e molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me.
Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più
forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me! Allora Gesù si fermò e disse: Chiamatelo! E chiamarono il cieco
dicendogli: Coraggio! Alzati, ti chiama! Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: Che vuoi che io faccia? E il cieco a lui:
Rabbunì, che io riabbia la vista. E Gesù gli disse: Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito riacquistò la vista e prese a seguirLo per strada” (Mc 10,46-52).
Immaginiamo Bartimeo, condannato nella sua cecità a vivere non solo senza vedere, ma impossibilitato a fare qualsiasi cosa e quindi a costruirsi la vita; doveva fermarsi ai lati della strada, cercando di impietosire i passanti e quindi stendere sempre la mano. In lui non solo vi è il dolore profondo di non vedere, ma quello ancora peggiore di non essere in grado di costruirsi una vita con le proprie mani.
Ma Bartimèo ha la fortuna o la grazia che sulla sua strada di Gerico passasse Gesù. Certamente avrà sentito parlare della bontà del Figlio di Davide, capace di ridare la pienezza non solo della vista, ma della vita.
In lui nasce spontanea, genuina, la voglia di affidarsi alla sua bontà e non si stanca, anche se cercano di impedirglielo, impietosamente. Urla a Gesù, il Maestro, quella stupenda preghiera che potremmo fare nostra: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”
Come vorrei fosse la mia, la nostra preghiera, quando la vita sembra avvolta da un buio, che è pericolosa cecità dell’anima! Ma occorre la sua fede. Gesù si impietosisce di Bartimeo. Legge nel grido la grande fede che non doveva essere delusa. E lo manda a chiamare. “Che vuoi che io faccia?”chiede. La risposta è di una semplicità disarmante: “Rabbunì, che io abbia la vista”. “E Gesù così risponde: “Va’, la tua fede ti ha salvato!” Bartimeo non solo vede, ma d’impulso segue Gesù.
Bartimèo, vedendo e seguendo Gesù, deve avere ritrovato quella gioia di vivere che tutti vorremmo avere.
Così il vescovo Tonino Bello “canta la vita”. Dopo avere chiesto a Dio di donargli quell’ala che Lui tiene nascosta, per alzarsi in volo, dice: “Per questo mi hai dato la vita, perché io fossi tuo compagno di volo...Insegnami allora, a vibrarmi in alto. Perché vivere non è trascinare la vita, non è rosicchiare la vita.
Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del volo. Vivere è assaporare l’ebbrezza della libertà. Vivere è stendere l’ala di chi sa di avere nel volo un partner come te” (Tonino Bello).
Quante volte, alla vista di spettacoli violenti, che mostrano tutta la brutalità di cui l’uomo è capace, chiudiamo gli occhi e in qualche modo vorremmo vestire i cenci di Bartimèo!
Così come, davanti al bello della natura, dell’arte, della bontà, ci lasciamo riempire gioiosamente gli occhi...ed è come se gli occhi avessero finalmente trovato la loro ragione e funzione.
Ma vi è ancora qualcosa di meraviglioso che ci accosta a Dio. La vista dell’amore, ossia quello specchiarsi nel profondo degli occhi di chi ci vuole bene e cogliere una luce davvero divina che affascina e sembra non appartenere a questa nostra terra. “Come vorrei perdermi nei tuoi occhi! E’ come immergersi in un mare di felicità e non mi rincrescerebbe passare l’intera vita a cogliere la bellezza del tuo sguardo”! Sono frasi che si colgono sempre quando si sa “vedere”. Gesù quando voleva trasmettere la particolarità del Suo amore, che “chiamava”, dice il Vangelo), “fissatolo, lo amò”.
E’ uno sguardo, quello di Gesù e delle persone care, che tante volte non ha neppure bisogno degli occhi...sa “incontrare”.
Nella Novena, che un mese fa tenni al meraviglioso Santuario di Tortona, intitolato alla Madonna della Guardia - una novena che mi ha davvero commosso perché sembrava di cogliere lo sguardo della Mamma Celeste su quella folla che continuava a volgere il suo sguardo a lei - tra le opere di carità di don Orione, santo della carità, mi fu dato visitare un monastero di clausura. Di particolare - ed è ciò che mi ha colpito - le suore provenienti da tutto il mondo, erano completamente cieche…ma vivevano una vita di “contemplazione e di adorazione”. Colpiva quella serenità di anime che si distinguono per il loro abito, con una grande striscia rossa al centro, che sembra dire la loro felicità.
Dovremmo davvero imparare da Bartimèo a chiedere con fede a Gesù che ci doni quella “vista”, che sa scorgere lo sguardo di Dio. “Ricordati, - scrive M.
Quoist - Dio ti guarda e ai suoi occhi non sei né meno grande, né meno amato di qualsiasi altro uomo che forse tu fai oggetto della tua invidia. Da’ a Lui il tuo cruccio, la tua pena, il tuo rammarico…e credi più nella sua potenza che nella tua efficacia. Nella misura in cui tu conoscerai, accetterai, e offrirai i tuoi limiti a Dio, scoprirai che la tua povertà si trasforma in una immensa ricchezza. I tuoi limiti non sono unicamente delle barriere, sono anche suggerimenti di Dio, per indicarti con tali pietre miliari il cammino che devi percorrere.
Non sei un buon parlatore? Non potrebbe essere un segno che devi essere un buon ascoltatore? Sei timido? Non è perché devi accettare, piuttosto che imporre, trascinare? ...Riconoscere i doni che il Signore ci ha elargito non è un difetto. L’orgoglio è nel credere che li abbiamo meritati o ottenuti con i nostri propri mezzi” (Quoist, “Riuscire”).
Vorrei chiedere a Gesù che “tocchi i nostri occhi” e li apra alla bellezza della Sua luce o a Lui, fino a seguirLo come Batrimèo.
Non è davvero una gioia avere occhi e non vedere e vivere ai margini della felicità come era per Bartimèo!
Che Gesù ci doni occhi pieni della sua luce e che sappiamo, questa luce, donarla chi ha tanto bisogno di incontrare chi sappia “vedere”, “capire”, “amare”!

