Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

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miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » sab dic 19, 2009 10:40 am


  • Realtà e metodo dell'Incarnazione
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Sono trascorsi sei mesi dall'inizio dell'Anno sacerdotale, che è stato inaugurato da Benedetto XVI lo scorso 19 giugno 2009 e che, silenziosamente ma con efficacia, prosegue il proprio cammino nella Chiesa in tutto il mondo, vedendo la semina e già qualche fioritura, che lascia sperare buoni frutti. A metà di questo anno, il solo bilancio in sintonia con il vero spirito dell'indizione di tale provvida iniziativa è quello che riguarda la conversione di ciascuno, soprattutto in ordine alla focalizzazione dell'identità sacerdotale e all'immedesimazione con tale identità, che tanto determina del ministero che ci è affidato, sia come realtà accolta dalla grazia sacramentale dell'ordinazione, sia come metodo prima esistenziale e poi di evangelizzazione.

In questi giorni, già nella novena di Natale, siamo chiamati a fare memoria del mistero dell'Incarnazione del Verbo, il Dio con noi; mistero che eccede la nostra capacità di comprensione e la nostra stessa attesa di salvezza: se partecipiamo, come sacerdoti, all'anelito umano universale alla salvezza ed alla rivelazione, intese anche come compimento e accoglienza del significato pieno dell'esistenza, non di meno il modo scelto da Dio per rivelarsi oltrepassa ogni possibile aspettativa umana, e abbraccia, dilatandola enormemente, la stessa capacità umana di domanda.

Contempliamo, in questi giorni così densi di attività, cioè di servizio di fede ai fratelli, il mistero straordinario dell'Incarnazione, non limitandoci a concepirlo come, appunto, mistero, ma andando al fondo di ciò che la fede, da sempre, ci dice: il mistero è ciò che, una volta incontrato e compreso, non è esauribile dalla nostra intelligenza.

Quello che, probabilmente con maggiore efficacia, possiamo tradurre in esperienza esistenziale e in modo di servizio pastorale è il metodo inaugurato nel mondo dall'Incarnazione del Verbo. Dio non ha scelto di inviarci un libro, non si è rivelato in visioni strane ed incomprensibili, non ha imposto regole morali. Dio si è fatto uomo! Ha scelto di entrare nella storia, nella carne, condividendo dal di dentro l'esperienza della sua creatura, di quella che egli stesso ha posto a custodia di tutto il creato, costituendola quale unico punto di autocoscienza del cosmo.

Il nostro ministero sacerdotale, soprattutto in questo tempo che vede tanti fratelli avvicinarsi a noi, per le ragioni talvolta più diverse, deve essere, almeno come tentativo e desiderio, esattamente questo: aiutare quanti incontriamo a fare l'esperienza di un Dio vicino, implicato realmente con la pasta umana e, nel contempo, proprio perché implicato, capace di innalzare, elevare la miseria e la debolezza umana, alle altezze più inattese, alla stessa sua vita divina. La preghiera, il concepirsi del sacerdote come incessante preghiera per l'umanità tutta, il vivere la propria esistenza come offerta totale al Signore, nella radicalità del celibato e nella fedeltà all'ininterrotta tradizione della Chiesa, sono elementi costitutivi della possibilità stessa di condurre i fratelli al Signore: essi guarderanno colui a cui noi guardiamo, ameranno chi noi amiamo.

Potremo fare ciò, ben lo sappiamo, soltanto se, innanzitutto per noi, l'Incarnazione non sarà soltanto una verità di fede imparata, ma diverrà esperienza quotidiana e concreta di ogni giorno, nella certezza di una compagnia guidata, la Chiesa, che è garanzia, proprio attraverso la sua struttura sacramentale, così splendidamente umana, del permanere e dell'agire del Signore tra noi. Per noi infatti il Verbo si è fatto carne, per noi in Gesù di Nazareth Signore e Cristo abita corporalmente la pienezza della divinità, per noi l'Incarnazione è anche il metodo, il cammino con il quale il Signore ha deciso di raggiungerci e ci raggiunge adesso.
Sia questo metodo, l'unico direttamente divino e quindi certamente efficace, ad animare ogni scelta missionaria e ogni gesto sacramentale. Sia l'Incarnazione la vera misura della nostra pastorale, in un difficile, ma irrinunciabile equilibrio tra umano e divino, sempre ricordando che l'uomo Gesù non è mai esistito separato dal Logos eterno e che quindi la legittima distinzione tra umano e divino, lungi dal giustificare ingenui sociologismi da un lato o fughe spiritualistiche dall'altro, ci chiama costantemente a quella unità, in se stessa unica e irripetibile, ma spiritualmente desiderabile e ripresentabile, che è l'equilibrio e la prossimità dell'esperienza del Dio con noi.

Potrebbe essere questo il frutto buono che a metà dell'Anno sacerdotale domandiamo al Signore: una conversione autentica, un rinnovamento spirituale, che sia anche conversione di metodo, sia nel concepire la Chiesa come il reale proseguimento dell'Incarnazione, nel permanere del triplice ministero di annuncio, salvezza e guida di Cristo stesso, sia nel vivere il sacerdozio ministeriale come autentica possibilità, innanzitutto per gli stessi sacerdoti e poi per tutto il popolo di Dio, di fare esperienza della vicinanza del mistero. In definitiva, siamo ministri dell'Assoluto; nelle nostre mani il pane e il vino divengono corpo e sangue di Cristo, per la nostra assoluzione i peccatori vengono riconciliati con il Padre e con la Chiesa: chi più del sacerdote può rendersi conto di cosa significhi, come realtà e come metodo, l'Incarnazione del Verbo?
  • Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 05, 2010 4:16 pm


  • Da cristiani nei moderni areopaghi
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Non è facile trovare un criterio unitario di lettura dell'odierna situazione culturale, vista la diversità di culture, di filosofie, di correnti di pensiero sociale e politico, di costumi. E questa difficoltà potrebbe far nascere l'idea che la cultura sia così pluralistica e frammentata, da rendere impossibile un discorso veritativo universale.

Non si può negare, tuttavia, che le filosofie del XX secolo abbiano avuto un ruolo importante nell'evidenziare i limiti insuperabili e in molti casi anche le contraddizioni delle filosofie ottocentesche, al punto che è ormai invalso l'uso di parlare di "naufragio delle ideologie". Inoltre, va ascritto a merito di quel secolo l'aver saputo valorizzare le categorie moderne di "soggetto", di "coscienza", di "storicità", all'interno di una sensibilità culturale attenta ai problemi dell'esistenza umana e all'eterno tema della libertà dell'uomo di fronte al male e all'assoluto, liberandosi dai pregiudizi e dai dogmi delle filosofie sistematiche del secolo precedente. Non pochi sono soddisfatti dell'opera di demolizione teoretica operata nel XX secolo nei confronti della "modernità", e parlano dell'epoca presente come di un'epoca "post-moderna". Altri, invece, ritengono che siamo ancora nella piena modernità, giunta alle sue logiche conclusioni. Altri ancora, soprattutto in ambito religioso, ritengono che il vuoto d'ideali lasciato dal crollo delle ideologie possa essere colmato dalla ripresa del sentimento religioso e in questo senso vedono nell'epoca presente un'opportunità unica sotto il profilo culturale.

Tutte queste posizioni presentano aspetti di verità. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il fatto che, in conseguenza delle illusioni prodotte dalle ideologie immanentiste, si sono creati rilevanti ostacoli culturali nella società odierna, ostacoli che si oppongono a un'efficace evangelizzazione, e che fortemente persistono, nonostante siano tramontati i sistemi teorici che li hanno generati.

Bisogna poi notare che nella stessa cultura teologica, e quindi nella stessa formazione dei preti e degli operatori pastorali, si sono prodotti sia gli effetti positivi sia gli effetti negativi della mentalità secolarizzata moderna. Attuare una "nuova evangelizzazione" significa allora non soltanto evangelizzare la cultura contemporanea, ma anche purificare la cultura cattolica, e quella teologica in modo particolare, da certi equivoci tuttora persistenti, valorizzando adeguatamente gli ambiti di apostolato culturale che la società offre ai cristiani.

Giovanni Paolo II, nell'enciclica Fides et ratio, considera, a modo di esempio, i "pericoli" che si nascondono "in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse". In primo luogo menziona l'"eclettismo": questa forma di pensiero è certamente sempre esistita nella storia della filosofia, ma oggi presenta delle caratteristiche particolari, perché non si tratta d'una scuola filosofica o del modo di procedere di un singolo pensatore, ma di un vago atteggiamento culturale che intende valorizzare diverse idee e suggestioni provenienti da tante filosofie e culture, "senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento storico" (Fides et ratio, n. 86).

Oggi l'evangelizzatore deve fare i conti non solo e non tanto con l'ateo o con l'indifferente: un'epoca di vuoto ideologico non può che far diminuire questo genere di persone, come dimostra la generale ripresa dell'interesse religioso; oggi bisogna piuttosto fare i conti con la confusione d'idee e di orizzonti culturali, a cui indirettamente contribuisce la mondializzazione dell'economia, per cui tutto va bene, tutto è assimilabile a tutto, ogni idea e ogni comportamento è compatibile con altri, perfino con l'esatto opposto, visto che il principio di non contraddizione, almeno nella prassi, sembra essere obliato. Si preferiscono allora espressioni vaghe e imprecise, non compromettenti dal punto di vista teoretico, per esprimere le proprie posizioni, in modo da rendersi graditi a tutti. E il più delle volte non si tratta d'un atteggiamento studiato per convenienza, ma d'una conseguenza della difficoltà sempre più crescente nella cultura odierna a ragionare e ad argomentare. In questo quadro culturale, filosofia e teologia rischiano di ridursi a belle chiacchierate, in cui un termine vale l'altro, purché sia capace di evocare sentimenti buoni e sia in grado di affascinare o d'abbagliare il pubblico, come accadeva nella peggiore sofistica.

Che il pericolo sia reale anche nella nostra teologia lo dimostra la preoccupata affermazione che troviamo nel già citato n. 86 della Fides et ratio: "Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche teologo si abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione ad argomentare in maniera seria e scientifica".

Se si trascurano queste due finalità del pensiero - ricercare la verità ed educare a ragionare con argomentazioni - si giungerà a porre alla base della validità di un sistema filosofico o teologico l'opzione della volontà del singolo o del gruppo, oppure la funzionalità del sistema in ordine al soddisfacimento di bisogni soggettivi. Ma se l'elaborazione teologica è fondata sull'opzione della volontà, allora essa tende a trasformarsi in ideologia religiosa, ovvero in un sistema che non è in grado d'accettare il confronto e di reggere a una critica. Viene meno così tutta l'apologetica, che invece oggi, in un mondo multi-culturale, andrebbe ripresa, appunto "in maniera seria e scientifica". Conseguentemente la produzione teologica rischia di assecondare sempre più i gusti del momento e le esigenze di fruizione facile e immediata e sempre meno le esigenze d'una formazione culturale e spirituale organica ed approfondita, radicata nei classici del pensiero e della spiritualità cristiana. Si rischia, in sostanza, di cadere nella logica dell'industria culturale.

Non è una questione che riguarda soltanto la teologia accademica: si tratta di un atteggiamento che coinvolge anche la predicazione e l'apostolato, sebbene in una forma più divulgativa. Pensiamo per esempio all'uso e all'abuso del termine "esperienza" nel linguaggio teologico, omiletico e catechetico: lo si usa continuamente, talora senza rendersi conto che si tratta di un termine dal significato complesso, che andrebbe usato con cautela ed a ragion veduta. Per non parlare di espressioni come "incontro con Dio" o "esperienza di Dio", che sono talmente impegnative da lasciare perplessi quando si sentono usare nei contesti più impensati e senza un minimo di cautela e di chiarezza teologico-spirituale.

Non minore perplessità suscita il "biblicismo" di certi teologi e di certi pastori d'anime, come pure di operatori pastorali laici, che da una parte disprezzano la filosofia, dall'altra poi usano, consapevolmente o meno, metodi d'interpretazione della Scrittura legati inscindibilmente a ben precise dottrine filosofiche (cfr. Fides et ratio, n. 55).
Ancor più problematica per le prospettive della "nuova evangelizzazione" è l'eredità lasciata dal XX secolo al terzo millennio di un diffuso "pragmatismo": si tratta di un fenomeno culturale che ha le sue radici nella cultura del XIX secolo, ma che soltanto nel Novecento, per complessi fattori storico-culturali, è esploso in modo rilevante. L'enciclica Fides et ratio, definisce il pragmatismo come "l'atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici" (n. 89).

Ora è chiaro che nessuna filosofia seria degli ultimi due secoli risponde a una tale descrizione: il testo dell'enciclica, infatti, coglie il pragmatismo nei suoi esiti culturali concreti, cioè nel diffuso relativismo epistemologico ed etico che esso ha prodotto. Ma le radici di questo atteggiamento, e dei suoi risvolti utilitaristici, si trovano in una sempre maggiore esaltazione della prassi a scapito della teoresi, che s'è affermata soprattutto a partire dagli inizi dell'Ottocento. Basta passare in rassegna le principali correnti del pensiero moderno per rendersene conto: il primato della ragion pratica sulla ragion pura nel kantismo; il primato dell'azione sul pensiero speculativo nel romanticismo (dal detto di Goethe: "In principio era l'Azione" al primato dell'Io pratico sull'Io teoretico secondo Fichte); la filosofia come riflessione sulla prassi rivoluzionaria, dal marxismo al neo-marxismo (la "filosofia della prassi" di Gramsci); il primato della volontà e dell'azione in certe forme di spiritualismo di fine Ottocento e nel modernismo; il pragmatismo americano; il "vitalismo" irrazionalista di Nietzsche e di altri; l'attualismo storicista e idealista; l'utilitarismo neo-liberista.

È necessario precisare che qui non si intende condannare in blocco o mettere insieme, in maniera approssimativa e superficiale, filosofie molto complesse e molto diverse tra di loro, né tantomeno s'intende analizzarne le proposte sistematiche: l'intento è quello di mostrare che questa singolare convergenza di filosofie così diverse tra di loro nell'affermazione della superiorità della prassi sulla teoresi ha contribuito in modo rilevante a creare una mentalità incline a porsi prima la domanda "a che serve?" della domanda "che cos'è?", incline, cioè, a ridurre il conoscere al "fare": conoscere per agire, agire per usufruire. Si tratta certamente di una semplificazione del problema, ma credo descriva l'atteggiamento generale, indotto da un clima sempre meno propenso alla riflessione razionale teoreticamente strutturata sui problemi e sulle soluzioni adottate. L'umanità trova in tal modo una sua unità, ma a partire dai bisogni più che dai valori.

L'unificazione culturale dell'umanità nel nome dei comuni bisogni di benessere è essenziale per la mondializzazione dell'economia e per le esigenze del mercato, e non è per se stessa una cosa cattiva: può però diventare un pericolo per la dignità dell'uomo se comporta strutturalmente e in maniera programmata un'unificazione della coscienza su valori "minimali", fondati su un utilitarismo sociale banale e insensibile al confronto con i problemi e con le esigenze dello spirito.
Se ciò avvenisse, avremmo una massificazione dell'opinione pubblica dietro un apparente pluralismo e un controllo capillare dei movimenti di opinione tramite i mezzi di comunicazione sociale gestiti a seconda dell'utilità.

Una delle conseguenze più rilevanti del diffuso pragmatismo si è prodotta nell'ambito della cultura e dell'istruzione impartita negli studi pre-universitari ai giovani: problema da non sottovalutare e trascurare in ordine a una "nuova evangelizzazione". Infatti, una caratteristica dello sviluppo dell'istruzione scolastica è la tendenza a ridimensionare la cultura umanistica e filosofica a vantaggio di altre discipline. Con il rischio d'abituare i giovani a analizzare i problemi e a valutare i messaggi che ricevono in modo superficiale e appiattito sui luoghi comuni dell'"industria culturale". Basti pensare ai luoghi comuni relativi all'"oscurantismo medievale" o al contrasto tra fede e scienza nel Rinascimento: concetti non recepiti dalla letteratura specializzata, ma ben presenti nella divulgazione e nell'immaginario collettivo, che finisce inevitabilmente col formarsi idee approssimative, se non sbagliate, delle questioni. Ma quel che è più preoccupante è l'oblio a cui rischia di essere destinata la cultura umanistico-cristiana qualora i giovani venissero un giorno educati nella convinzione che lo studio della storia "praticamente" ha valore solo a partire dall'Ottocento, o che lo studio della filosofia prima di Cartesio, se non prima di Hegel, è "praticamente" inutile.

Si spera che queste prospettive anti-culturali non si realizzino, ma occorre vigilare, sia come educatori sia come cristiani, perché, se è vero che il cristianesimo non s'identifica con nessuna cultura in particolare, è anche vero che per duemila anni il cristianesimo ha generato cultura: dimenticare questo cammino significa ridurre il cristianesimo a una delle tante offerte religiose presenti nel supermercato dello spirito.

Per i sacerdoti e per gli operatori pastorali sarà sempre più importante evangelizzare coinvolgendo attivamente le strutture culturalmente più rilevanti del Paese in cui si lavora. Se si tratta di un Paese a tradizione cristiana sarebbe davvero fecondo l'apostolato nelle scuole e attraverso le scuole o altri istituti di formazione: certo, rimane essenziale e primario il riferimento alla parrocchia; ma non bisogna dimenticare che i "lontani" ci sono vicini nella scuola, nel mondo del lavoro, negli istituti di formazione professionale, nelle istituzioni culturali, da quelle più prestigiose a quelle più popolari. Non è un caso che ogni campagna di scristianizzazione abbia sempre colpito il settore educativo, tentando di confinare l'azione pastorale nell'ambito esclusivamente liturgico e devozionale.

Nei Paesi non tradizionalmente cristiani l'evangelizzazione della cultura è ancora più difficile, perché c'è il pericolo che il cristianesimo sia percepito come la religione della cultura dell'Occidente. Lo sforzo d'inculturazione della fede è un compito arduo, su cui la Chiesa negli ultimi anni ha molto riflettuto, stimolata dalla sollecitudine pastorale dei Pontefici.

La situazione culturale odierna è complessa, problematica, include elementi manifestamente incompatibili con il messaggio cristiano: ma sarebbe superficiale ricavarne un quadro fosco, pessimista. Pur nei suoi aspetti negativi, la cultura offre oggi nuove opportunità alla "nuova evangelizzazione" e alla missione, che nel passato erano impensabili. Ci sono seri pericoli che minacciano la dignità dell'uomo nell'epoca presente: ma quale epoca è priva d'insidie, d'errori, d'ingiustizie? Evidentemente quanto più s'evolve una situazione culturale tanto più diventa complessa; e perciò s'aprono opportunità favorevoli sempre più grandi per il messaggio cristiano, ma anche, all'opposto, si rendono sempre più sofisticate le strategie ostili al Vangelo. Il cammino dell'evangelizzazione s'è sempre intrecciato con il cammino dell'anti-evangelizzazione, in ogni epoca e in ogni cultura: al progresso nella diffusione del Vangelo s'oppone da sempre, in modo quasi proporzionale, un progresso nell'opposizione al Vangelo. Pertanto occorre affrontare le difficoltà senza paura di soccombere, con grande fiducia in Dio e con grande carità pastorale, la carità di Cristo, che è amore per i nemici.

La via è quella del dialogo tra l'annuncio della fede e la cultura di un popolo. È la direzione auspicata dall'enciclica Redemptoris missio, in cui i cristiani sono esortati a collocarsi negli "areopaghi" moderni, come san Paolo, al centro della cultura dei popoli, usando linguaggi adatti e comprensibili per la cultura a cui ci si rivolge (cfr. Redemptoris missio n. 37c). Viene citata in questo senso una famosa espressione della Evangelii nuntiandi di Paolo VI: "La rottura fra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca" (n. 20).

In questo senso un terreno di confronto tra la "nuova evangelizzazione" e i moderni areopaghi è la ragionevolezza e la credibilità del cristianesimo. Certamente chi non ha fede non può capire adeguatamente i misteri del cristianesimo; è importante che il dialogo inizi a partire da argomentazioni non immediatamente teologiche, ma da argomentazioni apologetiche, le quali, pur non avendo valore di dimostrazioni incontrovertibili, possano condurre l'interlocutore verso il riconoscimento delle verità rivelate, perlomeno come proposte ragionevoli e, anche di più, plausibili.

Questo complesso e articolato lavoro d'avvicinamento alla cultura, attraverso l'umiltà e la pazienza d'un dialogo quasi "socratico", nulla toglie al momento kerygmatico propriamente detto, che va al centro dell'evento cristiano e chiama a conversione il cuore dell'uomo. Si tratta d'un momento propedeutico, grazie al quale la cultura è preparata a ricevere il messaggio evangelico come la verità di Dio e la verità dell'uomo, che ogni grande cultura ricerca dentro di sé. In tal modo veramente il Vangelo non solo rivela Dio all'uomo, ma anche l'uomo all'uomo, portando a ogni cultura il messaggio liberante di Gesù Cristo.
  • Mario Pangallo
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 05, 2010 4:24 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1979
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Per voi sono Vescovo, con voi sono Sacerdote

Cari Fratelli sacerdoti.

1. Agli inizi del mio nuovo ministero nella Chiesa, sento profondamente il bisogno di rivolgermi a voi, a voi tutti senza alcuna eccezione, Sacerdoti sia diocesani sia religiosi, che siete miei fratelli in virtù del sacramento dell'Ordine. Desidero fin da principio esprimere la mia fede nella vocazione, che vi unisce ai vostri Vescovi, in una particolare comunione di sacramento e di ministero, mediante la quale si edifica la Chiesa, corpo mistico di Cristo. A voi tutti quindi, che, in virtù di una grazia speciale e per una singolare donazione al nostro Salvatore, sopportate «il peso della giornata e il caldo» (cfr. Mt 20,12), tra le cure molteplici del servizio sacerdotale e pastorale, si son rivolti il mio pensiero e il mio cuore fin dal momento in cui Cristo mi ha chiamato a questa Cattedra, sulla quale un tempo san Pietro dovette, con la sua vita e la sua morte, rispondere fino alla fine alla domanda: «Mi vuoi bene? mi vuoi bene più di costoro...?» (cfr. Gv 21,15ss).

A voi penso incessantemente, per voi prego, con voi cerco le vie dell'unione spirituale e della collaborazione, perché, in virtù del sacramento dell'Ordine, che anch'io ricevetti dalle mani del mio Vescovo (il metropolita di Cracovia Cardinale Adamo Stefano Sapieha, di indimenticabile memoria), siete miei fratelli. Adattando, quindi, le note parole di sant'Agostino («Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus»: «Serm.» 340,1: PL 38, 1483), desidero oggi dirvi: «Per voi sono Vescovo, con voi sono Sacerdote». Oggi, infatti, c'è una circostanza particolare che mi spinge a confidarvi alcuni pensieri, che racchiudo in questa Lettera: l'avvicinarsi del Giovedì santo. E', questa, la festa annuale del nostro sacerdozio, che riunisce l'intero Presbiterio di ciascuna diocesi intorno al proprio Vescovo nella comune celebrazione dell'Eucaristia. E' in questo giorno che tutti i sacerdoti sono invitati a rinnovare, dinanzi al proprio Vescovo ed insieme con lui, le promesse fatte nel momento dell'Ordinazione sacerdotale; e ciò consente a me, insieme con tutti i miei Confratelli nell'Episcopato, di ritrovarmi con voi associato in una speciale unità e, soprattutto, di ritrovami nel cuore stesso del mistero di Gesù Cristo, a cui tutti partecipiamo.

Il Concilio Vaticano II, che in modo tanto esplicito ha messo in rilievo la collegialità dell'Episcopato nella Chiesa, ha dato anche una nuova forma alla vita delle comunità sacerdotali, tra loro collegate da uno speciale vincolo di fratellanza ed unite al Vescovo di ciascuna Chiesa particolare. Tutta la vita e il ministero sacerdotale servono all'approfondimento e al rafforzamento di questo legame; una particolare responsabilità, invece, per i vari compiti riguardanti questa vita e il ministero assumono, fra l'altro, i Consigli Presbiterali, che, conformemente al pensiero del Concilio e del Motu proprio «Ecclesiae Sanctae» (I art. 15) di Paolo VI, debbono essere operanti in ogni diocesi. Tutto ciò tende a far sì che ciascun Vescovo, in unità col suo Presbiterio, possa servire in modo più efficace la grande causa dell'evangelizzazione. Mediante questo servizio la Chiesa realizza la sua missione, anzi la sua propria natura. Quale importanza abbia qui l'unità dei Sacerdoti col proprio Vescovo, è confermato dalle parole di sant'Ignazio di Antiochia («Ep. ad Magnesios», VI,1): «Abbiate premura di compiere tutte le cose nella concordia a Dio gradita, sotto la presidenza del Vescovo che rappresenta Dio, e con i Presbiteri che rappresentano il collegio apostolico, e con i Diaconi, a me carissimi, ai quali è stato affidato il servizio di Gesù Cristo».

Ci unisce l'amore di Cristo e della Chiesa

2. Non è mia intenzione racchiudere in questa Lettera tutto ciò che costituisce la ricchezza della vita e del ministero sacerdotale. Mi riferisco a questo proposito, all'intera tradizione del Magistero della Chiesa e, in modo particolare, alla dottrina del Concilio Vaticano II, contenuta nei suoi diversi documenti, soprattutto nella costituzione «Lumen Gentium» e nei Decreti «Presbyterorum Ordinis» e «Ad Gentes». Mi ricollego, altresì, all'Enciclica del mio predecessore Paolo VI «Sacerdotalis Caelibatus». Infine, intendo dare grande importanza al documento «De Sacerdotio ministeriali», che lo stesso Paolo VI approvò, quale frutto dei lavori del Sinodo dei Vescovi del 1971, poiché trovo in esso - sebbene quella sessione del Sinodo, che l'aveva elaborato, avesse carattere consultivo - una enunciazione di importanza essenziale per quanto riguarda l'aspetto specifico della vita e del ministero sacerdotale nel mondo contemporaneo.

Richiamandomi a tutte queste fonti, a voi note, desidero con la presente Lettera accennare soltanto ad alcuni punti, che mi sembrano di estrema importanza in questo momento della storia della Chiesa e del mondo. Son parole, queste, a me dettate dall'amore per la Chiesa, la quale sarà in grado di adempiere la sua missione riguardo al mondo soltanto se - nonostante tutta la debolezza umana - manterrà la sua fedeltà a Cristo. So che mi rivolgo a coloro, ai quali soltanto l'amore di Cristo ha concesso, con una specifica vocazione, di donarsi al servizio della Chiesa e, nella Chiesa, al servizio dell'uomo, per la soluzione dei problemi più importanti, specialmente di quelli che riguardano la sua salvezza eterna.

Anche se all'inizio di queste mie considerazioni mi riferisco a molte fonti scritte e a documenti ufficiali, tuttavia intendo rifarmi soprattutto a quella sorgente viva ch'è il nostro comune amore verso Cristo e la sua Chiesa, amore che nasce dalla grazia della vocazione sacerdotale, amore che è il più grande dono dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5; 1Cor 12,31; 13).

«Scelto fra gli uomini... costituito in favore degli uomini»

3. Il Concilio Vaticano II ha approfondito la concezione del sacerdozio, presentandolo, nell'insieme del suo magistero, come espressione delle forze interiori, di quei «dinamismi» per mezzo dei quali si configura la missione di tutto il Popolo di Dio nella Chiesa. Occorre qui riferirsi soprattutto alla costituzione «Lumen Gentium», rileggendo attentamente i relativi paragrafi. La missione del Popolo di Dio si attua mediante la partecipazione all'ufficio ed alla missione dello stesso Gesù Cristo, che - come è noto - ha una triplice dimensione: è missione e ufficio di Profeta, di Sacerdote e di Re. Analizzando con attenzione i testi conciliari, è chiaro che bisogna parlare di una triplice dimensione del servizio e della missione di Cristo, piuttosto che di tre funzioni diverse. Difatti, queste sono fra di loro intimamente connesse, si spiegano reciprocamente, si condizionano reciprocamente e reciprocamente si illuminano. Di conseguenza, è da questa triplice unità che scaturisce la nostra partecipazione alla missione e all'ufficio di Cristo. Come cristiani, membri del Popolo di Dio e, successivamente, come Sacerdoti, partecipi dell'ordine gerarchico, prendiamo origine dall'insieme della missione e dell'ufficio del nostro Maestro che è Profeta, Sacerdote e Re, per rendergli una particolare testimonia nella Chiesa e dinanzi al mondo.

Il sacerdozio al quale partecipiamo mediante il sacramento dell'Ordine, che e stato per sempre «impresso» nelle nostre anime per mezzo di un segno particolare di Dio, cioè il «carattere», rimane in esplicita relazione col sacerdozio comune dei fedeli, cioè di tutti i battezzati e, in pari tempo, differisce da esso «essenzialmente, e non solo di grado» («Lumen Gentium», 10). In tal modo, acquistano pieno significato le parole dell'autore della Lettera agli Ebrei sul sacerdote, il quale «scelto fra gli uomini, viene costituito in favore degli uomini» (Eb 5,11).

A questo punto, è meglio rileggere ancora una volta tutto questo classico testo conciliare, che esprime le verità fondamentali sul tema della nostra vocazione nella Chiesa: «Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo "un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo" (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1Pt 2,4-10). Quindi, tutti i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dappertutto testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della loro speranza della vita eterna (cfr. 1Pt 3,15). Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia, e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità» («Lumen Gentium», 10).

Il sacerdote, dono di Cristo per la comunità

4. Dobbiamo considerare fino in fondo non soltanto il significato teorico, ma anche quello esistenziale della mutua «relazione», che sussiste fra sacerdozio gerarchico e sacerdozio comune dei fedeli, se essi differiscono fra loro non solo di grado ma di essenza, ciò è frutto di una particolare ricchezza dello stesso sacerdozio di Cristo, che è l'unico centro e l'unica fonte sia di quella partecipazione che è propria di tutti i battezzati, sia di quell'altra partecipazione, a cui si perviene per mezzo di un distinto sacramento, che è appunto il sacramento dell'Ordine. Questo sacramento, cari fratelli, per noi specifico, frutto della peculiare grazia della vocazione e base della nostra identità, in virtù della sua stessa natura e di tutto ciò che esso produce nella nostra vita e attività, serve a rendere consapevoli i fedeli del loro sacerdozio comune e ad attualizzarlo (cfr. Ef 4,11-12): esso ricorda loro che sono Popolo di Dio e li abilita all'«offerta di quei sacrifici spirituali» (cfr. 1Pt 2,5), mediante i quali Cristo stesso fa di noi eterno dono al Padre (cfr. 1Pt 3,18). Questo avviene, innanzitutto, quando il sacerdote «con la potestà sacra, di cui è investito... compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo («in persona Christi») e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo» (cfr. «Lumen Gentium», 10), come leggiamo nel menzionato testo conciliare.

Il nostro sacerdozio sacramentale, quindi, è sacerdozio «gerarchico» ed insieme «ministeriale». Costituisce un particolare «ministerium», cioè è «servizio» nei riguardi della comunità dei credenti. Non trae, però, origine da questa comunità, come se fosse essa a «chiamare» o a «relegare». Esso è, invero, dono per questa comunità e proviene da Cristo stesso, dalla pienezza del suo sacerdozio. Tale pienezza trova la sua espressione nel fatto che Cristo, rendendo tutti idonei ad offrire il sacrificio spirituale, chiama alcuni e li abilita ad esser ministri del suo stesso sacrificio sacramentale, l'Eucaristia, alla cui oblazione concorrono tutti i fedeli e in cui vengono inseriti i sacrifici spirituali del Popolo di Dio.

Consapevoli di questa realtà, comprendiamo in che modo il nostro sacerdozio sia «gerarchico», cioè connesso con la potestà di formare e reggere il popolo sacerdotale (cfr. «Lumen Gentium», 10), e proprio per questo «ministeriale». Compiamo questo ufficio, mediante il quale Cristo stesso «serve» incessantemente il Padre nell'opera della nostra salvezza. Tutta la nostra esistenza sacerdotale è e deve essere profondamente pervasa da questo servizio, se vogliamo compiere adeguatamente il sacrificio eucaristico «in persona Christi».

Il sacerdozio richiede una particolare integrità di vita e di servizio, e appunto una tale integrità si addice sommamente alla nostra identità sacerdotale. In essa si esprime, in pari tempo, la grandezza della nostra dignità e la «disponibilità» ad essa proporzionata: si tratta dell'umile prontezza ad accettare i doni dello Spirito Santo e ad elargire agli altri i frutti dell'amore e della pace, a donare a loro quella certezza della fede, dalla quale derivano la profonda comprensione del senso dell'esistenza umana e la capacità di introdurre l'ordine morale nella vita degli individui e degli ambienti umani.

Poiché il sacerdozio è dato a noi per servire incessantemente gli altri, come faceva Cristo Signore, non si può ad esso rinunciare a causa delle difficoltà che incontriamo e dei sacrifici che ci sono richiesti. Allo stesso modo degli Apostoli, «noi abbiamo lasciato tutto per seguire Cristo» (cfr. Mt 19,27); dobbiamo, perciò, perseverare accanto a lui anche attraverso la croce.

A servizio del Buon Pastore

5. Mentre scrivo, si presentano davanti allo sguardo della mia anima i più estesi e svariati settori della vita degli uomini, a cui, cari fratelli, siete invitati come operai nella vigna del Signore (cfr. Mt 20,1-16). Ma per voi vale anche il paragone del gregge (cfr. Gv 10,1-16), dato che, grazie al carattere sacerdotale, partecipate al carisma pastorale, il che è segno di una peculiare relazione di somiglianza a Cristo, Buon Pastore. Voi siete precisamente insigniti di questa qualifica, in modo del tutto speciale. Benché la sollecitudine per la salvezza degli altri sia e debba essere compito di ciascun membro della grande comunità del Popolo di Dio, cioè anche di tutti i nostri fratelli e sorelle laici - come ha dichiarato così ampiamente il Concilio Vaticano II («Lumen Gentium», cap. II) - tuttavia da voi Sacerdoti si attendono una sollecitudine ed un impegno ben maggiori e diversi da quelli di qualunque laico; e ciò perché la vostra partecipazione al sacerdozio di Gesù Cristo differisce dalla loro partecipazione «essenzialmente, e non solo di grado» («Lumen Gentium», 10).

