Anno Paolino 28 giugno 2008 - 29 giugno 2009

Raccolta di preghiere e testi religiosi d’Autore, a cura di miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 28, 2008 10:47 am


  • Paolo di Tarso – La dottrina della giustificazione – Dalla fede alle opere
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Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi “giusto” con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire “giusto” davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende “giusti”. Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.

Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della “giustificazione” mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: “In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le “opere della carne” che sono “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria...” (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l'amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse...” (1 Cor 13,1.4-5). L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per “Colui che è morto e risorto per noi” (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.

Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata “con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita”, dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16).

Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, “tutto fosse loro lecito”. E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto “ragionevole” e insieme “spirituale”, per cui siamo esortati da Paolo a “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti “dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.

Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore “folle” di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 26 novembre 2008
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio dic 04, 2008 11:14 am


  • Paolo di Tarso – Adamo e Cristo: dal peccato (originale) alla libertà.
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Cari fratelli e sorelle,

nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15,22-45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa “seconda natura” fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 3 dicembre 2008
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio dic 11, 2008 6:12 pm


  • Paolo di Tarso – Il ruolo dei Sacramenti
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Cari fratelli e sorelle,

seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità.

Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.

Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l'uno con l'altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile: della Parola dell'annuncio e dei Sacramenti, particolarmente del Battesimo e dell'Eucaristia. Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: «Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10, 9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?» (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: «La fede viene dall'ascolto» (Rm 10,17). La fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall'ascolto. Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un incontro con l'annuncio, suppone l'esistenza dell'altro che annuncia e crea comunione.

E finalmente l'annuncio: colui che annuncia non parla da sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa agli apostoli - la parola apostoli significa «inviati» - e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell'annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall'acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile ripeterlo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (6,3-4).

In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente notare solo tre cose. La prima: «siamo stati battezzati» è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno dell'altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo “altro” che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti. Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo.

La seconda cosa è questa: il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell'incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell'esistenza precedente.

La terza cosa è: la materia fa parte del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli. Ritorniamo all'ultima parola del testo di san Paolo: così - dice - possiamo “camminare in una nuova vita”. Elemento di un esame di coscienza per noi tutti: camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo.

Veniamo adesso al Sacramento dell'Eucaristia. Ho già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta verbalmente la tradizione sull'Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell'ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell'ultima notte. Sentiamo le parole dell'Apostolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me» (1 Cor 11,23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è «la nuova alleanza nel mio sangue». In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell'Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell'umanità. Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell'alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: “Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole” (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L'unico vero sacrificio è l'amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l'Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo.

Il secondo importante aspetto della dottrina sull'Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai Corinzi dove san Paolo dice: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell'Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con l'uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l'altro. Così Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l’uno con l'altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell'Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo. Un’Eucaristia senza solidarietà con gli altri è un’Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto.

Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell'Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l'uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l'uno con l'altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.

Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni, mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il Matrimonio «mistero grande». Lo dice «in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (5, 32). Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell'amore, che ha il suo modello nell'amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa rende primario l'aspetto teologale dell'amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato all'efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua, accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile.

E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai Filippesi: “Il Signore è vicino” (Fil 4,5). Mi sembra che abbiamo capito che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati nell'intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia – quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 10 dicembre 2008
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 9:50 am


  • Servo e apostolo
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«Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata a tutti quelli che sono a Roma amati da Dio e santi per chiamata» (Rom 1,1.7).

Con queste parole Paolo di Tarso apre la sua lettera ai Romani, uno degli scritti più densi e importanti del suo epistolario ma pure delle origini cristiane, oltre che della storia del pensiero in occidente. Ebreo di origine, giudeo-ellenista di cultura, il suo nome di conio latino mai fu più appropriato come in questo scritto destinato a lettori residenti nella capitale dell'impero romano.

L'intento di fondo della lettera, come riconosceva nientemeno che Erasmo da Rotterdam, è «di trasferire solo in Cristo ogni speranza di salvezza» (parafrasi della Lettera ai Romani). Assai significative sono già in questo inizio epistolare entrambe le qualifiche che egli attribuisce a sé (servo e apostolo) come anche le due con cui designa i suoi destinatari (amati e santi). Tutte e due le coppie di vocaboli definiscono con molta proprietà l'originale identità sia di Paolo sia dei cristiani: lui è totalmente posto al servizio di Gesù Cristo e del Vangelo; loro, come del resto egli stesso, appartengono di fatto a un originale vincolo di amore proveniente da Dio e proprio per questo si trovano in una condizione di santità gratuitamente donata e assolutamente pre-morale.
  • Romano Penna, in Avvenire 2 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:24 am


  • Attraverso le culture
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«Sono in debito tanto ai Greci quanto ai Barbari, tanto ai sapienti quanto agli ignoranti» (Rom 1,14).

Enorme è il contrasto tra queste parole e ciò che si legge per esempio nello storico romano Tito Livio, secondo cui «con i Barbari, tutti i Greci sono e saranno sempre in guerra» (31,29). Paolo è invece il rappresentante più tipico di quanto il cristianesimo si sia dimostrato aperto a ogni cultura: non solo teoricamente (cf. il principio enunciato in Gal 3,28: «In Cristo non c'è più né Giudeo né Greco») ma soprattutto nella concreta instaurazione di relazioni poste in essere in un diuturno impegno apostolico dispiegato «da Gerusalemme fino all'Illiria» (Rom 15,19).