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Convegno di Verona

TESTIMONI DI GESÙ RISORTO, SPERANZA DEL MONDO

Era questo il tema che la Chiesa italiana si era dato per il IV Convegno ecclesiale, che si è celebrato a Verona. Un tema che voleva richiamare la vera bellezza della nostra vita, che deve essere un richiamo alla grande “ragione”che il Padre ci ha indicato, facendoci dono della vita, ossia dare senso a ciò che siamo e facciamo seguendo le orme di Cristo, per giungere a partecipare alla felicità con Lui. E divenire quindi speranza per un mondo, il nostro, che sembra relegarsi nel “nulla” delle illusioni, che sono un “non vivere”.
Tutta la Chiesa italiana si era preparata da due anni, nelle parrocchie e nelle diocesi, a questo evento. E lo si è visto a Verona.
Partecipavano ben 2.700 delegati, scelti dalle varie diocesi, espressione dell’impegno per il Regno di Dio. C’erano, quasi alla pari, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, donne e uomini, che portavano le esperienze, nella vita di oggi, come cristiani.
Gli ambiti, ossia i temi in discussione, per divenire testimoni di speranza, erano cinque, su cui, per tutto il Convegno ciascuno era chiamato a dare il suo contributo, come ognuno fosse pietra angolare per l’edificio di una Chiesa e di un mondo nuovo.
Chiesa chiamata ad andare oltre il pessimismo, a cui tanti sembrano condannarsi amaramente: un pessimismo che così ignora la ricerca dei grandi valori, che sono il nostro bene.
Gli ambiti, in cui tutti portavano la loro esperienza, erano lo specchio della nostra realtà:
lavoro e festa - fragilità umana - tradizione - vita affettiva - cittadinanza.
Bisognava essere là per gustare la bellezza di una Chiesa-comunione tutta tesa a farsi coinvolgere dallo Spirito, come in una nuova Pentecoste: una Pentecoste che suggeriva di trovare vie nuove, per una vita da cittadini del Cielo.
Forse avete visto la grande apertura all’Arena, il primo giorno.
I mass media sono stati molto avari nel donarvi il divino che si respirava.
Non poteva mancare la giornata con il S. Padre, che, al mattino, con il suo discorso, sembrava dettasse “una lettera apostolica alla Chiesa italiana”
e, nel pomeriggio, in comunione con Cristo Signore, ha pregato il Padre, nello Spirito, con la solenne celebrazione eucaristica nello stadio.
Ora si attende che il grande soffio dello Spirito raggiunga tutte le comunità e il mondo, attraverso i delegati presenti.
Di certo nulla può essere come prima, ma tutto deve fare respirare il sapore del nuovo.
Tutti siamo ripartiti da Verona con un preciso mandato, datoci dal S. Padre: “dobbiamo essere testimoni, a tutto campo, del Cristo Risorto, con il pensiero e con l’azione, nei comportamenti personali e in quelli pubblici”

Antonio, Vescovo
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Omelia del giorno 1 Novembre 2006

Messaggio da Redazione » mar ott 31, 2006 12:39 pm

Omelia del giorno 1 Novembre 2006

Tutti i Santi e Commemorazione dei Defunti

Quell’incontro inevitabile


C’è un giorno in cui tutti, credo, siamo chiamati a interpellarci sulla verità della vita. Ed è la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione dei Defunti.
Tutti noi abbiamo avuto vicino, amato, condividendo tanta parte della nostra vita, molti cari che ora “riposano in pace” o, meglio, hanno terminato il cammino in questa valle di lacrime; hanno recitato la loro parte sulla scena di questo mondo, ognuno a suo modo. Chi bene, chi indifferentemente, chi sbagliando. Alcuni hanno fatto il loro tragitto, facendo della vita un continuo “andare verso Dio” e quindi la felicità eterna, l’amore senza fine; altri, speriamo non noi, carissimi, inseguendo sogni che non conoscono l’eternità e si sono spenti il giorno del “ritorno a Casa”.
Ma la vita, dono del Padre, non ammette sbagli. Ci lascia la libertà di scelta, ma non toglie la responsabilità delle scelte.
Che si voglia o no, si creda o no, rimane la certezza di un giorno, “il nostro più importante giorno”, che mette fine al giorno di questa terra, per aprirsi al giorno senza sera, che è la morte.
E nella solennità di tutti i santi, come nella commemorazione dei defunti, tutti per un momento cerchiamo di ricordare, o ancora meglio rivivere i momenti di una vita vissuta insieme. Un amore partecipato qui sulla terra e che sentiamo, profondamente, non può essere finito, ma che attende solo di trovarci insieme.
Ce lo descrive molto bene l’Apostolo Giovanni