Difatti, il sacerdozio di Gesù Cristo è la prima sorgente e l'espressione di un'incessante e sempre efficace sollecitudine per la nostra salvezza, che ci permette di guardare a lui proprio come al Buon Pastore. Le parole «Il buon pastore offre la vita per le sue pecorelle» (Gv 10,11) non si riferiscono forse al sacrificio della croce, al definitivo atto del sacerdozio di Cristo? Non indicano forse a noi tutti, che Cristo Signore, mediante il sacramento dell'Ordine, ha reso partecipi del suo Sacerdozio, la via che anche noi dobbiamo percorrere? Queste parole non ci dicono forse che la nostra vocazione è una singolare sollecitudine per la salvezza del nostro prossimo? che questa sollecitudine è una particolare ragion d'essere della nostra vita sacerdotale? Che proprio essa le dà senso, e che solamente per mezzo di essa possiamo ritrovare il pieno significato della nostra propria vita, la nostra perfezione, la nostra santità? Questo tema viene ripreso, in vari luoghi, nel Decreto conciliare «Optatam Totius» (cfr. nn. 8-11; 19ss).

Questo problema, tuttavia, diventa più comprensibile alla luce delle parole del nostro stesso Maestro, che dice: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35). Sono, queste, parole misteriose, e sembrano un paradosso. Ma esse cessano di esser misteriose, se cerchiamo di metterle in pratica. Allora il paradosso scompare, e si rivela pienamente la profonda semplicità del loro significato. Sia concessa a noi tutti questa grazia nella nostra vita sacerdotale e nel nostro servizio pieno di zelo.

«Arte delle arti è la guida delle anime»

6. La particolare sollecitudine per la salvezza degli altri, per la verità, per l'amore e la santità di tutto il popolo di Dio, per l'unità spirituale della Chiesa, che ci è stata affidata da Cristo insieme alla potestà sacerdotale, si esplica in varie maniere. Diverse certamente sono le vie lungo le quali, cari fratelli, adempite la vostra vocazione sacerdotale. Gli uni nell'ordinaria pastorale parrocchiale; gli altri nelle terre di missione; altri, ancora, nel campo delle attività connesse con l'insegnamento, con l'istruzione e l'educazione della gioventù, lavorando nei vari ambienti e organizzazioni, e accompagnando lo sviluppo della vita sociale e culturale; altri, infine, accanto ai sofferenti, agli ammalati, agli abbandonati; alle volte, voi stessi, inchiodati a un letto di dolore. Diverse sono queste vie, ed è perfino impossibile nominarle tutte singolarmente. Necessariamente esse sono numerose e differenziate, perché varia è la struttura della vita umana, dei processi sociali, delle tradizioni storiche e del patrimonio delle diverse culture e civiltà. Nondimeno, in tutte queste differenziazioni, voi siete sempre e dappertutto portatori della vostra particolare vocazione: siete portatori della grazia di Cristo, eterno Sacerdote, e del carisma del buon Pastore. E questo non potete mai dimenticare; a questo non potete mai rinunciare; questo dovete in ogni tempo e in ogni luogo e in ogni modo attuare. In ciò consiste quell'«arte delle arti», alla quale Gesù Cristo vi ha chiamati. «Arte delle arti è la guida delle anime», scriveva San Gregorio Magno («Regula pastoralis» I, 1: PL 77, 14).

Vi dico, dunque, rifacendomi il queste sue parole: sforzatevi di essere «artisti» della pastorale. Ce ne sono stati molti nella storia della Chiesa. Occorre elencarli? A ciascuno di noi parlano, ad esempio, san Vincenzo de Paul, San Giovanni d'Avila, il santo Curato d'Ars, san Giovanni Bosco, il beato Massimiliano Kolbe, e tanti, tanti altri. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era se stesso, era figlio dei suoi tempi ed era «aggiornato» rispetto ai suoi tempi. Ma questo «aggiornamento» di ciascuno era una risposta originale al Vangelo, una risposta necessaria proprio per quei tempi, era la risposta della santità e dello zelo. Non vi è altra regola al di fuori di questa per «aggiornarci», nella nostra vita e nell'attività sacerdotale, ai nostri tempi d all'attualità del mondo. Indubbiamente, non possono essere considerati come adeguato «aggiornamento» i vari tentativi e progetti di «laicizzazione» della vita sacerdotale.

Dispensatore e testimone

7. La vita sacerdotale è costruita sul fondamento del sacramento dell'Ordine, che imprime nella nostra anima il segno di un carattere indelebile. Questo segno, impresso nel profondo del nostro essere umano, ha la sua dinamica «personalistica». La personalità sacerdotale deve essere per gli altri un chiaro e limpido segno e un'indicazione. E', questa, la prima condizione del nostro servizio pastorale. Gli uomini, fra i quali siamo scelti e per i quali veniamo costituiti (cfr. Eb 5,1), vogliono soprattutto vedere in noi un tale segno e una tale indicazione, e ne hanno diritto. Può sembrarci talvolta che non lo vogliano, o che desiderino che siamo in tutto «come loro»; alle volte sembra addirittura che lo esigano da noi. E qui è proprio necessario un profondo «senso di fede» e «il dono del discernimento». Difatti, è molto facile lasciarsi guidare dalle apparenze e diventare vittime di una fondamentale illusione. Coloro che richiedono la laicizzazione della vita sacerdotale e che plaudono alle vane sue manifestazioni, ci abbandoneranno certamente, quando soccomberemo alla tentazione; ed allora cesseremo di essere necessari e popolari. La nostra epoca è caratterizzata da diverse forme di «manipolazione» e di «strumentalizzazione» dell'uomo, ma noi non possiamo cedere a nessuna di esse («Non illudiamoci di servire il Vangelo se tentiamo di "diluire" il nostro carisma sacerdotale attraverso un esagerato interesse verso il vasto campo dei problemi temporali, se desideriamo "laicizzare" il nostro modo di vivere e di agire, se cancelliamo anche i segni esterni della nostra vocazione sacerdotale. Dobbiamo conservare il senso della nostra singolare vocazione, e tale "singolarità" deve esprimersi anche nella nostra veste esteriore. Non vergogniamocene! Sì, siamo nel mondo! Ma non siamo del mondo!»: Giovanni Paolo II, «Discorso al Clero di Roma», n. 3,9 novembre 1978). In definitiva, risulterà sempre necessario agli uomini soltanto il sacerdote ch'è consapevole del senso pieno del suo sacerdozio: il sacerdote che crede profondamente, che professa con coraggio la sua fede, che prega con fervore, che insegna con profonda convinzione, che serve, che attua nella sua vita il programma delle Beatitudini, che sa amare disinteressatamente, che è vicino a tutti e, in particolare, ai più bisognosi.

La nostra attività pastorale esige che stiamo vicini agli uomini e a tutti i loro problemi, sia quelli personali e familiari, che quelli sociali, ma esige pure che stiamo vicini a tutti questi problemi «da sacerdoti». Solo allora, nell'ambito di tutti quei problemi, rimaniamo noi stessi. Se quindi serviamo veramente quei problemi umani, alle volte molto difficili, allora conserviamo la nostra identità e siamo veramente fedeli alla nostra vocazione.

Dobbiamo cercare con grande perspicacia, insieme con tutti gli uomini, la verità e la giustizia, la cui vera e definitiva dimensione non possiamo trovare che nel Vangelo, anzi, in Cristo stesso. Il nostro compito è di servire la verità e la giustizia nelle dimensioni della «temporalità» umana, ma sempre in una prospettiva che sia quella della salvezza eterna. Questa tiene conto delle conquiste temporali dello spirito umano nell'ambito della conoscenza e della morale, come ha ricordato in modo mirabile il Concilio Vaticano II (cfr. «Gaudium et Spes», 38-42), ma non si identifica con esse e, in realtà, le supera: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì... queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). Gli uomini nostri fratelli nella fede e anche i non credenti attendono da noi che siamo sempre in grado di indicare loro questa prospettiva, che diventiamo testimoni autentici di essa, che siamo dispensatori della grazia, che siamo servitori della Parola di Dio. Attendono che siamo uomini di preghiera.

Ci sono in mezzo a noi anche coloro che hanno unito la loro vocazione sacerdotale, in modo speciale, con un'intensa vita di preghiera e di penitenza nella forma strettamente contemplativa dei rispettivi Ordini Religiosi. Ricordino essi che il loro ministero sacerdotale anche in questa forma è - in modo particolare - «ordinato» alla grande sollecitudine del buon Pastore, che è la sollecitudine per la salvezza di ogni uomo. E questo dobbiamo tutti ricordare: che a nessuno di noi è lecito meritare il nome di «mercenario», cioè di uno «al quale le pecore non appartengono», di uno «che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore» (Gv 10,12ss). La sollecitudine di ogni buon Pastore è che gli uomini «abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10), affinché nessuno di loro vada perduto (cfr. Gv 17,12), ma abbia la vita eterna, facciamo sì che questa sollecitudine penetri profondamente nelle nostre anime: cerchiamo di viverla. Che essa caratterizzi la nostra personalità, e stia alla base della nostra identità sacerdotale.

Significato del celibato

8. Permettete che qui tocchi il problema del celibato sacerdotale. Lo tratterò sinteticamente, perché è stato già preso in considerazione in modo profondo e completo durante il Concilio e, in seguito, nell'Enciclica «Sacerdotalis Caelibatus», e ancora durante la sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1971. Tale riflessione si è dimostrata necessaria sia per presentare il problema in modo ancor più maturo, sia per motivare ancor più profondamente il senso della decisione, che la Chiesa Latina ha assunto da tanti secoli e alla quale ha cercato di essere fedele, desiderando mantenere anche nel futuro questa fedeltà. L'importanza del problema in questione è così grave e il suo legame col linguaggio dello stesso Vangelo così stretto, che non possiamo in questo caso pensare con categorie diverse da quelle di cui si sono serviti il Concilio, il Sinodo dei Vescovi e lo stesso grande Papa Paolo VI. Possiamo soltanto cercare di comprendere questo problema più profondamente e di rispondervi in modo più maturo, liberandoci sia dalle varie obiezioni, che sempre - come avviene anche oggi - sono state sollevate contro il celibato sacerdotale, sia dalle diverse interpretazioni che si riferiscono a criteri estranei al Vangelo, alla Tradizione e al Magistero della Chiesa; criteri, aggiungiamo, la cui esattezza e fondatezza «antropologica» si rivelano molto dubbie e di valore relativo.

Non dobbiamo, del resto, meravigliarci troppo di tutte queste obiezioni e critiche che, nel periodo postconciliare, si sono intensificate e che qua e là sembra si vadano oggi attenuando. Gesù Cristo, dopo aver presentato ai discepoli la questione della rinuncia al matrimonio «per il regno dei cieli», non ha forse aggiunto quelle parole significative: «Chi può intendere, intenda» (Mt 19,12)? La Chiesa Latina ha voluto e continua a volere, riferendosi all'esempio dello stesso Cristo Signore, all'insegnamento apostolico e a tutta la tradizione che le è propria, che tutti coloro i quali ricevono il sacramento dell'Ordine abbraccino questa rinuncia per il regno dei cieli. Questa tradizione, però, è unita al rispetto verso tradizioni differenti di altre Chiese. Difatti, essa costituisce una caratteristica, una peculiarità e una eredità della Chiesa cattolica Latina, alla quale questa deve molto e nella quale è decisa a perseverare, nonostante tutte le difficoltà, a cui una tale fedeltà potrebbe essere esposta, e malgrado anche i vari sintomi di debolezza e di crisi di singoli Sacerdoti. Tutti siamo coscienti che «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (cfr. 2Cor 4,7); tuttavia, sappiamo bene che esso è appunto un tesoro.

Perché un tesoro? Vogliamo forse con ciò sminuire il valore del matrimonio e la vocazione alla vita familiare? Oppure soccombiamo al disprezzo manicheo per il corpo umano e per le sue funzioni? Vogliamo forse in qualche modo deprezzare l'amore, che conduce l'uomo e la donna al matrimonio e alla coniugale unità del corpo, per formare così «una carne sola» (Gen 2,24; Mt 19,6)? Come potremmo pensare e ragionare in tale modo, se sappiamo, crediamo e proclamiamo, seguendo san Paolo, che il matrimonio è un «mistero grande» in riferimento a Cristo e alla Chiesa? (cfr. Ef 5,32). Nessuno, però, dei motivi con cui alle volte si cerca di «convincerci» circa l'inopportunità del celibato corrisponde alla verità, che la Chiesa proclama e che cerca di realizzare nella vita mediante l'impegno, a cui si obbligano i Sacerdoti prima della sacra Ordinazione. Il motivo, invece, essenziale, proprio e adeguato è racchiuso nella verità che Cristo ha dichiarato, parlando della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli, e che san Paolo proclamava, scrivendo che ognuno nella Chiesa ha il suo proprio dono (cfr. 1Cor 7,7). Il celibato è appunto «dono dello Spirito». Un simile, benché diverso, dono è contenuto nella vocazione al vero e fedele amore coniugale, diretto alla procreazione secondo la carne, nel contesto così grande del sacramento del matrimonio. E' noto come questo dono sia fondamentale per costruire la grande comunità della Chiesa, Popolo di Dio. Se però questa comunità vorrà rispondere pienamente alla sua vocazione in Gesù Cristo, sarà necessario che in essa si realizzi, in proporzione adeguata, anche quell'altro «dono», il dono del celibato «per il regno dei cieli» (Mt 19,12).

Per quale ragione la Chiesa cattolica Latina collega questo dono non soltanto alla vita delle persone che accettano lo stretto programma dei consigli evangelici negli Istituti Religiosi, ma anche alla vocazione al sacerdozio insieme gerarchico e ministeriale? Lo fa perché il celibato «per il regno» non è soltanto un segno escatologico, ma ha anche un grande significato sociale, nella vita presente, per il servizio al Popolo di Dio. Il Sacerdote, attraverso il suo celibato, diventa l'«uomo per gli altri», in modo diverso da come lo diventa uno che, legandosi in unità coniugale con la donna, diventa anch'egli, come sposo e padre, «uomo per gli altri» soprattutto nel raggio della propria famiglia: per la sua sposa, e insieme con essa per i figli, ai quali dà la vita. Il Sacerdote, rinunciando a questa paternità ch'è propria degli sposi, cerca un'altra paternità e quasi addirittura un'altra maternità, ricordando le parole dell'Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (cfr. 1Cor 4,15; Gal 4,19). Sono essi figli del suo spirito, uomini affidati dal buon Pastore alla sua sollecitudine. Questi uomini sono molti, più numerosi di quanti ne possa abbracciare una semplice famiglia umana. La vocazione pastorale dei Sacerdoti è grande e il Concilio insegna che è universale: essa è diretta verso tutta la Chiesa (cfr. «Presbyterorum Ordinis», 3, 6, 10, 12) e, quindi, è anche missionaria. Normalmente, essa è legata al servizio di una determinata comunità del Popolo di Dio, in cui ognuno si aspetta attenzione, premura, amore. Il cuore del Sacerdote, per essere disponibile a tale servizio, a tale sollecitudine e amore, deve essere libero. Il celibato è segno di una libertà, che è per il servizio. In virtù di questo segno il sacerdozio gerarchico, ossia «ministeriale», è - secondo la tradizione della nostra Chiesa - più strettamente «ordinato» al sacerdozio comune dei fedeli.

Prova e responsabilità

9. Frutto di equivoco - se non proprio di malafede - è l'opinione spesso diffusa, secondo cui il celibato sacerdotale nella Chiesa cattolica sarebbe semplicemente un'istituzione imposta per legge a coloro che ricevono il sacramento dell'Ordine.

Tutti sappiamo che non è così. Ogni cristiano che riceve il sacramento dell'Ordine s'impegna al celibato con piena coscienza e libertà, dopo una preparazione pluriennale, una profonda riflessione e una assidua preghiera. Egli prende la decisione per la vita nel celibato solo dopo esser giunto alla ferma convinzione che Cristo gli concede questo «dono» per il bene della Chiesa e per il servizio degli altri. Solo allora s'impegna ad osservarlo per tutta la vita. E' ovvio che una tale decisione obbliga non soltanto in virtù della legge stabilita dalla Chiesa, ma anche in virtù della responsabilità personale. Si tratta qui di mantenere la parola data a Cristo e alla Chiesa. Il mantenimento della parola è, insieme, dovere e verifica della maturità interiore del sacerdote, è l'espressione della sua dignità personale. Ciò si manifesta in tutta la sua chiarezza, quando il mantenimento della parola data a Cristo, attraverso un consapevole e libero impegno celibatario per tutta la vita, incontra difficoltà, viene messo alla prova, oppure è esposto alla tentazione, tutte cose che non risparmiano il Sacerdote, come qualunque altro uomo e cristiano. In tale momento ciascuno deve cercare sostegno nella preghiera più fervente. Deve, mediante la preghiera, ritrovare in sé quell'atteggiamento di umiltà e di sincerità riguardo a Dio e alla propria coscienza, che è appunto la sorgente della forza per sorreggere ciò che vacilla. E' allora che nasce una fiducia simile a quella che san Paolo ha espresso con le parole: «Tutto io posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13). Queste verità sono confermate dall'esperienza di numerosi Sacerdoti e provate dalla realtà della vita. L'accettazione di esse costituisce la base della fedeltà alla parola data a Cristo e alla Chiesa, che è in pari tempo la verifica dell'autentica fedeltà a se stesso, alla propria coscienza, alla propria umanità e dignità. A tutto ciò bisogna pensare soprattutto nei momenti di crisi, e non già ricorrere alla dispensa, intesa quale «intervento amministrativo», come se in realtà non si trattasse, al contrario, di una profonda questione di coscienza e di una prova di umanità. Dio ha diritto a tale prova nei riguardi di ciascuno di noi, se è vero che la vita terrena è per ogni uomo un tempo di prova. Ma Dio vuole parimenti che usciamo vittoriosi da tali prove, e ce ne dà l'aiuto adeguato.

Forse, non senza ragione, occorre qui aggiungere che l'impegno della fedeltà coniugale, derivante dal sacramento del matrimonio, crea nel suo ambito obblighi analoghi, e che talvolta esso diventa un terreno di analoghe prove ed esperienze per gli sposi, mariti e mogli, i quali pure in queste «prove del fuoco» hanno modo di verificare il valore del loro amore. L'amore, infatti, in ogni sua dimensione non è soltanto chiamata, ma anche dovere. Aggiungiamo, infine, che i nostri fratelli e sorelle legati dal matrimonio hanno il diritto di aspettarsi da noi, Sacerdoti e Pastori, il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla vocazione fino alla morte, fedeltà alla vocazione che noi scegliamo mediante il sacramento dell'Ordine, come essi la scelgono mediante il sacramento del matrimonio. Anche in questo ambito e in questo senso dobbiamo intendere il nostro sacerdozio ministeriale come «subordinazione» al sacerdozio comune di tutti i fedeli, dei laici, specialmente di coloro che vivono nel matrimonio e formano una famiglia. In tal modo, noi serviamo «per edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12); altrimenti, anziché cooperare alla sua edificazione, ne indeboliamo la spirituale compagine. Con questa edificazione del corpo di Cristo è strettamente collegato l'autentico sviluppo della personalità umana di ogni cristiano - come anche di ogni Sacerdote - che si realizza secondo la misura del dono di Cristo. La disorganizzazione della compagine spirituale della Chiesa non favorisce certamente lo sviluppo della personalità umana e non costituisce la sua giusta verifica.

Ogni giorno è necessario convertirsi

10. «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10): così sembra che domandiate, cari fratelli, come tante volte chiedevano allo stesso Cristo Signore i discepoli e coloro che lo ascoltavano. Che cosa deve fare la Chiesa, quando sembra che manchino i Sacerdoti, quando la loro carenza si fa sentire specialmente in alcuni Paesi e Regioni del mondo? In quale modo dobbiamo rispondere agli immensi bisogni di evangelizzazione, e come possiamo saziare la fame della Parola e del Corpo del Signore? La Chiesa, che s'impegna a mantenere il celibato dei Sacerdoti come dono particolare per il regno di Dio, professa la fede ed esprime la speranza verso il suo Maestro, Redentore e Sposo, ed insieme verso Colui che è «padrone della messe» e «datore del dono» (Mt 9,38; 1Cor 7,7). Infatti, «ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1,17). Non possiamo noi indebolire questa fede e questa fiducia col nostro dubbio umano, o con la nostra pusillanimità.

Di conseguenza, tutti dobbiamo ogni giorno convertirci. Sappiamo che questa è un'esigenza fondamentale del Vangelo, rivolta a tutti gli uomini (cfr. Mt 4,17; Mc 1,15), e tanto più dobbiamo considerarla come rivolta a noi. Se abbiamo il dovere di aiutare gli altri a convertirsi, altrettanto dobbiamo fare di continuo noi stessi nella nostra vita. Convertirci significa ritornare alla grazia stessa della nostra vocazione, meditare l'infinita bontà e l'infinito amore di Cristo, che si è rivolto a ciascuno di noi e, chiamandoci per nome, ha detto: «Seguimi». Convertirci vuol dire «rendere conto» sempre del nostro servizio, del nostro zelo, della nostra fedeltà, dinanzi al Signore dei nostri cuori, perché siamo «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Convertirci vuol dire «rendere conto» anche delle nostre negligenze e peccati, della pusillanimità, della mancanza di fede e di speranza, del pensare soltanto «in un modo umano», e non «divino». Ricordiamo, a tale proposito, il monito che Cristo rivolse a Pietro stesso (cfr. Mt 16,23). Convertirci significa per noi cercare di nuovo il perdono e la forza di Dio nel sacramento della Riconciliazione, e così ricominciare sempre da capo, ed ogni giorno progredire, dominarci, fare conquiste spirituali, donare gioiosamente, perché «Dio vuol bene a chi dona con gioia» (2Cor 9,7).

Convertirci vuol dire «pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18,1). La preghiera è in un certo modo la prima e ultima condizione della conversione, del progresso spirituale, della santità. Forse negli ultimi anni - almeno in certi ambienti - si è discusso troppo sul sacerdozio, sull'«identità» del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc., e al contrario si è pregato troppo poco. Non c'è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l'identità sacerdotale. E' la preghiera che indica lo stile essenziale del sacerdozio; senza di essa questo stile si deforma. La preghiera ci aiuta a ritrovare sempre la luce, che ci ha condotti fin dagli inizi della nostra vocazione sacerdotale, e che incessantemente ci conduce, anche se talvolta sembra perdersi nel buio. La preghiera ci permette di convertirci continuamente, di rimanere nello stato di tensione costante verso Dio, che è indispensabile se vogliamo condurre gli altri a lui. La preghiera ci aiuta a credere, a sperare e ad amare, anche quando la nostra debolezza umana ci ostacola.

La preghiera ci consente, inoltre, di riscoprire di continuo le dimensioni di quel regno, per la cui venuta preghiamo ogni giorno, ripetendo le parole che Cristo ci ha insegnato. Allora avvertiamo quale sia il nostro posto nella realizzazione di questa richiesta: «Venga il tuo regno», e vediamo quanto siamo necessari perché essa si realizzi. E forse, quando preghiamo, scorgeremo più facilmente quei «campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35) e comprenderemo quale significato abbiano le parole che Cristo pronunciò alla vista di essi: «Pregate, dunque, il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,38).

La preghiera dobbiamo unirla ad un continuo lavoro su noi stessi: è la «formatio permanens». Come giustamente ricorda il Documento emanato circa questo tema dalla Sacra Congregazione per il Clero (cfr. «Litterae Circulares», 4 novembre 1969: AAS 62 [1970] 123ss), una tale formazione deve essere sia interiore, tendente cioè all'approfondimento della vita spirituale del sacerdote, sia pastorale e intellettuale (filosofica e teologica). Se dunque la nostra attività pastorale, l'annuncio della Parola e l'insieme del ministero sacerdotale dipendono dall'intensità della nostra vita interiore, essa deve egualmente trovare il suo sostegno in uno studio assiduo. Non basta arrestarci a ciò che abbiamo un tempo imparato in seminario, anche nel caso che si sia trattato di studi a livello universitario, verso i quali orienta risolutamente la Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica. Questo processo di formazione intellettuale deve protrarsi per tutta la vita, specialmente nei tempi odierni caratterizzati - almeno in molte Regioni del mondo - dallo sviluppo generale della pubblica istruzione e della cultura. Dinanzi agli uomini, che usufruiscono dei benefici di questo sviluppo, noi dobbiamo essere testimoni di Gesù Cristo, adeguatamente qualificati. Come maestri della verità e della morale, noi dobbiamo rendere loro conto, in modo convincente ed efficace, della speranza che ci vivifica (cfr. 1Pt 3,15). E ciò fa anche parte del processo della conversione quotidiana all'amore, mediante la verità.

Fratelli cari! voi che «sopportate il peso della giornata e il caldo» (cfr. Mt 20,12), che avete messo mano all'aratro e non vi volgete indietro (cfr. Lc 9,62), e forse ancor più voi che dubitate del senso della vostra vocazione, o del valore del vostro servizio! Pensate a quei luoghi, dove gli uomini attendono con ansia un Sacerdote, e dove da molti anni, sentendo la sua mancanza, non cessano di auspicare la sua presenza. E avviene, talvolta, che si riuniscono in un Santuario abbandonato, e mettono sull'altare la stola ancora conservata, e recitano tutte le preghiere della liturgia eucaristica; ed ecco, al momento che corrisponde alla transustanziazione, scende tra loro un profondo silenzio, alle volte forse interrotto da un pianto..., tanto ardentemente essi desiderano di udire le parole, che solo le labbra di un Sacerdote possono efficacemente pronunciare! Tanto vivamente desiderano la Comunione eucaristica, della quale solo in virtù del ministero sacerdotale possono diventare partecipi, come pure tanto ansiosamente attendono di sentire le parole divine del perdono: «Ego te absolvo a peccatis tuis»! Tanto profondamente risentono l'assenza di un Sacerdote in mezzo a loro!... Questi luoghi non mancano nel mondo. Se, dunque, qualcuno di voi dubita circa il senso del suo sacerdozio, se pensa che esso sia «socialmente» infruttuoso oppure inutile, rifletta su questo!

Occorre convertirci ogni giorno, riscoprire ogni giorno di nuovo il dono ottenuto da Cristo stesso nel sacramento dell'Ordine, penetrando nell'importanza della missione salvifica della Chiesa e riflettendo sul grande significato della nostra vocazione alla luce di questa missione.

La Madre dei Sacerdoti

11. Cari fratelli, al principio del mio ministero tutti vi affido alla Madre di Cristo, che in modo particolare è la nostra Madre: la Madre dei Sacerdoti. Difatti, il discepolo prediletto, che, essendo uno dei Dodici, aveva udito nel Cenacolo le parole: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), fu da Cristo, dall'alto della Croce, additato a sua Madre con le parole: «Ecco il tuo figlio» (Gv 19,26). L'uomo che il Giovedì santo aveva ricevuto la potestà di celebrare l'Eucaristia, con queste parole del Redentore agonizzante fu donato a sua Madre come «figlio». Noi tutti, quindi, che riceviamo la stessa potestà mediante l'Ordinazione sacerdotale, abbiamo in un certo senso per primi il diritto di vedere in lei la nostra Madre. Desidero, pertanto, che voi tutti, insieme con me, ritroviate in Maria la madre del sacerdozio, che abbiamo ricevuto da Cristo. Desidero, inoltre, che a lei affidiate in modo particolare il vostro sacerdozio. Permettete che lo faccia io stesso, affidando alla Madre di Cristo ognuno di voi - senza alcuna eccezione - in modo solenne e, nello stesso tempo, semplice e dimesso. Vi prego pure, cari fratelli, che ognuno di voi lo faccia da sé, personalmente, come glielo detta il proprio cuore, soprattutto il proprio amore verso Cristo-Sacerdote, ed anche la propria debolezza, la quale va di pari passo col desiderio del servizio e della santità. Ve ne prego.

La Chiesa d'oggi parla di se stessa soprattutto nella costituzione dogmatica «Lumen Gentium» (cfr. cap. VIII). Anche qui, nell'ultimo capitolo, essa confessa di guardare a Maria come alla Madre di Cristo, perché chiama se stessa madre e desidera di essere madre, generando per Iddio gli uomini a una nuova vita. Oh, cari fratelli, quanto vicini voi siete a questa causa di Dio! Quanto essa è impressa nella vostra vocazione, ministero e missione. Di conseguenza, in mezzo al Popolo di Dio, che guarda a Maria con immenso amore e speranza, voi dovete guardare a lei con speranza e amore eccezionali. Difatti, voi dovete annunciare Cristo che è suo figlio: e chi vi trasmetterà meglio la verità su di lui, se non sua Madre?

Voi dovete nutrire i cuori umani con Cristo: e chi può rendervi più coscienti di ciò che fate, se non Colei che lo ha nutrito? «Salve, o vero Corpo, nato dalla Vergine Maria». C'è nel nostro sacerdozio ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza alla Madre di Cristo. Cerchiamo, dunque, di vivere in questa dimensione. Se è lecito far qui riferimento anche alla propria esperienza, vi dirò che, scrivendo a voi, mi rifaccio soprattutto alla mia esperienza personale.

Nel comunicare tutto questo a voi, agli inizi del mio servizio alla Chiesa universale, non cesso di pregare Dio perché ricolmi voi, Sacerdoti di Gesù Cristo, di ogni sua benedizione e grazia e, come pegno e conferma di tale orante comunione, vi benedico di cuore nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Ricevete questa benedizione. Ricevete le parole del nuovo successore di Pietro, di quel Pietro, al quale il Signore ordinò: «E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32). Non cessate di pregare per me insieme con tutta la Chiesa, affinché io risponda a quella esigenza di un primato d'amore, che il Signore ha messo come fondamento alla missione di Pietro, quando gli disse: «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,16). Così sia.
  • 8 aprile, Domenica delle Palme "de Passione Domini", dell'anno 1979 primo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 14, 2010 10:05 am


  • Fermezza e paternità per difendere la credibilità dei sacerdoti
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Fermezza e paternità. Sono gli atteggiamenti che caratterizzano la Chiesa cattolica, sempre uguale a se stessa, sia quando assume posizioni drastiche nei confronti di chi esce dal seminato, sia quando mostra il suo volto accogliente ed è pronta a perdonare chi si pente o ad accogliere chi bussa alle sue porte. Con i suoi sacerdoti, poi, è sempre e comunque prodiga di amore. Di questi atteggiamenti si fa interprete il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, nell'intervista che ha rilasciato al L’Osservatore Romano di mercoledì 13 gennaio 2010.

"La paternità del vescovo elemento fondamentale per la riuscita di una vita sacerdotale". Lo ha detto il Papa rivolgendosi ai vescovi della Bielorussia in visita ad limina il 17 dicembre dello scorso anno. Quanto accaduto in alcune parti del mondo però, nonostante l'impegno, indica che qualcosa non ha funzionato. Cosa?
Non dobbiamo generalizzare. La dolorosa vicenda irlandese - per la quale tra l'altro alcuni vescovi si sono assunti le loro responsabilità e si sono fatti da parte - non può essere riferita a tutto il ministero episcopale. I vescovi sono buoni padri per i loro sacerdoti. Certo, esistono alcune situazioni disdicevoli, ma sono molto limitate. Si tratta purtroppo di situazioni legate alla condizione umana. È quanto accaduto in Irlanda. Un fatto dolorosissimo che colpisce prima di tutto, è vero, le vittime, ma ferisce anche profondamente il cuore della Chiesa. Accertate oggettivamente le responsabilità di tanto male, bisogna andare risolutamente sino in fondo, anche facendo ricorso alla giustizia ordinaria.

Quanto ne risente secondo lei la credibilità dei sacerdoti?
Purtroppo in una società poco incline ad andare fino in fondo nella ricerca della verità, né va dell'immagine del sacerdote. Soprattutto perché i media puntano i loro riflettori su queste vicende, piuttosto che su quello che di buono fa la stragrande maggioranza dei sacerdoti. È innegabile che si verificano episodi dolorosi. Ma si tratta pur sempre di casi limitati e, stando almeno ai numeri, proporzionalmente modesti. Fatti comunque gravissimi, delittuosi che la Chiesa non può tollerare mai, in nessun caso. Ma, ripeto, la grandissima maggioranza dei sacerdoti nel mondo sono persone degne, impegnate nel loro ministero, pronte a spendere tutta la vita - e spesso la perdono - per il Vangelo. Comportamenti ammirevoli ma che purtroppo non fanno notizia. Dal mio privilegiato punto di osservazione ho potuto conoscere tante storie sacerdotali eccellenti. Ho imparato ad amare i sacerdoti sempre di più. Sono una forza molto importante nella Chiesa. Ogni giorno ne sostengono il peso e ne consentono il cammino sui sentieri del mondo. In tante contrade sperdute della terra, sono essi stessi Chiesa. Ne incarnano la missione. Avanguardie del Vangelo, rischiano quotidianamente il martirio. Rappresentano una forza positiva anche per la società. Con il Vangelo, infatti, diffondono valori propri della persona umana, ne riaffermano i diritti, prima di tutto quelli alla vita e alla libertà. Intessono le trame di una fitta rete di carità e di solidarietà che attraversa il mondo. Per questo io ritengo di primaria importanza offrire sempre ai sacerdoti tutti i mezzi di cui necessitano per continuare a esercitare la loro missione. Soprattutto però essi hanno bisogno del nostro sostegno.

Però è difficile in certe realtà cancellare immagini e opinioni negative.
Abbiamo sicuramente bisogno di nuove testimonianze. Per questo preghiamo. Sentiamo il dovere di credere nella forza della preghiera. Anzi quest'anno sacerdotale è un'opportunità di grazia da cogliere senza esitazioni. Ovunque nel mondo cristiano si sta riflettendo sulla quotidianità del ministero, sulla necessità della formazione permanente da offrire ai sacerdoti, anche anziani. Questo è un punto fondamentale: pensare a una formazione permanente che abbia il sapore dell'aggiornamento, della riqualificazione. Come capita in ogni altro ambito della vita umana. Ma ripeto, dobbiamo puntare molto sulla preghiera, sull'adorazione eucaristica. In tante parrocchie già si è cominciato a pregare per i sacerdoti, affinché possano ricevere la forza da Dio per affrontare le nuove sfide della società post moderna. Dai segnali raccolti in questi primi mesi, credo di poter dire che quest'anno potrà realmente far nascere uno spirito sacerdotale nuovo. È molto opportuno che i presbiteri sentano l'amore della Chiesa per loro, vedano riconosciuti i loro sforzi, si sentano appoggiati e stimolati. Il Papa, quando ho avuto occasione di salutarlo per gli auguri natalizi, mi ha detto di essere molto soddisfatto per l'andamento dell'anno sacerdotale, soprattutto proprio perché è stato colto il senso vero della sua celebrazione.