Lo stesso vale per i livelli intellettuali, dove il cristiano non pratica nessuna presuntuosa aristocrazia, essendo anzi certo che «Dio ha scelto le cose deboli del mondo e quelle che non contano nulla per annullare quelle che presumono di sé» (1Cor 1,28). Infatti, è cosa propria del Vangelo attraversare indifferentemente tutte le culture, dimostrarsi totalmente disponibile nei loro confronti, forte del fatto che esso non è riducibile solo a cultura ma è di un ordine diverso, diremmo meta-culturale.
  • Romano Penna, in Avvenire 3 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:25 am


  • Dalla nostra parte
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«Non ho vergogna del Vangelo» (Rom 1,16a)

Questa dichiarazione paolina, benché formulata come una negazione, implica di fatto una affermazione di forte intensità. L'Apostolo impiega una figura retorica che si chiama litote; è come quando si dice: Non sono mica stupido! Ed è per affermare l'esatto contrario. Paolo dunque vuol dire che trova nel Vangelo non solo il proprio dovere ma anche la propria ragion d'essere, persino il proprio orgoglio, come quando altrove scrive :«Se evangelizzo, non è per me una millanteria, poiché è una necessità che mi incombe. Guai a me, se non evangelizzassi!» (1Cor 9,16).

Il contesto di queste ultime parole è quello di una doppia rinuncia: al matrimonio e al diritto di farsi mantenere senza lavorare. Ma appunto per il Vangelo egli non ha una moglie e lavora con le proprie mani per non gravare sulla comunità. È forse inutile precisare che negli anni 50 del I secolo, quando Paolo scrive la lettera, l'euanghélion non è ancora uno scritto ma essenzialmente un evento di comunicazione orale che annuncia la manifestazione dell'amore di Dio in Gesù Cristo a tutti gli uomini (la parola infatti significa «buon annuncio, notizia che fa piacere sentire perché è a mio favore»). Proprio questo è il vanto di Paolo: proclamare che Dio, in Gesù Cristo, è totalmente e gratuitamente dalla nostra parte (cf. Rom 8,31).
  • Romano Penna, in Avvenire 4 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:27 am


  • Senza differenze
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«Il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede: tanto per il Giudeo, prima, quanto per il Greco» (Rom 1,16b)

Per ciò a cui è destinato, cioè la salvezza ultima dei suoi destinatari, il Vangelo non può non recare il timbro di una potenza intrinsecamente divina. Altrove Paolo lo definisce «parola dell'ascolto, "non parola di uomini ma realmente parola di Dio, che agisce in voi in quanto credete» (1Tes 2,13). Dunque, non si tratta di una potenza politica o meramente terrenistica, bensì di un superiore intervento imprevisto e imprevedibile che si colloca a livello di pura grazia. Questo spiega perché, come scrisse Karl Barth, «l'evangelo è soltanto credibile». Propriamente, infatti, esso non è e non può essere né il risultato di un ragionamento né tantomeno l'effetto di una imposizione.

La sua logica propria sta al di là di ogni sistema razionale: come l'amore! Ebbene, questo Vangelo è destinato a chiunque, scavalcando ogni contrapposizione. Certo va riconosciuta al Giudeo una priorità, sia perché questo annuncio è già prefigurato nelle Scritture Sante di Israele (cf. Rom 1,2) sia perché proprio il Giudeo è stato storicamente fin dall'inizio il primo destinatario del suo annuncio da parte di Gesù stesso (cf. Mc 1,14-15). Ma la vera novità per Paolo è che anche il Greco, cioè tutti i pagani sono ormai scandalosamente posti sullo stesso piano di Israele, di fronte a un Dio che non fa differenze «essendo ricco verso tutti coloro che lo invocano» (Rom 10,12).
  • Romano Penna, in Avvenire 6 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:28 am


  • Paolo di Tarso – Il culto spirituale
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Cari fratelli e sorelle,

in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice.

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.

1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.

San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.

Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.

Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).

Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tēn logikēn latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.

Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio.

Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.

Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.

Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10,6: CCL 47, 27 ss).

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 7 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:29 am


  • La giustizia di Dio
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«Nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà» (Rom 1,16c)

Pochi concetti paolini sono stati studiati come quello di «giustizia di Dio», che infatti è apparentemente equivoco e quindi va compreso bene. Nel successivo sviluppo argomentativo della lettera risulta che questa giustizia è di fatto sinonimo di «grazia» (3,24; 5,2), di «amore» (5,5; 8,39), di «misericordia» (15,9). Paolo dunque non intende parlare di una giustizia retributiva, che anzi nell'ampia sezione di Rom 1,18-3,20 egli esclude e di cui offre poi come alternativa in 3,21-5,21 quella del Vangelo.

Infatti la giustizia di Dio non è quella di un giudice (Paolo non definisce mai Dio con questo termine, che si trova solo nella lettera deuteropaolina 2Tim 4,8 ma non in rapporto alla giustificazione). Essa piuttosto, come ristabilimento di giuste relazioni con Dio, si manifesta soltanto sulla base di una sua gratuita remissione dei nostri debiti contratti verso di lui. A questa "giustizia" è perfettamente omogenea solo la fede in quanto accettazione umile, grata e gioiosa di quanto egli ha operato in Gesù Cristo per noi. Paolo cita un testo del profeta Abacuc (2,4) per dire che la fioritura della vita piena è scandalosamente congiunta, in prima battuta, non con l'osservanza della legge morale, ma con questa nuda accoglienza della grazia divina.
  • Romano Penna, in Avvenire 7 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 10:30 am


  • La conoscenza
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«Le perfezioni invisibili (di Dio), ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rom 1,20)

Il tema della conoscenza naturale di Dio è comune sia alla Bibbia (cf. Sap 13, che polemizza con i malintesi dell'idolatria) sia alla filosofia greca (cf. Platone, Repubblica 508-517: «Nel campo del conoscibile l'idea di Bene è difficile vederla, ma una volta percepita va considerata come causa per tutti di ogni cosa retta e bella " così come il sole è molto di più sia della vista sia della luce»). L'uomo dunque ha nella sua intelligenza uno strumento idoneo a scoprire almeno qualcosa della "diversità" di Dio, anche se questi resta comunque letteralmente inesauribile (cf. Rom 11,34): e l'operazione avviene non mediante una contemplazione meramente teorica, ma ragionando sulle cose oggetto della quotidiana esperienza.