nell’Apocalisse: “Vidi ancora una grande folla di persone di ogni nazione, popolo, tribù e lingua che nessuno riusciva a contare. Stavano di fronte al trono dell’Agnello, vestite di bianche vesti e tenendo in mano la palma, gridando a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio, a Lui che siede sul trono, e all’Agnello...Chi sono queste persone vestite di bianco e da dove vengono? ...Sono quelli, rispose il Signore, che vengono dalla grande persecuzione. Hanno lavato le loro tuniche, purificandole con il Sangue dell’Agnello...Non avranno più né fame, né sete, né soffriranno il sole e l’arsura. L’Agnello che è in mezzo al trono, avrà cura di loro come. un pastore ha Cura delle pecore…Dio scioglierà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap. 7,9-16).
E’ la moltitudine dei Santi e tra loro forse ci sono i nostri cari. O forse attendono il momento di farne parte. Per questo onoriamo la loro memoria, orniamo le loro tombe, come a voler offrire un fiore e dire “Vi voglio sempre bene e.,.aspettatemi”. Il rischio è che non andiamo oltre e ci fermiamo ad esteriorità che servono a noi e non a loro. I nostri cari defunti attendono suffragi ed elemosine, come è nella Sacra Scrittura e come tanti usano fare quando qualche parente torna a Dio.
“Non portate fiori- trovo scritto spesso in occasione della morte dei nostri cari - ma offrite elemosine per i poveri”. E un suffragio di grande efficacia è certamente ricordarli spesso offrendo il sacrificio della S. Messa.
Ma ce ne ricordiamo ancora?
Quando Dio chiamò vicino a sé il grande e amato Papa Giovanni Paolo II, assistemmo non solo al dolore di tutta l’umanità, ma rimase indelebile quella marea di gente, che voleva vedere almeno la tomba, toccarla come a dare una carezza e pare di sentire le sue ultime parole rivolte ai giovani: “Vi ho atteso tanto e siete venuti: grazie!” E la gente gridò, come a ricordare che la sua morte era un ingresso trionfale in
Cielo: “Subito santo”. E lo è.
Davanti a quel santo dei nostri giorni, tanti, ma tanti, hanno vissuto o desiderato il Cielo: un cielo che si raggiunge con la santità. E credo che Giovanni Paolo II sempre ci ripete dalla “finestra del Cielo”, come disse il Santo Padre nel giorno del funerale: “Vi attendo con ansia, grazie che venite”.
E proprio davanti a questi santi, che non hanno paura della morte, perché è il giorno della gloria, cadono come foglie morte tutte le stupide illusioni o cattive interpretazioni della bellezza della vita, e si affaccia la verità della nostra sola vocazione al Cielo.
Gesù volle ricordarci “questo giorno” con la parabola delle 10 vergini, che erano andate incontro allo Sposo, che dovevano attendere per poi seguirLo e entrare con Lui alla grande festa delle nozze.
Ma dice il Vangelo, cinque di esse erano stolte ed erano partite senza portare la scorta dell’olio necessaria per l’attesa: cinque sagge, invece, lo avevano portato. Tardando a venire lo Sposo, si assopirono Poi d’improvviso un grido: “Viene lo sposo”. Le stolte non poterono seguire lo Sposo, perché si trovarono sprovviste dell’olio per le lampade; le sagge invece subito seguirono lo Sposo ed entrarono alla grande festa con Lui. Giunsero con ritardo le stolte: bussarono alla porta, ma si sentirono rispondere “Non vi conosco”.
Viene da chiedersi oggi: noi viviamo la vita come una “attesa della festa con lo Sposo”, ossia da saggi o siamo stolti?
Non vorrei augurare a nessuno, ma proprio a nessuno, di sentirsi dire quel giorno “Non vi conosco”.
Ma occorre che la vita sia una veglia in attesa dello Sposo.
Tutti sappiamo come don Tonino Bello visse una terribile veglia, marcata da una sofferenza che lui stesso descrive: “E’ una lotta difficile. Ma non mi spaventa. L’uomo è impegnato ogni giorno sul fronte della sopravvivenza ed è costretto dalla sua natura a combattere per sé contro se stesso. Non sono un eroe e sono consapevole del mio destino. Rispetto la morte, ma non la temo. Il dolore invece mi fa paura.
Non riesco ad abituarmi, forse perché è sempre più violento. Tuttavia anche questa esperienza insegna: la sofferenza mi pone in sintonia con l’umana sofferenza della quale ho parlato tante volte in modo accademico”.
E a Pasqua, dalla croce del suo dolore, così salutò i suoi fedeli: “Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di grazia. Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci. Sono le grazie, le luci, le voci del mondo, dei cieli e delle terre nuove che, con la Resurrezione, irrompono nel nostro vecchio mondo e lo chiamano a tornare giovane. Vi abbraccio con tanto affetto”.
Che meravigliosa “attesa” dell’incontro con Dio! Era tanto mio amico don Tonino. Con lui condividevo gioie e sofferenze e a volte stando con lui ci comunicavamo la bellezza della santità, che si costruiva con l’essere vescovi “insieme”. Ora so che, con tantissimi altri, dal cielo ci ama e mi attende. Non resta che augurarmi che tutti noi, per l’amicizia che ci unisce, per il cammino verso il Cielo che insieme facciamo, possiamo vivere “saggiamente” per entrare alle nozze con lo Sposo.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 5 Novembre 2006