Vanno dunque interpretati nell'ottica dell'amore quei gesti di apertura, da parte della Chiesa, che hanno in un certo senso caratterizzato questi primi mesi dell'anno sacerdotale?
Direi di sì. La Chiesa cattolica è pronta ad accogliere tutte le legittime diversità nel suo seno. Non si preoccupa di categorie umane che parlano di destra, di sinistra, di progressisti, di conservatori. La nostra non è una Chiesa settaria. È cattolica, è una, è santa e apostolica ed è pronta ad abbracciare chiunque, come una grande madre. Offre a tutti la possibilità di compiere cammini diversi pur nella comune testimonianza del Vangelo. Si pensi alla storia degli ordini religiosi, alle loro differenti spiritualità, così diversi l'uno dall'altro ma tutti insieme capaci di portare ricchezza di carismi nell'unica Chiesa di Cristo. Naturalmente tutti devono camminare nell'unità. Ma unità non vuol dire uniformità.

È in questo contesto che si inserisce anche la costituzione apostolica "Anglicanorum coetibus"?
Sì, senza dubbio. Entrare a far parte della nostra comunità ecclesiale è stata una loro richiesta. La Chiesa cattolica non ha fatto altre che aprire le sue porte, come è nel suo stile di accoglienza. Agli anglicani venuti tra di noi essa offre la possibilità di vivere la fede, anche se in una forma un po' diversa, mantenendo cioè alcune caratteristiche del loro rito, della loro spiritualità, della loro liturgia cioè tutto ciò che rende possibile di vivere senza compromettere l'unità e la comunione ecclesiale. Ciò significa che entrano pienamente nella comunione ecclesiale. Lo considero un fatto molto positivo, anche se sono consapevole che ci sono ancora alcune cose da aggiustare, da verificare. È l'espressione di quella libertà di coscienza e di quella libertà religiosa che si professano nella Chiesa cattolica, aperta a chiunque voglia condividerne la comunione.

Per la sua congregazione questa apertura cosa comporta?
Per il momento nulla di nuovo. A parte alcune considerazioni generali in riferimento allo status sacerdotale in generale, come quello dei sacerdoti in tutto il mondo. Cose più specifiche riguardano la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Non pensa che possa aumentare il numero dei sacerdoti in crisi di identità, o comunque in difficoltà per via del celibato?
Certamente dovremo parlare di più con i nostri sacerdoti. Da molte parti viene raccomandata attenzione a quanti, sacerdoti, chiedono la dispensa, anche perché desiderano sposarsi. La Chiesa non abbandona nessuno; nessuno viene escluso dall'amore, dalla fraternità. Neppure quanti ancora non hanno adottato la decisione di chiedere la dispensa, che è sempre la cosa migliore da fare in certi casi. Chi ha di fatto abbandonato il ministero o chi comunque non è più nelle condizioni necessarie per andare avanti, è chiamato a regolarizzare la situazione, come sacerdote, davanti a Dio, davanti la Chiesa e davanti la sua stessa coscienza. Proprio per rendere più semplici certi passaggi il Papa ha conferito alla nostra Congregazione facoltà speciali in questo senso. È un modo per facilitare il procedimento e mettere queste persone in grado di regolarizzare prima la loro posizione, in modo da poter continuare a vivere la loro fede cristiana, anche se in una nuova condizione. La salus animarum è e resta l'obiettivo della Chiesa.

È stato così anche per Milingo?
Certo, questo è stato lo scopo. Se è vero che nel provvedimento di riduzione allo stato laicale si legge la parola in poenam, in fondo si tratta sempre di una grazia perché si offre la possibilità di regolarizzare una posizione e uscire da una situazione che non è regolare né davanti a Dio, né davanti alla Chiesa. Si tratta pur sempre di sacerdoti, persone cioè che hanno degli obblighi. Chiedendo ufficialmente di essere dispensati da questi obblighi si torna a una situazione corretta per vivere davanti a Dio. Alla fine, insomma, si offre sempre a tutti la possibilità di recuperare lo stato di grazia.

Significa che ci si può sempre pentire e dunque tornare indietro?
Sì, sebbene a determinate condizioni e davanti a una vera conversione, si può anche riprendere a esercitare il ministero.

Allora anche un sacerdote sposato potrebbe tornare al ministero sacerdotale se si pentisse?
Finché sussiste il vincolo del matrimonio no, perché gli mancherebbe la condizione di celibe. Se invece dovesse venir meno tale vincolo, secondo quanto specificato in proposito dal diritto canonico, e in presenza di ulteriore richiesta da parte dell'interessato, si dovrebbe procedere esaminando caso per caso, perché in tale delicata materia non si può generalizzare. La legislazione della Chiesa è chiara in questo senso. In ogni caso comunque per il sacerdote che chiede la dispensa la situazione nella comunità ecclesiale è regolarizzata a pieno titolo. Dunque è nella condizione di poter vivere in stato di grazia. Ciò significa che, anche nella sua nuova situazione, può santificarsi come ogni altro cristiano.

In quale modo l'anno sacerdotale potrà contribuire all'orientamento dei sacerdoti che si trovano in difficoltà?
Io penso che sarà un'occasione privilegiata per costoro. Del resto è uno degli obiettivi che si era prefisso il Papa quando lo ha convocato. La riflessione che si sviluppa in questo periodo, investe vari campi. Servirà senz'altro ad aiutare quei sacerdoti che si sentono un po' confusi, quanti accusano sintomi di stanchezza, quelli che avvertono, in maniera sempre più forte, le sollecitazioni del mondo secolare, e sono tentati di cedere sotto il peso delle innumerevoli sfide che si trovano davanti. Ma servirà, io credo, anche a convincere i sacerdoti che vivono situazioni irregolari, senza aver chiesto cioè la dispensa, a mettersi in ordine con la propria coscienza e a regolarizzare le loro posizioni. Anche per restituire chiarezza alla loro vita e a quella degli altri, dei fedeli soprattutto.

Si parla spesso di formazione. Ma cosa si fa in concreto per i sacerdoti chiamati a confrontarsi con un mondo in continua evoluzione?
Siamo perfettamente consapevoli di come sia cambiata la vita oggi. Dunque avvertiamo l'urgenza di una formazione permanente per i nostri sacerdoti. Anzi, per tutti noi. Abbiamo tutti bisogno di riqualificarci, di aggiornarci per venire incontro alle sfide della società globalizzata. Si presentano infatti situazioni nuove da affrontare; a volte ci troviamo impreparati. I giovani di oggi, per esempio, rappresentano una nuova espressione culturale, molto diversa da quella di prima. La società stessa si presenta sempre più come società multicuturale, multireligiosa. E purtroppo molto spesso a conquistare il primato, o comunque maggiore visibilità, è una cultura lontana dalla coscienza religiosa, una cultura laicista, materialista, consumistica, relativista. Certo non possiamo cancellarla. Dunque dobbiamo imparare a gestirla, ad amministrarla per restare nel mondo. I nostri giovani vengono da queste esperienze culturali, sono nati in questo mondo. Nostro compito è comprenderli, capire se tra di loro ci sono delle vocazioni autentiche. Anche per ciò che riguarda la loro formazione, è chiaro che si dovrà tener conto di questa nuova esperienza culturale, delle sollecitazioni cui vengono o verranno sottoposti, del contesto sociale in cui sono chiamati a servire la Chiesa e gli uomini. Si tratterà cioè di formare sacerdoti capaci di stare nel mondo di oggi e di portare l'eterno messaggio di Cristo nel mondo che verrà, che non è poi tanto lontano, vista la rapidità dei cambiamenti generazionali.

Una caratteristica di questo mondo nuovo sembra essere la mobilità umana. A volte però, stando almeno ad alcune situazioni, il fenomeno migratorio comporta recrudescenze di razzismo, di xenofobia. Ne restano coinvolti anche i sacerdoti?
È un fenomeno purtroppo reale. Non possiamo né dobbiamo arrenderci a questa mentalità. La situazione particolare di certe Chiese, soprattutto quelle più antiche, si fa difficile per la scarsità delle vocazioni. Mentre nelle Chiese nate nei territori una volta di missione, per grazia di Dio, le vocazioni sono in costante crescita. Dunque si verifica il fenomeno contrario: da Chiese di missione a Chiese missionarie che inviano sacerdoti laddove ce n'è più bisogno. Ma io credo che proprio questo movimento di sacerdoti da una nazione a un'altra contribuisca in qualche modo a quell'auspicato cambiamento di mentalità. Nella comunità veramente cristiana il fenomeno del razzismo o della xenofobia è più raro, alle volte è sconosciuto. Anzi direi che le comunità ecclesiali, le parrocchie soprattutto, si aprono all'accoglienza degli stranieri; dunque figurarsi come è accolto il sacerdote straniero che va a servire la stessa comunità. Non si può però pensare che la situazione di un Paese possa essere risolta con l'arrivo dei sacerdoti missionari: la Chiesa locale deve puntare a formare il suo clero, quello del suo paese. Una comunità matura deve essere capace di alimentare le vocazioni nel suo seno.

Come deve essere il sacerdote del terzo millennio?
Come quello del primo e come quello del secondo millennio. Cioè come Cristo lo ha voluto. Importante che sia capace di interpretare i segni dei tempi e vivere dentro la cultura del suo tempo da servo del Cristo, del suo Vangelo, della sua Chiesa. Che è sempre identica a quella di ieri e a quella di domani. Questo indica che la Chiesa e, nel caso, i suoi sacerdoti devono inculturare il Vangelo in ogni cultura ed evangelizzare tutte le culture. Devono essere capaci di fare del Vangelo la risposta per le questioni e le aspirazioni di ogni momento storico e di ogni situazione culturale. "Dio non ha mandato il Figlio al mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui".
  • Mario Ponzi intervista Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 14, 2010 10:09 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1982
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Cari fratelli nel sacerdozio.

Fin dall'inizio del mio ministero di Pastore della Chiesa universale ho desiderato che il Giovedì Santo di ogni anno fosse un giorno di particolare comunione spirituale con voi, per condividere con voi la preghiera, le ansie pastorali, le speranze, per incoraggiare il vostro servizio generoso e fedele, per ringraziarvi a nome di tutta la Chiesa.

Quest'anno non vi scrivo una lettera, ma vi invio il testo di una preghiera dettata dalla fede e nata dal cuore, per rivolgerla a Cristo insieme con voi nel giorno natale del mio come del vostro sacerdozio e per proporre una comune meditazione, che da essa sia illuminata e sorretta.

Possa ciascuno di voi «ravvivare il dono di Dio che egli porta in sé per l'imposizione delle mani» (cfr. 2Tm 1,6), e gustare con fervore rinnovato la gioia di essersi donato totalmente a Cristo.

I

1. Ci rivolgiamo a te, o Cristo del Cenacolo e del Calvario, in questo giorno che è la festa del nostro sacerdozio.

Ci rivolgiamo a te noi tutti - Vescovi e presbiteri - riuniti nelle assemblee sacerdotali delle nostre Chiese ed insieme associati nell'universale unità della santa ed apostolica Chiesa.

Il Giovedì Santo è il giorno natale del nostro sacerdozio. E' in questo giorno che tutti noi siamo nati. Come un figlio nasce dal seno della madre, così siamo nati noi, o Cristo, dal tuo unico ed eterno sacerdozio. Siamo nati nella grazia e nella forza della nuova ed eterna alleanza - dal Corpo e dal Sangue del tuo sacrificio redentore: dal Corpo, che è «dato per noi» (cfr. Lc 22,19), e dal Sangue, che «per noi tutti viene versato» (cfr. Mt 26,28).

Siamo nati nell'Ultima Cena e, al tempo stesso, ai piedi della Croce sul Calvario: lì, dove c'è la fonte della nuova vita e di tutti i Sacramenti della Chiesa, ivi è pure l'inizio del nostro sacerdozio.

Siamo nati anche insieme a tutto il Popolo di Dio della nuova alleanza, che tu, prediletto del Padre (cfr. Col 1,13), hai fatto «un regno di sacerdoti per il tuo Dio e Padre» (cfr. Ap 1,6).

Siamo stati chiamati come servitori di questo popolo, che agli eterni tabernacoli di Dio tre volte Santo porta i suoi «sacrifici spirituali» (cfr. 1Pt 2,5).

Il sacrificio eucaristico è «fonte ed apice di tutta la vita cristiana» («Lumen Gentium», 11). E' un sacrificio unico che tutto comprende. E' il bene più grande della Chiesa. E' la sua vita.

Ti ringraziamo, o Cristo:
perché ci hai scelti tu stesso, associandoci in maniera speciale al tuo sacerdozio e segnandoci con un carattere indelebile, che rende idoneo ciascuno di noi ad offrire il tuo proprio sacrificio come sacrificio di tutto il popolo: sacrificio di riconciliazione, nel quale tu offri incessantemente al Padre te stesso e, in te, l'uomo e il mondo;
perché ci hai fatti ministri dell'Eucaristia e del tuo perdono; partecipi della tua missione evangelizzatrice; servitori del popolo della nuova alleanza.

II

2. Signore Gesù Cristo! Quando il giorno del Giovedì Santo dovesti separarti da coloro che avevi «amato sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), tu promettesti loro lo Spirito di verità. Dicesti: «...è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Gv 16,7).

Te ne sei andato mediante la Croce, facendoti «obbediente fino alla morte» (cfr. Fil 2,8) e «spogliando te stesso» (cfr. Fil 2,7) per l'amore col quale ci hai amato fino alla fine; così, dopo la tua risurrezione, è stato dato alla Chiesa lo Spirito Santo, che è venuto ed è rimasto ad abitare in essa «per sempre» (cfr. Gv 14,16).

E' lo Spirito che «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione» con te (cfr. «Lumen Gentium», 4).

Consapevoli - ciascuno di noi - che mediante lo Spirito Santo, operante in forza della tua Croce e Risurrezione, abbiamo ricevuto il sacerdozio ministeriale per servire la causa della umana salvezza nella tua Chiesa, imploriamo oggi, in questo giorno così santo per noi, il continuo rinnovamento del tuo sacerdozio nella Chiesa, mediante appunto il tuo Spirito che deve «ringiovanire» in ogni epoca della storia questa tua Sposa diletta; imploriamo che ognuno di noi ritrovi nel proprio cuore e confermi ininterrottamente con la propria vita l'autentico significato, che la sua personale vocazione sacerdotale ha sia per lui stesso sia per tutti gli uomini, affinché in modo sempre più maturo veda con gli occhi della fede la vera dimensione e la bellezza del sacerdozio, affinché persista nel ringraziamento per il dono della vocazione come per una grazia non meritata, affinché, ringraziando incessantemente, si consolidi nella fedeltà a questo santo dono, il quale, proprio perché è del tutto gratuito è tanto più obbligante.

3. Ti ringraziamo per averci configurati a te, come ministri del tuo sacerdozio, chiamandoci ad edificare il tuo Corpo, la Chiesa, non solo mediante l'amministrazione dei sacramenti, ma anche, e prima ancora, con l'annuncio della tua «parola di salvezza» (cfr. At 13,26), facendoci partecipi della tua responsabilità di Pastore.

Ti ringraziamo per aver avuto fiducia in noi, nonostante la nostra debolezza e fragilità umana, infondendoci nel Battesimo la chiamata e la grazia della perfezione da conquistare giorno per giorno.

Imploriamo di saper sempre assolvere ai nostri sacri impegni secondo il metro del cuore puro e della retta coscienza. Che siamo «fino alla fine» fedeli a te, che ci hai amati «fino alla fine» (cfr. Gv 13,1).

Che non trovino accesso nelle nostre anime quelle correnti di idee, che sminuiscono l'importanza del sacerdozio ministeriale, quelle opinioni e tendenze che colpiscono la natura stessa della santa vocazione e del servizio, al quale tu, o Cristo, ci chiami nella tua Chiesa.

Quando il Giovedì Santo, istituendo l'Eucaristia ed il sacerdozio, lasciavi coloro che avevi amati fino alla fine, promettesti loro il nuovo «Consolatore» (Gv 14,16). Fa' che questo Consolatore - «lo Spirito di verità» (Gv 14,17) - sia con noi con i suoi santi doni! Che siano con noi la sapienza e l'intelletto, la scienza e il consiglio, la fortezza, la pietà e il santo timor di Dio, affinché sappiamo sempre discernere ciò che proviene da te, distinguere ciò che proviene dallo «spirito del mondo» (cfr. 1Cor 2,12) o, addirittura, dal «principe di questo mondo» (cfr. Gv 16,11).

4. Fa' che non «rattristiamo» il tuo Spirito (cfr. Ef 4,30):
con la nostra poca fede e mancanza di disponibilità a testimoniare il tuo Vangelo «con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18);
con il secolarismo e col voler ad ogni costo «conformarci alla mentalità di questo secolo» (cfr. Rm 12,2);
con la mancanza, infine, di quella carità, che «è paziente, è benigna...», che «non si vanta...» e «non cerca il suo interesse...», che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta...», di quella carità che «si compiace della verità» e solo della verità (1Cor 13,4-7).

Fa' che non «rattristiamo» il tuo Spirito:
con tutto ciò che porta con sé tristezza interiore e inciampo per l'anima,
con ciò che fa nascere complessi e causa rotture,
con ciò che fa di noi un terreno aperto ad ogni tentazione,
con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno,
con ciò che, alla fine, può portare alla tentazione della fuga sotto il pretesto del «diritto alla libertà».

Oh, fa' che non depauperiamo la pienezza e la ricchezza della nostra libertà, che abbiamo nobilitato e realizzato donandoci a te e accettando il dono del sacerdozio!

Fa' che non distacchiamo la nostra libertà da te, a cui dobbiamo il dono di questa grazia ineffabile!

Fa' che non «rattristiamo» il tuo Spirito!

Concedici di amare con quell'amore col quale il Padre tuo ha «amato il mondo», quando ha dato «il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Oggi, giorno in cui tu stesso hai promesso alla tua Chiesa lo Spirito di verità e di amore, noi tutti, unendoci con coloro i quali, durante l'Ultima Cena, per primi ricevettero da te la consegna di celebrare l'Eucaristia, gridiamo:

«Manda il tuo Spirito... e rinnova la faccia della terra» (cfr. Sal 104 [103],30), anche di quella terra sacerdotale, che tu hai reso fertile col sacrificio del Corpo e del Sangue, che ogni giorno rinnovi sugli altari mediante le nostre mani, nella vigna della tua Chiesa.

III

5. Oggi tutto ci parla di questo amore, col quale «hai amato la Chiesa e hai dato te stesso per lei, per renderla santa» (cfr. Ef 5,25s).

Mediante l'amore redentore della tua donazione definitiva hai fatto tua sposa la Chiesa, conducendola sulle vie delle sue esperienze terrene, per prepararla alle eterne «nozze dell'Agnello» (cfr. Ap 19,7) nella «casa del Padre» (Gv 14,2).

Quest'amore sponsale di Redentore, questo amore salvifico di Sposo, rende fruttiferi tutti i «doni gerarchici e carismatici», con i quali lo Spirito Santo «provvede e dirige» la Chiesa (cfr. «Lumen Gentium», 4).

E' lecito, Signore, che noi dubitiamo di questo tuo amore?

Chiunque si lascia guidare da viva fede nel fondatore della Chiesa può forse dubitare di questo amore, al quale la Chiesa deve tutta la sua vitalità spirituale?

E' lecito forse dubitare
che tu possa e desideri dare alla tua Chiesa veri «amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1), e, soprattutto, veri ministri dell'Eucaristia?
che tu possa e desideri risvegliare nelle anime degli uomini, specialmente dei giovani, il carisma del servizio sacerdotale, così come esso è stato accolto ed attuato nella tradizione della Chiesa?
che tu possa e desideri risvegliare in queste anime, insieme con l'aspirazione al sacerdozio, la disponibilità al dono del celibato per il Regno dei cieli, di cui in passato hanno dato e ancor oggi danno prova intere generazioni di sacerdoti nella Chiesa cattolica?

E' conveniente - contro la voce del recente Concilio Ecumenico e del Sinodo dei Vescovi - continuare a proclamare che la Chiesa dovrebbe rinunciare a questa tradizione ed a questa eredità?

Non è invece dovere di noi sacerdoti vivere con generosità e gioia il nostro impegno, contribuendo con la nostra testimonianza e con la nostra opera alla diffusione di questo ideale? Non è nostro compito far crescere il numero dei futuri presbiteri al servizio del Popolo di Dio, adoperandoci con tutte le forze per il risveglio delle vocazioni e sostenendo l'azione insostituibile dei Seminari, ove i chiamati al sacerdozio ministeriale possano prepararsi adeguatamente al dono totale di sé a Cristo?

6. In questa meditazione del Giovedì Santo oso porre ai miei fratelli un tale interrogativo, che va tanto lontano, proprio perché questo sacro giorno pare esigere da noi una totale ed assoluta sincerità di fronte a te, eterno Sacerdote e buon Pastore delle nostre anime!

Sì. Ci rattrista che gli anni dopo il Concilio, indubbiamente ricchi di fermenti buoni, prodighi di iniziative edificanti, fecondi per il rinnovamento spirituale di tutte le componenti della Chiesa, abbiano visto, d'altro lato, il sorgere di una crisi ed il manifestarsi di non rare incrinature.

Ma... possiamo forse, in qualsiasi crisi, dubitare del tuo amore? di quell'amore col quale «hai amato la Chiesa dando te stesso per lei» (cfr. Ef 5,25)?

Questo amore e la potenza dello Spirito di verità non sono forse più grandi di ogni umana debolezza, anche quando questa sembri prendere il sopravvento, atteggiandosi per di più a segno di «progresso»?

L'amore, che tu doni alla Chiesa, è destinato sempre all'uomo debole ed esposto alle conseguenze della sua debolezza. Eppure, tu non rinunci mai a questo amore, che rialza l'uomo e la Chiesa, ponendo all'uno ed all'altra precise esigenze.

Possiamo noi «sminuire» questo amore? Non lo sminuiamo noi tutte le volte in cui, a causa della debolezza dell'uomo, sentenziamo che si deve rinunciare alle esigenze che esso pone?

IV

7. «Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai alla sua messe...» (cfr. Mt 9,38).

Nel Giovedì Santo, che è giorno natale del sacerdozio di ognuno di noi, vediamo con gli occhi della fede tutta l'immensità di questo amore, che nel Mistero pasquale ti ha comandato di diventare «obbediente fino alla morte» - ed in questa luce vediamo anche meglio la nostra indegnità.

Sentiamo il bisogno di dire, oggi più che mai: «Signore, non sono degno...».

Veramente «siamo servi inutili» (Lc 17,10).

Procuriamo, però, di vedere questa nostra indegnità e «inutilità» con una semplicità tale che ci renda uomini di grande speranza. «La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).

Questo Dono è proprio frutto del tuo amore: è il frutto del Cenacolo e del Calvario.

Fede, speranza e carità devono essere il metro adeguato per le nostre valutazioni e per le nostre iniziative.

Oggi, nel giorno dell'istituzione dell'Eucaristia, noi ti chiediamo con la più grande umiltà e con tutto il fervore, di cui siamo capaci, che essa sia celebrata su tutta la terra dai ministri a questo chiamati, affinché a nessuna comunità dei tuoi discepoli e confessori manchino questo santissimo sacrificio e questo nutrimento spirituale.

8. L'Eucaristia è soprattutto il dono fatto alla Chiesa. Indicibile dono. Anche il sacerdozio è un dono alla Chiesa, in considerazione dell'Eucaristia.

Oggi, quando si dice: la comunità ha diritto all'Eucaristia, si deve particolarmente ricordare che tu hai raccomandato ai tuoi discepoli di «pregare il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe» (cfr. Mt 9,38).

Se non si «prega» con fervore, se non ci si adopera con tutte le forze perché il Signore mandi alle Comunità buoni ministri dell'Eucaristia, si può allora affermare con convinzione interna che «la comunità ha diritto»...?

Se ha diritto..., allora ha il diritto del dono! E un dono non può essere trattato come se dono non fosse. Si deve pregare incessantemente per avere tale dono. Si deve chiederlo in ginocchio.

Bisogna dunque - atteso che l'Eucaristia è il più grande dono del Signore alla Chiesa - chiedere sacerdoti, poiché anche il sacerdozio è un dono alla Chiesa.

In questo Giovedì Santo, riuniti insieme con i Vescovi nelle nostre assemblee sacerdotali, ti preghiamo, Signore, affinché siamo sempre compenetrati della grandezza del dono, che è il Sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue.

Fa' che noi, in interiore conformità con l'economia della grazia e con la legge del dono, continuamente «preghiamo il padrone della messe»; e che la nostra invocazione scaturisca da un cuore puro, avendo in sé la semplicità e la sincerità dei veri discepoli. Allora tu, Signore, non respingerai la nostra supplica.

9. Dobbiamo gridare a te con una voce così potente, quale esigono la grandezza della causa e l'eloquenza della necessità dei tempi. E così, imploranti, gridiamo.

Eppure, abbiamo la consapevolezza che «nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26). Non è forse così, dal momento che tocchiamo un problema che tanto ci supera? Eppure, questo è il nostro problema. Non ce n'è alcun altro che sia così nostro come questo.

Il giorno del Giovedì Santo è la nostra festa.

Pensiamo al tempo stesso a quei campi, che «già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35).

E perciò abbiamo fiducia che lo Spirito verrà «in aiuto alla nostra debolezza», esso che «intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26).

Poiché è sempre lo Spirito che «fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» («Lumen Gentium», 4).

10. Non ci è detto che nel Cenacolo del Giovedì Santo fosse presente la tua Madre. Tuttavia noi ti preghiamo specialmente per sua intercessione. Che cosa può esserle più caro del Corpo e del Sangue del proprio Figlio, affidato agli Apostoli nel Mistero eucaristico - il Corpo e il Sangue che le nostre mani sacerdotali offrono incessantemente in sacrificio per «la vita del mondo» (Gv 6,51)?

Dunque, per il tramite di lei, specialmente oggi, noi ti ringraziamo e per il tramite di lei imploriamo che si rinnovi nella potenza dello Spirito Santo il nostro sacerdozio, che pulsi in esso costantemente l'umile, ma forte certezza della vocazione e della missione, che cresca la prontezza al sacro servizio.

Cristo del Cenacolo e del Calvario! Accoglici tutti, noi che siamo i Sacerdoti dell'Anno del Signore 1982, e col mistero del Giovedì Santo nuovamente santificaci. Amen.
  • 25 marzo, Solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1982 quarto di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 21, 2010 9:30 am


  • Conquistati da Cristo ogni giorno
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La mia riflessione vorrebbe svolgersi interamente attorno al versetto paolino citato nel titolo dell'intervento affidatomi, non per farne una esegesi, ma nel tentativo di trarne qualche indicazione teologica e spirituale per la nostra vita di presbiteri. Il testo propriamente è il seguente: "Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù" (Filippesi, 3, 12). Si coglie subito che il tema proposto inserisce la figura del presbitero al posto di quella di Paolo, volendo suggerire una precisa applicazione dell'impegnativa affermazione paolina. Una tale applicazione è legittima e non impropria, richiede tuttavia di essere circostanziata. È vero infatti che è un apostolo a parlare di sé e della sua esperienza, ma è vero anche che egli parla del suo essere cristiano, credente, in una delle più significative pagine con espliciti richiami autobiografici. Così facendo egli non mette tra parentesi il suo ministero apostolico, poiché anzi scrive la sua lettera in quanto primo annunciatore del Vangelo e fondatore della Chiesa, ma non tratta e non si appella espressamente alla sua autorità di apostolo, come fa invece in altre pagine. Inoltre, egli si rivolge alla comunità di Filippi come tale e quindi alla totalità dei suoi membri senza distinzioni di carismi e ministeri. Quanto san Paolo testimonia, interessa e interpella innanzitutto ogni cristiano, tocca il credente come tale.

In tutto il capitolo terzo della lettera, san Paolo parla di sé per parlare di Cristo. Innanzitutto mette in guardia da coloro che nella comunità portano scompiglio e divisione appellandosi a una perfezione e a una conoscenza superiori, poi espone i motivi di vanto che potrebbe esibire per mostrare di non essere inferiore a nessuno; motivi umani di vanto che tuttavia ha disprezzato ritenendoli spazzatura a confronto con la sublimità della conoscenza di Cristo. Unicamente per la fede in lui Paolo spera la salvezza, per la potenza della sua morte e risurrezione. In questo contesto san Paolo parla di guadagno e di perdita, intendendo che tutti i motivi di vanto di tipo etico e religioso non valgono nulla per giungere alla salvezza; al contrario la fede conferisce al credente la giustizia di Dio, poiché lo schiude alla relazione con Dio fino ad allora insuperabilmente preclusa. Con la morte e la risurrezione di Gesù, Dio giustifica l'uomo che si lascia aprire alla fede e lo stabilisce in un rapporto di comunione con sé. In questo consiste l'unico vero guadagno che merita di essere conseguito; il resto è perdita e merita di essere lasciato perdere.
San Paolo dunque richiama l'esigenza di fronte alla quale s'è trovato, di scegliere che cosa perdere e che cosa guadagnare, che cosa veramente conta, ciò per cui val la pena disfarsi di tutto il resto; egli giunge a rinnegare il suo stesso patrimonio religioso, in quanto sistema chiuso e autosufficiente; e non per sostituirlo con un altro sistema e nemmeno per annullarlo, ma per ritrovarlo pienamente inverato nella nuova relazione con Cristo Gesù, da credente, cioè da uomo reso giusto dinanzi a Dio, grazie al mistero pasquale dello stesso Cristo. Al centro dell'esperienza e della teologia di Paolo si pone l'incontro con Cristo, a partire dal quale tutto si ricomprende e si ricompone nel suo significato e nel suo valore. Spiega infatti Benedetto XVI: "Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo" (Udienza generale, 3 settembre 2008).

Nessuna presunta perfezione religiosa, come quella vantata dai giudeo-cristiani o dagli gnostici, può reggere il confronto con il primato e la centralità della persona di Cristo, poiché rivela tutta la sua vanità e inconsistenza di umana pretesa, e anzi pericolosità, tanto da portare san Paolo a chiamare simili seminatori di zizzania "cani" e "cattivi operai"; e ancora nella parte conclusiva del capitolo terzo ne parla come di "nemici della croce di Cristo", destinati alla "perdizione", gente che ha per dio il proprio ventre e si vanta di cose di cui dovrebbe vergognarsi.

Se fin qui lo sguardo era stato rivolto al passato dell'origine del dono della fede e della giustizia di Dio in Cristo, a conclusione del capitolo viene orientato verso il compimento futuro definitivo. Paolo vive e invita a condurre l'esistenza terrena nel legame e nel radicamento nell'incontro con l'evento e la persona di Gesù Cristo nell'attesa del suo ritorno ultimo, glorioso e glorificante anche per noi. Ma quale deve essere, tra questi due tempi iniziale e finale, il nostro atteggiamento e il nostro agire?

In primo luogo san Paolo dichiara in tutta onestà, e certo anche per distinguersi da quanti ostentano una presuntuosa perfezione e superiorità, di non aver ancora raggiunto la meta e nemmeno la perfezione. Così dicendo non smentisce e nemmeno sminuisce la grandezza e l'integrità del dono ricevuto con la fede e la giustificazione, ma lascia chiaramente intendere che esse non sono un possesso conseguito una volta per tutte e umanamente inalienabile o irreversibile. Nei confronti del dono ricevuto ci si deve comportare come di fronte a qualcosa che si deve ancora raggiungere e per cui bisogna lottare. L'impegno volto a conquistare e raggiungere la meta è in realtà sopraffatto e anticipato da una conquista compiuta questa volta da parte di Dio nei confronti dell'uomo, di Cristo nei confronti di Paolo, in un vero e proprio sconcertante capovolgimento: prima di poter conquistare qualcosa, anzi proprio per poter conquistare, il credente ha bisogno di essere conquistato; e in ogni caso, la sequenza ordinata di successione delle iniziative vede al primo posto Dio e il suo Cristo che afferra, ghermisce l'uomo facendone un credente chiamato e abilitato a porsi alla conquista dello stesso Dio e Cristo. Solo l'intera estensione temporale di una esistenza, dal momento della conversione alla sua conclusione con la morte, può contenere la risposta e l'accoglienza umanamente adeguata del dono di Dio in una libertà consapevole.

Ma ciò che vale per tutta l'esistenza si condensa nel momento iniziale della conversione o, meglio, dell'incontro con Cristo e, in lui, con il Dio unico e vero. Quella che sembra nella formulazione paolina una correzione e una precisazione, in realtà contiene e svela una verità più profonda. La riscoperta del primato della grazia, della iniziativa e del dono di Dio in Cristo non può ridurre, né tanto meno cancellare, il carattere originario anche della risposta e della fede dell'uomo.

Alla luce di questi cardini del pensiero e dell'esperienza paolina, propongo tre spunti per la riflessione ulteriore. Quando Paolo parla del suo essere stato conquistato si riferisce all'evento di Damasco, incontro con la rivelazione di Gesù, che ha cambiato profondamente la sua vita legandolo irreversibilmente a lui. Gli interlocutori di Paolo hanno anch'essi un punto di riferimento, ovvero il giorno e l'ora nella quale sono stati raggiunti da Cristo e hanno accettato la professione di fede e il battesimo. Forse nella nostra condizione odierna risulta difficile indicare un evento, un giorno, una circostanza in cui possiamo dire di essere stati conquistati da Cristo, dal momento che il nostro battesimo, ricevuto nella prima infanzia, non si lega a un momento di coscienza in conversione e di orientamento radicale della vita a Cristo. In realtà non pochi hanno vissuto esperienze singolari, non legate necessariamente a eventi sacramentali d'iniziazione cristiana, in cui si è verificata una presa di coscienza e un profondo cambiamento, vera e propria attualizzazione dell'inizio del cammino di fede con il battesimo. Il più delle volte tuttavia il nostro incontro con Cristo s'è dipanato lungo un percorso puntinato di passaggi significativi, che hanno dato al nostro essere conquistati da lui il carattere di un processo di continua e crescente attualizzazione. Ciò che è comunque avvenuto in noi, diciamo pure su un piano ontologico, ha bisogno di essere assunto nella coscienza dell'incontro con Cristo come evento personale, esistenziale, di libera accoglienza e corrispondenza, per maturare e far crescere il senso dell'urgenza di correre per conquistarlo.