Infatti, come in ogni prodotto si rivela qualcosa dell'identità del suo artefice, così nelle cose create non è possibile non individuare qualche riflesso della potenza e divinità del loro creatore. Il filosofo ebreo Filone Alessandrino, contemporaneo di Paolo, scorge addirittura nel creato il «poema» e quindi la «poesia» di Dio (in greco poìema-poìesis, dal verbo poieîn, «fare»), anche se «coloro che ragionano così raggiungono Dio (solo) mediante la sua ombra».
  • Romano Penna, in Avvenire 8 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 09, 2009 5:02 pm


  • Le apparenze
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«Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (Rom 1,22-23)

È ben possibile che qui Paolo, adottando schemi propri della polemica anti-idolatrica del giudaismo alessandrino, si riferisca direttamente alla religiosità zoolatrica degli antichi Egiziani, anche se a monte si può pure intravedere la pagina biblica dell'adorazione del vitello d'oro (cf. Esodo 32). Tuttavia la sua è una messa in guardia dalla portata generale nei confronti di ogni possibile scimiottatura del divino, di quella che Karl Barth chiama «la nebbia o fanghiglia religiosa». Indubbiamente il creato possiede un particolare fascino di attrazione, un po' come quello delle sirene dell'omerico Ulisse. Ma non è necessario farsi legare come lui all'albero della nave per sfuggire al loro incantesimo.

La seduzione delle apparenze, in definitiva amara, si sconfigge già con l'esercizio "laico" della ragione di fronte agli esseri del mondo. Infatti «se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, poiché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sapienza 13,3). È ciò che analogamente richiede anche Siddarta Budda: «Tendi verso l'altra sponda dell'essere»!
  • Romano Penna, in Avvenire 9 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 12, 2009 10:18 am


  • Teologia ed etica
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«Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore…perché hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli» (Rom 1,24-25)

L'intera pagina di Rom 1,24-32 ci dà un quadro pessimistico dell'umanità tratteggiato a fosche tinte. L'Apostolo si esprime certamente con affermazioni generalizzanti, anche se potrebbe dargli ragione persino uno storico greco come Tucidide quando afferma che «tutti, in pubblico e in privato, per natura sono portati a fare il male, e non vi è legge che possa impedirlo» (3,45,3)!

Alla base del pensiero di Paolo c'è l'idea di uno stretto rapporto tra teologia ed etica, in quanto una distorta concezione di Dio conduce inevitabilmente a un distorto comportamento morale. Per questo Dostoewskij si chiedeva: «Qual è il nostro destino, se non c'è Dio? … Come potrà l'uomo restare virtuoso? Come vivrà? A chi canterà inni? … Tutto è permesso!» (I fratelli Karamazov 4,2.7).

Nel contesto Paolo condanna anche l'omosessualità (cf. 1,26-27), senza fare precisazioni su eventuali predisposizioni genetiche. Piuttosto egli ripete schemi propri della tradizione filosofica greca (per esempio anche Platone, Leggi 636c, la definisce «contro natura»), omettendo altre affermazioni pure presenti nella tradizione biblica (come in Lev 20,13).
  • Romano Penna, in Avvenire 10 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 12, 2009 10:21 am


  • Una dilazione
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«Disprezzi forse la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?» (Rom 2,4)

I tempi lunghi, si sa, sono quelli di Dio, per il quale «mille anni sono come un solo giorno» (2Pietro 3,8; un proverbio arabo dice che la fretta è del diavolo, mentre la lentezza è di Dio). L'importante è cogliere il senso di questa "politica", che non permette di recidere subito e con impazienza la zizzania dal campo (cf. Mt 13,24-30).

Il Signore concede una dilazione in vista del pentimento: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento» (Sapienza 11,23); «Hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (ibid. 12,19).

L'importante è di non scambiare la longanimità di Dio con l'indifferenza o la dimenticanza, come ammonisce il profeta Abacuc: «Se indugia, attendilo, poiché certo verrà e non tarderà» (2,3). Al contrario, bisogna approfittare del tempo presente come spazio concesso alla possibilità di una rinnovata conversione, consistente nell'onesto riconoscimento di questa stessa bontà divina prima ancora che in un pur necessario sforzo di cambiamento morale.
  • Romano Penna, in Avvenire 11 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 15, 2009 10:53 am


  • La legge
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«Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati» (Rom2,13)

Questa sentenza potrebbe essere stata scritta da un qualunque giudeo osservante, essendo analoga a quella rabbinica che si legge nella Mishnà: «Non è l'insegnamento la cosa principale, ma il fare» (1,17). Ugualmente il noto psicanalisa ebreo Erich Fromm, nella sua tesi di laurea, ebbe a scrivere che «la Legge chiede l'azione e non la fede»!

Ebbene, va onestamente riconosciuto che Paolo si trova su un tutt'altro versante. Le sue parole citate sopra, opportunamente collocate all'interno dell'argomentazione svolta nella lettera ai Romani, sono formulate propriamente da un punto di vista ebraico, che, va detto con tutta chiarezza, non è il suo. Nel contesto infatti egli vuole spuntare l'arma della Legge (mosaica), sbandierata dal Giudeo come garanzia di una elezione divina, col dire che in realtà nemmeno il Giudeo la osserva interamente (cf. 2,17-23: «Come mai tu, ... che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge?»). Nel prosieguo del suo scritto, invece, Paolo dichiarerà con forza che non l'osservanza della Legge, ma la fede in Cristo conduce ad essere giusti davanti a Dio (cf. 3,28; 5,1).
  • Romano Penna, in Avvenire 13 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 15, 2009 10:58 am


  • Paolo di Tarso – La visione teologica delle Lettere ai Colossesi e agli Efesini
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Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a “esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori” (Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di “parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore” (Ef 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto “codice domestico”, assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef 5,22-6,9).

Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di “capo”, kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Col 2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: “Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa”; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col 2,19 bisogna “tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione”): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto.

In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano.

Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” (4,11). Ed è da Lui che “tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, ... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (4,16). Cristo infatti è tutto teso a “farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.

Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo “ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale” di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro” (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui “ci ha amati e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!

Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo.

Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra” (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che “per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (1,16) e che “con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.

Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità di Cristo stesso.

C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di “mistero”. Una volta si parla del “mistero della volontà” di Dio (Ef 1,9) e altre volte del “mistero di Cristo” (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del “mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza” (Col 3,2-3). Esso sta a significare l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del “mistero” e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata “la multiforme sapienza di Dio” (Ef 3,10), poiché in Lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in cui quel “mistero” si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la “ininvestigabile ricchezza di Cristo” (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di “quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” di questo mistero “che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione.

Un'ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, “ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, “senza ruga né macchia”, nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9; 21,9).

Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 14 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 15, 2009 11:00 am


  • Senza monopolio
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«Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori» (Rom 2,14-15)

Anche fuori del giudaismo è possibile conoscere e osservare la legge morale, data la coincidenza di molti comandamenti biblici con la legge di natura. Per esempio il tragico greco Sofocle parla di «leggi non scritte e incrollabili degli dèi, che non da oggi né da ieri ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce» (Antigone 454-457). Le parole di Paolo esprimono, in prima battuta, un giudizio fortemente positivo su gran parte dell'etica pagana, la quale di fatto raggiunse alte vette di moralità soprattutto in base all'ideale stoico. Vedi per esempio Epitteto: «Tu sei un fine, sei un frammento di Dio. Hai in te stesso una parte di lui … Un dio porti in giro, disgraziato, e lo ignori! … Se fossi una statua di Fidia baderesti a evitare qualunque azione indegna di chi ti ha fatto…; ora che ti ha fatto Zeus, non ti importa niente come dovrai mostrarti? … Ti ha dato in mano a te stesso e ti dice: Non avevo un altro più fidato di te!» (Diatribe 2,8,11-23).

Proprio il non presumere che solo il giudaismo o il cristianesimo abbiano il monopolio dell'etica ci apre a quella imprevedibile manifestazione della grazia di Dio in Cristo, che è pre-morale e «che supera ogni conoscenza» (Efesini 3,19).
  • Romano Penna, in Avvenire 14 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 15, 2009 11:01 am


  • Il peccato
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«Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto: Non c'è nessun giusto, nemmeno uno» (Rom 3,9-10)

Appoggiandosi al Salmo 14,1-3 Paolo riconosce e dichiara apertamente che c'è una universale condizione di peccato, in cui tutti gli uomini sono indistintamente invischiati. Una analoga constatazione si legge sia nei manoscritti di Qumràn («Non odiano tutti i popoli l'iniquità? Eppure tutti la praticano!»: 1Q27 1,9) sia anche in Seneca («Se vogliamo essere giudici equanimi dobbiamo convincerci che nessuno di noi è senza qualche colpa; eppure l'indignazione maggiore si ha quando si dice: "Non ho sbagliato in nulla". Almeno non dirlo!»: Sull'ira 2,28,1).

La novità nel testo di Paolo è che egli introduce qui per la prima volta nella lettera ai Romani il termine «peccato». E lo fa attribuendogli un significato nuovo, che esso non ha né nella grecità (dove ha il senso estenuato di errore, fallimento del bersaglio) e neppure nella Bibbia (dove esso equivale a un atto di trasgressione della positiva volontà di Dio). Paolo invece, che ne parla quasi sempre al singolare (in Rom 45 volte su 48), intende parlare di una forza impersonale ma personificata, sopraindividuale e anteriore a ogni trasgressione, a cui l'uomo è tendenzialmente asservito e a cui, come dirà in seguito, è sottratto dall'operato di Cristo.
  • Romano Penna, in Avvenire 15 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 16, 2009 10:22 am


  • Pura bontà
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«In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha (soltanto) conoscenza del peccato» (Rom 3,20)

Paolo, riecheggiando il Salmo 143,2 («Non entrare in giudizio con il tuo servo: davanti a te nessun vivente è giusto»), chiude così la sezione epistolare iniziata in 1,18, il cui scopo era di mostrare che l'agire umano, quando è ispirato a una mera norma legale esterna, non può rendere radicalmente giusti/santi davanti a Dio: non solo perché essa viene comunque trasgredita, ma ancor più perché essa non fornisce al trasgressore alcun aiuto al di fuori della semplice e fredda imputazione («conoscenza») della trasgressione stessa e quindi del peccato.