Messaggio da Redazione » ven nov 03, 2006 6:12 pm

Omelia del giorno 5 Novembre 2006

XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Dimmi chi ami e ti dirò chi sei


Non è facile ai nostri giorni, ma credo sempre, se leggiamo con sapienza la storia, sapere “CHI” sta al primo posto nella graduatoria del nostro amore, ossia quale risposta daremmo alla domanda: “Chi sta al primo posto nel tuo cuore, tanto da essere il vero tesoro della vita?”.
Un giorno rivolsi questa domanda a un gruppo di adolescenti. Le risposte riflettevano perfettamente quello che più conta per loro. Chi mi diceva “la mamma”; chi, pochi, “papà” o “i fratelli”, e sono già risposte buone.
Ma quando al “chi ami di più” sostituii “cosa ami di più, ossia cosa credi ti possa rendere felice per sempre, nella vita e dopo?”, le risposte furono la fotografia di quanto, a volte, sbagliando, il mondo
propone: “essere il più ricco”, .., “il più importante”, ... “un grande atleta”, e via dicendo.
Di ciò che conta di più, stando alle parole del Vangelo di oggi, nessun accenno...come non esistessero o nessuno ne avesse mai parlato.
Eppure per tanti, o pochi, chi conta nella vita, ossia chi occupa il primo posto nella loro vita è Dio. Nessuno più di Lui ci vuole bene. Non solo, ma quel bene è la sola ragione per cui ci ha fatto dono della vita e dovrebbe essere il solo “tesoro nascosto nel campo”, per cui uno “va e vende tutto quello che possiede per comprarlo”.
Chiesi un giorno a mamma, fattasi ormai anziana, chi di noi figli amasse di più. La risposta mi lasciò senza parole. “Voglio bene a papà prima di tutto e poi a ciascuno di voi, che amo come la mia vita e, più diventate buoni più vi voglio bene. Ma ricordati, sopra tutti voi, chi amo di più è Dio. Voi siete i “gradini” che ogni giorno salgo, per esprimere questo amore”.
Vestiva sempre allo stesso modo, da povera, staccata da tutto. Non aveva nulla, ma proprio nulla. In tasca aveva la corona del S. Rosario, che credo recitasse tante volte al giorno, un pezzo di pane secco ed un briciolo di formaggio grana. “Sono nuda di tutto quello che appartiene a questo mondo, per la semplice ragione che quando Dio mi chiamerà, avrò un cuore vuoto di cose, ma con la ricchezza vostra e Sua”.
Ma c’è ancora questa ricerca di Dio? Che posto occupa in noi? Eppure è il Solo che sa amarci immensamente ora e, soprattutto, dopo. Il resto scompare, come tutte le cose di questo mondo. O meglio tutto, dalla salute ai soldi, a quello che vogliamo, dovrebbe essere solo un mezzo per dire in mille modi: “Dio ti amo”.
È la risposta che Gesù dà oggi allo scriba: “Lo scriba gli domandò: Qual è il primo dei comandamenti?.
Gesù rispose: Il primo è: Ascolta, il Signore Dio nostro è l’unico Signore: amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, e con tutta la tua forza. E il secondo è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questo. Allora lo scriba gli disse: Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non vi è altro fuori di Lui: amarLo con tutto il cuore e con tutta la mente, e con tutte le forze e amare il prossimo come se stessi, vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal Regno di Dio. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarLo”
(Mc 12,28).
E noi siamo “lontani” o “vicini” dal Regno di Dio?
Ho avuto la grande fortuna di avere vicino, nei miei passi di cristiano, persone che, come parlavi loro di Dio, si illuminavano, come quando ad un giovane innamorato si parla della sua sposa. Vorrei averla io la gioia di questi santi, che il mondo non capisce, ma ammira. S. Agostino fu un vero maestro in questo e nelle “Confessioni” così si rivolge a Dio: “Che cosa sono io per te, perché tu voglia essere amato da me, al punto che ti inquieti se non lo faccio e mi minacci severamente? Come se non fosse già una grossa sventura non amarti! Dimmi, ti prego, Signore Dio misericordioso, cosa sei per me? Dì alla mia anima:
Io sono la tua salvezza. Dillo che io ti senta. Le orecchie del mio cuore, Signore, sono davanti a te:
aprile e dì alla mia anima: Io sono la tua salvezza.
Riconoscerò questa voce e così ti raggiungerò, ma tu non nascondermi il tuo volto; che io muoia per non morire e contemplarlo. La casa della mia anima è troppo angusta, perché tu possa entrarvi, dilatala Tu.
È in rovina, restaurala Tu. Contiene cose che ti ripugnano, lo so, non lo nego. E a chi se non a te
griderò: purificami dalle mie colpe nascoste. Credo ed è per questo che parlo, Signore, tu lo sai” (da Le Confessioni).
Davanti a tanta fuga da Dio, che si nota oggi, come in ogni tempo, avendo tutti sotto gli occhi come l’effimero che offre il mondo davvero ha solo la brillantezza della lucciola, che dura un attimo e nasce dal letame, viene da chiedersi: “Ma che cosa attrae così tanto gli uomini oggi?”.
Abbiamo tutti tanta fame di amore e non sappiamo volgere gli occhi dove nasce l’amore, ossia verso il Padre. Eppure la strada della vita, per tutti, è farsi inebriare dall’amore del Padre e poi riempire i fratelli, a partire da chi non conosce più l’amore e si sente solo o sofferente, di quello stupore che solo l’Amore subito dona. Un’ anima, in cui non ha sede il Padre, ha la freddezza insopportabile di una casa vuota, abbandonata!
Era, per tutto il popolo eletto, gli Ebrei, come un testamento da avere presente giorno e notte, quanto dice il Deuteronomio: “Mosè parlò al popolo dicendo:
Temi il Signore tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio, il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi, che io ti do e così sia lunga la tua vita. Ascolta Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele:
il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6, 2-6).
Sono davvero felice, quando il Vangelo me ne dà l’occasione, di offrire a voi, miei amici, qualche pensiero di A. Rosmini, che ormai si avvia presto verso la beatificazione, fondatore dell’Istituto della carità.
Nella prima delle “massime di perfezione”, intitolata “Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto”, afferma: “Chi ama Dio, come comanda il Vangelo, cioè “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente”, sa che a Dio non può dare alcun bene, perché Dio li ha tutti.
Perciò desidera almeno usargli giustizia riconoscendo le sue infinite perfezione e desidera servirlo in tutte le proprie azioni, offrendogli l’ossequio, la sottomissione e l’adorazione più grandi che sia possibile. Il che equivale a dire: desidera unicamente e infinitamente la gloria di Dio. E siccome nell’ossequio e nella gloria resa a Dio sta la santità dell’uomo, la perfezione del cristiano comporta una tendenza a conseguire la maggiore santità che sia possibile” (massima n. 1).
Ma non si può parlare del Padre da amare con tutte le forze, come sommo Bene, senza trasferire lo stesso amore sui fratelli. Quando affermiamo che Dio è Padre e noi siamo fatti a sua immagine, non si può separare l’amore del Padre dall’amore per i fratelli.
Dire che si ama Dio, senza estendere il suo amore ai fratelli, è davvero negare la sincerità del nostro amore.
Per questo Gesù, come è nel Vangelo di oggi, dopo aver richiamato all’amore totale per il Padre,
afferma: “Il secondo è questo: amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Gesù quasi spiega il posto privilegiato che ogni uomo deve avere nella nostra vita e arriva a dirci: “Tutto quello che fate ad uno di questi miei fratelli, lo fate a me”. Ed è proprio sul nostro rapporto con i nostri fratelli, chiunque siano, che si misura la nostra santità.
Ho letto da qualche parte che gli uomini sono come gli angeli, ma con un’ala sola. Possono volare solo se rimangono abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare che anche Dio abbia una sola ala. L’altra la tiene nascosta, forse per farmi capire che anche Lui non vuole volare senza di noi.
Una cosa che mi ha tanto colpito nel pellegrinaggio a Lourdes, in settembre, è stata la lunga sfilata delle carrozzelle, che portavano gli ammalati alla Grotta o a partecipare alle tante meravigliose liturgie. Ognuno di loro era affidato ad un volontario, a sua completa disposizione, che così consentiva loro di essere parte viva del pellegrinaggio.
Vederli così, ammalati e volontari, come fossero una cosa sola, era dare senso alle “due ali”, che Dio dà nella carità, rendendo i deboli forti e i forti deboli.
Il nostro mondo, anche se non siamo malati, è pieno, tanto pieno, di uomini, donne, che hanno bisogno di sentirsi amati: ossia cercano chi “diventi ala” e così poter conoscere “il volare” della carità.
Saremo capaci anche noi di essere a volte “ala”, per chi non può volare da solo? O, a volte, quando ci sentiremo soli, sapremo trovare ed accettare “l’altra ala”, ossia l’amore del prossimo? Qui è la vera santità.

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Omelia del giorno 12 Novembre 2006

Messaggio da Redazione » gio nov 09, 2006 7:14 am

Omelia del giorno 12 Novembre 2006

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Beati voi “poveri in spirito”