Oggi siamo largamente avvertiti - ed è la seconda riflessione - del fatto che il ministero presbiterale, particolarmente nella celebrazione dei sacramenti, secondo la dottrina dell'ex opere operato, non può vantare motivi umani d'efficacia, poiché solo la grazia di Dio giustifica, redime e salva. Così che lo stesso sacramento dell'ordine non dipende dalla dignità e dalla qualità spirituale e morale di chi ne viene investito, ma dalla potenza dello Spirito che viene effuso con l'ordinazione; infatti i presbiteri "sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa", come dice la Presbyterorum Ordinis (n. 2). E tuttavia, il carattere sacramentale conferito non rimane estraneo alla persona del presbitero ma lo impregna interamente, così che l'essere e l'agire sacerdotale in lui non possono venire separati. Per tale ragione l'ex opere operato non riduce l'efficacia sacramentale ad automatismo o azione magica. I sacramenti, e in qualche modo tutte le azioni pastorali ed ecclesiali, insieme suppongono la fede e l'alimentano, richiedono il coinvolgimento personale di tutti i partecipanti nella celebrazione e nell'intera vita ecclesiale. L'opus operantis esercita una sua incidenza nell'efficacia sacramentale e pastorale dell'azione del ministro, non sul piano ontologico, ma su quello esistenziale e relazionale; e poiché i piani sono distinti ma non separati, l'inadeguatezza e l'infedeltà del ministro rischia di compromettere la pienezza dell'azione della grazia sacramentale e impoverire se non minacciare la qualità dell'intera vita pastorale ed ecclesiale.

La prospettiva paolina, come d'ogni autentica spiritualità cristiana e presbiterale, è però rovesciata, poiché Paolo, come apostolo, è divorato interamente dalla sua comunione con Cristo e dal desiderio che egli regni nel cuore e nella vita dei credenti. L'esemplarità della sua vita non è ricercata a scopo dimostrativo, in uno sforzo funzionale all'esercizio della sua attività, ma scaturisce spontaneamente dalla sovrabbondanza gratuita e generatrice della centralità di Cristo nella sua persona e nella sua vita. Il presbitero allora è, come Paolo, un credente esemplarmente assorbito dalla relazione con Cristo e interamente proteso a conquistarlo. Egli trasmette ai credenti qualcosa che non è suo, anzi si pone a servizio di una relazione tra i credenti e Cristo che lo supera interamente, pur essendo egli interamente al suo servizio; e tuttavia egli svolge questo servizio prima con la sua vita che con le sue parole o le sue attività, nel senso che gli altri vedono plasticamente realizzato nella sua esistenza ciò a cui il suo servizio apostolico intende e ha il potere di condurli.

Infine, i presbiteri non solo s'impegnano a guidare con l'esemplarità della loro vita, ma accompagnano il cammino dei credenti aiutandoli a scoprire il loro incontro storico con Cristo e sostenendoli nel loro tendere alla piena comunione con Cristo. Il nostro ministero ha bisogno di puntare su tre esigenze non raramente trascurate. La prima esigenza è quella di condurre a un incontro personale con Cristo che stabilisca le persone in una capacità di fede personale autonoma di profonda comunione con lui. L'esperienza ecclesiale dovrebbe essere sempre più vissuta come luogo in cui questo incontro personale viene preparato, sostenuto, realizzato. La seconda esigenza è quella del coraggio e della forza di convinzione nel proporre la prospettiva escatologica come propria di un vero credente e della Chiesa. Cerchiamo di tendere a una comunione piena e definitiva che dà senso al cammino terreno senza distrarre da esso, ma anche senza essere distratta a causa dei suoi richiami e dei suoi impegni. C'è nella polemica paolina una vigorosa reazione contro il tentativo di trovare appagamento qui, anche in ragione di una vantata perfezione soddisfatta di sé. La terza esigenza segue da quanto detto, poiché non c'è un modo mediocre e rilassato di tendere alla conquista di Cristo; conquista dice sforzo, tensione, fatica e dedizione ostinata, abnegazione. Tutto ciò non è possibile senza una fede appassionata, senza un cuore innamorato, senza un desiderio vivo di unione con Cristo.

Si ripropone così alla fine la questione che è emersa già nel corso di questa conversazione: se uno è già conquistato da Cristo, che bisogno ha di tendere a conquistarlo? E, al contrario, se uno non è stato conquistato, non si sente ancora veramente conquistato, può far finta di esserlo cercando a sua volta di conquistarlo? Non dovrebbe forse stare ad aspettare di essere conquistato? La risposta che ho cercato di dare alla prima domanda dovrebbe guidare anche di fronte alle altre. Trovarsi nel circuito cristiano comporta comunque già la cognizione, o almeno il presentimento, del valore incomparabile di Cristo Gesù, della sua parola, della sua persona. Si tratta di corrispondere a tale percezione iniziale assecondandola in un cammino di ricerca esistenziale che non può pretendere di trovare punti fermi una volta per tutte.
  • Mariano Crociata
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 21, 2010 9:33 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1983
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Cari fratelli nel sacerdozio di Cristo!

1. Desidero rivolgermi a voi al principio dell'Anno Santo della Redenzione e del Giubileo straordinario, che è stato aperto sia a Roma come in tutta la Chiesa il 25 marzo. La scelta di tale giorno, solennità dell'Annunciazione del Signore e, nello stesso tempo, dell'Incarnazione ha una sua particolare eloquenza. Infatti, il mistero della Redenzione ha avuto il suo inizio allorché il Verbo si fece carne nel seno della Vergine di Nazaret, per opera dello Spirito Santo, e ha raggiunto il suo culmine nell'evento pasquale con la morte e risurrezione del Salvatore. Ed è da quei giorni che calcoliamo il nostro Anno Giubilare, desiderando che proprio in questo anno il mistero della Redenzione diventi particolarmente presente e fruttuoso nella vita della Chiesa. Sappiamo che esso sempre è presente e fruttuoso, che accompagna sempre il pellegrinaggio terreno del Popolo di Dio, lo penetra e lo plasma dal di dentro. Tuttavia, l'usanza di far riferimento ai periodi di cinquanta anni in questo pellegrinaggio corrisponde a un'antica tradizione. A questa tradizione desideriamo essere fedeli, confidando insieme che essa nasconda in se stessa una parte del mistero del tempo scelto da Dio: di quel «kairós», in cui si realizza l'economia salvifica.

Ecco dunque che, al principio di questo nuovo Anno della Redenzione del Giubileo straordinario, pochi giorni dopo la sua apertura, ricorre il Giovedì Santo 1983. Esso ci ricorda - come sappiamo - il giorno in cui insieme con l'Eucaristia è stato istituito da Cristo il sacerdozio ministeriale. Questo è stato istituito per l'Eucaristia e, quindi, per la Chiesa, la quale, come comunità del Popolo di Dio, si forma dall'Eucaristia. Questo sacerdozio - ministeriale e gerarchico - è da noi partecipato. Noi l'abbiamo ricevuto nel giorno dell'Ordinazione per il ministero del Vescovo, il quale ha trasmesso a ciascuno di noi il sacramento iniziato con gli Apostoli durante l'Ultima Cena, nel Cenacolo, il Giovedì Santo. E perciò, anche se diverse sono le date della nostra Ordinazione, il Giovedì Santo rimane ogni anno il giorno della nascita del nostro sacerdozio ministeriale. In questo santo giorno ognuno di noi, quali sacerdoti della nuova alleanza, è nato nel sacerdozio degli Apostoli. Ognuno di noi è nato nella rivelazione dell'unico ed eterno sacerdozio dello stesso Gesù Cristo. Infatti, questa rivelazione ebbe luogo nel Cenacolo del Giovedì Santo, alla vigilia del Golgota. Proprio là Cristo diede inizio al suo mistero pasquale: lo «aprì». E lo aprì appunto con la chiave dell'Eucaristia e del Sacerdozio.

Per questo il giorno del Giovedì Santo noi, «ministri della nuova alleanza» (2 Cor 3, 6), ci uniamo insieme con i Vescovi nelle cattedrali delle nostre Chiese, ci uniamo dinanzi a Cristo unica ed eterna fonte del nostro sacerdozio. In questa unione del Giovedì Santo noi ritroviamo lui e, contemporaneamente - per lui, con lui e in lui - ritroviamo noi stessi. Sia benedetto Dio Padre, Figlio e Spirito Santo per la grazia di questa unione.

2. Pertanto, in questo momento importante, desidero ancora una volta annunciare l'Anno commemorativo della Redenzione e il Giubileo straordinario. Desidero annunciarlo in modo particolare a voi e dinanzi a voi, venerati e cari fratelli nel sacerdozio di Cristo - e desidero meditare, almeno brevemente, insieme con voi circa il suo significato. Infatti, a noi tutti, come sacerdoti nella nuova alleanza, questo Giubileo si riferisce in maniera speciale. Se per tutti i credenti, figli e figlie della Chiesa, esso significa un invito a rileggere di nuovo la propria vita e vocazione alla luce dei mistero della Redenzione, allora un tale invito è indirizzato a noi con una intensità, direi, ancora maggiore. L'Anno Santo della Redenzione, dunque, e il Giubileo straordinario vogliono dire che noi dobbiamo vedere di nuovo il nostro sacerdozio ministeriale in quella luce, nella quale esso è iscritto da Cristo stesso nel mistero della Redenzione.

«Non vi chiamo più servi..., ma vi ho chiamati amici» (Gv 15, 15). Proprio nel Cenacolo sono state pronunciate queste parole, nel contesto immediato dell'istituzione dell'Eucaristia e del sacerdozio ministeriale. Cristo ha fatto conoscere agli Apostoli e a tutti coloro, i quali da essi ereditano il sacerdozio ordinario, che in questa vocazione e per questo ministero devono diventare suoi amici: devono diventare amici di quel mistero, che egli è venuto a compiere. Essere sacerdote vuol dire essere particolarmente in amicizia col mistero di Cristo, col mistero della Redenzione, in cui egli dà la sua «carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Noi che celebriamo ogni giorno l'Eucaristia, il sacramento salvifico del Corpo e del Sangue, dobbiamo essere in un'intimità particolare col mistero, da cui questo sacramento prende il suo inizio. Il sacerdozio ministeriale si spiega soltanto ed esclusivamente nel profilo di questo mistero divino, e soltanto in questo profilo si realizza.

Nel profondo del nostro «io» sacerdotale, grazie a quel che ciascuno di noi è diventato al momento dell'Ordinazione, noi siamo «amici»: siamo testimoni particolarmente vicini a questo Amore, che si manifesta nella Redenzione. Esso si è manifestato «in principio» nella creazione, e insieme con la caduta dell'uomo si manifesta sempre nella redenzione. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Ecco la definizione dell'amore nel suo significato redentivo, Ecco il mistero della Redenzione, definito dall'amore. L'unigenito Figlio è colui che prende questo amore dal Padre e lo dà al Padre, portandolo al mondo. L'unigenito Figlio è colui che, per questo amore, dà se stesso per la salvezza del mondo: per la vita eterna di ogni uomo, suo fratello e sorella.

E noi sacerdoti, ministri dell'Eucaristia, siamo «amici»: ci troviamo particolarmente vicini a questo Amore redentore, che il Figlio unigenito ha portato al mondo - e che gli porta continuamente. Anche se ciò ci penetra di un santo timore, dobbiamo tuttavia riconoscere che insieme con l'Eucaristia il mistero di quell'Amore redentore si trova, in un certo modo, nelle nostre mani. Che esso ritorna ogni giorno sulle nostre labbra. Che è iscritto in modo durevole nella nostra vocazione e nel nostro ministero.

O quanto, quanto profondamente ognuno di noi è costituito nel proprio «io» sacerdotale mediante il mistero della Redenzione! Di questo, proprio di questo ci rende consapevoli la liturgia del Giovedì Santo. E proprio questo dobbiamo fare oggetto delle nostre meditazioni nel corso dell'Anno Giubilare. Intorno a ciò deve concentrarsi il nostro personale rinnovamento interiore, perché l'Anno Giubilare è inteso dalla Chiesa come tempo di rinnovamento spirituale per tutti. Se dobbiamo essere ministri di questo rinnovamento per gli altri, per i nostri fratelli e sorelle nella vocazione cristiana, allora dobbiamo esserne i testimoni e i portavoce dinanzi a noi stessi: l'Anno Santo della Redenzione quale Anno del rinnovamento nella vocazione sacerdotale.

Operando un tale rinnovamento interiore nella nostra santa vocazione, noi potremo maggiormente e più efficacemente predicare «un anno di grazia del Signore (Lc 4, 19; Is 61, 2)». Infatti, il mistero della Redenzione non è già un'astrazione teologica, ma è un'incessante realtà, mediante la quale Dio abbraccia l'uomo in Cristo col suo eterno amore; e l'uomo riconosce questo amore, si lascia da esso guidare e penetrare, permette di essere interiormente trasformato da esso, e per esso diventa «una creatura nuova» (2 Cor 5, 17). L'uomo, in tal modo creato di nuovo dall'amore, che gli è rivelato in Gesù Cristo, leva lo sguardo della sua anima verso Dio e professa insieme col Salmista: «Copiosa apud eum redemptio», «grande presso di lui è la redenzione» (Sal 129 [130], 7).

Nell'Anno Giubilare questa professione deve scaturire con una particolare potenza dal cuore di tutta la Chiesa. E ciò deve compiersi, cari fratelli, per opera della vostra testimonianza e del vostro ministero sacerdotale.

3. La Redenzione rimane unita nella maniera più stretta al perdono. Dio ci ha redenti in Gesù Cristo, perché ci ha perdonato in Gesù Cristo; Dio ci ha fatto diventare in Cristo una «nuova creatura», perché in lui ci ha gratificati del perdono.

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo (cfr. 2 Cor 5, 19). E appunto perché l'ha riconciliato in Gesù Cristo, quale primogenito di ogni creatura (Col 1, 15), l'unione dell'uomo con Dio è stata irreversibilmente consolidata. Questa unione che, un tempo, il «primo Adamo» consentì che, in lui, fosse tolta a tutta la famiglia umana, non può essere tolta da nessuno all'umanità, da quando è stata radicata e consolidata in Cristo, il «secondo Adamo». E perciò l'umanità diviene di continuo in Gesù Cristo, una «nuova creatura». Tale diviene, perché in lui e per lui la grazia della remissione dei peccati permane inesauribile dinanzi a ogni uomo: «Copiosa apud eum redemptio»!

Nell'Anno Giubilare dobbiamo, cari fratelli, renderci particolarmente consapevoli di essere al servizio di tale riconciliazione con Dio, che una volta per sempre è stata compiuta in Gesù Cristo. Noi siamo servi e amministratori di questo sacramento, in cui la Redenzione si manifesta e realizza come perdono, come remissione dei peccati.

Oh, quanto eloquente è il fatto che Cristo, dopo la sua risurrezione, entrò di nuovo in quel Cenacolo, in cui il Giovedì Santo aveva lasciato agli Apostoli, insieme con l'Eucaristia, il sacramento del sacerdozio ministeriale, e che allora disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 10, 22-23).

Come prima aveva dato la facoltà di celebrare l'Eucaristia, ossia di rinnovare in modo sacramentale il suo proprio Sacrificio pasquale, così la seconda volta diede loro la facoltà di rimettere i peccati.

Quando, in quest'Anno Giubilare, mediterete su come il vostro sacerdozio ministeriale è stato iscritto nel mistero della Redenzione di Cristo, questo abbiate costantemente davanti agli occhi! Il Giubileo è, infatti, quel tempo particolare in cui la Chiesa, secondo un'antichissima tradizione, rinnova, nell'intera comunità del Popolo di Dio, la coscienza della Redenzione mediante una singolare intensità della remissione e del perdono dei peccati: proprio di quella remissione e di quel perdono, di cui noi, sacerdoti della Nuova alleanza, siamo diventati, dopo gli Apostoli, i legittimi ministri.

In conseguenza della remissione dei peccati, nel Sacramento della Penitenza, tutti coloro che, valendosi del nostro servizio sacerdotale, ricevono questo Sacramento, possono attingere ancor più pienamente alla generosità della Redenzione di Cristo, ottenendo la remissione delle pene temporali, che, dopo la remissione dei peccati, rimangono ancora da espiare nella vita presente o in quella futura. La Chiesa crede che ogni e singola remissione proviene dalla Redenzione compiuta da Cristo. Contemporaneamente, essa crede anche e spera che Cristo stesso accetti la mediazione del suo Corpo Mistico nella remissione dei peccati e delle pene temporali. E poiché, sulla base del mistero del Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, si sviluppa, nella prospettiva dell'eternità, il mistero della Comunione dei Santi, la Chiesa nel corso dell'Anno Giubilare guarda con particolare fiducia verso questo Mistero.

La Chiesa desidera far profitto, più che mai, dei meriti di Maria santissima, dei Martiri e dei Santi, nonché della loro mediazione, per rendere ancor di più attuale, in tutti i suoi effetti e frutti salvifici, la Redenzione compiuta da Cristo. In tal modo la prassi delle Indulgenze, collegata con l'Anno Giubilare, svela il suo profondo significato evangelico, in quanto il bene, derivato dal Sacrificio redentore di Cristo, in tutte le generazioni dei Martiri e dei Santi della Chiesa dall'inizio fino al nostri tempi, fruttifica di nuovo, con la grazia della remissione dei peccati e degli effetti del peccato, nelle anime degli uomini di questa età.

Cari miei fratelli nel Sacerdozio di Cristo! Nel corso dell'Anno Giubilare sappiate essere in modo speciale i maestri della verità di Dio circa il perdono e la remissione, così come essa viene costantemente proclamata dalla Chiesa. Presentate questa verità in tutta la sua ricchezza spirituale. Cercate per essa le vie negli animi e nelle coscienze degli uomini dei nostri tempi. E insieme all'insegnamento sappiate essere in quest'Anno Santo, in modo particolarmente servizievole e generoso, i ministri del Sacramento della Penitenza, nel quale i figli e le figlie della Chiesa ottengono la remissione dei peccati. Trovate nel servizio del confessionale quell'insostituibile manifestazione e verifica del sacerdozio ministeriale, di cui ci hanno lasciato il modello tanti santi Sacerdoti e Pastori di anime nella storia della Chiesa, fino ai nostri tempi. E la fatica di questo sacro ministero vi aiuti a comprendere ancor di più quanto il sacerdozio ministeriale di ciascuno di noi sia iscritto nel mistero della Redenzione di Cristo mediante la croce e la risurrezione.

4. Con le parole che vi sto scrivendo desidero proclamare in modo particolare per voi il Giubileo dell'Anno Santo della Redenzione. Come è noto dai documenti già pubblicati, il Giubileo deve essere celebrato contemporaneamente a Roma e in tutta la Chiesa iniziando dal 25 marzo 1983, fino alla Pasqua dell'anno prossimo. In tal modo la grazia particolare dell'Anno della Redenzione viene affidata a tutti i miei fratelli nell'Episcopato quali Pastori delle Chiese locali nella universale comunità della Chiesa Cattolica. Contemporaneamente la stessa grazia del Giubileo straordinario viene affidata anche a voi, cari fratelli nel Sacerdozio di Cristo. Infatti, voi, in unione con i vostri Vescovi, siete pastori delle parrocchie e delle altre comunità del Popolo di Dio, esistenti in tutte le parti del mondo.

In effetti, occorre che l'Anno della Redenzione sia vissuto nella Chiesa, partendo appunto da queste comunità fondamentali del Popolo di Dio. Al riguardo, desidero qua riportare alcuni passi della Bolla d'indizione dell'Anno Giubilare, che testimoniano esplicitamente una tale esigenza: «L'Anno della Redenzione - ho scritto - deve lasciare un'impronta particolare su tutta la vita della Chiesa, affinché i cristiani sappiano riscoprire nella loro esperienza esistenziale tutte le ricchezze insite nella salvezza, a loro comunicata fin dal battesimo». Infatti, «nella riscoperta e nella pratica vissuta dell'economia sacramentale della Chiesa attraverso cui giunge ai singoli e alla comunità la grazia di Dio in Cristo, è da vedere il profondo significato e la bellezza arcana di quest'Anno, che il Signore ci concede di celebrare».

L'Anno Giubilare, insomma, vuol essere «un appello al pentimento e alla conversione», in ordine «ad un rinnovamento spirituale nei singoli fedeli, nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose e negli altri centri di vita cristiana e di apostolato». Se tale appello sarà generosamente accolto, ne risulterà una sorta di movimento «dal basso», che, partendo dalle parrocchie e dalle varie comunità - come ho detto recentemente dinanzi al mio amato Presbiterio di Roma - ravviverà le diocesi e in tal modo non mancherà di influire positivamente sull'intera Chiesa. Proprio per favorire tale dinamica ascendente, nella Bolla mi sono limitato ad offrire alcuni orientamenti di carattere generale e ho lasciato «alle Conferenze Episcopali e ai Vescovi delle singole diocesi il compito di stabilire indicazioni e suggerimenti pastorali concreti, in rapporto sia alla mentalità e alle costumanze dei luoghi, sia alle finalità del 1950• anniversario della morte e risurrezione di Cristo».

5. Per questo, cari fratelli, vi prego con tutto il cuore di riflettere sul modo in cui il santo Giubileo dell'Anno della Redenzione possa e debba essere celebrato in ogni parrocchia, come pure nelle altre comunità del Popolo di Dio, presso cui esercitate il servizio sacerdotale e pastorale. Vi prego di riflettere sul modo in cui possa e debba essere celebrato nel quadro di tali comunità e, in pari tempo, in unione con la Chiesa locale e universale. Vi prego di rivolgere una particolare attenzione a quegli ambienti, che la Bolla ricorda espressamente, come quello dei religiosi e religiose di clausura, o quello dei malati, dei carcerati, degli anziani o di altri sofferenti. Sappiamo, infatti, che di continuo e in diversi modi si attuano le parole dell'Apostolo: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti ci Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 14).

Possa così il Giubileo straordinario, grazie a questa sollecitudine e solerzia pastorale, diventare veramente, secondo le parole del profeta, «l'anno di misericordia del Signore» per ciascuno di voi, cari fratelli, come anche per tutti coloro che Cristo, Sacerdote e Pastore, ha affidato al vostro servizio sacerdotale e pastorale.

Accettate per il sacro giorno del Giovedì Santo 1983 la presente parola come manifestazione di amore cordiale; e pregate anche per colui che la scrive, affinché non gli manchi mai quell'amore, intorno al quale Cristo Signore interrogò tre volte Simon Pietro. Con tale sentimento tutti vi benedico.
  • Dato a Roma, presso San Pietro, il 27 marzo, Domenica delle Palme «de Passione Domini», dell'anno 1983, quinto di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 29, 2010 9:10 am


  • Claret de la Touche e la santità dei preti
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Negli ultimi due secoli numerose sono state le persone che hanno ricevuto dal Signore la missione di offrire la loro vita per la santificazione del clero. Tra queste, particolarmente esemplare è la venerabile madre Luisa Margherita Claret de la Touche, monaca della Visitazione. Ella nacque a Saint-Germain-en-Lay (Francia) il 15 marzo 1868 in una famiglia borghese e benestante. Attratta dalla vita contemplativa, entrò nel monastero della Visitazione di Romans, nella diocesi di Valence, il 20 novembre 1890.

Il 1902 è l'anno in cui il Signore rivelò a madre Luisa Margherita ciò che doveva dire ai sacerdoti e ciò che doveva realizzare per la loro santificazione. Il Signore stava prendendo possesso totale della sua vita, del suo corpo e del suo spirito. La forza dell'amore si manifestava anche sensibilmente in forti palpitazioni del cuore, tanto che le sembrava che questo si staccasse per unirsi a quello di Cristo. Provava dolori ai piedi, alle mani e al fianco destro, come già era avvenuto altre volte. Il Signore la univa a sé, ancora più strettamente.

Il 5 giugno 1902, vigilia della festa del Sacro Cuore, è la data che segna l'affidamento a madre Luisa Margherita di una particolare missione da compiere nella Chiesa nei confronti dei sacerdoti. Essa deve ricordare loro le insondabili ricchezze dell'amore del cuore di Cristo, continuando la missione già iniziata con le rivelazioni a Margherita Maria Alacoque.

Madre Luisa Margherita sentì per diversi giorni la voce che le affidava questo compito. Il 6 giugno, festa del Sacro Cuore, scrive: "Ieri mi trovavo dinanzi al santissimo sacramento; soffrivo ed ero in quello stato d'animo stanco e doloroso nel quale mi trovavo già da qualche settimana, quando Gesù si fece sentire alla mia anima. Lo adoravo, dolcemente consolata della sua presenza e mentre lo pregavo per il nostro piccolo noviziato, gli chiedevo qualche anima da formare per Lui. Allora mi rispose: "Ti darò delle anime di uomini". Profondamente sorpresa da queste parole di cui non comprendevo il senso, me ne stavo silenziosa cercando di spiegarmele. E Gesù riprese: "Ti darò delle anime di sacerdoti. Tu sei colei che s'immolerà per il mio clero. Voglio darti istruzioni durante questa ottava, scrivi tutto ciò che ti dirò".

Il racconto prosegue con la successiva rivelazione: “Il prete è un essere talmente investito di Cristo da diventare quasi un Dio; ma è anche un uomo, e bisogna che lo sia. Bisogna che senta le debolezze, le lotte, i dolori, le tentazioni, i timori, le rivolte dell'uomo; deve fare l'esperienza della propria miseria per poter essere misericordioso; ed è anche necessario che sia forte, puro, santo per poter santificare. Per amare, il mio prete deve avere il cuore grande, tenero, ardente, forte. Quanto deve amare il prete! Deve amare me, suo Maestro, fratello, amico, consolatore, come io ho amato lui; e io l'ho amato fino a confondere la mia vita con la sua, fino a rendermi obbediente alla sua parola. Deve amare la mia Sposa, che è la sua Sposa, la santa Chiesa, e di quale amore! Un amore appassionato e geloso, geloso della sua gloria, della sua purezza, della sua unità, della sua fecondità. Infine, deve amare le anime come suoi figli. Quale padre ha tanti figli da amare quanto il prete?".

Il 7 giugno una nuova rivelazione: “Il cuore del mio sacerdote deve essere una fiamma ardente che riscalda e che purifica. Se il mio prete conoscesse i tesori d'amore che il mio Cuore racchiude per lui! Venga al mio Cuore, vi attinga, si riempia d'amore fino a traboccarne spandendolo sul mondo! Margherita Maria ha mostrato il mio Cuore al mondo; tu mostralo ai miei sacerdoti, attirali tutti al mio Cuore“.

Il 10 giugno: "Dopo la comunione ho detto a Gesù: "Mio Salvatore, quando la nostra beata sorella ha mostrato il tuo divin Cuore al mondo, i sacerdoti lo hanno visto; non basta forse?". Gesù mi ha risposto: "Adesso voglio fare a loro una speciale manifestazione". Poi mi ha fatto vedere che vi è un'opera da compiere: riscaldare il mondo con l'amore e per quest'opera vuole servirsi dei suoi sacerdoti. E, con un'espressione così toccante e tenera che mi ha fatto venire le lacrime agli occhi, mi ha detto: "Ho bisogno di loro per compiere la mia opera!". Perché possano spandere l'amore, essi debbono esserne ricolmi ed è nel Cuore di Gesù che debbono attingerlo".

Il 13 giugno: "Questa mattina, riflettendo fra me, pensavo che si potrebbe forse fare un ramo speciale della Guardia d'Onore per i sacerdoti. Gesù mi ha detto: "No". Mi ha fatto capire che non vuole che i suoi sacerdoti siano soltanto degli adoratori del suo Cuore; Egli vuole formare una milizia che combatta per il trionfo del suo amore. Quelli che faranno parte di questa milizia del cuore di Cristo, s'impegneranno fra l'altro a predicare l'Amore Infinito e la Misericordia, a essere uniti fra di loro per il bene, con un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente ostacoli nelle loro opere".

Nella vita di madre Luisa Margherita tutto è cominciato con questi messaggi che cadono nel momento in cui la Chiesa è scossa dalle teorie moderniste, che giungono in alcuni casi a demolire le stesse verità della fede. In effetti, pur nella semplicità del linguaggio, suor Luisa Margherita portava alla Chiesa un richiamo forte a leggere la storia come opera dell'Amore e un invito specifico ai sacerdoti a rendere visibile l'amore e la misericordia che Dio ha per il mondo.

Nell'ottobre 1902, durante il tempo di meditazione coltivò alcune riflessioni "sulle virtù sacerdotali di Cristo". Ebbe l'ispirazione di annotare questi pensieri. Chiese il permesso alla superiora, che glielo accordò: "La Madre mi disse di scrivere ed io lo faccio. Se quanto scrivo non servirà a nulla, non ci sarà che da metterlo al fuoco, sarà presto fatto. Ma non è ancora finito. Ho già avuto due volte la tentazione di bruciarlo. Non l'ho fatto, temo di disobbedirle". È questo il primo accenno agli scritti che formeranno il libro Il Sacro Cuore e il Sacerdozio. Il libro incoraggia a realizzare il ministero sacerdotale come un "compito d'amore". Infatti, attraverso la carità pastorale, il sacerdote imita Cristo nella sua donazione e, immergendosi nella storia della sua gente, l'educa ai valori evangelici, soprattutto al comandamento dell'amore e all'impegno della solidarietà.

Quando il libro fu stampato, pochissime persone conoscevano il nome dell'autore. Si credeva che fosse stato scritto dal direttore spirituale del monastero, padre Alfredo Charrier - a lui giungevano da varie parti messaggi di congratulazione - e madre Luisa Margherita, con molta umiltà, mantenne sempre a questo riguardo uno scrupoloso silenzio. Era il messaggio contenuto che a lei interessava, non la sua persona.

Nel dicembre 1903 la superiora diede l'incarico a madre Luisa Margherita di scrivere una lettera a padre Charrier per porgergli gli auguri per il nuovo anno. Essa ubbidì, ma chiese anche l'autorizzazione di potervi accludere un foglietto su cui era scritta una preghiera: "O Gesù, Pontefice eterno, divino Sacrificatore, tu che, in uno slancio incomparabile d'amore per gli uomini tuoi fratelli, hai fatto sgorgare dal tuo Sacro Cuore il sacerdozio cristiano, degnati di continuare a versare nei tuoi sacerdoti le onde vivificanti dell'Amore Infinito. Vivi in essi, trasformali in te, rendili per mezzo della tua grazia gli strumenti delle tue misericordie; opera in essi e per essi fa' che, dopo essersi rivestiti di te, per mezzo della fedele imitazione delle tue adorabili virtù, essi facciano in tuo nome e per la forza del tuo Spirito, le opere che hai compiuto tu stesso per la salvezza del mondo. O divin Redentore delle anime, vedi quanto è grande la moltitudine di quelli che dormono ancora nelle tenebre dell'errore; conta il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull'orlo del precipizio; considera la folla dei poveri, degli affamati, degli ignoranti e dei deboli che gemono nell'abbandono. Ritorna a noi per mezzo dei tuoi sacerdoti; vivi o buon Gesù in essi, opera per essi e passa di nuovo in mezzo al mondo insegnando, perdonando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell'amore fra il cuore di Dio e il cuore dell'uomo. Amen".

Questa preghiera ebbe in breve tempo una diffusione straordinaria. Lo stesso padre Charrier e le varie Visitazioni si impegnarono a diffonderla in molte nazioni. Dal 1905 sino a oggi la preghiera fu continuamente stampata e diffusa nel mondo. È stata tradotta in ventidue lingue. Un vero record di universalità. Un'umilissima origine e un'amplissima diffusione.

Ma che cos'è quest'Opera - che poi prenderà le forme dell' "Alleanza sacerdotale" - di cui madre Luisa Margherita riceve le prime indicazioni e di cui in seguito parlerà tante volte nei suoi scritti? È innanzitutto un'Opera che il Signore stesso realizza attraverso il ministero dei sacerdoti: "Ho bisogno di loro per compiere la mia Opera!".

Dunque, prima ancora che un'opera fatta con mezzi umani è uno sguardo sul progetto di salvezza che Dio ha sul mondo. Solo in un secondo momento l'Opera è intesa come risposta di amore del sacerdote nello sforzo di riprodurre in sé l'immagine di Cristo e compiere ciò che lui ha detto e ha fatto. Quando parla della parte organizzativa, madre Luisa Margherita la presenta come espressione del suo modo di sentire e di vedere il problema, senza mai assolutizzare quanto propone: è l'aspetto più debole e più soggetto al mutare dei tempi. Mentre invece insiste su ciò che a lei pare fondamentale: l'Opera si realizza diffondendo, con la predicazione e le attività, la conoscenza dell'Amore Infinito e la Misericordia. Vi è, poi, un invito pressante rivolto ai sacerdoti perché cerchino e trovino modi e forme per incontrarsi tra di loro. L'Opera, infatti, ha questa finalità: incoraggiarli e sostenerli nel cammino di santità, aiutandoli a "unirsi tra di loro", ad "agire con uno stesso spirito" e a "potenziare l'azione per mezzo dell'unione". I sacerdoti incontrandosi s'impegnano nello studio della persona di Cristo, cercano di conformare la propria vita alle sue virtù sacerdotali e tendono a realizzare una autentica fraternità. Il ritrovarsi insieme è, dunque, non soltanto finalizzato alla preghiera, ma all'"unione e cooperazione nelle opere", cioè lavorare uniti attorno a un progetto pastorale, pensato insieme e realizzato comunitariamente. È perciò d'attualità la raccomandazione che la suora fa ai sacerdoti "ad aiutarsi reciprocamente, senza mai ostacolarsi a vicenda"; a "essere uniti tra loro per il bene, formando un cuor solo e un'anima sola, senza mai frapporsi vicendevolmente degli ostacoli nelle loro opere".

Mai come in questi ultimi decenni troviamo nel Magistero tanta insistenza perché si valorizzino all'interno del presbiterio gli incontri di preghiera, di studio e di programmazione pastorale, come momenti e mezzi privilegiati di formazione permanente. Meraviglia quindi che una suora, molto tempo prima, abbia indicato sentieri e percorsi non ancora aperti.