In definitiva, la legge lascia l'uomo solo con se stesso, con un doppio possibile risultato negativo: o per gonfiarlo, se egli se ne vanta quando riesce a osservarla, magari esaltandosi per il fatto di averla come segno di una privilegiata elezione, oppure per deprimerlo quando egli tuttavia contravviene a essa. Ma in questo modo, almeno, lo spazio resta libero per la manifestazione della pura bontà di Dio, la quale, tutt'altro che impigliata nella rete impietosa della Legge, la supera con una libertà e liberalità tutta sua.
  • Romano Penna, in Avvenire 16 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 19, 2009 11:36 am


  • Senza calcolo né merito
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«Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rom 3,23-24)

Questo è Vangelo puro! Infatti nell'ottica paolina l'uomo diventa giusto/santo non per meriti personali, ma per una immeritata grazia di Dio storicamente manifestatasi in Cristo. La "gloria" (=splendore) di cui gli uomini sono privi corrisponde a un mancato ideale di perfezione, secondo quanto si legge in un apocrifo giudaico dove Adamo dice a Eva: «Mi hai tolto la gloria di Dio» (Apocalisse di Mosè 21); al contrario, un testo di Qumràn promette: «Otterranno vita eterna, e tutta la gloria di Adamo è per loro» (CD 3,20).

Ma l'accento è posto da Paolo sulla totale gratuità dell'intervento di Dio in Cristo a favore dell'uomo, il quale si trova a essere inaspettatamente e quindi sorprendentemente destinatario di un favore non calcolato e non meritato! La sottolineatura è evidente: «" gratuitamente per la sua grazia». L'atto divino del "giustificare" travalica le comuni categorie forensi: sia in quanto Dio si pronuncia favorevolmente non su dei giusti ma su dei peccatori, sia in quanto la sua non è una mera dichiarazione ma pone in essere una vera novità antropologica (cf. Rom 5,19: «I molti sono stati costituiti giusti»).
  • Romano Penna, in Avvenire 17 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 19, 2009 11:41 am


  • Il vero altare
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«È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione … nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio» (Rom 3,25)

Tocchiamo qui un aspetto centrale della soteriologia paolina. Sullo sfondo si intravede il rito giudaico del Giorno dell'espiazione (yôm kippûr), quando il sommo sacerdote versava il sangue di un capro sul coperchio dell'arca dell'alleanza per espiare i peccati del popolo. Paolo dunque vuol dire che è stato Dio stesso a espiare i nostri peccati (cf. a Qumràn CD 3,18: «Dio nei suoi misteri meravigliosi espiò per i loro errori e perdonò i loro peccati») con il sangue di Cristo: non colpendo lui al posto nostro, ma accogliendo il dono di sé fatto da lui (cf. Gal 2,20: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me») e quindi condonando con la sua clemenza i nostri peccati.

Così in Cristo Dio ristabilisce la giustezza dei nostri rapporti vicendevoli: «Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2Cor 5,19); «Con un'unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Ebrei 10,14). La croce di Cristo è stata e resta perciò l'unico vero altare, su cui l'uomo può incontrare un Dio altrimenti inimmaginabile.
  • Romano Penna, in Avvenire 18 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 20, 2009 9:48 am


  • La fede e le opere
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«Dove sta dunque il vanto? È stato escluso! ... Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rom 3,27-28)

Abbiamo qui l'enunciazione di uno dei principi primi del paolinismo: l'uomo non può vantare nessuna opera da lui compiuta che sia tanto efficace da costituirlo giusto davanti a Dio condizionandone la grazia (che peraltro non sarebbe neanche più grazia!). L'esclusione è tranchant, e San Tommaso d'Aquino commenta in termini netti: «…non solo senza le opere cerimoniali, che non conferivano ma solo significavano la grazia [come la circoncisione o i sacrifici], bensì anche senza le opere dei comandamenti morali [cioè il Decalogo], secondo quanto l'Apostolo scrive a Tito: "Non in virtù di opere di giustizia da noi compiute"».

Se poi Lutero traduceva questo versetto in tedesco aggiungendo un «soltanto (allein) per mezzo della fede», egli in realtà si poneva semplicemente su di una linea tradizionale di comprensione del testo. Infatti già il più antico commento alla Lettera, quello di Origene nel secolo III, porta l'esempio eloquente del buon ladrone: «Nel vangelo non viene raccontata una qualche altra sua buona azione, ma per questa sola fede gli dice Gesù: "Oggi sarai con me in paradiso"». Naturalmente, come preciserebbe Agostino, le opere escluse sono quelle che precedono la fede, non quelle che la seguono (che Lutero stesso chiama paradossalmente «opere della fede»).
  • Romano Penna, in Avvenire 20 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 22, 2009 9:38 am


  • La nuda fede di Abramo
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«Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia … Egli è padre di tutti noi davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rom 4,3.16s)

Con la citazione di Genesi 15,6 Paolo trova nella fede di Abramo l'autorevole fondamento biblico del suo discorso sulla necessità e sufficienza della fede stessa per il cristiano. La storia dell'antico patriarca si svolge tutta all'insegna di una generosa promessa fattagli da Dio senza che questa fosse il contraccambio di una qualsivoglia prestazione. Benché nel giudaismo la fede potesse essere computata come un'opera dell'uomo (secondo un antico midrash/commento rabbinico, «il nostro padre Abramo ereditò il mondo presente e quello futuro, solo come ricompensa per la fede con cui credette»), Paolo al contrario vede in essa un atto di riconoscimento della propria povertà e insufficienza, accompagnate e nutrite da un totale affidamento a Dio.

Paradossalmente scrive Sant'Agostino: «Nessuno cerchi di fare il conto delle sue opere buone prima della fede: dove non c'era la fede, non c'era neanche opera buona« (Sul Salmo 31, Disc. 2). Ecco perché Abramo è considerato padre, non solo di quanti provengono da lui per discendenza diretta (come gli Ebrei), ma anche di tutti i pagani che fanno proprio il modulo della nuda fede che fu il suo.
  • Romano Penna, in Avvenire 21 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 22, 2009 9:43 am


  • Per noi e in noi
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«Che “gli fu accreditato” (ad Abramo) è stato scritto anche per noi, … che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,23-25)

L'accredito della promessa, fatto all'antico patriarca sulla base della sua sola fiducia in Dio, vale anche per quanti credono come lui. Ma Paolo precisa che la fede cristiana non è soltanto un generico fare assegnamento su Dio, bensì è sua caratteristica distintiva il rapporto che si stabilisce con Gesù Cristo. Solo lui è la cartina di tornasole dell'identità cristiana.