La Parola di Dio, oggi, è davvero splendida, ma tremendamente difficile.
Sia la prima lettura, tratta dal libro dei Re, come il Vangelo, mostrano la grande benevolenza di Dio verso quanti sanno farsi poveri per gli altri. Nella stessa pagina del Vangelo, Gesù non smorza i toni della durezza verso chi ama le apparenze esteriori, mascherando la miseria interiore.
Se ci guardiamo attorno nel nostro mondo, che tanto ama il benessere e lo ostenta in tutti i modi, la malattia ‘dell’apparire’ esternamente è uno dei miti che tanti coltivano. Non importa se ‘dentro la casa dell’anima’, là dove veramente ha sede la bellezza dell’uomo, vi è il vuoto, se non peggio.
Ma cosa conta per l’uomo: quello che ha o mette in evidenza, o quello che è...anche se esternamente è semplice o povero? Conta la generosità, che sa spogliarsi anche della propria sicurezza materiale, per rivestire le tante nudità dei poveri o l’idolatria di beni gelosamente custoditi, grave forma di egoismo? E l’egoismo è la cecità del cuore, che non riesce a vedere le povertà che ci attorniano, sotto tante forme. A volte sono povertà materiali: gente che non sa come o dove trovare da mangiare, da dormire. Altre sono povertà spirituali: gente che ha magari tutto, in cose, ma si sente ‘dentro’ così povera di amore, che ha sete di incontrare chi le voglia bene, l’accolga e le comunichi quel ‘benessere’ che c’è nell’amore di chi si fa vicino, condivide la sofferenza ed è disposto a essere ‘cireneo’ nel portare la croce.
Così parla Dio, oggi, con un linguaggio che colpisce coloro, troppi, che amano apparire: “Gesù diceva alla folla mentre insegnava: Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere: essi riceveranno una condanna più grave”.
Sappiamo tutti come Gesù, figlio di Dio, creatore dell’universo, ricco di bontà e misericordia, come solo Dio sa essere, nella sua vita terrena fra noi uomini, venisse poco considerato, anche nel suo insegnamento, perché era di origini ‘basse’, ossia un nazareno, figlio di un falegname e di una casalinga.
Non solo camminava tra di noi con la sola tunica intessuta da Maria, Sua Madre, ma aveva con sé la sola ricchezza della bontà divina.
Quando i cosiddetti benestanti, ‘scribi, farisei e sacerdoti’, lo incontravano, quasi si vergognavano di farsi vicini e ascoltarlo, certi che da quell’uomo povero potesse venire nulla di buono... e ciò accade ogni volta si consideri la bontà come uno ‘stare bene’ in questo mondo!
La sua origine e povera condizione gliele rinfacceranno a Nazareth e chissà quante altre volte.
Come se la credibilità dell’uomo stesse nel come appare esternamente e non invece nel come è interiormente... e Gesù era Dio!
Il Maestro volle che, come Lui, fossero i suoi discepoli, costretti molte volte a racimolare grani di frumento nei campi per vivere, o a dormire all’aperto.
Una vita, umanamente, da poveri, che certamente non attirava simpatia o credibilità da chi viveva nell’agiatezza.
Ma quello che Gesù sottolinea oggi è, soprattutto,
l’ipocrisia: elemosinare la stima e il rispetto per come si appare. Ed è davvero tragico che uno venga stimato o diffamato per il vestito o gli atteggiamenti esterni, i titoli che ha… quando la bellezza è quella ‘dentro’, che tante volte non esiste in chi vuole apparire. Si crea così quella ripugnante forma di ipocrisia che è la negazione della verità. Se abbiamo il coraggi di guardare nello specchio la nostra anima, verrebbe voglia di vestirci di sacco e spargerci il capo di cenere, come facevano una volta i peccatori convertiti.
I santi di sempre, anche quelli di oggi, hanno sempre imitato Gesù nel testimoniare la santità, che è il vero abito prezioso del cuore, dando un calcio ad ogni forma di esibizionismo esterno.
Tutti, credo, abbiamo ammirato l’umiltà, la povertà, la semplicità di Giovanni XXIII, ve lo ricordate? “Questa notte, tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: è la carezza del Papa”. Così come è rimasta nel cuore la semplicità e povertà di Papa Luciani, ‘il sorriso di Dio sulla terra’ o la semplicità e grandezza d’animo di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, di Madre Teresa di Calcutta e di tanti altri, la cui vita era ed è lo specchio in cui Dio riflette la Sua Luce.
Come vorremmo tutti incontrare sulla nostra strada gente o amici che sono e si mostrano per quello che sono, con semplicità, senza ipocrisia. Incontrarli è un vero dono e vorrei che anche noi fossimo questo dono di semplicità e verità, lontani da ogni insulsa e vana mostra esteriore, ‘sepolcri imbiancati’ come direbbe Gesù.
E la Parola di Dio, oggi, come a sottolineare dove è la vera ricchezza agli occhi di Dio, ci offre due figure di donne meravigliose.
La prima è quella che Elia incontra nel suo cammino verso l’ Oreb a Zarepta.
È una povera vedova, che stava raccogliendo
legna: “Elia la chiamò e le disse: Portami un poco d’acqua in un vaso perché io possa bere. Mentre quella andava a prenderla, le gridò: Prendimi anche un pezzo di pane. La vedova rispose: Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio. La mangeremo e poi moriremo.
Elia le disse: Non temere: su fa’ come hai detto, ma prepara prima una focaccia per me e portamela:
quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: la farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra.
Quella donna andò e fece come aveva detto Elia.
Mangiarono lei, lui e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia” (I Re, 17, 10-16).
La seconda donna meravigliosa la descrive il Vangelo.
“Gesù, sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc. 12,38-44).
Lo stupore di Gesù di fronte a quella vedova, che aveva dato tutto quanto aveva per vivere, mette in discussione, in crisi, speriamo, tutti noi, che ci preoccupiamo forse troppo per la nostra sicurezza e diamo ‘spiccioli’ là dove la carità chiede di allargare il cuore.
Ma è una crisi che fa bene, in questo tempo in cui il consumismo dilagante fa piccolo, troppo piccolo il nostro cuore, sordo alla beatitudine della povertà che ha come ricchezza il cielo. Possiamo interrogarci, e farebbe tanto bene: “C’è stato nella mia vita un gesto di carità, di amore, che non abbia la misura di un’elemosina, ma sia stato una grande ‘misura’ di generosità, da meritare lo stupore di Gesù?”.
Nella bisaccia molto grande dei miei ricordi ho davanti tanti esempi che somigliano a quelle due vedove. Il primo viene da mia mamma. Eravamo tanti in casa e poveri. Un giorno bussò alla porta un povero. Mamma tirò fuori dal borsellino tutto quello che aveva, davvero uno spicciolo, e lo diede. Ho ancora negli occhi il gesto di quella santa donna che mostrò come ‘anche noi ora siamo come il povero. Ma sono sicura che Dio ci aiuterà’. E fu così.
Un altro esempio fu quello di una povera donna che non esitò a dare tutto quello che aveva messo da parte, una modesta somma, ma per garantire la sua vecchiaia. Me la consegnò per intero dicendomi: ‘A me ora ci penserà Dio. Ma non voglio che qualcuno muoia di fame perché non ha avuto quello che io ho’.
O quello di un parroco, mio confratello, che la notte di Natale, dopo la Messa, corse alla porta verso chi bussava con insistenza. Erano due poveri che chiedevano qualcosa per Natale. Non ebbe alcuna esitazione a prendere quello che aveva messo in disparte per noi, un pollo ed un panettone, donandoli. ‘Siate felici anche voi’ disse. Io stupito gli
chiesi: ‘E a noi domani chi ci pensa?’. ‘Dio’. E così fu.
Il giorno dopo qualcuno portò pollo e panettone!
Chi non vorrebbe essere come la vedova di Zarepta o la vedova del Vangelo e meritare lo stupore di Dio? È forse difficile, preoccupati come siamo per il nostro domani, ma è meraviglioso.
Lo auguro e lo prego per me, lo stupore di Gesù, e lo auguro e lo prego per voi, carissimi.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 19 Novembre 2006