Il concilio Vaticano II, nella Presbyterorum Ordinis, ha ribadito con forza questa esigenza: "L'unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai nostri giorni. Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza mai unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri sotto la guida del vescovo". Questa unità è richiesta dalla legge della reciprocità dell'amore: i sacerdoti riconoscano nel vescovo il loro padre; il vescovo consideri i suoi sacerdoti come figli e amici. Realizzare l'unità è il fine dell'Opera. Qui comprendiamo quanto sia riduttivo equiparare l'Opera a un'associazione, sia pure ampia e diffusa nel mondo. Compito fondamentale dell'Opera è, dunque, aiutare i sacerdoti a crescere nella comunione e nell'unità. Tante pagine del Diario di madre Luisa Margherita possono essere lette, oggi, come profezia di quanto è maturato nella Chiesa dopo il Concilio. Nell'esortazione apostolica Pastores dabo vobis c'è questa sottolineatura: "La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell'Ordine". È un'autorevole conferma ai messaggi ricevuti da madre Luisa Margherita sulla vita e sul ministero dei sacerdoti.
  • Monsignor Piergiorgio Debernardi, Vescovo di Pinerolo
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 29, 2010 9:21 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1984
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Carissimi fratelli nella grazia del sacerdozio.

Avvicinandosi il Giovedì santo, giorno nel quale ciascuno di noi è invitato a ripensare con commossa gratitudine all'inestimabile dono fattoci da Cristo, sento il bisogno di rivolgermi a voi per testimoniarvi il sincero affetto e la viva sollecitudine con cui seguo, nel pensiero e nella preghiera, la vostra quotidiana fatica al servizio del gregge del Signore.

Lo scorso 23 febbraio ho avuto la gioia di celebrare il Giubileo della Redenzione con una vasta schiera di sacerdoti, convenuti a Roma da ogni parte del mondo. E' stata un'esperienza molto bella, che ha suscitato nel mio animo una profonda emozione, la cui eco perdura in me con immutata intensità. Nel desiderio di rendere in qualche modo partecipi di quell'evento di comunione tutti gli «amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4, 1), ho pensato di inviarvi il testo dell'omelia da me pronunciata in quella circostanza.

Possa quanto allora ho detto recare a ciascuno di voi spirituale conforto, ravvivando nei vostri cuori il proposito di perseverare generosamente nella vocazione di ministri dell'amore misericordioso di Dio. Vi sostenga anche la mia benedizione che con particolare affetto vi imparto in Cristo Gesù.



1. «Lo spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione, / mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, / la scarcerazione dei prigionieri, / a promulgare l'anno di misericordia del Signore» (Is 61, 1-2).

Carissimi fratelli nella grazia del sacramento del sacerdozio!

Un anno fa mi sono rivolto a voi con la Lettera per il Giovedì santo del 1983, chiedendovi di annunziare, insieme con me e con tutti i vescovi della Chiesa, l'Anno della Redenzione: il Giubileo straordinario, l'anno di misericordia del Signore.

Oggi desidero ringraziarvi per quanto avete fatto, affinché quest'anno, che ci ricorda il 1950• anniversario della redenzione, diventasse veramente «l'anno di misericordia del Signore», l'Anno Santo. In pari tempo, incontrandomi con voi in questa concelebrazione, nella quale culmina il vostro pellegrinaggio a Roma in occasione del Giubileo, desidero rinnovare e approfondire insieme con voi la coscienza del mistero della Redenzione, che è la sorgente viva e vivificante del sacerdozio sacramentale, al quale ciascuno di noi partecipa.

In voi, qui convenuti, non soltanto dall'Italia, ma anche da altri Paesi e continenti, vedo tutti i sacerdoti: l'intero presbiterio della Chiesa universale. E a tutti mi rivolgo con l'incoraggiamento e con l'esortazione della lettera agli Efesini: «Fratelli, vi esorto... a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto» (Ef 4, 1).

E' necessario che noi pure, chiamati a servire gli altri nel rinnovamento spirituale dell'Anno della Redenzione, ci rinnoviamo, mediante la grazia di quest'Anno, nella nostra beata vocazione.

2. «Canterò senza fine le grazie del Signore».

Questo versetto del Salmo responsoriale (Sal 89 (88), 2) dell'odierna liturgia ci ricorda che noi siamo in maniera del tutto speciale «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4,1), che siamo uomini della divina economia di salvezza, che siamo uno «strumento» consapevole della grazia, ossia dell'azione dello Spirito Santo nella potenza della croce e della risurrezione di Cristo.

Che cos'è quest'economia divina, che cos'è la grazia del nostro Signore Gesù Cristo, grazia che egli ha voluto legare sacramentalmente alla nostra vita sacerdotale e al nostro servizio sacerdotale, anche se svolto da uomini tanto poveri, tanto indegni? La grazia - come proclama il salmo dell'odierna liturgia - è una testimonianza della fedeltà di Dio stesso a quell'eterno amore, con cui egli ha amato il creato, e in particolare l'uomo, nel suo eterno Figlio.

Dice il salmo: «Perché hai detto: la mia grazia rimane per sempre; la tua fedeltà è fondata nei cieli» (Sal 89 (88), 3).

Questa fedeltà del suo amore - dell'amore misericordioso - è poi la fedeltà all'Alleanza, che Dio ha concluso, sin dall'inizio, con l'uomo, e che ha rinnovato molte volte, benché l'uomo tante volte ad essa non sia rimasto fedele.

La grazia è quindi un dono puro dell'amore, il quale soltanto nell'amore stesso, e non in altra cosa, trova la sua ragione e la sua motivazione.

Il salmo esalta l'Alleanza, che Dio ha stretto con Davide e al tempo stesso, grazie al suo contenuto messianico, esso rivela come quell'alleanza storica sia soltanto una tappa e un preannunzio dell'alleanza perfetta in Gesù Cristo: «Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Ivi 27).

La grazia, in quanto dono, è il fondamento dell'elevazione dell'uomo alla dignità di figlio di Dio adottivo in Cristo, Figlio unigenito.

«La mia fedeltà e la mia grazia saranno con lui e nel mio nome si innalzerà la sua potenza» (Ivi 25).

Proprio questa potenza, che fa diventare figli di Dio (quei figli di cui parla il prologo del Vangelo di Giovanni), l'intera potenza salvifica è conferita all'umanità in Cristo, nella redenzione, nella croce e nella risurrezione. E noi - servi di Cristo - ne siamo gli amministratori.

- Sacerdote: uomo dell'economia salvifica.

- Sacerdote: uomo plasmato dalla grazia.

- Sacerdote: amministratore della grazia!

3. «Canterò senza fine le grazie del Signore».

Proprio questa è la nostra vocazione. In questo consiste la specificità, l'originalità della vocazione sacerdotale. Essa è radicata in maniera speciale nella missione di Cristo stesso, di Cristo-Messia.

«Lo spirito del Signore è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi, / la scarcerazione dei prigionieri . . . / per consolare tutti gli afflitti» (Is 61, 1-2).

Proprio nell'intimo di questa missione messianica di Cristo-Sacerdote è radicata anche la vostra vocazione e missione: vocazione e missione dei sacerdoti della nuova ed eterna Alleanza. E' la vocazione e la missione degli annunziatori della buona novella;

- di coloro che debbono fasciare le piaghe dei cuori umani;

- di coloro che debbono proclamare la liberazione in mezzo alle molteplici afflizioni, in mezzo al male che in tanti modi «tiene» l'uomo prigioniero;

- di coloro che debbono consolare.

Questa è la nostra vocazione e missione di servitori. E' vocazione e missione, cari fratelli, che racchiude in sé un grande e fondamentale servizio nei riguardi di ciascun uomo! Nessuno può compiere un tale servizio al nostro posto. Nessuno può sostituirci. Dobbiamo raggiungere col Sacramento della Nuova ed Eterna Alleanza le radici stesse dell'esistenza umana sulla terra.

Dobbiamo, giorno per giorno, introdurre in essa la dimensione della redenzione e dell'Eucaristia.

Dobbiamo rafforzare la coscienza della figliolanza divina mediante la grazia. E quale prospettiva più alta, e quale destino più eccellente di questo potrebbe esserci per l'uomo?

Dobbiamo, infine, amministrare la realtà sacramentale della riconciliazione con Dio e della santa Comunione, nella quale si viene incontro alla più profonda aspirazione dell'«insaziabile» cuore umano.

Davvero, la nostra unzione sacerdotale è inserita profondamente nella stessa unzione messianica di Cristo.

Il nostro sacerdozio è ministeriale. Sì, noi dobbiamo servire! E «servire» significa portare l'uomo nelle fondamenta stesse della sua umanità, nello stesso midollo più profondo della sua dignità.

Proprio là deve risuonare - mediante il nostro servizio - quel «canto di lode invece di un cuore mesto», per utilizzare ancora una volta le parole del testo di Isaia (61,3).

4. Cari, amati fratelli! Noi ritroviamo, giorno dopo giorno e anno dopo anno, il contenuto e la sostanza, veramente ineffabili, del nostro sacerdozio nelle profondità del mistero della redenzione. E io auguro che a questo serva specialmente il corrente Anno del Giubileo straordinario!

-Apriamo sempre più largamente gli occhi - lo sguardo dell'anima - per scoprire meglio che cosa vuol dire celebrare l'Eucaristia, il sacrificio di Cristo stesso, affidato alle nostre labbra e alle nostre mani di sacerdoti nella comunità della Chiesa.

-Apriamo sempre più largamente gli occhi - lo sguardo dell'anima - per capire meglio che cosa significa rimettere i peccati e riconciliare le coscienze umane col Dio infinitamente santo, col Dio della verità e dell'amore.

-Apriamo sempre più largamente gli occhi - lo sguardo dell'anima - per capire meglio che cosa vuol dire operare «in persona Christi», nel nome di Cristo. Operare con la sua potenza, ossia con la potenza che, in definitiva, si radica nel suolo salvifico della redenzione.

-Apriamo inoltre sempre più largamente gli occhi - lo sguardo dell'anima - per capire meglio che cosa è il mistero della Chiesa. Noi siamo uomini della Chiesa!

«Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo. Un solo Dio padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4, 4-6).

Quindi: cercate «di conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 3). Sì. Proprio questo dipende, in modo particolare, da voi: «Conservare l'unità dello Spirito»!

In un'epoca di grandi tensioni, che scuotono il corpo terreno dell'umanità, il servizio più importante della Chiesa nasce dall'«unità dello Spirito», affinché non soltanto non subisca essa stessa una divisione dal di fuori, ma riconcili e unisca, altresì, gli uomini in mezzo alle contrarietà che si accumulano intorno a loro e in loro stessi nel mondo d'oggi.

Miei fratelli! A ciascuno di voi «è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo... al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4, 7.12). Siamo fedeli a questa grazia! Siamo eroicamente fedeli a questa grazia!

Miei fratelli! Il dono di Dio è stato grande per noi, per ciascuno di noi! Tanto che ogni sacerdote può scoprire in sé i segni di una divina predilezione.

Ciascuno conservi fondamentalmente il suo dono in tutta la ricchezza delle sue espressioni: anche il dono magnifico del celibato volontariamente consacrato al Signore - e da lui ricevuto - per la nostra santificazione e per l'edificazione della Chiesa.

5. Gesù Cristo è in mezzo a noi, e ci dice: «Io sono il buon pastore» (Gv 10, 11.14).

E' proprio Lui che ha «costituito» pastori anche noi. Ed è lui che percorre tutte le città e i villaggi (cfr. Mt 9, 35), ovunque noi siamo mandati per assolvere il nostro servizio sacerdotale e pastorale.

E' lui, Gesù Cristo, che insegna... predica il vangelo del regno e cura ogni malattia e infermità dell'uomo (cfr. Mt 9, 35), ovunque noi siamo mandati per il servizio del Vangelo e l'amministrazione dei sacramenti.

E' proprio lui, Gesù Cristo, che sente continuamente compassione delle folle e di ogni uomo stanco e sfinito, come «pecore senza pastore» (cfr. Mt 9, 36). Cari fratelli! In questa nostra assemblea liturgica chiediamo a Cristo una sola cosa: che ciascuno di noi sappia servire meglio, più limpidamente e più efficacemente, la sua presenza di Pastore in mezzo agli uomini nel mondo odierno!

Questa è, insieme, cosa tanto importante per noi, affinché non ci prenda la tentazione dell'«inutilità», cioè la tentazione di sentirci superflui. Perché ciò non è vero. Noi siamo necessari più che mai, perché Cristo è necessario più che mai! Il Buon Pastore è più che mai necessario!

Noi abbiamo in mano - proprio nelle nostre «mani vuote» - la potenza dei mezzi di azione che ci ha consegnato il Signore.

Pensate alla parola di Dio, più tagliente di una spada a doppio taglio (cfr. Eb 1, 12); pensate alla preghiera liturgica, segnatamente a quella delle ore, nella quale Cristo stesso prega con noi e per noi; e pensate ai sacramenti, in particolare a quello della Penitenza, vera tavola di salvezza per tante coscienze, approdo verso il quale tendono tanti uomini anche del nostro tempo. Occorre che i sacerdoti diano nuovamente grande importanza a questo sacramento, per la propria vita spirituale e per quella dei fedeli.

E' cosa certa, fratelli carissimi: col buon impiego di questi «mezzi poveri» (ma divinamente potenti) voi vedrete fiorire sulla vostra strada le meraviglie dell'infinita misericordia.

Anche il dono delle nuove vocazioni!

Con tale coscienza, in questa comune preghiera, riascoltiamo le parole che il Maestro rivolgeva ai discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate, dunque, il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9, 37-38).

Quanto sono attuali queste parole anche nella nostra epoca!

Preghiamo dunque! E preghi con noi tutta la Chiesa! E possa in questa preghiera manifestarsi la coscienza, rinnovata dal Giubileo, del Mistero della Redenzione.

Al termine di questo incontro, tanto caro al mio cuore, desidero rinnovare a tutti il mio cordiale saluto nel Signore e il mio sincero ringraziamento.

Saludo muy cordialmente a los sacerdotes de lengua española, presentes en esta concelebración. A los procedentes de los diversos Países de América del Sur o de América Central y de México, con particular mención a la representación de sacerdotes de España, la más numerosa de las venidas desde fuera de Italia. Queridos sacerdotes: Que el encuentro con Cristo, en este Año Jubilar de la Redención, renueve plenamente en vosotros la gracia singular que tenéis por la imposición de las manos. Y que os haga vivir, cada vez más fielmente, la comunión eclesial en torno al Papa y a vuestros Obispos.

Je salue les prêtres de France, de Belgique, de Suisse, du Canada, de Djibouti, du Burundi, et des autres pays de langue française, et tous leurs confrères qu'ils représentent. Chers amis, que le Seigneur continue par votre ministère son oeuvre de Rédemption! Qu'il vous donne chaque jour sa force, sa paix, sa joie! Qu'il suscite autour de vous beaucoup d'autres prêtres! Pour l'accueil de ce don de Dieu dans les nouvelles générations, vous avez aussi une responsabilité! Au nom du Christ qui vous bénit, au nom de son Eglise dont il m'a institué Pasteur universel, je vous envoie, pour être les témoins de son amour et de sa sainteté.


It is a joy to note the presence today of groups of priests from Australia, Canada, Denmark, England, India, Ireland, Japan, Kenya, Korea, Malaysia, Nigeria, the Philippines, Sweden, Taiwan, Thailand and the United States. We are here to celebrate the unity of our priesthood and to ask the full fruits of Redemption for ourselves and our people. As we turn our eyes to Jesus, the High Priest of Salvation, we invoke the mercy of God upon the world. We renew our confidence in the One who sent us and pledge our lives anew for the service of Christ's holy Church.


Liebe Brüder! Bevor wir aus dieser eucharistischen Gemeinschaft wieder auseinandergehen, möchte ich euch noch einmal meine innere Verbundenheit bekunden. Ihr kehrt zurück zu euren Gemeinden und Aufgaben, um mit neuer Liebe und Zuversicht die Heilstaten Gottes zu verkünden und seine Gnadengaben auszuspenden. Dafür begleiten euch und alle eure Mitbrüder in Deutschland, Österreich und in der Schweiz meine herzlichen Segenswünsche und mein Gebet.



Queridos Padres de língua portuguesa: ao saudar-vos com afecto - a vós e a quantos representais - como servidores do Povo de Deus numa vasta área da Igreja, quereria repetir quanto disse na vossa língua aos Padres do Brasil e de Portugal, quando os visitei, e adaptá-lo aos dos outros Países: Angola, Cabo Verde, Guiné-Bissau, Moçambique e São Tomé e Príncipe. Mas só posso dizer, ao abençoar-vos de todo o coração: sede homens de Deus, bons, cordatos e magnânimos, ao serviço dos homens, conscientes de continuar no tempo Cristo, Deus e Homem, nosso Redentor!


Słowo serdecznego podziękowania kieruję do Braci Kapłanów, którzy na uroczystości jubileuszowe Roku Odkupienia u grobu św. Piotra przybyli z Polski.

Niech nadzwyczajny Jubileusz, który przeżywacie na Waszych placówkach duszpasterskich z wiernymi i ta uroczystość rzymska pogłębi w Was i we wszystkich Współbraciach w naszej Ojczyźnie świadomość daru, który Chrystus złożył w Waszych sercach.

Stójcie przy Waszych wiernych i prowadźcie ich pewnie po drodze Odkupienia. Bądźcie wierni własnemu powołaniu i bądźcie wierni całemu tysiącletniemu dziedzictwu wypracowanemu przez Kościół i Naród pod Krzyżem. Brońcie tego dziedzictwa i rozwijajcie je na miarę naszych trudnych czasów.

Do Waszych parafii i środowisk zanieście moje błogosławieństwo.


Salutando alla fine tutti i sacerdoti italiani voglio trasmettere i miei cordiali auguri a tutti i nostri confratelli viventi in Italia e voglio anche affidare voi carissimi e tutti i sacerdoti qui presenti, come anche tutti i sacerdoti del mondo intero, alla Madre dei sacerdoti, Madre di Cristo, unico e sommo sacerdote, e di tutti noi che al Suo sacerdozio, sacramentalmente, indegnamente, partecipiamo.

Sia lodato Gesú Cristo.
  • Dal Vaticano, il 7 marzo, Mercoledì delle Ceneri, dell’anno 1984, sesto di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 05, 2010 9:44 am


  • Come una sentinella del mattino
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L'Anno sacerdotale che Benedetto XVI ha convocato per i sacerdoti, in commemorazione del 150° anniversario della morte del santo Curato d'Ars, offre l'occasione propizia per domandarsi che cosa sia il sacerdote, come si ponga di fronte alle grandi sfide che l'umanità affronta e quale ruolo giochi nel dramma dell'uomo moderno. Come diceva Giovanni Paolo ii all'inizio del suo pontificato: "Questo è un tempo meraviglioso per essere prete". Il sacerdote, animato dalla consapevolezza che Cristo è l'unico salvatore dell'uomo e che lui è stato costituito per mezzo del sacramento dell'ordine ministro della redenzione, è chiamato a vivere, nel mondo d'oggi e in mezzo alle sfide che questo presenta per il Vangelo di Cristo, con fiducia e santa audacia. Queste sfide si possono trasformare in un progetto di vita per i sacerdoti che vogliono realizzare la missione di Cristo nella Chiesa di questo nuovo millennio.

Il sacerdote deve essere un uomo di Dio. In quanto sacerdote ha il sigillo del sacramento. Di conseguenza, la sua volontà e le sue facoltà devono essere imbevute dei sentimenti di Cristo (cfr. Filippesi, 2, 5). Se non è saldo in Dio, sarà spazzato via dall'uragano della secolarizzazione. Deve quindi essere uomo di preghiera, uomo che ascolta e medita la Parola per attaccarsi amorevolmente a ciò che Dio vuole da lui; deve celebrare i sacramenti con il fervore e l'unzione propria delle cose sacre di cui si occupa, sapendo che per essere un uomo di Dio deve fare un particolare sforzo e resistere alla vertigine della costante e accelerata attività cui sottopone il mondo moderno.

Deve anche collaborare con la grazia divina perché la sua vita quotidiana rifletta la santità che trasmette con i sacramenti. I sacramenti sono efficaci ex opere a Christo operato, però è evidente che Dio elargisce la sua grazia con più abbondanza attraverso quei sacerdoti che con maggiore pienezza si sono configurati con suo Figlio, sommo ed eterno sacerdote della nuova alleanza.

Il sacerdote è un uomo profondamente consapevole che la salvezza viene da Dio e perciò non può concepire che la soluzione del problema dell'uomo stia nei mezzi umani o in lui come persona umana, per quanto preparato e carismatico possa essere. Comprende che deve unire la sua azione e le parole a una profonda vita eucaristica - sia nella celebrazione che nell'adorazione - che rende lui stesso, in un certo senso, eucaristico: cioè, qualcuno che si fa vittima e oblazione, come sacerdote, per servire Cristo nella missione di salvare le anime. La sua presenza tra gli uomini, suoi fratelli, deve essere quella d'una sentinella del mattino, un annunciatore delle cose dell'aldilà, un continuo promemoria di Dio per le anime, che incarna l'amore di Dio in questo mondo. L'uomo di Dio è l'unico che può dare senso all'uomo e alle società d'oggi poiché fa possibile l'incontro con il Dio amore. Si racconta una bellissima storia del curato d'Ars che è ricordata anche da una statua: quando san Giovanni Maria Vianney andò per la prima volta ad Ars, si perse lungo la strada. Chiese a un giovane pastore di guidarlo e questi lo portò fino al villaggio. Il prete gli disse: "Tu mi hai mostrato la strada per Ars, adesso io ti mostrerò la strada per il Cielo".

Essere uomo di Dio non è incompatibile con l'avere i piedi per terra. Il sacerdote è una persona che non perde la propria oggettività né il realismo. Sa, da un lato, che l'umanità deve sottomettere il cosmo e dominarlo, però dall'altro che ciò cui l'uomo anela definitivamente si trova solo in cielo, meta definitiva e obiettivo del nostro peregrinare su questa terra. Non è la scienza che salva l'uomo, ma Cristo. Il sacerdote non può cedere all'orizzontalismo o al naturalismo, perché smetterebbe d'essere necessario per il mondo e si confonderebbe con un lavoratore o un agente sociale. Non deve mai cadere preda della visione ridotta del suo sacerdozio, per cui questo non sarebbe altro che un servizio o una funzione. Il sacerdote è servitore di Cristo per essere, a partire da Lui, per mezzo di Lui e con Lui, servitore degli uomini.

Nella formazione dell'uomo di Dio gioca un ruolo molto particolare la devozione alla Vergine Maria, come madre, modello di virtù e, soprattutto, come protettrice celeste. La sua relazione con i sacerdoti, ministri di Cristo, deriva dalla relazione tra la divina maternità di Maria e il sacerdozio di Cristo. I sacerdoti sono suoi figli prediletti e nel cuore del sacerdote deve risuonare il consiglio di san Bernardo: "Nei pericoli, nell'angoscia, nell'incertezza, invoca Maria. Che il suo nome mai abbandoni le tue labbra e il tuo cuore. E per ottenere il sostegno della sua preghiera, non cessare d'imitare l'esempio della sua vita. Seguendola, non ti smarrirai; pregandola, non conoscerai la disperazione, pensando a Lei, non ti sbaglierai. Se Ella ti sostiene, non affonderai; se Ella ti protegge, non avrai timore di nulla; sotto la sua guida non temere la fatica; con la sua protezione raggiungerai il porto".

Il sacerdote, proprio perché è rivolto all'eternità e perché aiuta gli uomini nel loro cammino verso il cielo, deve costruire la carità, poiché è la carità la virtù che in qualche modo anticipa il cielo qui sulla terra.

La carità è innanzitutto carità verso Dio ed è la virtù che concede al sacerdote d'essere un uomo di Dio. Da questa carità scaturisce la carità verso gli altri che ha diversi aspetti. Il primo, quello più fondamentale, è mettere sempre al centro d'ogni azione, d'ogni pensiero e parola, il bene della persona che abbiamo di fronte. Non fa bene alla Chiesa, che alcuni sacerdoti si preoccupino più delle strutture che delle persone con cui hanno a che fare quotidianamente. Ricordo che madre Teresa di Calcutta, una volta, quando le fecero notare che lei non cercava una soluzione per le strutture che provocavano le ingiustizie, chiarì che c'erano già molti che cercavano di migliorarle, mentre lei cercava di far sì che ogni persona tra i più poveri dei poveri fosse curata secondo la sua dignità di figlio di Dio.

Il sacerdote che cerca il bene della persona, cerca di non ridurla a un numero o a una statistica. Non è che le statistiche siano cattive, anzi credo che offrano un aiuto alle sfide pastorali che la Chiesa affronta, però non si possono ridurre le persone a semplici numeri.

Costruire la carità richiede anche di costruire la comunione. La Chiesa è comunione, è, con le parole di san Cipriano, "un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Lo stesso sacerdozio ha una "radicale forma comunitaria" e non può essere esercitato se non nella comunione. La prima dimensione di questa comunione è la comunione gerarchica, la comunione con il Santo Padre, centro visibile dell'unità nella Chiesa, e con il proprio vescovo, pastore della Chiesa particolare.

Il sacerdote è costruttore di comunione all'interno del presbiterio diocesano. Tutti i sacerdoti di una Chiesa particolare partecipano all'unico sacerdozio di Cristo pastore. E quest'unione sacramentale deve tradursi in relazioni interpersonali piene di carità e di reciproco aiuto. Il sacerdote è chiamato anche ad accogliere con gratitudine e a condurre verso la comunione i diversi carismi presenti nella sua parrocchia o nella diocesi. Il suo cuore sarà aperto alle diverse forme di vita consacrata e ai nuovi movimenti approvati dall'autorità competente. Sono doni dello Spirito per la Chiesa e devono essere accolti senza pregiudizi. In essi molti fedeli trovano cammini specifici di santità cristiana e forme concrete per partecipare all'azione evangelizzatrice della Chiesa.

Il sacerdote costruisce la comunione con tutto il popolo di Dio e non concepisce la Chiesa in forma dialettica, come opposizione tra il ministero ordinato e il sacerdozio battesimale che è proprio di tutti i fedeli. Una delle figure consacrate dal Concilio per rappresentare la Chiesa fu quella del popolo di Dio. In questo popolo che è anche Corpo di Cristo, tutti abbiamo la stessa dignità di figli di Dio e uniti camminiamo verso la meta definitiva, il cielo. E la differenza essenziale, non semplicemente graduale, tra il mistero ordinato e la funzione dei laici non solo non rompe l'unità, ma l'arricchisce.

Nella predicazione e nella vita di Cristo, era palese l'attenzione che egli prestava ai più poveri. L'attenzione per il più bisognoso è qualcosa che deve formare la priorità pastorale del sacerdote. Aiutare a risolvere le necessità delle persone è proprio del cristiano, e molto più del sacerdote. Oggi alla necessità di beni materiali si sono aggiunte molte altre necessità che sono diventate pressanti: la solitudine della vecchiaia, la depressione e l'abbandono di tante persone nelle grandi città, le diverse assuefazioni molte volte sfruttate da organizzazioni o individui con affanno di lucro, l'infanzia lasciata al suo destino senza alimentazione e senza educazione.

Il sacerdote sta laddove c'è più bisogno di consolazione e di annuncio dei beni eterni, dove stanno i più indifesi. Il sacerdote è colui che porta speranza con la sua parola e con la sua azione perché quelle situazioni di miseria siano alleviate. Nonostante tanto avanzamento tecnologico non sempre le persone hanno la possibilità di ricevere i vantaggi di questo sviluppo e si trovano sole e abbandonate.

Il sacerdote ha anche, in certa misura, responsabilità nella promozione di società giuste. Non compete al sacerdote lavorare nelle strutture politiche, sindacali, economiche; non è chiamato a essere costruttore della città terrena, però nemmeno può dimenticare il mondo in cui vive. Egli può e deve cooperare alla promozione d'una società più giusta e conforme alla volontà di Dio mediante la predicazione dei valori evangelici e la formazione delle coscienze. Questo è il suo apporto specifico. Non è escluso che lui segnali le situazioni ingiuste, però l'amore per i suoi fratelli richiede di andare oltre, più alla radice: riuscire a cambiare i cuori di coloro che provocano tali situazioni. Non cerca di contrapporre, ma d'unire e ottenere che all'interno di queste situazioni ci sia reciproca comprensione e perdono e responsabilità effettiva di chi può migliorare le cose. Solo così si può costruire una nuova società, poiché, senza cambiare i cuori, i rancori sarebbero un peso che manterrebbe le persone ancorate al passato, senza speranza e sempre preda della violenza distruttrice.

Infine, nella costruzione della carità, il sacerdote deve fare sempre la carità nella verità. Farebbe un pessimo servizio come pastore di anime se per un malinteso concetto di carità abbandonasse la verità. Alle anime bisogna dire la verità, scoprire per esse il suo valore e aiutarle ad amarla; bisogna mostrare tutta la verità che Dio ha rivelato nel Vangelo di Cristo e che il magistero della Chiesa trasmette. Non si può ridurre o cambiare la verità per "fare un bene pastorale". In ogni caso, si può applicare la legge della gradualità, però mai tergiversare sulla verità. Benedetto XVI ribadisce nella sua enciclica Caritas in veritate: "Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità.

Il sacerdote è un pastore d'anime, che accudisce le sue pecore ed è disposto a dare la vita per loro. Non è da sottovalutare il valore di questa donazione, di questa passione che deve ardere nel cuore d'ogni sacerdote. Lui è come Cristo, che offre la sua vita per loro, ed è mosso dal suo stesso amore per loro. Però oltre a questa donazione che si fa realtà giorno dopo giorno, istruisce le anime con la sana dottrina cattolica. Insegna loro la fede attraverso un'adeguata catechesi, con tutti i mezzi possibili, perché il popolo di Dio ha urgente necessità di conoscere la fede per non lasciarsi trascinare da altre idee pseudoreligiose. Però soprattutto il sacerdote deve essere guida e pastore dei suoi fratelli con uno stile di vita virtuoso, alimentato dalla preghiera e dal contatto con l'eucaristia.

L'attenzione per le anime si concretizza soprattutto nell'amministrare il sacramento della riconciliazione. Il sacerdote è sempre a disposizione dei fedeli per ascoltare le loro confessioni. È lì, nella solitudine del confessionale, che si vive la battaglia più decisiva per l'anima del mondo. È lì che la grazia di Dio tocca profondamente le persone per mezzo dell'umanità del sacerdote.
  • Luis Garza Medina, Vicario generale dei legionari di Cristo
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 05, 2010 9:48 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1985
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Cari fratelli Sacerdoti!

1. Nella liturgia del Giovedì Santo ci uniamo in modo particolare a Cristo che è l'eterna ed incessante fonte del nostro sacerdozio nella Chiesa. Egli solo è il sacerdote del proprio sacrificio, come è anche l'ineffabile vittima (hostia) del proprio sacerdozio nel sacrificio del Golgota.

Durante l'Ultima Cena, egli ha lasciato alla Chiesa questo suo sacrificio - il sacrificio della nuova ed eterna Alleanza - come Eucaristia: il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino «al modo di Melchisedek».

Quando dice agli apostoli: «Fate questo in memoria di me!» (Lc 22,19; 1Cor 11,24s) egli costituisce i ministri di questo Sacramento nella Chiesa, nella quale per tutti i tempi deve continuare, rinnovarsi e attuarsi il sacrificio da lui offerto per la redenzione del mondo, ed a questi stessi ministri ordina di operare - in forza del loro sacerdozio sacramentale - in sua vece: «in persona Christi».

Tutto ciò, cari Fratelli, per via della successione apostolica viene a noi partecipato nella Chiesa. Il Giovedì Santo è ogni anno il giorno della nascita dell'Eucaristia, ed è, al tempo stesso, il natale del nostro sacerdozio, il quale è innanzi tutto ministeriale ed è nel contempo gerarchico. E' ministeriale, perché in virtù dell'Ordine sacro esercitiamo nella Chiesa quel servizio che è dato di compiere solo ai Sacerdoti, prima di tutto il servizio dell'Eucaristia. E' anche gerarchico, perché questo servizio ci permette, servendo, di guidare pastoralmente le singole comunità del Popolo di Dio, in comunione con i Vescovi, i quali hanno ereditato dagli apostoli il potere e il carisma pastorale nella Chiesa.

2. Nel giorno solenne del Giovedì Santo la comunità dei Sacerdoti - cioè il presbiterio - di ciascuna Chiesa, iniziando da quella che è in Roma, dà una particolare espressione alla sua unione nel sacerdozio di Cristo. E anche in questo giorno mi rivolgo - ormai non per la prima volta e in unione collegiale con i miei Fratelli nell'episcopato - a voi che siete i miei e i nostri Fratelli nel sacerdozio ministeriale di Cristo, in ogni luogo della terra, presso ogni nazione e popolo, lingua e cultura. Come ho già scritto altra volta, adattando le note parole di sant'Agostino, vi ripeto: «Vobis sum episcopus» e, al tempo stesso, «vobiscum sum sacerdos». Nel giorno solenne del Giovedì Santo insieme con voi tutti, cari Fratelli, rinnovo - come ogni Vescovo nella propria Chiesa - con la più profonda umiltà e gratitudine la consapevolezza della realtà del Dono, che mediante l'Ordinazione sacerdotale è divenuto nostra parte - parte di ciascuno e di tutti - nel presbiterio della Chiesa universale (cfr. Ps 16,5).

Il sentimento dell'umile gratitudine deve di anno in anno prepararci sempre meglio alla moltiplicazione di quel talento che il Signore ci ha elargito il giorno della sua dipartita, affinché possiamo presentarci davanti a lui il giorno della sua seconda venuta, noi, ai quali ha detto: «Non vi chiamo più servi, ... ma vi ho chiamati amici... Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,15s).

3. Facendo riferimento a queste parole del nostro Maestro, che contengono in sé i più meravigliosi auguri per il giorno natalizio del nostro sacerdozio, desidero toccare, in questa Lettera per il Giovedì Santo, uno dei problemi che necessariamente s'incontrano lungo la via della nostra vocazione sacerdotale, come pure della missione apostolica.

Di questo problema parla più ampiamente la «Lettera ai Giovani», che accludo al presente messaggio annuale per il Giovedì Santo. Il corrente anno 1985, per iniziativa dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, è infatti celebrato in tutto il mondo come Anno Internazionale della Gioventù. Mi è sembrato che questa iniziativa non potesse rimanere ai margini della Chiesa, così come non vi sono rimaste altre nobili iniziative di carattere internazionale; come, per esempio, l'iniziativa dell'Anno delle persone anziane, oppure di quello delle persone handicappate, e simili. In tutte queste iniziative la Chiesa non può né deve rimanere ai margini, per l'essenziale ragione che esse si trovano al centro della sua missione e del suo servizio, che è di costruirsi e di crescere come comunità di credenti, come ben rileva la Costituzione dogmatica «Lumen Gentium» del Concilio Vaticano II. A suo modo, ciascuna di queste iniziative conferma anche la realtà della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo, cosa a cui l'ultimo Concilio ha dato un'espressione magistrale nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes».