Come Dio rese vivo il seno sterile di Sara sposa di Abramo (cf. Genesi 18,9-15), così egli vivificò il sepolcro di Cristo riportando lui alla vita. Perciò in Gesù i due momenti della morte e della risuscitazione sono inseparabilmente intrecciati: la prima è atto di amore di Gesù stesso per noi, mentre la seconda è atto dell'approvazione di Gesù da parte di Dio. La sua morte ha su di noi il risultato negativo di cancellare i nostri peccati, la sua risuscitazione provoca invece l'impatto positivo di concederci la qualità di giusti.

L'opera redentrice di Cristo quindi ha due componenti: ciò che egli ha fatto per noi (dimensione oggettiva) e ciò che egli fa in noi (dimensione soggettiva). La sua morte che si compì nel passato ha ora e sempre delle ricadute di vita su quanti la accolgono nella fede.
  • Romano Penna, in Avvenire 22 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:34 am


  • Il lessico della pace
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«Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rom 5,1)

Paolo trae una conclusione inevitabile dal fatto di ottenere la giustizia sulla base della fede: essa riguarda una situazione di raggiunta pace/serenità nei confronti di Dio. È dunque mediante la fede che il cristiano sta ormai fuori del raggio d'azione dell'ira di Dio (cf. invece 1,18)! Più avanti nella Lettera la pace sarà connessa con i valori della vita (8,6), della giustizia e della gioia (14,17; 15,13) tanto da dover essere perseguita costantemente (14,19). La sua connotazione teologica emergerà esplicitamente al termine dello scritto, quando Dio stesso sarà definito come «il Dio della pace» (15,33; 16,20), mentre altrove si legge che Cristo stesso «è la nostra pace» (Efesini 2,14).

Bisogna riconoscere che il lessico della pace va ben oltre quello meramente forense della giustificazione, poiché tocca la dimensione quotidiana della vita e delle sue molteplici relazioni, connotando persino l'ambito delle emozioni interiori. Ebbene, solo Cristo è l'instauratore di una tale situazione, nella misura in cui la sua autodonazione viene accolta mediante la fede. È importante dunque custodire gelosamente questa pace, facendo sempre di nuovo valere sul piano esistenziale l'efficacia della fede in Cristo.
  • Romano Penna, in Avvenire 23 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:37 am


  • Fondamento e motore
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«La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rom 5,5)

Nelle prove della vita il cristiano è sostenuto anche da un tipo di speranza, cioè di apertura sul futuro, che non è altro se non un aspetto della fede. Questa speranza ha un fondamento, ha un motore segreto, e ha un ambito in cui attecchire. Il fondamento è semplicemente l'amore con cui Dio ci ama e che si è dimostrato soprattutto nella croce di Cristo: questa è la base rocciosa su cui poter costruire in piena sicurezza (cf. Mt 7,24-25). Il suo motore segreto è lo Spirito Santo, sia in quanto esso trasmette e comunica l'amore di Dio al credente (cf. Tommaso d'Aquino: «Lo Spirito Santo ci conduce alla partecipazione dell'amore»), sia in quanto giunge fino a toccare l'interiorità dell'uomo e «lo fa vibrare come un cristallo» (K. Barth).

L'ambito in cui la speranza attecchisce sono «i nostri cuori», cioè nient'altro che la profondità del nostro essere personale (vedi anche 2Cor 1,22; Gal 4,6): è fino in fondo alla nostra propria identità che arriva lo Spirito, come a dire che il credente è investito fin nelle sue radici dal soffio di un amore traboccante, che trasforma e nobilita la qualità di quanti ne restano contagiati.
  • Romano Penna, in Avvenire 24 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:39 am


  • In-comparabile
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«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto … Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,7-8)

Questo «morire per» costituisce il nucleo centrale del vangelo e della fede cristiana, come del resto già proclamava la Chiesa prepaolina (cf. 1Cor 15,3). Anche l'antica tragedia greca poteva esibire qualche caso analogo di morti positivamente motivate, com'è soprattutto la vicenda di Alcesti che accettò la morte invece del marito Admeto; Platone commenta il fatto col dire che «soltanto coloro che amano sono disposti a morire per gli altri» (Convito 179b)! Anche nel Primo libro dei Maccabei si legge di Eleazaro che in battaglia «diede se stesso per salvare il suo popolo» (6,44).

Ma nella morte di Cristo, Paolo legge la prova esibita dell'amore di Dio stesso, che va paradossalmente oltre la nostra logica, poiché inaspettatamente interviene non per degli amici bensì per dei nemici. Perciò quella morte è letteralmente in-comparabile. Infatti, «in questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha inviato il Figlio suo come vittima di espiazione per i nostri peccati» (Prima lettera di Giovanni 4,10).
  • Romano Penna, in Avvenire 25 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:42 am


  • In lui soltanto
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«Se, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rom 5,10)

Non solo il presente del cristiano è garantito dalla sua fede nell'evento riconciliatore della morte di Gesù, ma anche il suo futuro ultimo è ormai al riparo dalla perdizione. Se infatti Cristo è oggi la nostra vita, egli lo sarà per sempre! Come scrive un commentatore del IV secolo, «non potrà non amare gli amici colui che fa del bene ai nemici» (Ambrosiaster). E per chi teme il giudizio di Dio, vale questo consiglio quanto mai pertinente di Lutero: «Cércati in Cristo soltanto, non in te stesso, e in lui ti troverai per l'eternità … Cristo ha preso su di sé la tua morte e l'ha vinta, la sua ubbidienza il tuo peccato, il suo amore il tuo inferno… Fatti il segno della croce e non lasciarti tentare da ciò che sia degno o indegno: è la fede che ci fa degni, il dubbio indegni» (Sermone sul prepararsi a morire).