Messaggio da Redazione » mer nov 15, 2006 9:12 pm

Omelia del giorno 19 Novembre 2006

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Il giorno del Giudizio per tutti


C’è un aspetto dell’esistenza, in molti, che davvero preoccupa, e tanto, ed è quello di approfondire la vera ragione della vita, dono di Dio, che è destinata, lo si voglia o no, all’eternità.
Chi di voi ha seguito il Convegno, che la Chiesa italiana ha tenuto recentemente a Verona, avrà notato che la tematica proposta sembrava uscire dai soliti schemi, che riguardano i problemi ‘di qui’, anche se questi sono i passi che dobbiamo fare. Ma quello che conta non sono tanto e solo il numero dei passi che si fanno, le fatiche, le fortune o sfortune terrestri, ma il ‘dove’ portano i nostri passi, che indirizzo abbiano, cosa intendiamo realizzare.
Verona ha indicato la via nel titolo: ‘Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo’, ossia tenere gli occhi ben fissi su una certezza che riguarda tutti: la vita che ci attende, perché ‘come Gesù risorto anche noi un giorno risorgeremo con Lui’.
Questa vita sulla terra è solo la ‘prova’ dell’altra. Non ci è lecito sbagliare. Non è saggio fare finta che non esista il giorno in cui dovremo rendere conto delle nostre scelte ‘qui’ e, quindi, di come abbiamo speso il tesoro che Dio ci ha dato con la vita.
Se osserviamo il cammino di troppi, sembra proprio abbiano i piedi, gli occhi, il cuore ‘saldamente incollati’ a questa terra, ai suoi interessi, che diventano una manata di polvere nel momento del nostro passaggio all’eternità. E se ci si interroga di quanto rimane di buono per l’eternità, ci si accorge che le mani sono totalmente vuote, forse sporche di tante ingiustizie, che diventano condanna.
Dovremmo ricordarci, amici carissimi, sempre, che la vita non è uno scherzo e neppure ci è lecito farne quello che vogliamo, seguendo capricci e mode, ma è una questione seria, perché quello che ci attende alla fine è davvero serio: trovarsi di fronte al Padre e rendere conto di tutto. Così descrive quel giorno il profeta Daniele: “In quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo. In quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque sarà scritto nel tuo libro. Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come il firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” (Dn. 12, 1-3).
Il mondo ci educa alla cosiddetta caducità della vita... ‘in fondo tutto passa e nulla resta’. Ma è proprio vero? Vale la pena di fare tanta fatica per accumulare ricchezza, gloria, o quanto altro si vuole, per nulla?
Non credo proprio. ‘Risorgeremo’ è o dovrebbe essere il motivo dominante della vita.
Chi di noi non ricorda quelle benedette parole che abbiamo appreso fin da piccoli dalle labbra di mamma? ‘Chi ti ha creato? Dio. Perché ti ha creato, ossia qual è la ragione, il dovere, il senso della vita?
ConoscerLo, amarLo, servirLo e poi alla fine partecipare alla Sua gloria ed Amore eterno’.
Tante volte mi sorprendo a meditare e immaginare quel giorno meraviglioso e tremendo quando tutti i popoli della terra, nessuno escluso, ricchi e poveri, potenti e miseri, famosi e sconosciuti, sani e malati, ci ritroveremo tutti, ma proprio tutti, a rendere conto al Padre della nostra vita.
E vi confesso che quel giorno, se da una parte mi mette timore - ‘Dies irae’ lo definiva Verdi - dall’altra, avendo vissuto una vita cercando di seguire i Suoi passi, la Sua volontà, anche se a volte, grazie alla immensa Misericordia di Dio, uscendo di poco di strada, mi invita alla speranza.
Saranno proprio le nostre opere, ossia l’indirizzo che abbiamo dato alla vita, un indirizzo che porta la firma del nostro modo di esercitare la libertà, condizione per affermare o negare l’amore, quelle che saranno materia di felicità o di condanna.
‘Per chi hai vissuto? Per cosa hai vissuto?’ ci si chiederà. E non potremo certamente presentare a Dio le ricchezze accumulate ma non date, o gli onori che hanno sapore di superbia o altro, ma solo quello che Dio gradisce.
Vicino a noi ci saranno i fratelli e sorelle che hanno fatto un cammino eroico di santità, come S. Francesco, S. Benedetto e le migliaia che hanno dato la vita nel martirio e tanti, ma tanti, che davvero sono vissuti con la semplicità della vita, da santi. E tanto vorremo essere con loro! Ma bisogna cominciare da adesso, subito, perché quel giorno verrà!
“In quei giorni, disse Gesù ai suoi discepoli, vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed Egli manderà i suoi angeli a riunire i suoi eletti dai quattro venti, dalle estremità della terra fino all’estremità del cielo. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel Cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mc. 15,24-32).
Credetemi, non fa tanto paura il giorno in cui chiuderemo gli occhi a questo mondo, ma l’istante che mi troverò faccia a faccia con Dio, il Giusto, il Padre misericordioso e perfetto, che conosce solo l’amore, per rendere conto di ogni momento della mia vita, che ha conosciuto le tante, ma tante grazie ricevute, il tanto affetto mostratomi sempre e… la mia povertà. Quale la sentenza?
Quel “vieni benedetto, perché avevo fame e mi hai dato da mangiare... ero forestiero e mi hai accolto...ero malato e mi hai visitato...ero in carcere e sei venuto a trovarmi”? E’ quest’amore, che è il tessuto della carità, fondamento della vita, che verrà a galla. Forse gli chiederò: “Quando ti ho incontrato povero, malato, in carcere, affamato, assetato...?”. E vorrei che il Padre mi dicesse: “Ogni volta hai fatto una di queste opere di bontà, ad uno di questi piccoli, l’hai fatta a me”. E inizierà la gioia.
Già da ora mi chiedo se questo è il tessuto della mia vita. Quanti poveri avrò in cielo che mi difenderanno?
Quanti ammalati, quanti carcerati troverò come avvocati? Per fortuna sono tanti e saranno proprio loro il mio passaporto per il Cielo.
Ma se la nostra vita è stata un continuo disinteresse, una indifferenza alle sofferenze, un egoismo che ha fatto il centro di tutto se stesso, chi troveremo a difenderci?
A volte mi trovo a ricordare i tanti, ma tanti, che ho incontrato nella vita: i poveri nel Belice, i terremotati, i poveri delle missioni cui ho cercato di essere vicino in qualche modo; ripenso al desiderio, Grazia divina, di spendere la vita perché tanti riacquistassero il sorriso della fede e così mi fa ‘meno paura’ il grande giorno del giudizio. Ricordo quando ero in Sicilia, dopo il terremoto. Non solo condividevo nelle baracche la vita dei miei fedeli, ma mi battevo perché fosse resa loro giustizia e più volte mi si faceva questa
domanda: ‘Padre, perché lei non pensa a farsi una casa, lei che può, presso chi conta, farsi subito ascoltare?’.
‘La mia casa la sto progettando e costruendo mattone su mattone’. ‘Dove?’ era la domanda.
‘Non qui, dove tutto è fragile e alla fine lo devi lasciare, ma in un luogo dove la casa è al sicuro per sempre, in Cielo. E i mattoni sono tutto l’amore che ogni giorno vivo per voi, per la vostra casa qui’.
Davvero bisognerebbe che tutti ci abituassimo a prepararci la casa in Cielo, in modo che quando saremo davanti a Dio, siano i poveri che abbiamo amato ad aiutarci, i sofferenti che abbiamo visitato e confortato a diventare nostri difensori davanti al Padre.
Quel gran giorno, irripetibile, il vero momento importante della vita, dovrebbe essere preparato ora, qui, per non sentirci dire: “Andate maledetti”. Ma ci pensiamo?
Piace riproporvi la preghiera che il caro Mons. Tonino Bello scrisse, sentendo avvicinarsi il grande
giorno: “Santa Maria, Donna dell’ultima ora, disponici al grande viaggio. Aiutaci ad allentare gli ormeggi senza paura. Sbriga tu le pratiche del nostro passaporto. Se ci sarà il tuo visto non avremo più nulla da temere sulla frontiera. Aiutaci a saldare con i segni del pentimento e con la richiesta del perdono le ultime pendenze nei confronti della giustizia di Dio.
Procuraci tu stessa i benefici della amnistia cui Dio largheggia con regole di benevolenza. Mettici in regola con le carte, insomma, perché giunti alle porte del Paradiso queste si spalanchino al nostro bussare. Ed entreremo finalmente nel Regno, accompagnati dall’eco dello Stabat Mater, che, con accenti di giustizia e di speranza, ma anche con l’intento di accaparrarci anzitempo la tua protezione, abbiamo cantato tante volte nelle nostre Chiese, al termine della Via Crucis” (Tonino Bello).
Non resta allora che vivere camminando, anche se con fatica, con i passi della carità, della fede e della speranza, verso quel gran giorno, sicuri che anche per noi sarà il verdetto: “Vieni benedetto nel Regno che il Padre ha preparato per te”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 26 Novembre 2006