Desidero, pertanto, anche nella lettera per il Giovedì Santo di quest'anno, esprimere alcuni pensieri sul tema della gioventù nel lavoro pastorale dei Sacerdoti e, in generale, nell'apostolato proprio della nostra vocazione.

4. Gesù Cristo è anche in questo campo il modello più perfetto. Il suo colloquio col giovane, che troviamo nel testo di tutti e tre i Vangeli sinottici (cfr. Mt 19,16-22; Mc 10,17-22; Lc 18,18-23), costituisce un'inesauribile fonte di riflessione su questo tema. A tale fonte mi riferisco soprattutto nella «Lettera ai Giovani» di quest'anno; ma ad essa conviene anche ricorrere per servircene specialmente quando pensiamo al nostro impegno sacerdotale e pastorale riguardo ai giovani. Gesù Cristo deve in questo rimanere per noi la prima e fondamentale fonte d'ispirazione.

Il testo del Vangelo indica che il giovane ebbe facile accesso a Gesù. Per lui il Maestro di Nazareth era qualcuno, a cui poteva rivolgersi con fiducia: qualcuno, a cui poteva affidare i suoi interrogativi essenziali; qualcuno, da cui poteva attendere una risposta vera. Tutto questo anche per noi è un'indicazione di fondamentale importanza. Ognuno di noi deve distinguersi per un'accessibilità simile a quella di Cristo: occorre che i giovani non trovino difficoltà nell'avvicinare il Sacerdote, avvertendo in lui la medesima apertura, benevolenza e disponibilità nei confronti dei problemi che li assillano. Persino, quando per temperamento sono un po' riservati, o chiusi in se stessi, occorre che il comportamento del Sacerdote faciliti loro il superamento delle resistenze che derivano da tale fatto. Del resto, per diverse vie si instaura e si forma il contatto che nel suo insieme può esser definito come «dialogo di salvezza». Su questo tema i Sacerdoti, impegnati nella pastorale dei giovani, potrebbero essi stessi dir molto; desidero, dunque, riferirmi semplicemente alla loro esperienza. Una speciale importanza ha naturalmente l'esperienza dei Santi, e sappiamo che non mancano tra le generazioni dei Sacerdoti i «santi pastori della gioventù».

L'accessibilità del Sacerdote nei riguardi dei giovani significa non solo facilità di contatto con loro, nel tempio e al di fuori di esso, dovunque i giovani si sentano attratti conformemente alle sane caratteristiche della loro età (penso qui, ad esempio, al turismo, allo sport, come pure in generale alla sfera degli interessi culturali). L'accessibilità, della quale ci dà esempio il Cristo, consiste in qualcosa di più. Il Sacerdote, non solo per la sua preparazione ministeriale, ma anche per la competenza acquisita nelle scienze dell'educazione, deve destare fiducia nei giovani come confidente dei loro problemi di carattere fondamentale, delle questioni riguardanti la loro vita spirituale, degli interrogativi di coscienza. Il giovane, che si avvicina a Gesù di Nazareth, chiede direttamente: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mc 10,17).

La stessa domanda può venir posta in modo diverso, non sempre così esplicito; spesso essa viene posta in modo indiretto e apparentemente distaccato. Tuttavia, la domanda riportata dal Vangelo determina, in un certo senso, un ampio spazio, nell'ambito del quale si sviluppa il nostro dialogo pastorale con la gioventù. Moltissimi problemi entrano in questo spazio, vi entrano in gran numero possibili interrogativi e possibili risposte, poiché la vita umana, specialmente durante la giovinezza, è multiforme nella sua ricchezza di interrogativi, e il Vangelo, da parte sua, è ricco di possibilità di risposta.

5. Bisogna che il Sacerdote in contatto con i giovani sappia ascoltare e sappia rispondere. Bisogna che l'uno e l'altro di questi atti sia frutto della sua maturità interiore; bisogna che ciò trovi riscontro in una limpida coerenza tra vita e insegnamento; ancor più, bisogna che ciò sia frutto di preghiera, di unione con Cristo Signore e di docilità all'azione dello Spirito Santo. Qui naturalmente è importante un'adeguata istruzione; ma, prima di tutto, importante è il senso di responsabilità di fronte alla verità e di fronte all'interlocutore. Il colloquio, riportato dai Sinottici, prova prima di tutto che il Maestro, a cui si rivolge quel giovane interlocutore, ha ai suoi occhi una speciale credibilità ed autorità: l'autorità morale. Il giovane attende da lui la verità, e ne accetta la risposta come espressione di una verità che obbliga. Questa verità può essere esigente. Non dobbiamo aver paura di esigere molto dai giovani. Può darsi che qualcuno se ne andrà «rattristato», quando gli sembrerà di non poter far fronte all'una o all'altra esigenza; ciononostante, una tale tristezza può essere anche «salvifica». A volte i giovani debbono farsi strada attraverso tali tristezze salvifiche, per giungere gradualmente alla verità e a quella gioia che essa dà.

I giovani, del resto, sanno che il vero bene non può essere «a buon prezzo», che deve «costare». Essi posseggono un certo sano istinto, quando si tratta dei valori. Se il terreno dell'anima non ha ancora ceduto alla corruzione, essi reagiscono direttamente secondo questo sano giudizio. Se invece la depravazione è già penetrata, bisogna dissodare di nuovo questo terreno, e ciò non è possibile farlo se non dando risposte vere e proponendo veri valori.

Nel modo di agire di Cristo vi è una cosa molto istruttiva. Quando il giovane si rivolge a lui («Maestro buono»), Gesù in un certo senso «si mette da parte», perché gli risponde: «Buono è solo Dio» (cfr. Mt 19,17; Mc 10,18; Lc 18,19). In effetti, in tutti i nostri contatti con i giovani questo sembra essere particolarmente importante. Noi dobbiamo essere più che mai personalmente impegnati, dobbiamo agire con tutta la naturalezza dell'interlocutore, dell'amico, della guida; e, al tempo stesso, non possiamo neanche per un attimo offuscare Dio, mettendo avanti noi stessi: non possiamo offuscare colui «che solo è buono», colui che è invisibile ed insieme è quanto mai presente: «Interior intimo meo», come dice sant'Agostino. Agendo nel modo più naturale, in «prima persona», non possiamo dimenticare che la «prima persona» in ogni dialogo di salvezza può essere soltanto colui che da solo salva e da solo santifica. Ogni nostro contatto con i giovani, la pastorale in qualsiasi forma - anche quella esternamente più «profana» - deve servire in tutta umiltà ad aprire e ad ampliare lo spazio per Dio, per Gesù Cristo, poiché «il Padre mio opera sempre e anche io opero» (Gv 5,17).

6. Nella redazione evangelica della conversazione di Cristo col giovane c'è un'espressione che dobbiamo assimilare in modo particolare. L'evangelista dice che Gesù «fissatolo lo amò» (Mc 10,21). Tocchiamo qui il punto veramente nevralgico. Se si interrogassero coloro che, tra le generazioni dei Sacerdoti, hanno fatto di più per le giovani esistenze, per i ragazzi e per le ragazze - a coloro che hanno portato maggiormente un frutto duraturo nel lavoro con i giovani -, ci convinceremmo che la prima e più profonda fonte della loro efficacia è stata quel «fissare con amore» di Cristo.

Bisogna identificare bene quest'amore nel nostro animo sacerdotale. Esso è semplicemente l'amore «del prossimo»: l'amore dell'uomo in Cristo, che riguarda ognuno e ognuna, che concerne tutti. Quest'amore non è - nei riguardi della gioventù - qualcosa di esclusivo, come se dovesse non riguardare gli altri e, dunque, per esempio gli adulti, gli anziani o gli ammalati. Sì, l'amore per la gioventù possiede il suo carattere evangelico solo quando scaturisce dall'amore per ciascuno e per tutti. Al tempo stesso, esso, in quanto amore, possiede la sua caratteristica specifica e, si può dire, carismatica. Quest'amore scaturisce da un particolare prendersi a cuore ciò che è la giovinezza nella vita dell'uomo. I giovani indubbiamente possiedono molto fascino, proprio della loro età, ma hanno anche a volte non poche debolezze e difetti. Il giovane del Vangelo, con cui Cristo parla, si presenta da un lato come un israelita fedele ai comandamenti di Dio, ma in seguito appare come un uomo troppo condizionato dalle sue ricchezze e troppo attaccato ai suoi beni.

L'amore per i giovani - quest'amore che è un attributo indispensabile di ogni onesto educatore e di ogni buon pastore - è pienamente consapevole sia dei pregi sia dei difetti, propri della giovinezza e dei giovani. Al tempo stesso, quest'amore - così come l'amore di Cristo - attraverso i pregi e i difetti raggiunge direttamente l'uomo: raggiunge un uomo, che si trova in una fase della vita estremamente importante. Sono veramente molte le cose che si formano e si decidono in questa fase (a volte in modo irreversibile). Da come è la giovinezza dipende in grande misura il futuro dell'uomo, cioè il futuro di una concreta ed irripetibile persona umana. La giovinezza, dunque, nella vita di ogni uomo è una fase di particolare responsabilità. L'amore per i giovani è, prima di tutto, consapevolezza di questa responsabilità e disponibilità nel condividerla.

Un tale amore è veramente disinteressato. Esso desta fiducia nei giovani. Questi, anzi, ne hanno un enorme bisogno nella fase della vita che attraversano. Ognuno di noi, sacerdoti, dovrebbe essere in maniera speciale preparato ad un tale amore gratuito. Si può dire che tutta l'ascesi della vita sacerdotale, il quotidiano lavoro su di sé, lo spirito di preghiera, l'unione con Cristo, l'affidamento alla sua Madre trovano proprio su questo punto la loro quotidiana verifica. Le giovani menti sono particolarmente sensibili. Le giovani menti sono a volte molto critiche. Per questo, è importante nel sacerdote la preparazione intellettuale. Al tempo stesso, però, l'esperienza conferma che ancor più importanti sono la bontà, la dedizione ed anche la fermezza: le qualità del carattere e del cuore.

Penso cari fratelli, che ciascuno di noi debba chiedere insistentemente al Signore Gesù che il suo contatto con i giovani sia essenzialmente una partecipazione di quello sguardo con cui egli «fissò» il suo giovane interlocutore nel Vangelo, e una partecipazione di quell'amore con cui egli lo «amò». Si deve anche pregare insistentemente, affinché quest'amore sacerdotale, disinteressato, corrisponda in modo concreto alle attese di tutta la gioventù, sia maschile che femminile, dei ragazzi e delle ragazze. Si sa, infatti, quanto sia diversificata la ricchezza costituita dalla mascolinità e dalla femminilità per lo sviluppo di una concreta ed irripetibile persona umana. Riguardo a ciascuno e a ciascuna noi dobbiamo imparare da Cristo quell'amore, con cui egli stesso «amò».

7. L'amore rende capaci di proporre il bene. Gesù «fissò con amore» il suo giovane interlocutore nel Vangelo e gli disse: «Seguimi» (Mt 19,21; Mc 10,21; Lc 18,22). Questo bene, che possiamo proporre ai giovani, si esprime sempre in questa esortazione: Segui il Cristo! Noi non abbiamo un altro bene da proporre; nessuno ha un bene maggiore da proporre. Segui il Cristo vuol dire innanzitutto, cerca di ritrovare te stesso nel modo più profondo ed autentico possibile. Cerca di ritrovare te stesso come uomo. Infatti, il Cristo è proprio colui che - come insegna il Concilio - «svela ... pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et Spes, 22).

E dunque: segui il Cristo! Il che significa: cerca di ritrovare quella vocazione, che Cristo mostra all'uomo: quella vocazione, nella quale si realizzano l'uomo e la dignità a lui propria. Solo alla luce di Cristo e del suo Vangelo possiamo comprendere pienamente che cosa voglia dire che l'uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio stesso. Solamente seguendo lui, possiamo riempire questa immagine eterna con un contenuto di vita concreta. Questo contenuto è multiforme; molte sono le vocazioni e i compiti della vita, nei confronti dei quali i giovani devono precisare la loro propria strada. Tuttavia, su ciascuna di queste vie si tratta di realizzare una vocazione fondamentale: essere uomo! Esserlo da cristiano! Essere uomo «nella misura del dono di Cristo» (Ef 4,7).

Se nei nostri cuori sacerdotali si trova l'amore per i giovani, sapremo aiutarli nella ricerca della risposta a ciò che è la vocazione di vita di ciascuno e di ciascuna di loro. Sapremo aiutarli, lasciando loro pienamente la libertà di ricerca e di scelta, mostrando al tempo stesso il valore essenziale - nel senso umano e cristiano - di ognuna di queste scelte.

Sapremo anche essere con loro, con ciascuna e ciascuno, in mezzo alle prove e alle sofferenze, dalle quali la giovinezza non è certo esente. Si, a volte ne è gravata oltre misura. Sono esse sofferenze e prove di diverso genere, sono delusioni e disinganni, sono vere crisi: la giovinezza è particolarmente sensibile e non sempre preparata ai colpi, che la vita infligge. Oggi la minaccia all'umana esistenza a livello di intere società, anzi dell'intera umanità, causa giustamente inquietudine in molti giovani. Bisogna aiutarli in queste inquietudini a scoprire la propria vocazione. Bisogna, al tempo stesso, sostenerli e confermarli nel desiderio di trasformare il mondo, di renderlo più umano e più fraterno. Non si tratta qui solo di parole; si tratta di tutta la realtà della «via», che il Cristo indica per un mondo fatto proprio così. Un tale mondo si chiama nel Vangelo il Regno di Dio. Il Regno di Dio è, nello stesso tempo, il vero «regno dell'uomo»: è il mondo nuovo, in cui si realizza l'autentica «regalità dell'uomo».

L'amore è capace di proporre il bene. Quando Cristo dice al giovane: «Seguimi», in quel concreto caso evangelico è una chiamata a «lasciare tutto» e a prendere la strada dei suoi apostoli. Il colloquio di Cristo col giovane è il prototipo di tanti diversi colloqui, nei quali si schiude davanti ad un'anima giovane la prospettiva della vocazione sacerdotale o religiosa. Dobbiamo, cari fratelli sacerdoti e pastori, saper identificare bene queste vocazioni. «La messe - veramente - è molta ma gli operai sono pochi!». Qua e là sono pochissimi! Chiediamo noi stessi al «padrone della messe che mandi operai nella sua messe» (Mt 9,37s). Preghiamo noi stessi, chiediamo agli altri di pregare per questo. E, prima di tutto, cerchiamo con la nostra propria vita di creare un concreto punto di riferimento per le vocazioni sacerdotali e religiose: un modello concreto. I giovani hanno un bisogno indispensabile di un tale modello concreto, per scoprire in se stessi la possibilità di seguire una simile strada. In questo campo il nostro sacerdozio può fruttificare in modo singolare. Adoperatevi per questo, a pregate perché il Dono, che avete ricevuto, diventi fonte di una simile elargizione per gli altri: proprio per i giovani!

8. Si potrebbe dire e scrivere ancora molto su questo tema. L'educazione e la pastorale dei giovani sono oggetto di molti studi sistematici e di molte pubblicazioni. Scrivendovi in occasione del Giovedì Santo, cari fratelli sacerdoti, io desidero limitarmi solo ad alcuni pensieri. Desidero, in un certo senso, «segnalare» uno dei temi che rientra nella molteplice ricchezza della nostra vocazione e missione sacerdotale. Intorno al medesimo tema dice di più la «Lettera ai Giovani», che insieme con questa metto a vostra disposizione, affinché possiate servirvene specialmente nel corrente anno della gioventù.

Nell'antica liturgia che i sacerdoti più anziani ancora ricordano, la santa Messa iniziava con la preghiera ai piedi dell'altare, e le prime parole del salmo suonavano così: «Introibo ad altare Dei - ad Deum, qui laetificat iuventutem meam» («Verrò all'altare di Dio, al Dio che allieta la mia giovinezza»).

Il Giovedì Santo noi tutti ritorniamo alla sorgente del nostro sacerdozio - nel Cenacolo. Meditiamo come esso è nato nel cuore di Gesù Cristo durante l'Ultima Cena. Meditiamo anche come esso è nato nel cuore di ciascuno di noi.

In questo giorno, cari fratelli, desidero augurare a voi tutti ed augurare a ciascuno - indipendentemente dall'età e dalla generazione a cui appartenete - che «l'accedere all'altare di Dio» (come si esprime il Salmo) sia per voi (a fonte della soprannaturale giovinezza di spirito, che proviene da Dio stesso. Egli «ci allieta con la giovinezza» del suo eterno mistero in Gesù Cristo. Come Sacerdoti di questo mistero salvifico, noi partecipiamo alle fonti stesse della giovinezza di Dio: di questa inesauribile «novità di vita», che col Cristo si effonde nei cuori umani.

Che essa diventi, per noi tutti e, a mezzo nostro, per gli altri e, specialmente, per i giovani una fonte di vita e di santità. Questi auguri io depongo nel cuore di Colei, alla quale pensiamo cantando: «Ave verum Corpus, natum de Maria Virgine. Vere passum, immolatum in Cruce pro homine. Esto nobis praegustatum mortis in examine».

Con tutto l'affetto del mio cuore e con una rinnovata benedizione apostolica, a conforto del vostro ministero.
  • Dal Vaticano, il 31 marzo, Domenica delle Palme «de Passione Domini», dell'anno 1985 settimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 12, 2010 4:30 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II

    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1986
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1. Eccoci di nuovo nell'imminenza del Giovedì Santo, giorno in cui Gesù Cristo istitui l'Eucaristia e, nel medesimo tempo, il nostro sacerdozio ministeriale. Il Cristo, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Buon Pastore qual era, stava per dare la propria vita per le sue pecore (cfr. Gv 10,11), per salvare gli uomini, riconciliarli col Padre e introdurli in una vita nuova. E già agli Apostoli egli offriva in cibo il suo Corpo, dato per loro, e il suo Sangue, versato per loro.

Ogni anno, questo giorno è grande per tutti i cristiani. Sull'esempio dei primi discepoli, essi vengono per comunicare al Corpo e al Sangue di Cristo nella liturgia della sera, che rinnova la Cena. Ricevono dal Salvatore il testamento dell'amore fraterno che dovrà ispirare tutta la loro vita, e cominciano a vegliare con lui, per unirsi alla sua Passione. Voi stessi li radunerete e guiderete la loro preghiera.

Ma questo giorno è grande specialmente per noi, cari fratelli sacerdoti. E' la festa dei sacerdoti. E' il giorno in cui nasce il nostro sacerdozio, che è partecipazione all'unico Sacerdozio di Cristo Mediatore. In questo giorno, i sacerdoti del mondo intero sono invitati a concelebrare l'Eucaristia coi loro Vescovi e a rinnovare attorno ad essi le promesse dei loro impegni sacerdotali a servizio di Cristo e della sua Chiesa.

In questa occasione io mi metto particolarmente vicino a ciascuno di voi. E, come ogni anno, in segno della nostra unione sacramentale nel medesimo sacerdozio, spinto dalla stima affettuosa che vi porto e dal mio dovere di confermare tutti i miei fratelli nel loro servizio al Signore, vi invio questa lettera per aiutarvi a ravvivare il dono inaudito che vi è stato conferito per l'imposizione delle mani (cfr. 2Tm 1,6). Questo sacerdozio ministeriale, che è nostra parte, è anche nostra vocazione e nostra grazia. Segna tutta la nostra vita col sigillo del servizio più necessario e più esigente che ci sia: la salvezza delle anime. Noi vi siamo d'altronde condotti da una moltitudine di predecessori.

L'esempio incomparabile del Curato d'Ars

2. Uno di questi rimane assai presente alla memoria della Chiesa, e sarà particolarmente commemorato quest'anno, in occasione del secondo centenario della sua nascita: San Giovanni Maria Vianney, il Curato d'Ars.

Desideriamo tutti ringraziare Cristo, il Principe dei Pastori, per il modello straordinario di vita e di servizio sacerdotale, che il Santo Curato presenta a tutta la Chiesa ed innanzitutto a noi sacerdoti.

Quanti tra noi si sono preparati al sacerdozio, o esercitano oggi il loro difficile compito di parroci, tenendo sotto gli occhi la figura di San Giovanni Maria Vianney! Il suo esempio non può cadere nell'oblio. Noi abbiamo più che mai bisogno della sua testimonianza, della sua intercessiome per affrontare le situazioni del nostro tempo, nel quale, nonostante un certo numero di segni di speranza, l'evangelizzazione è contrastata da una laicizzazione crescente, nel quale inoltre si trascura l'ascesi soprannaturale, molti perdono di vista le prospettive del Regno di Dio e spesso, anche nella pastorale, ci si preoccupa troppo esclusivamente dell'aspetto sociale e degli obiettivi temporali. Il Curato d'Ars ha dovuto affrontare, nel secolo scorso, difficoltà che avevano forse un altro modo di presentarsi, ma che non erano meno grandi. Con la vita e con l'azione, egli ha costituito, per la società del suo tempo, come una grande sfida evangelica, che ha portato mirabili frutti di conversione. Non v'è dubbio che egli presenti anche oggi per noi tale grande sfida evangelica.

Vi invito dunque a meditare sul nostro sacerdozio davanti a questo pastore straordinario, che ha illustrato il pieno compimento del ministero sacerdotale ed insieme la santità del ministro.

Voi sapete che Giovanni Maria Battista Vianney è morto ad Ars il 4 agosto 1859, dopo una quarantina d'anni di estenuante dedizione. Aveva settantatré anni. Al suo arrivo, Ars era un'oscura borgata della diocesi di Lione, oggi di Belley. Alla fine della sua vita, vi si accorreva da tutta la Francia, e la sua fama di santità, dopo la sua morte, attirò subito l'attenzione della Chiesa universale. San Pio X lo beatificò nel 1905; Pio XI lo canonizzò nel 1925, e poi, nel 1929, lo dichiarò Patrono dei parroci di tutto il mondo. Nel centenario della sua morte, Papa Giovanni XXIII scrisse l'Enciclica «Sacerdotii nostri primordia» per presentare il Curato d'Ars come modello di vita e d'ascesi sacerdotali, modello di pietà e di culto eucaristico, modello di zelo pastorale, e ciò nel contesto dei bisogni del nostro tempo. Qui vorrei soltanto attirare la vostra attenzione su alcuni aspetti essenziali che ci aiutano a riscoprire e a vivere meglio il nostro sacerdozio.

La sua volontà tenace di prepararsi al sacerdozio

3. Il Curato d'Ars è innanzitutto un modello di volontà per coloro che si preparano al sacerdozio. Il susseguirsi di molte prove avrebbe potuto scoraggiarlo: gli effetti della tormenta rivoluzionaria, la mancanza d'istruzione del suo ambiente rurale, la reticenza di suo padre, la necessità di contribuire al lavoro dei campi, i rischi del servizio militare, e soprattutto, malgrado la sua intelligenza intuitiva e la sua viva sensibilità, la grande difficoltà ad apprendere e a memorizzare, e dunque a seguire i corsi di teologia e di latino, ed infine, per questa ragione, una dimissione dal seminario di Lione. Essendo stata tuttavia riconosciuta l'autenticità della sua vocazione, a 29 anni egli poté essere ordinato sacerdote. Con tenacia nel lavoro e nella preghiera, trionfò su tutti gli ostacoli e i limiti, così allora come più tardi, quando, durante la vita sacerdotale, preparava laboriosamente i suoi sermoni o portava avanti, la sera, la lettura di opere di teologi e di autori spirituali. Fin dalla giovinezza era animato da un grande desiderio di «guadagnare le anime al buon Dio» come sacerdote, ed era sostenuto dalla fiducia del vicino parroco d'Ecully, il quale, non dubitando della sua vocazione, si incaricò di una buona parte della sua preparazione. Quale esempio di coraggio per coloro che, oggi, conoscono la grazia di essere chiamati al sacerdozio!

La profondità del suo amore per Cristo e per le anime

4. Il Curato d'Ars è un modello di zelo sacerdotale per tutti i pastori. Il segreto della sua generosità si trova senza dubbio nel suo amore a Dio, vissuto senza misura, in costante risposta all'amore manifestato nel Cristo crocifisso.

Egli fonda lì il suo desiderio di fare di tutto per salvare le anime, riscattate da Cristo ad un prezzo così grande, e ricondurle all'amore di Dio. Ricordiamo una delle frasi lapidarie di cui egli aveva il segreto: «Il sacerdozio è l'amore del Cuore di Gesù». Egli tornava sempre nei suoi sermoni e nelle catechesi su questo amore: «O mio Dio preferisco morire amandovi, che vivere un solo istante senza amarvi. ...Vi amo, o mio divin Salvatore, perché siete stato crocifisso per me, ...perché mi tenete crocifisso per voi» (Nodet, p. 44).

A causa di Cristo, egli cerca di conformarsi pienamente alle esigenze radicali che Gesù propone nel Vangelo ai discepoli che Egli invia in missione: preghiera, povertà, umiltà, rinuncia a se stessi, penitenza volontaria. E, come Cristo, anch'egli prova per le sue pecorelle un amore che lo conduce ad un'estrema dedizione pastorale e al sacrificio di sé. Raramente un pastore è stato tanto cosciente delle sue responsabilità, divorato dal desiderio di strappare i suoi fedeli al peccato o alla tiepidezza. «O mio Dio, concedetemi la conversione della mia parrocchia: accetto di soffrire ciò che voi vorrete, per tutto il tempo della mia vita».

Cari fratelli sacerdoti, alimentati dal Concilio Vaticano II, che ha felicemente situato la consacrazione del prete nel quadro della sua missione pastorale, cerchiamo il dinamismo del nostro zelo pastorale, con San Giovanni Maria Vianney, nel Cuore di Gesù, nel suo amore per le anime. Se noi non attingiamo alla medesima sorgente, il nostro ministero rischierà di portare ben pochi frutti!

I mirabili e molteplici frutti del suo ministero

5. Nel caso del Curato d'Ars i frutti sono stati stupefacenti, un po' come per Gesù nel Vangelo. A Giovanni Maria Vianney, che gli consacra tutte le forze e tutto il cuore, il Salvatore, in certo modo, dona le anime. Gliele affida, a profusione.

Innanzitutto la sua parrocchia - che al suo arrivo contava soltanto 230 persone - sarà profondamente trasformata. E' un fatto che, in quel villaggio, c'era parecchia indifferenza ed assai poca pratica religiosa tra gli uomini. Il Vescovo aveva così avvertito Giovanni Maria Vianney: «Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia: voi ve lo porterete». Ma abbastanza presto, ben al di là del suo villaggio, il Curato diventa pastore di una moltitudine che giunge da tutta la regione, da diverse parti della Francia e da altri Paesi. Si parla di 80.000 per l'anno 1858! Si attende a volte per parecchi giorni prima di incontrarlo e di confessarsi. Ciò che attira, non è tanto la curiosità e neppure lo giustficata fama dei suoi miracoli e delle guarigioni straordinarie, che il Santo per altro vorrebbe nascondere. E' ben più il presentimento d'incontrare un Santo, sorprendente per la sua penitenza, così familiare con Dio nella preghiera, straordinario per la sua pace e la sua umiltà in mezzo ai successi popolari, e soprattutto così perspicace nel corrispondere alle disposizioni interiori delle anime e nel liberarle dai loro pesi, soprattutto al confessionale. Sì, Dio ha scelto come modello per i pastori uno che poteva apparire agli occhi degli uomini povero, debole, senza difesa e spregevole (cfr. 1Cor 1,27-29). Egli lo ha gratificato dei suoi doni migliori quale guida e medico delle anime.

Pur riconoscendo una grazia particolare concessa al Curato d'Ars, non abbiamo qui il segno di una speranza per i pastori che soffrono oggi di un certo deserto spirituale?

Le diverse iniziative apostoliche orientate verso l'essenziale

6. Giovanni Maria Vianney si consacrava essenzialmente all'insegnamento della fede, alla purificazione delle coscienze, e questi due ministeri convergevano verso l'Eucaristia. Non bisogna vedere in ciò anche oggi i tre poli del servizio pastorale del sacerdote? Se lo scopo è certamente quello di radunare il popolo di Dio attorno al mistero eucaristico per mezzo della catechesi e della penitenza, altri contatti apostolici, a seconda delle circostanze, sono pure necessari: a volte è una semplice presenza, forse per lunghi anni, con la testimonianza silenziosa della fede negli ambienti non cristiani; o anche la vicinanza alle persone, alle famiglie ed alle loro preoccupazioni; a volte è un primo annuncio che si sforza di risvegliare alla fede gli increduli e i tiepidi; può essere pure la testimonianza di carità e di giustizia condivisa con i laici cristiani, così da rendere più credibile la fede mettendola in pratica. Di qui tutta una serie di attività o di opere apostoliche, che preparano o continuano la formazione cristiana. Lo stesso Curato d'Ars si studiò di prendere delle iniziative adatte al suo tempo ed ai suoi parrocchiani. Tuttavia, tutte le sue attività sacerdotali erano centrate sull'Eucaristia, la catechesi ed il sacramento della riconciliazione.

Il sacramento della riconciliazione

7. E' certamente la sua instancabile dedizione al sacramento della penitenza, ciò che ha rivelato il carisma principale del Curato d'Ars ed ha creato a giusto titolo la sua fama. E' bene che un tale esempio ci porti oggi a ridare al ministero della riconciliazione tutta quella importanza che gli spetta e che il Sinodo dei Vescovi del 1983 ha così giustamente messo in evidenza.

Senza il cammino di conversione, di penitenza e di richiesta di perdono che i ministri della Chiesa devono instancabilmente incoraggiare ed accogliere, il tanto desiderato aggiornamento è destinato a restare superficiale ed illusorio.

Il Curato d'Ars si preoccupava innanzitutto di formare i fedeli al desiderio del pentimento. Sottolineava la bellezza del perdono divino. Tutta la sua vita sacerdotale e le sue forze non erano forse consacrate alla conversione dei peccatori? Ebbene, è nel confessionale che si manifestava soprattutto la misericordia di Dio. Egli pertanto non intendeva sottrarsi ai penitenti che venivano da ogni parte e ai quali consacrava spesso dieci ore al giorno, a volte quindici o anche più. Per lui questa era senza dubbio la più grande delle pratiche ascetiche, un «martirio»: fisicamente, innanzitutto, nel caldo, nel freddo o nell'atmosfera soffocante; ed anche moralmente, perché soffriva egli stesso per i peccati accusati e più ancora per la mancanza di pentimento: «Piango per ciò per cui voi non piangete». Accanto a questi indifferenti, che egli accoglieva come meglio poteva e che tentava di svegliare all'amore di Dio, il Signore gli concedeva di riconciliare dei grandi peccatori pentiti, e anche di guidare verso la perfezione anime che ne avevano il vivo desiderio. Era soprattutto qui che Dio gli domandava di partecipare alla Redenzione.

Noi oggi abbiamo riscoperto, meglio che nel secolo scorso, l'aspetto comunitario della penitenza, della preparazione al perdono, e dell'azione di grazie dopo il perdono. Ma il perdono sacramentale richiederà sempre un incontro personale col Cristo crocifisso attraverso la mediazione del suo ministro. Spesso, purtroppo, i penitenti non si accalcano con fervore attorno al confessionale, come ai tempi del Curato d'Ars. Ora, il fatto stesso che un gran numero di essi, per varie ragioni, sembra astenersi totalmente dalla confessione, è segno che è urgente sviluppare tutta una pastorale del sacramento della penitenza, portando incessantemente i cristiani a riscoprire le esigenze di una vera relazione con Dio, il senso del peccato, per il quale ci si chiude all'Altro e agli altri, la necessità di convertirsi e di ricevere, per il tramite della Chiesa, il perdono come dono gratuito di Dio e, infine, le condizioni che permettono di ben celebrare il sacramento, superando i pregiudizi a suo riguardo, i falsi timori e la prassi abitudinaria. Una tale situazione richiede nel medesimo tempo che noi rimaniamo assai disponibili per questo ministero del perdono, pronti a dedicarvi il tempo e la cura necessari, ed anzi, dirò di più, a dargli la priorità rispetto ad altre attività. I fedeli comprenderanno così il valore che, sull'esempio del Curato d'Ars, noi gli conferiamo.

Certo, come scrivevo nell'Esortazione post-sinodale sulla penitenza, il ministero della riconciliazione resta senza dubbio il più difficile e il più delicato, il più faticoso e il più esigente, soprattutto quando i sacerdoti sono pochi. Esso suppone anche, nel confessore, delle grandi qualità umane, e soprattutto una vita spirituale intensa e sincera; è necessario che il sacerdote ricorra egli stesso regolarmente a quel sacramento.

Siatene sempre convinti, cari fratelli sacerdoti: questo ministero della misericordia è uno dei più belli e dei più consolanti. Vi permette di illuminare le coscienze, di perdonarle e di ridare loro vigore nel nome del Signore Gesù, di essere per loro medici e consiglieri spirituali; esso resta «la insostituibile manifestazione e verifica del sacerdozio ministeriale».

Eucaristia: oblazione della Messa, comunione, adorazione

8. I due sacramenti della riconciliazione e dell'Eucaristia sono strettamente uniti fra loro. Senza una conversione costantemente rinnovata e l'accoglienza della grazia sacramentale del perdono, la partecipazione all'Eucaristia non potrebbe pervenire alla piena efficacia redentrice. Come Cristo cominciò il suo ministero col «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), così il Curato d'Ars iniziava generalmente ognuna delle sue giornate col ministero del perdono. Ma egli era felice di orientare i suoi penitenti riconciliati verso l'Eucaristia.

L'Eucaristia era veramente al centro della sua vita spirituale e della sua pastorale. Diceva: «Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché esse sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio» (Nodet, p. 108). E' lì che è reso presente il sacrificio del Calvario per la Redenzione del mondo. Evidentemente, il sacerdote deve unire il dono quotidiano di se stesso all'oblazione della Messa: «Un prete fa dunque bene ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!» (Nodet, p. 107). «La Santa Comunione ed il Santo Sacrificio della Messa sono i due atti più efficaci per ottenere la conversione dei cuori» (Nodet, p. 110).