Quanto al concetto di salvezza applicato al futuro, esso suppone una tipica precomprensione giudaica, secondo cui il destino ultimo non riguarda solo l'anima ma tutto l'uomo (cf. Giuditta 8,17: «Attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da Lui»).
  • Romano Penna, in Avvenire 27 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:45 am


  • Paolo di Tarso – La visione teologica delle Lettere pastorali
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Cari fratelli e sorelle,

le ultime Lettere dell'epistolario paolino, delle quali vorrei parlare oggi, vengono chiamate Lettere Pastorali, perché sono state inviate a singole figure di Pastori della Chiesa: due a Timoteo e una a Tito, collaboratori stretti di san Paolo. In Timoteo l’Apostolo vedeva quasi un alter ego; infatti gli affidò delle missioni importanti (in Macedonia: cfr At 19,22; a Tessalonica: cfr 1 Ts 3,6-7; a Corinto: cfr 1 Cor 4,17; 16,10-11), e poi scrisse di lui un elogio lusinghiero: “Io non ho nessuno di animo uguale come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano” (Fil 2,20). Secondo la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del IV secolo, Timoteo fu poi il primo Vescovo di Efeso (cfr 3,4). Quanto a Tito, anch'egli doveva essere stato molto caro all'Apostolo, che lo definisce esplicitamente “pieno di zelo... mio compagno e collaboratore” (2 Cor 8,17.23), anzi “mio vero figlio nella fede comune” (Tt 1,4). Egli era stato incaricato di un paio di missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto, il cui risultato rincuorò Paolo (cfr 2 Cor 7,6-7.13; 8,6). In seguito, per quanto ci è tramandato, Tito raggiunse Paolo a Nicopoli nell’Epiro, in Grecia (cfr Tt 3,12), e fu poi da lui inviato in Dalmazia (cfr 2 Tm 4,10). Secondo la Lettera a lui indirizzata, egli risulta poi essere stato Vescovo di Creta (cfr Tt 1,5).

Le Lettere indirizzate a questi due Pastori occupano un posto tutto particolare all'interno del Nuovo Testamento. La maggioranza degli esegeti è oggi del parere che queste Lettere non sarebbero state scritte da Paolo stesso, ma la loro origine sarebbe nella “scuola di Paolo”, e rifletterebbe la sua eredità per una nuova generazione, forse integrando qualche breve scritto o parola dell’Apostolo stesso. Ad esempio, alcune parole della Seconda Lettera a Timoteo appaiono talmente autentiche da poter venire solo dal cuore e dalla bocca dell’Apostolo.

Senza dubbio la situazione ecclesiale che emerge da queste Lettere è diversa da quella degli anni centrali della vita di Paolo. Egli, adesso, in retrospettiva si autodefinisce “araldo, apostolo, e maestro” dei pagani nella fede e nella verità, (cfr 1 Tm 2,7; 2 Tm 1,11); si presenta come uno che ha ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo – così scrive – “ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità, perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna”. (1 Tm 1,16). Quindi essenziale è che realmente in Paolo, persecutore convertito dalla presenza del Risorto, appare la magnanimità del Signore a incoraggiamento per noi, per indurci a sperare e ad avere fiducia nella misericordia del Signore che, nonostante la nostra piccolezza, può fare cose grandi. Oltre gli anni centrali della vita di Paolo vanno anche i nuovi contesti culturali qui presupposti. Infatti si fa allusione all'insorgenza di insegnamenti da considerare del tutto errati e falsi (cfr 1 Tm 4,1-2; 2 Tm 3,1-5), come quelli di chi pretendeva che il matrimonio non fosse buono (cfr 1 Tm 4,3a). Vediamo come sia moderna questa preoccupazione, perché anche oggi si legge a volte la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come parola dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia. Potremmo dire che, con questo breve elenco di errori presenti nelle tre Lettere, appaiono anticipati alcuni tratti di quel successivo orientamento erroneo che va sotto il nome di Gnosticismo (cfr 1 Tm 2,5-6; 2 Tm 3,6-8).

A queste dottrine l'autore fa fronte con due richiami di fondo. L'uno consiste nel rimando a una lettura spirituale della Sacra Scrittura (cfr 2 Tm 3,14-17), cioè a una lettura che la considera realmente come “ispirata” e proveniente dallo Spirito Santo, così che da essa si può essere “istruiti per la salvezza”. Si legge la Scrittura giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne luce “per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia” (2 Tm 3,16). In questo senso aggiunge la Lettera: “perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tm 3,17). L’altro richiamo consiste nell’accenno al buon “deposito” (parathéke): è una parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della fede apostolica da custodire con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Questo cosiddetto “deposito” è quindi da considerare come la somma della Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. E qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo Testamento, il termine “Scritture” significa esplicitamente l’Antico Testamento, perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c’erano ancora o non facevano ancora parte di un canone delle Scritture. Quindi la Tradizione dell’annuncio apostolico, questo “deposito”, è la chiave di lettura per capire la Scrittura, il Nuovo Testamento. In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si fondono, per formare insieme il “fondamento saldo gettato da Dio” (2 Tm 2,19). L’annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre infatti essere “tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme agli insegnamenti ricevuti” (Tt 1,9). Alla base di tutto c'è appunto la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha manifestato concretamente il suo “amore per gli uomini”, un amore che nel testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía (Tt 3,4; cfr 2 Tm 1,9-10); Dio ama l’umanità.