Messaggio da Redazione » gio nov 23, 2006 7:48 am

Omelia del giorno 26 Novembre 2006

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) - Cristo Re

Solennità di Gesù, Re dell’universo


Con questa solennità, dedicata a Cristo Re dell’universo, la Chiesa vuole rendere gloria a Lui, a chiusura dell’anno liturgico. Come a dire un grande GRAZIE a Chi davvero è il grande Amico, che ci ha seguito pazientemente per tutti i passi della vita.
Bisognerebbe avere una vita di angeli o di santi che, non solo hanno amato e seguito da vicino Gesù, sperimentandone la potenza e la dolcezza, ma in Lui hanno confidato, fino ad abbandonarsi totalmente.
Così scriveva il sempre caro Mons. Tonino Bello: “Lui, Gesù, è il Signore: è Gesù di Nazareth: e questo nostro indistruttibile amore attorno al quale vogliamo legare la vita, al quale non ci vogliamo aggrappare, ma vogliamo abbandonarci. Purtroppo, miei cari amici, devo dirvelo questo: io conosco molti cristiani e fra questi, forse, ci sono anch’io, cristiani di mezzatacca che si aggrappano al Signore, perché hanno paura, ma non si abbandonano a Lui perché Lo amano. Se uno non sa nuotare e sta naufragando e qualcuno gli passa accanto, gli si aggrappa, lo abbraccia, lo afferra. Ma quello non è un allacciamento d’amore, non è un abbraccio di tenerezza, è prodotto dalla paura, invece chi si abbandona, si lascia andare. E noi a Gesù ci dobbiamo abbandonare; a Lui, ‘la fontana antica’, ‘la fontana del villaggio’ che ha un’acqua, l’unica capace di dissetarci. Chi ha sete va e beve; chi è stanco e sudato va a lavarsi e refrigerarsi. Ecco chi è Gesù
Cristo: per ognuno ha una parola particolare. Ha per tutti quanti una parola di tenerezza, di incoraggiamento. Noi dovremmo solo riscoprirla” (T.
Bello).
Giovanni, l’apostolo che Gesù amava e che quindi conosceva fino in fondo il Cuore del Maestro, così, oggi, solennità di Cristo Re, ce lo presenta
nell’Apocalisse: “Gesù Cristo è il testimone fedele, il Primogenito dei morti, il Principe dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a Lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Ecco viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per Lui il petto. Sì. Amen. Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap. 1,5-8).
Ma a volte come siamo lontani, nella vita, dal farci totalmente prendere dalla gioia di ‘appartenerGli’, ossia di fare parte, per l’indescrivibile Suo amore, del Suo Regno, ossia della sua divinità ed eternità! Ci facciamo prendere, e molte volte soggiogare, da piccole creature, idoli morti, che nulla hanno a che vedere con quello che profondamente avvertiamo come esigenza, ossia essere amati. Ma possono amarci e noi amarle, le ‘cose’ che non hanno cuore?
Siamo attaccati alla nostra voglia di indipendenza, al punto che non vogliamo che qualcuno sia sopra di noi, come nostro ‘re’, ma, nello stesso tempo, siamo pronti a seguire ‘divinità’ terrene, che tali sono per la loro ricchezza, o per il prestigio o il potere.
“I grandi della terra - affermava un sapiente - tante volte si servono dei poveri per farli sgabello del loro trono... ma sono ben lontani dal servire i poveri, fino a fare a loro uno sgabello di dignità”.
Il Vangelo, oggi, per descrivere la natura della regalità di Gesù, ce lo presenta nel momento più tremendo della sua vita tra di noi. “Disse Pilato a Gesù: Tu sei il re dei giudei?. Gesù rispose: Dici questo da te stesso oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?. Pilato
rispose: Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?. Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù: Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re?.
Rispose Gesù: Tu l’hai detto: Io sono Re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Pilato disse a Gesù: Ma cos’è la verità?” (Gv 18,33-37).
Una scena altamente drammatica, ma che svela il significato che Gesù dà alla parola ‘essere re’.
Immaginiamolo, Gesù, davanti a Pilato, il cui intervento era stato richiesto dalla folla dei Giudei, per avere da lui il diritto di crocifiggerlo. Gesù, nella notte precedente, aveva conosciuto ogni sorta di umiliazioni da parte dei soldati, tanto che per beffa gli avevano messo addosso un manto rosso, sul capo conficcata una corona di spine, nelle mani legate una canna, segni evidenti dell’abbiezione.
Lo avevano depredato di ogni dignità, che dovrebbe essere salvaguardata per ogni uomo, sempre, anche se condannato. Non più quindi uomo, ma burla di
uomo: ‘Ecco l’uomo’ dirà Pilato. Viene da pensare a tanti, troppi uomini, di tutti i tempi, che per la violenza, l’odio o quello che volete, sono trattati proprio come Gesù. Non più uomini. Questo molte volte è il frutto del potere o della politica, sradicati da ogni etica.