La Messa era inoltre per Giovanni Maria Vianney la grande gioia ed il conforto della sua vita di sacerdote. Egli metteva grande impegno, malgrado l'afflusso dei penitenti, a prepararvisi silenziosamente per più di un quarto d'ora. Celebrava con raccoglimento, esprimendo chiaramente la sua adorazione nei momenti della Consacrazione e della Comunione. Con realismo egli osservava: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non si fa attenzione alla Messa!» (Nodet, p. 105).

Il Curato d'Ars era particolarmente colpito dalla permanenza della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia. Era solitamente davanti al tabernacolo ch'egli passava lunghe ore d'adorazione, prima dell'alba o alla sera; verso di esso si volgeva spesso durante le sue omelie dicendo con emozione: «Egli è là!». E' ancora per questo motivo che lui, così povero nella sua canonica, non esitava a spendere molto per abbellire la sua chiesa. Apprezzabile risultato fu il fatto che i suoi parrocchiani presero presto l'abitudine di venire a pregare davanti al SS. Sacramento, scoprendo, attraverso il comportamento del loro Curato, la grandezza del Mistero della fede.

In merito ad una tale testimonianza, pensiamo a ciò che il Concilio Vaticano II ci dice oggi a proposito dei sacerdoti: «E' nel culto eucaristico che si esercita soprattutto il loro ministero sacro». Ed assai di recente, il Sinodo straordinario (dicembre 1985) ricordava: «La liturgia deve favorire e far risplendere il senso del sacro. Deve essere impregnata di riverenza, di adorazione e di glorificazione di Dio... L'Eucaristia è la sorgente ed il culmine di tutta la vita cristiana».

Cari fratelli sacerdoti, l'esempio del Curato d'Ars ci invita ad un serio esame di coscienza. Quale posto diamo, nella nostra vita quotidiana, alla Messa? Resta essa come nel giorno della nostra ordinazione - fu il nostro primo atto di sacerdoti! -, il principio della nostra azione apostolica e della nostra santificazione personale? Quale cura mettiamo nel prepararci ad essa? Nel celebrarla? Nel pregare davanti al SS. Sacramento? Nel condurvi i nostri fedeli? Nel fare delle nostre chiese la Casa di Dio, verso la quale la presenza divina attira i nostri contemporanei che hanno troppo spesso l'impressione di un mondo vuoto di Dio?

La predicazione e la catechesi

9. Il Curato d'Ars teneva ancora a non trascurare in nulla il ministero della Parola, assolutamente necessario per predisporre alla fede ed alla conversione. Giungeva fino a dire: «Nostro Signore, che è la stessa verità non fa minor conto della sua Parola che del suo Corpo» (Nodet, p. 126). Si sa il tempo che egli dedicava, soprattutto agli inizi, nel preparare laboriosamente le prediche della domenica. In seguito, egli giunse ad esprimersi più spontaneamente, sempre con una convinzione viva, chiara, con immagini e paragoni tratti dall'esperienza quotidiana, assai suggestivi per i fedeli. Anche le sue catechesi ai fanciulli costituivano una parte importante del suo ministero, e gli adulti si univano volentieri ai fanciulli per approfittare di quella testimonianza senza pari, che sgorgava dal cuore.

Aveva il coraggio di denunciare il male in tutte le sue forme; senza condiscendenza, poiché ne andava della salvezza eterna dei suoi fedeli: «Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime rovinarsi, guai a lui!».

Il ministero specifico del sacerdote

10. San Giovanni Maria Vianney offre una risposta eloquente a talune rimesse in discussione della identità del sacerdote, che si sono manifestate nel corso degli ultimi vent'anni. Ora tuttavia sembra che si stia arrivando a posizioni più equilibrate.

Il sacerdote trova sempre, ed in maniera immutabile, la sorgente della sua identità in Cristo Sacerdote. Non è il mondo a fissare il suo statuto, secondo i bisogni o le concezioni dei ruoli sociali. Il prete è segnato dal sigillo del Sacerdozio di Cristo, per partecipare alla sua funzione d'unico Mediatore e Redentore.

A causa appunto di questo legame fondamentale, si apre al sacerdote il campo immenso del servizio alle anime, per la loro salvezza nel Cristo e nella Chiesa. Un servizio che dev'essere completamente ispirato dall'amore per le anime, a somiglianza di Cristo che offre per loro la sua vita. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, che nessuno di quei piccoli si perda (cfr. Mt 18,14). «Il sacerdote dev'essere sempre pronto a rispondere ai bisogni delle anime», diceva il Curato d'Ars (Nodet, p. 101). «Egli non è per sé; è per voi» (Nodet, p. 102).

Il sacerdote è per i laici: egli li anima e sostiene nell'esercizio del sacerdozio comune dei battezzati - messo così bene in rilievo dal Concilio Vaticano II -, e che consiste nel fare della vita un'offerta spirituale, nel render testimonianza allo spirito cristiano nella famiglia, nel farsi carico degli impegni temporali, e nel partecipare alla evangelizzazione dei fratelli. Tuttavia, il servizio del sacerdote è di un altro ordine. Egli è ordinato per agire nel nome di Cristo-Capo, per far entrare gli uomini nella vita nuova inaugurata da Cristo, per renderli partecipi dei suoi misteri - Parola, perdono, pane di vita -, per radunarli nel suo Corpo, per aiutarli a formarsi dall'interno, a vivere e ad agire secondo il disegno salvifico di Dio. In sintesi, la nostra identità di preti si manifesta nel dispiegamento «creativo» dell'amore per le anime comunicato da Cristo Gesù.

I tentativi di laicizzazione del sacerdote sono dannosi per la Chiesa. Ciò non significa affatto che il prete possa restare lontano dalle preoccupazioni umane dei laici: deve esservi vicinissimo, come Giovanni Maria Vianney, ma da prete, sempre in una prospettiva che sia quella della loro salvezza e del progresso del Regno di Dio. Egli è il testimone ed il dispensatore di una vita diversa da quella terrena.

E' essenziale per la Chiesa che la identità del sacerdote sia salvaguardata, con la sua dimensione verticale. La vita e la personalità del Curato d'Ars ne sono una illustrazione particolarmente illuminante e vigorosa.

La sua intima configurazione a Cristo e la sua solidarietà con i peccatori

11. San Giovanni Maria Vianney non si è di fatto accontentato di compiere ritualmente gli atti del suo ministero. E' il proprio cuore e la propria vita ch'egli cercava di conformare a Cristo.

La preghiera era l'anima della sua vita: preghiera silenziosa, contemplativa, generalmente nella sua chiesa, ai piedi del tabernacolo. Attraverso il Cristo, la sua anima sia priva alle Tre Persone divine, alle quali egli nel testamento, consegnerà la «sua povera anima». «Conservava un'unione costante con Dio nel mezzo della sua vita estremamente occupata». E non trascurava né Ufficio divino né Rosario.

Si volgeva spontaneamente verso la Vergine.

La sua povertà era straordinaria.

Si spogliava letteralmente per i poveri. E fuggiva gli onori. La castità brillava nel suo sguardo. Conosceva il prezzo della purezza per «ritrovare la sorgente dell'amore che è Dio». L'obbedienza a Cristo si traduceva, per Giovanni Maria Vianney, nell'obbedienza alla Chiesa e specialmente al Vescovo. S'incarnava nell'accettazione del pesante incarico di parroco, che spesso lo spaventava.

Ma il Vangelo insiste soprattutto sulla rinuncia di sé, sull'accettazione della croce. Molte croci si presentarono al Curato d'Ars nel corso del suo ministero: calunnie della gente, incomprensioni di un vicario o dei confratelli, contraddizioni, ed anche una lotta misteriosa contro le potenze infernali, ed a volte persino la tentazione della disperazione nel mezzo di una notte dello spirito.

Tuttavia, egli non si accontentava di accettare queste prove senza lamentarsi: andava incontro alla mortificazione, sottoponendosi a continui digiuni e a ben altre rudi maniere di «ridurre il suo corpo in servitù», come dice san Paolo.

Ma ciò che bisogna veder bene in questa penitenza, della quale purtroppo il nostro secolo ha perso l'abitudine, sono i motivi: l'amore di Dio e la conversione dei peccatori. Così egli interpella un confratello scoraggiato: «Avete pregato..., siete uscito in gemiti..., ma avete digiunato, avete vegliato?...» (Nodet, p. 193).

Si raggiunge qui l'ammonimento di Gesù agii Apostoli: «Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno» (Mt 17,21).

In definitiva, Giovanni Maria Vianney si santificava per essere più atto a santificare gli altri. Certo, la conversione resta il segreto dei cuori, liberi della loro decisione, e il segreto della grazia di Dio. Col suo ministero, il sacerdote non può che illuminare le persone, guidarle al confessionale e donar loro i sacramenti. Questi sacramenti sono sì atti di Cristo, la cui efficacia non è diminuita dall'imperfezione o dall'indegnità del ministro. Ma il risultato dipende anche dalle disposizioni di colui che li riceve, e queste sono grandemente favorite dalla santità personale del sacerdote, dalla sua comprovata testimonianza, come anche dal misterioso scambio di meriti nella comunione dei santi. San Paolo diceva: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Giovanni Maria Vianney voleva in qualche modo strappare a Dio le grazie di conversione, non soltanto con la sua preghiera, ma col sacrificio di tutta la sua vita. Voleva amare Dio per coloro che non l'amavano e persino compiere in gran parte la penitenza che essi non facevano.

Era veramente il pastore solidale col suo popolo peccatore.

Cari fratelli sacerdoti, non temiamo questo coinvolgimento personale - segnato dall'ascesi ed ispirato dall'amore - che Dio ci chiede per esercitare bene il nostro sacerdozio. Ricordiamoci della recente riflessione dei Padri sinodali: «Sembra che nelle difficoltà attuali Dio voglia insegnarci più profondamente il valore, l'importanza ed il ruolo centrale della croce di Gesù Cristo». Nel sacerdote, il Cristo rivive la sua Passione per le anime. Rendiamo grazie a Dio, che ci permette così di partecipare alla Redenzione nel nostro cuore e nella nostra carne!

Per tutte queste ragioni San Giovanni Maria Vianney non cessa di essere un testimone, sempre vivo, sempre attuale, della verità sulla vocazione e sul servizio sacerdotale. Ci si ricordi del tono convinto col quale egli ha saputo parlare della grandezza del sacerdote e della sua assoluta necessità. I sacerdoti, coloro che si preparano al sacerdozio e coloro che vi saranno chiamati hanno bisogno di fissare lo sguardo sul suo esempio e di seguirlo. I fedeli stessi percepiranno meglio, grazie a lui, il mistero del sacerdozio dei loro sacerdoti. No, la figura del Curato d'Ars non tramonta!

Cari fratelli sacerdoti, voi siete ben convinti dell'importanza dell'annuncio del Vangelo, che il Concilio Vaticano II ha messo al primo posto tra le funzioni del sacerdote. Voi vi sforzate, mediante la catechesi, la predicazione e sotto altre forme che si avvalgono anche dei Mass-media, di arrivare al cuore dei nostri contemporanei, con le loro attese e le loro incertezze, per suscitare e nutrire la fede. Come il Curato d'Ars e secondo l'esortazione del Concilio, dedicatevi ad insegnare la Parola di Dio in se stessa, la quale chiama gli uomini alla conversione ed alla santità.

Conclusione: per il Giovedì Santo

12. Cari fratelli possano queste riflessioni ravvivare la vostra gioia d'essere sacerdoti, il vostro desiderio di esserlo più profondamente! La testimonianza del Curato d'Ars contiene ancora molte altre ricchezze da approfondire. Torneremo più ampiamente su questi temi in occasione del pellegrinaggio che io stesso avrò la gioia di compiere nell'ottobre prossimo ad Ars per onorare il secondo centenario della nascita di Giovanni Maria Vianney.

Vi invio questa prima meditazione, cari fratelli, per la solennità del Giovedi Santo. In ciascuna delle nostre comunità diocesane ci riuniremo, in quel giorno della nascita del nostro sacerdozio, per rinnovare la grazia del sacramento dell'Ordine, per ravvivare l'amore che caratterizza la nostra vocazione. Ascoltiamo Cristo che ripete a noi come agli Apostoli: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici... Non vi chiamo più servi..., vi ho chiamati amici» (Gv 15,13-15).

Davanti a Colui che manifesta l'Amore nella sua pienezza, noi rinnoviamo i nostri impegni sacerdotali, Sacerdoti e Vescovi.

Preghiamo gli uni per gli altri, ciascuno per il suo fratello, e ognuno per tutti.

Chiediamo al Sacerdote eterno che il ricordo del Curato d'Ars ci aiuti a ravvivare il nostro zelo al suo servizio.

Supplichiamo lo Spirito Santo di chiamare a servizio della Chiesa molti sacerdoti della tempra e della santità del Curato d'Ars: anche nella nostra epoca ne ha un grande bisogno, e non è meno capace di far sbocciare tali vocazioni.

E noi affidiamo il nostro sacerdozio alla Vergine Maria, Madre dei sacerdoti, alla quale Giovanni Maria Vianney ricorreva incessantemente con tenero affetto e totale fiducia. Era questo, per lui, un motivo in più per ringraziare: «Gesù Cristo - diceva - dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire la sua Santa Madre» (Nodet, p. 252). Da parte mia, vi confermo tutto il mio affetto e, col vostro Vescovo, vi invio la mia Benedizione Apostolica.
  • Dal Vaticano, il 16 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 1986 ottavo di Pontificato
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 19, 2010 7:04 pm


  • La "lectio divina" del Vescovo di Roma al suo clero nel Giovedì dopo le Ceneri
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Eminenza,
cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,

è una tradizione molto gioiosa e anche importante per me poter iniziare la Quaresima sempre con il mio Presbiterio, i Presbiteri di Roma. Così, come Chiesa locale di Roma, ma anche come Chiesa universale, possiamo intraprendere questo cammino essenziale con il Signore verso la Passione, verso la Croce, il cammino pasquale.

Quest’anno vogliamo meditare i passi della Lettera agli Ebrei ora letti. L’Autore di tale Lettera ha aperto una nuova strada per capire l’Antico Testamento come libro che parla su Cristo. La tradizione precedente aveva visto Cristo soprattutto, essenzialmente, nella chiave della promessa davidica, del vero Davide, del vero Salomone, del vero Re di Israele, vero Re perché uomo e Dio. E l’iscrizione sulla Croce aveva realmente annunciato al mondo questa realtà: adesso c’è il vero Re di Israele, che è il Re del mondo, il Re dei Giudei sta sulla Croce. E’ una proclamazione della regalità di Gesù, dell’adempimento dell’attesa messianica dell’Antico Testamento, la quale, nel fondo del cuore, è un’attesa di tutti gli uomini che aspettano il vero Re, che dà giustizia, amore e fraternità.

Ma l’Autore della Lettera agli Ebrei ha scoperto una citazione che fino a quel momento non era stata notata: Salmo 110,4 - “tu sei sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek”. Ciò significa che Gesù non solo adempie la promessa davidica, l’aspettativa del vero Re di Israele e del mondo, ma realizza anche la promessa del vero Sacerdote. In parte dell’Antico Testamento, soprattutto anche in Qumran, vi sono due linee separate di attesa: il Re e il Sacerdote. L’Autore della Lettera agli Ebrei, scoprendo questo versetto, ha capito che in Cristo sono unite le due promesse: Cristo è il vero Re, il Figlio di Dio – secondo il Salmo 2,7 che egli cita – ma è anche il vero Sacerdote.

Così tutto il mondo cultuale, tutta la realtà dei sacrifici, del sacerdozio, che è alla ricerca del vero sacerdozio, del vero sacrificio, trova in Cristo la sua chiave, il suo adempimento e, con questa chiave, può rileggere l’Antico Testamento e mostrare come proprio anche la legge cultuale, che dopo la distruzione del Tempio è abolita, in realtà andava verso Cristo; quindi, non è semplicemente abolita, ma rinnovata, trasformata, poiché in Cristo tutto trova il suo senso. Il sacerdozio appare allora nella sua purezza e nella sua verità profonda.

In questo modo, la Lettera agli Ebrei presenta il tema del sacerdozio di Cristo, Cristo sacerdote, su tre livelli: il sacerdozio di Aronne, quello del Tempio; Melchisedek; e Cristo stesso, come il vero sacerdote. Anche il sacerdozio di Aronne, pur essendo differente da quello di Cristo, pur essendo, per così dire, solo una ricerca, un camminare in direzione di Cristo, comunque è “via” verso Cristo, e già in questo sacerdozio si delineano gli elementi essenziali. Poi Melchisedek - ritorneremo su questo punto – che è un pagano. Il mondo pagano entra nell’Antico Testamento, entra in una figura misteriosa, senza padre, senza madre - dice la Lettera agli Ebrei -, appare semplicemente, e in lui appare la vera venerazione del Dio Altissimo, del Creatore del cielo e della terra. Così anche dal mondo pagano viene l’attesa e la prefigurazione profonda del mistero di Cristo. In Cristo stesso tutto è sintetizzato, purificato e guidato al suo termine, alla sua vera essenza.

Vediamo ora i singoli elementi, per quanto è possibile, circa il sacerdozio. Dalla Legge, dal sacerdozio di Aronne impariamo due cose, ci dice l’autore della Lettera agli Ebrei: un sacerdote per essere realmente mediatore tra Dio e l’uomo, deve essere uomo. Questo è fondamentale e il Figlio di Dio si è fatto uomo proprio per essere sacerdote, per poter realizzare la missione del sacerdote. Deve essere uomo – ritorneremo su questo punto –, ma non può da se stesso farsi mediatore verso Dio. Il sacerdote ha bisogno di un’autorizzazione, di un’istituzione divina e solo appartenendo alle due sfere – quella di Dio e quella dell’uomo – può essere mediatore, può essere “ponte”. Questa è la missione del sacerdote: combinare, collegare queste due realtà apparentemente così separate, cioè il mondo di Dio - lontano da noi, spesso sconosciuto all’uomo - e il nostro mondo umano. La missione del sacerdozio è di essere mediatore, ponte che collega, e così portare l’uomo a Dio, alla sua redenzione, alla sua vera luce, alla sua vera vita.

Come primo punto, quindi, il sacerdote deve essere dalla parte di Dio, e solamente in Cristo questo bisogno, questa condizione della mediazione è realizzata pienamente. Perciò era necessario questo Mistero: il Figlio di Dio si fa uomo perché ci sia il vero ponte, ci sia la vera mediazione. Gli altri devono avere almeno un’autorizzazione da Dio o, nel caso della Chiesa, il Sacramento, cioè introdurre il nostro essere nell’essere di Cristo, nell’essere divino. Solo con il Sacramento, questo atto divino che ci crea sacerdoti nella comunione con Cristo, possiamo realizzare la nostra missione. E questo mi sembra un primo punto di meditazione per noi: l’importanza del Sacramento. Nessuno si fa sacerdote da se stesso; solo Dio può attirarmi, può autorizzarmi, può introdurmi nella partecipazione al mistero di Cristo; solo Dio può entrare nella mia vita e prendermi in mano. Questo aspetto del dono, della precedenza divina, dell’azione divina, che noi non possiamo realizzare, questa nostra passività - essere eletti e presi per mano da Dio - è un punto fondamentale nel quale entrare. Dobbiamo ritornare sempre al Sacramento, ritornare a questo dono nel quale Dio mi dà quanto io non potrei mai dare: la partecipazione, la comunione con l’essere divino, col sacerdozio di Cristo.

Rendiamo questa realtà anche un fattore pratico della nostra vita: se è così, un sacerdote deve essere realmente un uomo di Dio, deve conoscere Dio da vicino, e lo conosce in comunione con Cristo. Dobbiamo allora vivere questa comunione e la celebrazione della Santa Messa, la preghiera del Breviario, tutta la preghiera personale, sono elementi dell’essere con Dio, dell’essere uomini di Dio. Il nostro essere, la nostra vita, il nostro cuore devono essere fissati in Dio, in questo punto dal quale non dobbiamo uscire, e ciò si realizza, si rafforza giorno per giorno, anche con brevi preghiere nelle quali ci ricolleghiamo con Dio e diventiamo sempre più uomini di Dio, che vivono nella sua comunione e possono così parlare di Dio e guidare a Dio.

L’altro elemento è che il sacerdote deve essere uomo. Uomo in tutti i sensi, cioè deve vivere una vera umanità, un vero umanesimo; deve avere un’educazione, una formazione umana, delle virtù umane; deve sviluppare la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sentimenti, i suoi affetti; deve essere realmente uomo, uomo secondo la volontà del Creatore, del Redentore, perché sappiamo che l’essere umano è ferito e la questione di “che cosa sia l’uomo” è oscurata dal fatto del peccato, che ha leso la natura umana fino nelle sue profondità. Così si dice: “ha mentito”, “è umano”; “ha rubato”, “è umano”; ma questo non è il vero essere umano. Umano è essere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia, della prudenza vera, della saggezza. Quindi uscire, con l’aiuto di Cristo, da questo oscuramento della nostra natura per giungere al vero essere umano ad immagine di Dio, è un processo di vita che deve cominciare nella formazione al sacerdozio, ma che deve realizzarsi poi e continuare in tutta la nostra esistenza. Penso che le due cose vadano fondamentalmente insieme: essere di Dio e con Dio ed essere realmente uomo, nel vero senso che ha voluto il Creatore plasmando questa creatura che siamo noi.

Essere uomo: la Lettera agli Ebrei fa una sottolineatura della nostra umanità che ci sorprende, perché dice: deve essere uno con “compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo rivestito di debolezza” (5,2) e poi - molto più forte ancora – “nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo da morte e per il suo pieno abbandono a Lui, venne esaudito” (5,7). Per la Lettera agli Ebrei elemento essenziale del nostro essere uomo è la compassione, è il soffrire con gli altri: questa è la vera umanità. Non è il peccato, perché il peccato non è mai solidarietà, ma è sempre desolidarizzazione, è un prendere la vita per me stesso, invece di donarla. La vera umanità è partecipare realmente alla sofferenza dell’essere umano, vuol dire essere un uomo di compassione – metriopathein, dice il testo greco – cioè essere nel centro della passione umana, portare realmente con gli altri le loro sofferenze, le tentazioni di questo tempo: “Dio dove sei tu in questo mondo?”.

Questa umanità del sacerdote non risponde all’ideale platonico e aristotelico, secondo il quale il vero uomo sarebbe colui che vive solo nella contemplazione della verità, e così è beato, felice, perché ha solo amicizia con le cose belle, con la bellezza divina, ma “i lavori” li fanno altri. Questa è una supposizione, mentre qui si suppone che il sacerdote entri come Cristo nella miseria umana, la porti con sé, vada alle persone sofferenti, se ne occupi, e non solo esteriormente, ma interiormente prenda su di sé, raccolga in se stesso la “passione” del suo tempo, della sua parrocchia, delle persone a lui affidate. Così Cristo ha mostrato il vero umanesimo. Certo il suo cuore è sempre fisso in Dio, vede sempre Dio, intimamente è sempre in colloquio con Lui, ma Egli porta, nello stesso tempo, tutto l’essere, tutta la sofferenza umana entra nella Passione. Parlando, vedendo gli uomini che sono piccoli, senza pastore, Egli soffre con loro e noi sacerdoti non possiamo ritirarci in un Elysium, ma siamo immersi nella passione di questo mondo e dobbiamo, con l’aiuto di Cristo e in comunione con Lui, cercare di trasformarlo, di portarlo verso Dio.

Proprio questo va detto, con il seguente testo realmente stimolante: “preghiere e suppliche offrì con forti grida e lacrime” (Eb 5,7). Questo non è solo un accenno all’ora dell’angoscia sul Monte degli Ulivi, ma è un riassunto di tutta la storia della passione, che abbraccia l’intera vita di Gesù. Lacrime: Gesù piangeva davanti alla tomba di Lazzaro, era realmente toccato interiormente dal mistero della morte, dal terrore della morte. Persone perdono il fratello, come in questo caso, la mamma e il figlio, l’amico: tutta la terribilità della morte, che distrugge l’amore, che distrugge le relazioni, che è un segno della nostra finitezza, della nostra povertà. Gesù è messo alla prova e si confronta fino nel profondo della sua anima con questo mistero, con questa tristezza che è la morte, e piange. Piange davanti a Gerusalemme, vedendo la distruzione della bella città a causa della disobbedienza; piange vedendo tutte le distruzioni della storia nel mondo; piange vedendo come gli uomini distruggono se stessi e le loro città nella violenza, nella disobbedienza.

Gesù piange, con forti grida. Sappiamo dai Vangeli che Gesù ha gridato dalla Croce, ha gridato: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34; cfr Mt 27,46), e ha gridato ancora una volta alla fine. E questo grido risponde ad una dimensione fondamentale dei Salmi: nei momenti terribili della vita umana, molti Salmi sono un forte grido a Dio: “Aiutaci, ascoltaci!”. Proprio oggi, nel Breviario, abbiamo pregato in questo senso: Dove sei tu Dio? “Siamo venduti come pecore da macello” (Sal 44,12). Un grido dell’umanità sofferente! E Gesù, che è il vero soggetto dei Salmi, porta realmente questo grido dell’umanità a Dio, alle orecchie di Dio: “Aiutaci e ascoltaci!”. Egli trasforma tutta la sofferenza umana, prendendola in se stesso, in un grido alle orecchie di Dio.

E così vediamo che proprio in questo modo realizza il sacerdozio, la funzione del mediatore, trasportando in sé, assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo, trasformandola in grido verso Dio, portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio, e così portandola realmente al momento della Redenzione.

In realtà la Lettera agli Ebrei dice che “offrì preghiere e suppliche”, “grida e lacrime” (5,7). E’ una traduzione giusta del verbo prospherein, che è una parola cultuale ed esprime l’atto dell’offerta dei doni umani a Dio, esprime proprio l’atto dell’offertorio, del sacrificio. Così, con questo termine cultuale applicato alle preghiere e lacrime di Cristo, dimostra che le lacrime di Cristo, l’angoscia del Monte degli Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua sofferenza non sono una cosa accanto alla sua grande missione. Proprio in questo modo Egli offre il sacrificio, fa il sacerdote. La Lettera agli Ebrei con questo “offrì”, prospherein, ci dice: questa è la realizzazione del suo sacerdozio, così porta l’umanità a Dio, così si fa mediatore, così si fa sacerdote.

Diciamo, giustamente, che Gesù non ha offerto a Dio qualcosa, ma ha offerto se stesso e questo offrire se stesso si realizza proprio in questa compassione, che trasforma in preghiera e in grido al Padre la sofferenza del mondo. In questo senso anche il nostro sacerdozio non si limita all’atto cultuale della Santa Messa, nel quale tutto viene messo nelle mani di Cristo, ma tutta la nostra compassione verso la sofferenza di questo mondo così lontano da Dio, è atto sacerdotale, è prospherein, è offrire. In questo senso mi sembra che dobbiamo capire ed imparare ad accettare più profondamente le sofferenze della vita pastorale, perché proprio questo è azione sacerdotale, è mediazione, è entrare nel mistero di Cristo, è comunicazione col mistero di Cristo, molto reale ed essenziale, esistenziale e poi sacramentale.

Una seconda parola in questo contesto è importante. Viene detto che Cristo così – tramite questa obbedienza – è reso perfetto, in greco teleiotheis (cfr Eb 5,8-9). Sappiamo che in tutta la Torah, cioè in tutta la legislazione cultuale, la parola teleion, qui usata, indica l’ordinazione sacerdotale. Cioè la Lettera agli Ebrei ci dice che proprio facendo questo Gesù è stato fatto sacerdote, si è realizzato il suo sacerdozio. La nostra ordinazione sacerdotale sacramentale va realizzata e concretizzata esistenzialmente, ma anche in modo cristologico, proprio in questo portare il mondo con Cristo e a Cristo e, con Cristo, a Dio: così diventiamo realmente sacerdoti, teleiotheis. Quindi il sacerdozio non è una cosa per alcune ore, ma si realizza proprio nella vita pastorale, nelle sue sofferenze e nelle sue debolezze, nelle sue tristezze ed anche nelle gioie, naturalmente. Così diventiamo sempre più sacerdoti in comunione con Cristo.

La Lettera agli Ebrei riassume, infine, tutta questa compassione nella parola hupakoen, obbedienza: tutto questo è obbedienza. E’ una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana. Invece della parola “obbedienza”, noi vogliamo come parola chiave antropologica quella di “libertà”. Ma considerando da vicino questo problema, vediamo che le due cose vanno insieme: l’obbedienza di Cristo è conformità della sua volontà con la volontà del Padre; è un portare la volontà umana alla volontà divina, alla conformazione della nostra volontà con la volontà di Dio.

San Massimo il Confessore, nella sua interpretazione del Monte degli Ulivi, dell’angoscia espressa proprio nella preghiera di Gesù, “non la mia, ma la tua volontà”, ha descritto questo processo, che Cristo porta in sé come vero uomo, con la natura, la volontà umana; in questo atto - “non la mia, ma la tua volontà” – Gesù riassume tutto il processo della sua vita, del portare, cioè, la vita naturale umana alla vita divina e in questo modo trasformare l’uomo: divinizzazione dell’uomo e così redenzione dell’uomo, perché la volontà di Dio non è una volontà tirannica, non è una volontà che sta fuori del nostro essere, ma è proprio la volontà creatrice, è proprio il luogo dove troviamo la nostra vera identità.

Dio ci ha creati e siamo noi stessi se siamo conformi con la sua volontà; solo così entriamo nella verità del nostro essere e non siamo alienati. Al contrario, l’alienazione si attua proprio uscendo dalla volontà di Dio, perché in questo modo usciamo dal disegno del nostro essere, non siamo più noi stessi e cadiamo nel vuoto. In verità, l’obbedienza a Dio, cioè la conformità, la verità del nostro essere, è la vera libertà, perché è la divinizzazione. Gesù, portando l’uomo, l’essere uomo, in sé e con sé, nella conformità con Dio, nella perfetta obbedienza, cioè nella perfetta conformazione tra le due volontà, ci ha redenti e la redenzione è sempre questo processo di portare la volontà umana nella comunione con la volontà divina. E’ un processo sul quale preghiamo ogni giorno: “sia fatta la tua volontà”. E vogliamo pregare realmente il Signore, perché ci aiuti a vedere intimamente che questa è la libertà, e ad entrare, così, con gioia in questa obbedienza e a “raccogliere” l’essere umano per portarlo – con il nostro esempio, con la nostra umiltà, con la nostra preghiera, con la nostra azione pastorale – nella comunione con Dio.

Continuando la lettura, segue una frase difficile da interpretare. L’Autore della Lettera agli Ebrei dice che Gesù ha pregato fortemente, con grida e lacrime, Dio che poteva salvarlo dalla morte, e, per il suo pieno abbandono, venne esaudito (cfr 5,7). Qui vorremmo dire: “No, non è vero, non è stato esaudito, è morto”. Gesù ha pregato di essere liberato dalla morte, ma non è stato liberato, è morto in modo molto crudele. Perciò il grande teologo liberale Harnack ha detto: “Qui manca un no”, deve essere scritto: “Non è stato esaudito” e Bultmann ha accettato questa interpretazione. Però questa è una soluzione che non è esegesi, ma è una violenza al testo. In nessuno dei manoscritti appare “non”, ma “è stato esaudito”; quindi dobbiamo imparare a capire che cosa significhi questo “essere esaudito”, nonostante la Croce.

Io vedo tre livelli per capire questa espressione. In un primo livello si può tradurre il testo greco così: “è stato redento dalla sua angoscia” e in questo senso, Gesù è esaudito. Sarebbe, quindi, un accenno a quanto ci racconta san Luca che “un angelo ha rafforzato Gesù” (cfr Lc 22,43), in modo che, dopo il momento dell’angoscia, potesse andare diritto e senza timore verso la sua ora, come ci descrivono i Vangeli, soprattutto quello di san Giovanni. Sarebbe l’esaudimento, nel senso che Dio gli dà la forza di portare tutto questo peso e così è esaudito. Ma a me sembra che sia una risposta non del tutto sufficiente. Esaudito in senso più profondo – Padre Vanhoye l’ha sottolineato – vuol dire: “è stato redento dalla morte”, ma non per il momento, per quel momento, ma per sempre, nella Risurrezione: la vera risposta di Dio alla preghiera di essere redento dalla morte è la Risurrezione e l’umanità viene redenta dalla morte proprio nella Risurrezione, che è la vera guarigione delle nostre sofferenze, del mistero terribile della morte.

Qui è già presente un terzo livello di comprensione: la Risurrezione di Gesù non è solo un avvenimento personale. Mi sembra che sia di aiuto tenere presente il breve testo nel quale san Giovanni, nel Capitolo 12 del suo Vangelo, presenta e racconta, in modo molto riassuntivo, il fatto del Monte degli Ulivi. Gesù dice: “La mia anima è turbata” (Gv 12, 27), e, in tutta l’angoscia del Monte degli Ulivi, che cosa dirò?: “O salvami da questa ora, o glorifica il tuo nome” (cfr Gv 12,27-28). E’ la stessa preghiera che troviamo nei Sinottici: “Se possibile salvami, ma sia fatta la tua volontà” (cfr Mt 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42), che nel linguaggio giovanneo appare appunto: “O salvami, o glorifica”. E Dio risponde: “Ti ho glorificato e ti glorificherò in futuro” (cfr Gv 12,28). Questa è la risposta, l’esaudire divino: glorificherò la Croce; è la presenza della gloria divina, perché è l’atto supremo dell’amore. Nella Croce, Gesù è elevato su tutta la terra e attira la terra a sé; nella Croce appare adesso il “Kabod”, la vera gloria divina del Dio che ama fino alla Croce e così trasforma la morte e crea la Resurrezione.

La preghiera di Gesù è stata esaudita, nel senso che realmente la sua morte diventa vita, diventa il luogo da dove redime l’uomo, da dove attira l’uomo a sé. Se la risposta divina in Giovanni dice: “ti glorificherò”, significa che questa gloria trascende e attraversa tutta la storia sempre e di nuovo: dalla tua Croce, presente nell’Eucaristia, trasforma la morte in gloria. Questa è la grande promessa che si realizza nella Santa Eucaristia, che apre sempre di nuovo il cielo. Essere servitore dell’Eucaristia è, quindi, profondità del mistero sacerdotale.