Nell’insieme, si vede bene che la comunità cristiana va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di “verità” (1 Tm 2,4.7; 4,3; 6,5; 2 Tm 2,15.18.25; 3,7.8; 4,4; Tt 1,1.14). Nella fede appare la verità essenziale di chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità (la verità della fede) la Chiesa è definita “colonna e sostegno” (1 Tm 3,15). In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla conoscenza della verità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”, perche “Gesù Cristo ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2,4-5). Quindi il senso dell’universalità, anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste Lettere. Inoltre tale comunità cristiana “non parla male di nessuno” e “mostra ogni dolcezza verso tutti gli uomini” (Tt 3,2). Questa è una prima componente importante di queste Lettere: l’universalità e la fede come verità, come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e così si delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e testimone dell’amore di Dio per tutti.

Un’altra componente tipica di queste Lettere è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa. Sono esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr 1 Tm 3,1-13; 4,13; 2 Tm 1,6; Tt 1,5-9). Possiamo osservare nelle Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa. Nelle Lettere paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di “episcopi” (Fil 1,1), e di “diaconi”: questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi all’epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell’apostolo stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.

Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura dominante. Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono: appare adesso “l’episcopo”, (il vescovo) (cfr 1 Tm 3,2; Tt 1,7), sempre al singolare, accompagnato dall’articolo determinativo “l’episcopo”. E accanto a “l’episcopo” troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora è determinante la figura dell’Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto, sono indirizzate non più a comunità, ma a persone: Timoteo e Tito, i quali da una parte appaiono come Vescovi, dall’altra cominciano a stare al posto dell’Apostolo.

Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si chiamerà “successione apostolica”. Paolo dice con tono di grande solennità a Timoteo: “Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri” (1 Tim 4, 14). Possiamo dire che in queste parole appare inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così abbiamo l’essenziale della struttura cattolica: Scrittura e Tradizione, Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli Apostoli, come testimoni dell’annuncio apostolico.

Importante infine notare che in queste Lettere la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani, in analogia con la casa e la famiglia. Particolarmente in 1 Tm 3,2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate sull'episcopo, come queste: egli dev'essere “irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre... è necessario che egli goda buona testimonianza presso quelli di fuori”. Si devono notare qui soprattutto l'importante attitudine all'insegnamento (cfr anche 1 Tm 5,17), di cui si trovano echi anche in altri passi (cfr 1 Tm 6,2c; 2 Tm 3,10; Tt 2,1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della “paternità”. L’episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr anche 1 Tm 3,15). Del resto l'idea di Chiesa come “casa di Dio” affonda le sue radici nell'Antico Testamento (cfr Nm 12,7) e si trova riformulata in Eb 3,2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio (cfr Ef 2,19).

Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla società in cui viviamo, come membri della “famiglia di Dio”. E preghiamo anche perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni, insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità, della Chiesa.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 28 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:48 am


  • L'esistenza del male
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«Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato» (Rom 5,12)

L'incompiutezza della frase appartiene al testo originale di Paolo (in termini di sintassi si tratta di una protasi senza apodosi). Egli sembra soverchiato dall'affermazione fatta, come se non avesse parole sufficienti per esprimere il suo pensiero. Già prima nella lettera aveva parlato della universalità del peccato (cf. 3,9-20), ma ora egli ne specifica l'origine, se non proprio la causa. Senza fare il nome di Adamo (che apparirà solo nel v.14; ma non si parla né di Eva e tantomeno del diavolo!) Paolo richiama il racconto genesìaco del primo peccato.

Anche in un contemporaneo apocrifo giudaico si legge: «Cos'hai fatto, Adamo? Se infatti peccasti, la rovina non fu solo tua, ma anche di tutti noi che siamo discesi da te» (4Esdra 7,118). Paolo però non riflette sul peccato di Adamo per se stesso ma solo per il rapporto che con esso viene ad avere la figura di Cristo, sul cui operato di redenzione cade l'accento principale del contesto. Alla base c'è la convinzione che l'esistenza del male nel mondo non va ricondotta né a un principio divino (contro il manicheismo) né a un'origine mitologica (come un peccato degli angeli, secondo l'apocrifo Enoch etiopico), ma solo all'uomo stesso.
  • Romano Penna, in Avvenire 28 gennaio 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 30, 2009 9:51 am


  • Il nuovo capostipite
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«Il dono della grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rom 5,15)

Paolo ora enuncia l'antitesi ad Adamo: è Gesù Cristo il nuovo capostipite, che supera e annulla i danni anteriori. Ed è interessante notare che, come nel precedente v.12 Paolo parlava di «un solo uomo» (Adamo), a cui era abbinata la morte, così ora egli parla di un altro «solo uomo» che si chiama Gesù Cristo, a cui è congiunta la grazia, anche senza attribuirgli titolature particolarmente solenni!

È come dire che la grandezza dell'uomo-Gesù consiste non tanto staticamente in una sua personale autonoma dignità, quanto nella sua attiva funzione positiva di annullamento dei nostri debiti (vedi pure Col 2,13-15). Così si leggerà anche in 1Timoteo 2,5-6: «Uno solo è Dio e uno solo anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti».

Tommaso d'Aquino preciserà che la grazia di Dio procedette «non solo all'eliminazione del peccato indotto da Adamo, ma anche a eliminare i peccati attuali» (come del resto Paolo aveva già anticipato in 3,24-25). Ed è una grazia abbondante, cioè traboccante, concessa a profusione, che in quanto tale non solo equivale ma eccede di molto la precedente misura di peccato.
  • Romano Penna, in Avvenire 29 gennaio 2009
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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