Pensiamo ai campi di sterminio durante il nazismo, ai genocidi del nostro secolo o a certe carceri del nostro tempo, dove si ripete, con le torture, quello che è stato fatto a Gesù. Così, tante volte, si esprime “l’essere re”
interpretato da noi uomini: un potere che non conosce la legge del cuore e del rispetto, ma solo quella del dominio, della forza bruta, come gli uomini fossero cose da possedere o sopprimere. Invece il momento in cui la regalità di Gesù conosce il ‘trionfo’ è proprio sulla Croce, dove, senza sapere quello che scriveva, veniva proclamata da Pilato una profonda verità: ‘Gesù Nazareno, Re dei Giudei’.
Chi cerca nell’amico prova di amore cui affidarsi, in cui immergersi, come in un cielo di felicità, deve cercare un amore capace di donarsi, perché amare è donarsi...tutto e totalmente, come Gesù sulla Croce.
Ogni volta vado a La Verna, nella Chiesa dove S.
Francesco ricevette le stimmate, mi commuovo e cerco di entrare anch’io in questo stupendo, divino spettacolo di Gesù che si fa re donandosi e così dimostra concretamente l’estensione e la profondità del Suo amore per noi. E comprendo perché le anime grandi sono tutte intensamente innamorate di Gesù crocifisso, Gesù Re dell’universo.
Chi davvero ha fede ed ama, sa, meditando il Crocifisso, cosa voglia dire avere Gesù come Re. Un regno di umiltà, di dono, di totalità, di verità e di tutto il bene che si può pensare.
Tanti, troppi, che pure si dicono cristiani, non conoscono questo dono di amore e non sanno cosa voglia dire vivere la gioia di accogliere ed accettare che Lui, e solo Lui, regni in noi. Ma, nello stesso tempo, - e qui è il paradosso - non si vergognano di affidarsi ad altri ‘re’, che li depredano di ogni dignità, riducendoli come Gesù davanti a Pilato, al punto che in certi momenti si guardano ‘dentro’ e sono costretti a dirsi, forse con ribrezzo: ‘ma che uomo sono mai!’.
Per fortuna si è notato, nelle riflessioni fatte da tante parti, prima del Convegno di Verona, come oggi sembra che stia rispuntando il desiderio ed il bisogno di Chi sia la verità della vita, ossia il nostro Re. E, come rispondendo a questa ‘sete’, è nata in noi la voglia di ottimismo, di gioia da comunicare e, da qui, l’esigenza di essere ‘testimoni di Gesù Risorto’.
Nel lontano 1955, l’allora arcivescovo di Milano, Card.
Montini, divenuto poi Papa Paolo VI, quasi interpretando i nostri tempi, scriveva alla
Diocesi: “Oggi l’ansia di Cristo pervade anche il mondo dei lontani, quando in essi vibra qualche autentico movimento spirituale. La storia contemporanea ci mostra nelle sue solenni manifestazioni i segni di un messianismo profano. Il mondo, dopo avere dimenticato e negato Cristo, lo cerca. Ma non lo vuole cercare qual è e dov’è. Lo cerca tra gli uomini mortali. Ricusa di adorare il Dio che si è fatto uomo e non teme di prostrarsi servilmente davanti all’uomo che si fa dio. Il desiderio di trovare un uomo sommo, un prototipo dell’umanità, un eroe di complete virtù, un maestro di somma sapienza, un profeta di nuovi destini, un liberatore di ogni schiavitù e di ogni miseria assilla oggi le generazioni inquiete, che, forti di qualche sconsacrato frammento di verità, colto al Vangelo, creano miti effimeri, agitano inumane politiche e preparano così grandi catastrofi.
Dall’inquietudine degli spiriti ribelli e dall’aberrazione delle dolorose esperienze umane, prorompe fatale la confessione di Cristo risorto: di Te abbiamo bisogno”.
E chiuderà il discorso, che credo sia il grido nascosto di tanti, come per l’assetato che cerca l’acqua: “Tu ci sei necessario o Gesù, fratello primogenito del genere umano, per trovare le ragioni della fraternità tra gli uomini, i fondamenti della giustizia, i tesori della carità, il sommo bene della pace... Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio con noi, per imparare l’amore vero e per camminare nella gioia e nella forza della carità lungo il cammino della nostra via faticosa, fino all’incontro finale, con Te amato, con Te atteso, con Te benedetto nei secoli”.
Parole che davvero comunicano quel respiro del cuore che solo Gesù può darci e ben poco o nulla gli altri. È quella ‘necessità’ di Gesù che leggo tante volte, in tante vostre e-mail, che davvero esprimono la ricerca di Gesù, a volte senza saperlo.
Per questo vi ringrazio se insieme Lo cerchiamo, Lo troviamo e amiamo, ora e per l’eternità.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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