Ancora una breve parola, almeno su Melchisedek. E’ una figura misteriosa che entra in Genesi 14 nella storia sacra: dopo la vittoria di Abramo su alcuni Re, appare il Re di Salem, di Gerusalemme, Melchisedek, e porta pane e vino. Una storia non commentata e un po’ incomprensibile, che appare nuovamente solo nel salmo 110, come già detto, ma si capisce che poi l’Ebraismo, lo Gnosticismo e il Cristianesimo abbiano voluto riflettere profondamente su questa parola e abbiano creato le loro interpretazioni. La Lettera agli Ebrei non fa speculazione, ma riporta soltanto quanto dice la Scrittura e sono diversi elementi: è Re di giustizia, abita nella pace, è Re da dove è la pace, venera e adora il Dio Altissimo, il Creatore del cielo e della terra, e porta pane e vino (cfr Eb 7,1-3; Gen 14,18-20). Non viene commentato che qui appare il Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, Re della pace, che adora con pane e vino il Dio Creatore del cielo e della terra. I Padri hanno sottolineato che è uno dei santi pagani dell’Antico Testamento e ciò mostra che anche dal paganesimo c’è una strada verso Cristo e i criteri sono: adorare il Dio Altissimo, il Creatore, coltivare giustizia e pace, e venerare Dio in modo puro. Così, con questi elementi fondamentali, anche il paganesimo è in cammino verso Cristo, rende, in un certo modo, presente la luce di Cristo.

Nel canone romano, dopo la Consacrazione, abbiamo la preghiera supra quae, che menziona alcune prefigurazioni di Cristo, del suo sacerdozio e del suo sacrificio: Abele, il primo martire, con il suo agnello; Abramo, che sacrifica nell’intenzione il figlio Isacco, sostituito dall’agnello dato da Dio; e Melchisedek, Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, che porta pane e vino. Questo vuol dire che Cristo è la novità assoluta di Dio e, nello stesso tempo, è presente in tutta la storia, attraverso la storia, e la storia va incontro a Cristo. E non solo la storia del popolo eletto, che è la vera preparazione voluta da Dio, nella quale si rivela il mistero di Cristo, ma anche dal paganesimo si prepara il mistero di Cristo, vi sono vie verso Cristo, il quale porta tutto in sé.

Questo mi sembra importante nella celebrazione dell’Eucaristia: qui è raccolta tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo. Infine va detto che adesso è aperto il cielo, il culto non è più enigmatico, in segni relativi, ma è vero, perché il cielo è aperto e non si offre qualcosa, ma l’uomo diventa uno con Dio e questo è il vero culto. Così dice la Lettera agli Ebrei: “il nostro sacerdote sta alla destra del trono, del santuario, della vera tenda, che il Signore Dio stesso ha costruito” (cfr 8,1-2).

Ritorniamo al punto che Melchisedek è Re di Salem. Tutta la tradizione davidica si è richiamata a questo, dicendo: “Qui è il luogo, Gerusalemme è il luogo del vero culto, la concentrazione del culto a Gerusalemme viene già dai tempi abramici, Gerusalemme è il vero luogo della venerazione giusta di Dio”.

Facciamo un nuovo passo: la vera Gerusalemme, il Salem di Dio, è il Corpo di Cristo, l’Eucaristia è la pace di Dio con l’uomo. Sappiamo che san Giovanni, nel Prologo, chiama l’umanità di Gesù “la tenda di Dio”, eskenosen en hemin (Gv 1,14). Qui Dio stesso ha creato la sua tenda nel mondo e questa tenda, questa nuova, vera Gerusalemme è, nello stesso tempo sulla terra e in cielo, perché questo Sacramento, questo sacrificio si realizza sempre tra di noi e arriva sempre fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio. Qui è la vera Gerusalemme, al medesimo tempo, celeste e terrestre, la tenda, che è il Corpo di Dio, che come Corpo risorto rimane sempre Corpo e abbraccia l’umanità e, nello stesso tempo, essendo Corpo risorto, ci unisce con Dio. Tutto questo si realizza sempre di nuovo nell’Eucaristia. E noi da sacerdoti siamo chiamati ad essere ministri di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Preghiamo il Signore che ci faccia capire sempre meglio questo Mistero, di vivere sempre meglio questo Mistero e così offrire il nostro aiuto affinché il mondo si apra a Dio, affinché il mondo sia redento. Grazie
  • Benedetto XVI
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 19, 2010 7:07 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1987
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I. Tra il Cenacolo e il Getsemani

1. «E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mc 14, 26).

Permettetemi, cari fratelli nel sacerdozio, di iniziare la mia Lettera per il Giovedì Santo di quest'anno con queste parole, che ci riportano al momento in cui, dopo l'Ultima Cena, Gesù Cristo uscì per andare al monte degli Ulivi.

Tutti noi che, mediante il sacramento dell'ordine, godiamo di una partecipazione speciale, ministeriale al sacerdozio di Cristo, il Giovedì Santo ci raccogliamo interiormente nel ricordo dell'istituzione dell'Eucaristia, poiché questo evento segna l'inizio e la fonte di tutto ciò che, per grazia di Dio, noi siamo nella Chiesa e nel mondo. Il Giovedì Santo è il giorno natale del nostro sacerdozio e, perciò, è anche la nostra festa annuale.

E' questo un giorno importante e sacro non solo per noi, ma per l'intera Chiesa, per tutti coloro che Dio ha costituito per sé in Cristo «un regno di sacerdoti» (Ap 1, 6). Per noi esso è particolarmente importante e decisivo, in quanto il sacerdozio comune di tutto il Popolo di Dio è legato al servizio dei dispensatori dell'Eucaristia che è il nostro compito più santo. Perciò oggi raccogliendovi intorno ai vostri Vescovi, insieme con loro rinnovate, cari fratelli, nei vostri cuori la grazia concessavi «mediante l'imposizione delle mani» (cfr. 2 Tm 1, 6) nel sacramento del presbiterato.

In questo giorno così straordinario, desidero - come ogni anno - essere con tutti voi, così come con i vostri Vescovi, poiché tutti sentiamo un profondo bisogno di rinnovare in noi la consapevolezza della grazia di questo sacramento che ci unisce intimamente a Cristo, sacerdote e ostia.

Proprio a questo fine, con la presente Lettera desidero esprimere alcuni pensieri sull'importanza della preghiera nella nostra vita, soprattutto in rapporto alla nostra vocazione e alla nostra missione.

2. Dopo l'Ultima Cena, Gesù si avvia insieme con gli apostoli al monte degli Ulivi. Nella successione degli eventi salvifici della Settimana Santa, la Cena costituisce per Cristo l'inizio della «sua ora». Proprio durante la Cena ha inizio l'attuazione definitiva di tutto ciò che deve costituire quest'«ora».

Nel Cenacolo Gesù istituisce il sacramento, il segno di una realtà che deve ancora verificarsi nella successione degli eventi. Perciò dice: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi» (Lc 22, 19); «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22, 20). Nasce così il sacramento del corpo e del sangue del Redentore, a cui è intimamente congiunto il sacramento del sacerdozio, in virtù del mandato affidato agli apostoli: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Le parole che istituiscono l'Eucaristia non solo anticipano ciò che verrà realizzato nel giorno successivo, ma anche sottolineano espressamente che tale realizzazione ormai vicina possiede il senso e la portata del sacrificio. Infatti, «il corpo è dato..., e il sangue viene versato per voi».

In tal modo Gesù, durante l'Ultima Cena, pone nelle mani degli apostoli e della Chiesa il vero sacrificio. Ciò che al momento dell'istituzione rappresenta ancora un annuncio, sia pure definitivo, ma è anche l'effettiva anticipazione della realtà sacrificale del Calvario, diverrà poi, mediante il ministero dei sacerdoti, «il memoriale» che perpetua in modo sacramentale la stessa realtà redentrice. Una realtà centrale nell'ordine di tutta l'economia divina della salvezza.

3. Uscendo insieme con gli apostoli e dirigendosi verso il monte degli Ulivi, Gesù avanza proprio verso la realtà della «sua ora», che è il tempo del compimento pasquale del disegno di Dio e di tutti gli annunci, lontani e vicini, contenuti nelle «Scritture» a questo riguardo (cfr. Lc 24, 27).

Quest'«ora» segna anche il tempo, nel quale il sacerdozio viene riempito di un contenuto nuovo e definitivo come vocazione e servizio, sulla base della rivelazione e dell'istituzione divina. Potremo trovare una più ampia esposizione di questa verità soprattutto nella Lettera agli Ebrei, un testo fondamentale per la conoscenza del sacerdozio di Cristo e del nostro sacerdozio.

Ma nel quadro delle presenti considerazioni appare essenziale il fatto che verso il compimento della realtà, culminante nella «sua ora», Gesù avanza mediante la preghiera.

4. La preghiera del Getsemani si comprende non solo in riferimento a tutto ciò che le fa seguito durante gli eventi del Venerdì Santo - cioè la passione e la morte in croce -, ma anche, e non meno intimamente, in riferimento all'Ultima Cena.

Durante la Cena d'addio Gesù diede compimento a ciò che era l'eterna volontà del Padre a suo riguardo ed era anche la sua volontà, la sua volontà di figlio: «Per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12, 27). Le parole che istituiscono il sacramento della nuova ed eterna alleanza, l'Eucaristia, costituiscono in un certo modo il sigillo sacramentale di quell'eterna volontà del Padre e del Figlio, che ormai è giunta all'«ora» del definitivo compimento.

Nel Getsemani il nome «Abbà», che sulle labbra di Gesù possiede sempre una profondità trinitaria - è infatti il nome di cui egli si serve nel parlare al Padre e del Padre, e specialmente nella preghiera -, riverbera sui dolori della passione il senso delle parole dell'istituzione dell'Eucaristia. Gesù, invero, viene nel Getsemani per rivelare ancora un aspetto della verità su di sé, figlio, e lo fa specialmente mediante la parola: Abbà. E questa verità, questa inaudita verità su Gesù Cristo consiste nel fatto che egli, «essendo uguale al Padre», come Figlio consustanziale al Padre, è al tempo stesso vero uomo. E infatti frequentemente denomina se stesso «il Figlio dell'uomo». Mai come nel Getsemani si manifesta la realtà del Figlio di Dio, che «assume la condizione di servo» (cfr. Fil 2, 7) secondo la profezia di Isaia (cfr. Is 53).

La preghiera del Getsemani, come e più di ogni altra preghiera di Gesù, rivela la verità circa l'identità, la vocazione e la missione del Figlio, che è venuto nel mondo per compiere la volontà paterna di Dio fino all'ultimo, quando dirà che «tutto è compiuto» (Gv 19, 30).

Ciò è importante per tutti coloro che entrano a far parte della «scuola d'orazione» di Cristo: è particolarmente importante per noi sacerdoti.

5. Dunque Gesù Cristo, il Figlio consustanziale, si presenta al Padre e dice «Abbà». Ed ecco, manifestando in un modo che potremmo dire radicale la sua condizione di vero uomo, «Figlio dell'uomo», egli chiede l'allontanamento dell'amaro calice: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice» (Mt 26, 39; cfr. Mc 14, 36; Lc 22, 42).

Gesù sa che ciò «non è possibile», che «il calice» gli è dato, perché lo «beva» fino in fondo. Tuttavia dice proprio così: «Se è possibile, passi da me». Lo dice proprio nel momento in cui quel «calice», da lui desiderato ardentemente (cfr. Lc 22, 15), è ormai diventato il sigillo sacramentale della nuova ed eterna alleanza nel sangue dell'Agnello. Quando tutto ciò che è stato «stabilito» dall'eternità, è ormai «istituito» sacramentalmente nel tempo: introdotto in tutto il futuro della Chiesa.

Gesù, che nel Cenacolo ha operato questa istituzione, non può certo voler revocare la realtà designata dal sacramento dell'Ultima Cena. Anzi, con tutto il cuore ne desidera il compimento. Se, malgrado tutto, egli prega perché «passi da lui questo calice», manifesta in tal modo davanti a Dio e agli uomini tutto il peso del compito che deve assumersi: sostituirsi a noi tutti nell'espiazione del peccato.Egli manifesta anche l'immensità della sofferenza che riempie il suo cuore umano. In questo modo il Figlio dell'uomo si rivela solidale con tutti i suoi fratelli e sorelle che fan parte della grande famiglia umana, dall'inizio alla fine dei tempi. La sofferenza è per l'uomo il male - Gesù Cristo al Getsemani la sente con tutto il suo peso, quello che corrisponde alla nostra comune esperienza, al nostro spontaneo atteggiamento interiore. Davanti al Padre egli rimane in tutta la verità della sua umanità, la verità di un cuore umano oppresso dalla sofferenza, che sta per raggiungere il suo culmine drammatico: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14, 34). Tuttavia, di questa sofferenza di uomo nessuno è in grado di esprimere la misura adeguata servendosi dei soli criteri umani. Al Getsemani, infatti, chi prega il Padre è un uomo, che simultaneamente è Dio, consustanziale al Padre.

6. Le parole dell'evangelista: «Cominciò a provare tristezza e angoscia» (Mt 26, 37), come pure tutto lo sviluppo della preghiera al Getsemani, sembrano indicare non solo la paura davanti alla sofferenza, ma anche il timore caratteristico dell'uomo, una specie di timore legato al senso di responsabilità. Non è l'uomo quell'essere singolare, la cui vocazione è di «superare costantemente se stesso»?

Gesù Cristo, «Figlio dell'uomo», nell'orazione con cui dà inizio alla passione esprime il tipico travaglio della responsabilità, connessa all'assunzione di compiti nei quali l'uomo deve «superare se stesso».

I Vangeli ricordano più volte che Gesù pregava, che anzi «passava le notti in orazione» (cfr. Lc 6, 12); ma nessuna di queste orazioni è stata presentata in modo così profondo e penetrante come quella del Getsemani. Ciò è comprensibile. Infatti, nessun altro momento nella vita di Gesù fu così decisivo. Nessun'altra preghiera rientrava così appieno in quella che doveva essere la «sua ora». Da nessun'altra decisione della sua vita come da questa dipendeva il compimento della volontà del Padre, il quale «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).

Quando Gesù nel Getsemani dice: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22, 42), egli rivela la verità del Padre e del suo amore salvifico per l'uomo. La «volontà del Padre» è precisamente l'amore salvifico: la salvezza del mondo deve realizzarsi mediante il sacrificio redentivo del Figlio. E' ben concepibile che il Figlio dell'uomo, assumendosi questo compito, manifesti nel suo decisivo colloquio col Padre la consapevolezza che egli ha della dimensione sovrumana di un tale compito, in cui adempie la volontà del Padre nella divina profondità dell'unione filiale con lui.

«Ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare» (cfr. Gv 17, 4). L'evangelista dice: «In preda all'angoscia pregava più intensamente» (Lc 22, 44). E questa angoscia mortale si è manifestata pure col sudore che, come gocce di sangue, rigava il volto di Gesù (cfr. Lc 22, 44). E' l'estrema espressione di una sofferenza che si traduce in preghiera, e di una preghiera che, a sua volta, conosce il dolore, accompagnando il sacrificio anticipato sacramentalmente nel Cenacolo, vissuto profondamente nello spirito del Getsemani e che sta per essere consumato sul Calvario.

Proprio su questi momenti della preghiera sacerdotale e sacrificale di Gesù desidero attirare la vostra attenzione, cari fratelli, in relazione alla nostra preghiera e alla nostra vita.

II. La preghiera al centro dell'esistenza sacerdotale

7. Se nella nostra meditazione del Giovedì Santo quest'anno uniamo il Cenacolo col Getsemani, è per capire quanto profondamente il nostro sacerdozio debba essere legato alla preghiera: radicato nella preghiera.

L'affermazione invero non richiede dimostrazione, ma ha piuttosto bisogno di essere costantemente coltivata con la mente e col cuore, perché la verità in essa contenuta possa attuarsi sempre più profondamente nella vita.

Si tratta infatti della nostra vita, dell'esistenza sacerdotale stessa, in tutta la sua ricchezza, racchiusa anzitutto nella chiamata al sacerdozio, e manifestata poi in quel servizio della salvezza che da essa scaturisce.

Sappiamo che il sacerdozio - sacramentale e ministeriale - è una speciale partecipazione del sacerdozio di Cristo. Esso non esiste senza di lui e al di fuori di lui. Esso non si sviluppa e non porta frutti senza radicarsi in lui. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5), disse Gesù durante l'Ultima Cena a conclusione della parabola sulla vite e i tralci.

Quando più tardi, durante la sua preghiera solitaria nell'orto del Getsemani, Gesù va da Pietro, Giovanni e Giacomo e li trova immersi nel sonno, egli li desta dicendo: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione» (Mt 26, 41).

La preghiera, dunque, doveva essere per gli apostoli il modo concreto ed efficace di partecipare all'«ora di Gesù», di radicarsi in lui e nel suo mistero pasquale. Così sarà sempre per noi sacerdoti. Senza la preghiera incombe il pericolo di quella «tentazione», alla quale gli apostoli hanno purtroppo ceduto nel momento in cui si sono trovati a taccia a taccia con lo «scandalo della croce» (cfr. Gal 5, 11).

8. Nella nostra vita sacerdotale la preghiera ha una varietà di forme e di significati, sia quella personale, sia quella comunitaria, sia quella liturgica (pubblica e ufficiale). Tuttavia, alla base di questa multiforme preghiera deve trovarsi sempre quel fondamento profondissimo, che corrisponde alla nostra esistenza sacerdotale in Cristo, in quanto realizzazione specifica della stessa esistenza cristiana, e anzi - a più vasto raggio - di quella umana. La preghiera, infatti,è l'espressione connaturale della consapevolezza che siamo stati creati da Dio, e più ancora - come si rileva chiaramente dalla Bibbia - che il Creatore si è manifestato all'uomo come Dio dell'alleanza.

La preghiera, che corrisponde alla nostra esistenza sacerdotale, comprende naturalmente in sé tutto ciò che deriva dal nostro essere cristiani, o anche semplicemente dall'essere uomini fatti «a immagine e somiglianza» di Dio. Essa include, inoltre, la coscienza del nostro essere uomini e cristiani come sacerdoti. E questo sembra proprio di poter scoprire più pienamente il Giovedì Santo, recandoci con Cristo, dopo l'Ultima Cena, al Getsemani. Qui, infatti, siamo testimoni dell'orazione dello stesso Gesù, che precede immediatamente il compimento supremo del suo sacerdozio per mezzo del sacrificio di se stesso sulla croce. Egli, «come sommo sacerdote dei beni futuri..., entrò una volta per sempre nel santuario... col proprio sangue» (Eb 9, 11-12). Difatti, se egli era sacerdote sin dall'inizio della sua esistenza, «divenne» tuttavia in modo pieno l'unico sacerdote della nuova ed eterna alleanza mediante il sacrificio redentivo, che ebbe inizio al Getsemani. Questo inizio avvenne in un contesto di preghiera.

9. Questa è per noi, cari fratelli, una scoperta di fondamentale importanza nel Giovedì Santo, che giustamente consideriamo come il giorno natalizio del nostro sacerdozio ministeriale in Cristo. Tra le parole dell'istituzione: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi»; «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» e l'effettivo compimento di ciò che tali parole esprimono, è interposta la preghiera del Getsemani. Non è forse vero che, neI corso degli eventi pasquali, è essa a condurre alla realtà anche visibile, che il sacramento significa e insieme rinnova?

Il sacerdozio, che è diventato la nostra eredità in forza di un sacramento così strettamente unito all'Eucaristia, è sempre una chiamata a partecipare alla stessa realtà divina-umana, salvifica e redentrice, che proprio mediante il nostro ministero deve portare sempre nuovi frutti nella storia della salvezza: «Perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,1 6). Il santo Curato d'Ars, di cui lo scorso anno abbiamo celebrato il secondo centenario della nascita, ci appare proprio come l'uomo di questa chiamata, ravvivandone anche in noi la consapevolezza. Nella sua eroica vita fu l'orazione il mezzo che gli permetteva di rimanere costantemente in Cristo, di «vegliare» con Cristo di fronte alla sua «ora». Quest'«ora» non cessa di decidere della salvezza di tanti uomini, affidati al servizio sacerdotale e alla cura pastorale di ogni presbitero. Nella vita di san Giovanni Maria Vianney, quest'«ora» si realizzò particolarmente col suo servizio nel confessionale.

10. La preghiera al Getsemani è come una pietra angolare, posta da Cristo alla base del servizio alla causa «affidatagli dal Padre» - alla base dell'opera della redenzione del mondo mediante il sacrificio offerto sulla Croce.

Partecipi del sacerdozio di Cristo, che è inscindibilmente connesso col suo sacrificio, anche noi dobbiamo porre alla base della nostra esistenza sacerdotale la pietra angolare della preghiera. Essa ci permetterà di sintonizzare la nostra esistenza col servizio sacerdotale, conservando intatta l'identità e l'autenticità di questa vocazione, che è divenuta la nostra speciale eredità nella Chiesa, come comunità del Popolo di Dio.

La preghiera sacerdotale, in particolare quella della Liturgia delle Ore e dell'adorazione eucaristica, ci aiuterà prima di tutto a conservare la profonda consapevolezza che, come «servi di Cristo», siamo in modo speciale ed eccezionale «amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4, 1). Qualunque sia il nostro compito concreto, qualunque sia il tipo di impegno in cui svolgiamo il servizio pastorale, la preghiera ci assicurerà la consapevolezza di quei misteri di Dio, dei quali siamo «amministratori», e la porterà ad esprimersi in tutte le nostre opere.

Anche in questo modo saremo per gli uomini un segno leggibile di Cristo e del suo Vangelo.

Carissimi fratelli! Abbiamo bisogno di preghiera, di preghiera profonda e, in un certo senso, «organica», per poter essere un tale segno. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). Sì! In definitiva questa è una questione di amore, di amore «per gli altri»; infatti l'«essere», come sacerdoti, «amministratori dei misteri di Dio», significa mettersi a disposizione degli altri e, in questo modo, rendere testimonianza di quell'amore supremo che è in Cristo, di quell'amore che è Dio stesso.

11. Se la preghiera sacerdotale ravviva una tale consapevolezza e un tale atteggiamento nella vita di ciascuno di noi, nello stesso tempo, secondo l'intima «logica» dell'essere amministratori dei misteri di Dio, essa deve costantemente ampliarsi ed estenderli a tutti coloro che «il Padre ci ha dato» (cfr. Gv 17, 6).

E' ciò che risalta chiaramente nella preghiera sacerdotale di Gesù nel Cenacolo: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini, che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola» (Gv 17, 6).

Sull'esempio di Gesù, il sacerdote, «amministratore dei misteri di Dio», è se stesso, quando è «per gli altri». La preghiera gli dà una particolare sensibilità verso questi «altri», rendendolo attento ai loro bisogni, alla loro vita ed al loro destino. La preghiera permette al sacerdote anche di riconoscere coloro «che il Padre gli ha dato». Questi sono, anzitutto, coloro che dal buon Pastore vengono posti per così dire sul cammino del suo servizio sacerdotale, della sua cura pastorale. Sono i fanciulli, gli adulti, gli anziani. Sono la gioventù, le coppie di sposi, le famiglie, ma anche le persone sole. Sono gli ammalati, i sofferenti, i morenti. Sono coloro che sono spiritualmente vicini, disposti alla collaborazione apostolica, ma anche i lontani, gli assenti, gli indifferenti, in uno stato di riflessione e di ricerca. Coloro che sono mal disposti per diverse ragioni, coloro che si trovano in mezzo a difficoltà di diversa natura, coloro che lottano contro i vizi e i peccati, coloro che lottano per la fede e per la speranza. Coloro che cercano l'aiuto del sacerdote e coloro che lo respingono.

Come essere «per» tutti costoro - e «per» ciascuno di essi - sul modello di Cristo? come essere «per» coloro, che «il Padre dà a noi», affidandoceli come un impegno? La nostra sarà sempre una prova d'amore, - una prova che dobbiamo accettare, prima di tutto, sul terreno della preghiera.

12. Tutti, cari fratelli, sappiamo bene che questa prova «costa». Quanto costano a volte i colloqui apparentemente ordinari con le diverse persone! Quanto costa il servizio alle coscienze nel confessionale! Quanto costa la sollecitudine «per tutte le chiese» (cfr. 2 Cor 11, 28; «Sollicitudo omnium ecclesiarum»): si tratti delle «chiese domestiche» (cfr.«Lumen Gentium», 11), cioè delle famiglie specialmente nelle loro difficoltà e crisi attuali; si tratti di ogni singolo «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6, 19): di qualsiasi uomo o donna nella sua dignità umana e cristiana; si tratti, infine, di una chiesa-comunità come la parrocchia, che rimane sempre la comunità fondamentale, oppure di quei gruppi, movimenti, associazioni, che servono il rinnovamento dell'uomo e della società secondo lo spirito del Vangelo, oggi fiorenti sul terreno della Chiesa e per i quali dobbiamo essere grati allo Spirito Santo, che fa sorgere tante belle iniziative. Un simile impegno ha un suo «costo», che dobbiamo sostenere con l'aiuto della preghiera.

La preghiera è indispensabile per conservare la sensibilità pastorale verso tutto ciò che viene dallo «Spirito», per «discernere» correttamente e impiegare bene quei carismi, che portano all'unione e sono legati al servizio sacerdotale nella Chiesa. Infatti, è compito dei presbiteri «radunare il Popolo di Dio», non già dividerlo. Ed essi lo adempiono soprattutto come dispensatori della santissima Eucaristia.

La preghiera, pertanto, ci permetterà, pur tra molte contrarietà, di dare quella prova d'amore che deve offrire la vita di ogni uomo - e quella del sacerdote in modo speciale. E quando sembrerà che tale prova superi le nostre forze, ricordiamo ciò che l'evangelista dice di Gesù al Getsemani: «In preda all'angoscia, pregava più intensamente» (Lc 22, 44).

13. Il Concilio Vaticano II presenta la vita della Chiesa come peregrinazione della fede (cfr. «Lumen Gentium», 48 ss.). Ciascuno di noi, cari fratelli, a motivo della sua vocazione e ordinazione sacerdotale, ha in questa peregrinazione una parte speciale. Noi siamo chiamati ad avanzare guidando gli altri, aiutandoli nel loro cammino come ministri del buon Pastore. Come amministratori dei misteri di Dio, dobbiamo, dunque, possedere una maturità di fede, adeguata alla nostra vocazione e ai nostri compiti. Infatti, «quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele» (1 Cor 4, 2), dal momento che il Signore gli affida il suo patrimonio.

E' bene allora che, in questa peregrinazione della fede, ciascuno di noi fissi lo sguardo dell'anima sulla Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo, figlio di Dio. Ella infatti - come insegna il Concilio seguendo i Padri - ci «precede» in questa peregrinazione (cfr.«Lumen Gentium», 58) e ci offre un esempio sublime, che ho cercato di mettere in rilievo anche nella recente enciclica, pubblicata in vista dell'Anno Mariano, al quale ci stiamo preparando.

In lei, che è la Vergine Immacolata, noi scopriamo anche il mistero di quella soprannaturale fecondità per opera dello Spirito Santo, per cui ella è «figura» della Chiesa. La Chiesa, infatti, «diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti per opera dello Spirito Santo e nati da Dio» («Lumen Gentium», 64), secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore» (Gal 4, 19); e lo diventa soffrendo come una madre, che è «afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21).

Questa testimonianza non tocca forse anche l'essenza della nostra speciale vocazione nella Chiesa? Tuttavia - diciamocelo concludendo -, affinché la testimonianza dell'Apostolo possa diventare anche nostra, bisogna che ritorniamo costantemente al Cenacolo e al Getsemani, e ritroviamo il centro stesso del nostro sacerdozio nella preghiera e mediante la preghiera.

Quando, insieme con Cristo, invochiamo: «Abbà, Padre», allora «lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16).«Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché noi non sappiamo nemmeno che cosa sia conveniente domandare ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito» (Rm 8, 26-27).

Accogliete, cari fratelli, il saluto pasquale e il bacio della pace in Gesù Cristo Signore nostro.
  • Dal Vaticano, il 13 Aprile, Lunedì Santo, dell'anno 1987 nono di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 26, 2010 6:34 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1988
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Cari fratelli nel sacerdozio.

1. Oggi tutti torniamo al cenacolo. Raccogliendoci intorno agli altari in tanti luoghi della terra noi celebriamo in maniera speciale il memoriale dell’ultima Cena in mezzo alla comunità del Popolo di Dio che serviamo. Nella liturgia vespertina del giovedì santo le parole di Cristo, pronunciate «la vigilia della sua passione», risuonano sulle nostre labbra così come ogni giorno - e tuttavia in un modo diverso - in rapporto a quella sera unica, che proprio oggi è rievocata dalla Chiesa.

Come nostro Signore - e al tempo stesso «in persona Christi» - noi pronunciamo le parole: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo... Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue». Difatti, il Signore stesso così ci ha raccomandato, quando ha detto agli apostoli: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

E nel far questo deve essere vivo nella nostra mente e nel nostro cuore l’intero mistero dell’incarnazione. Cristo, che il giovedì santo annuncia che il suo corpo sarà «dato» e il suo sangue «versato», è il Figlio eterno, il quale «entrando nel mondo», dice al Padre: Ecco «un corpo mi hai preparato..., perché io compia la tua volontà» (cfr. Eb 10, 5-7).

Si avvicina appunto quella Pasqua, in cui il Figlio di Dio, come redentore del mondo, compirà la volontà del Padre mediante l’offerta e l’immolazione del suo corpo e del suo sangue sul Golgota. È per mezzo di questo sacrificio che egli «entrò una volta per sempre nel santuario... con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna» (Eb 9, 12). Infatti, è questo il sacrificio dell’alleanza «nuova ed eterna». Ecco, esso è intimamente connesso col mistero dell’incarnazione: il Verbo, che si è fatto carne (cfr. Gv 1, 14), immola la sua umanità, come «homo assumptus» nell’unità della Persona divina.

Conviene che in quest’anno, vissuto da tutta la Chiesa come anno mariano, sia ricordata - a proposito dell’istituzione dell’Eucaristia ed insieme del sacramento del Sacerdozio - la realtà stessa dell’incarnazione. La operò lo Spirito Santo, discendendo sulla Vergine di Nazaret, allorquando questa pronunciò il suo «fiat» in risposta all’annuncio dell’angelo (cfr. Lc 1, 38).

«Ave, o vero corpo, nato da Maria Vergine: / davvero hai patito e sei stato immolato / sulla croce per l’uomo».

Sì, lo stesso corpo! Mentre celebriamo l’Eucaristia, mediante il nostro servizio sacerdotale si rende presente il mistero del Verbo incarnato, Figlio di Maria Vergine.



2. Durante l’ultima Cena la Madre di Cristo non risulta che fosse nel cenacolo. Era invece presente sul Calvario, ai piedi della croce, «dove - come insegna il Concilio Vaticano II - non senza un disegno divino, se ne stette (cfr. Gv 19, 25), profondamente soffrì in unione col suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consentendo all’immolazione della vittima da lei generata» («Lumen Gentium», 58). Tanto lontano si spinse quel «fiat», pronunciato da Maria all’annunciazione.

Quando noi, agendo «in persona Christi», celebriamo il sacramento dello stesso ed unico sacrificio di cui Cristo è e rimane l’unico sacerdote e l’unica vittima, non dobbiamo dimenticare questo compatimento della Madre, nella quale si sono compiute le parole pronunciate da Simeone nel tempio di Gerusalemme: «A te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2, 35). Erano parole rivolte direttamente a Maria, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Sul Golgota, sotto la croce, queste parole si sono compiute fino in fondo. Quando suo Figlio sulla croce si rivelò in tutta la pienezza come «segno di contraddizione», allora tale immolazione, quell’agonia mortale del Figlio raggiunse anche il cuore materno di Maria.

Ecco, l’agonia del cuore della Madre, che soffriva insieme a lui, «consentendo all’immolazione della vittima da lei generata». Si tocca qui l’apice della presenza di Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa sulla terra. Questo apice è sulla via della «peregrinazione della fede», alla quale facciamo speciale riferimento nell’anno mariano (cfr. «Redemptoris Mater», 30).

Cari fratelli, a chi più che a noi è indispensabile una fede profonda e incrollabile - a noi, che in virtù della successione apostolica iniziata nel cenacolo celebriamo il sacramento del sacrificio di Cristo? Bisogna, dunque, che si approfondisca costantemente il nostro legame spirituale con la Madre di Dio, che nella peregrinazione della fede «va innanzi» all’intero Popolo di Dio.

E in particolare, quando celebrando l’Eucaristia ci troviamo ogni giorno sul Golgota, bisogna che vicino a noi sia colei che mediante la fede eroica ha portato all’apice la sua unione col Figlio, proprio là sul Golgota.



3. Del resto, Cristo non ha forse lasciato per noi una speciale indicazione a questo riguardo? Ecco, durante la sua agonia sulla croce, egli pronunciò le parole che per noi hanno il significato di un testamento. «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19, 26-27).

Quel discepolo, l’apostolo Giovanni, si trovava insieme a Cristo durante l’ultima Cena. Era uno di quei «dodici», ai quali il Maestro rivolse, insieme con le parole che istituivano l’Eucaristia, la raccomandazione: «Fate questo in memoria di me». Egli ricevette la potestà di celebrare il sacrificio eucaristico istituito nel cenacolo alla vigilia della passione, come santissimo sacramento della Chiesa.

Al momento della sua morte, Gesù dona la propria Madre a questo discepolo. Giovanni «la prese nella sua casa»: la prese come prima testimonianza del mistero dell’incarnazione. Ed egli, come evangelista, espresse appunto nel modo più profondo ed insieme più semplice la verità sul Verbo che «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14): la verità dell’incarnazione e la verità dell’Emmanuele.

E così, prendendo «nella sua casa» la Madre che stava sotto la croce del Figlio, egli accolse al tempo stesso tutto ciò che era in lei sul Golgota: il fatto che ella «profondamente soffrì in unione col suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consentendo all’immolazione della vittima da lei generata». Tutto ciò - tutta la sovrumana esperienza del sacrificio della nostra redenzione, impressa nel cuore della Madre stessa di Cristo Redentore - fu affidato all’uomo, che nel cenacolo ricevette il potere di rendere presente questo sacrificio mediante il ministero sacerdotale dell’Eucaristia.

Non possiede questo un’eloquenza singolare per ciascuno di noi? Se Giovanni sotto la croce rappresenta in un certo senso tutti gli uomini, ciascuno e ciascuna, ai quali viene spiritualmente estesa la maternità della Madre di Dio, quanto maggiormente questo vale per ciascuno di noi, chiamati sacramentalmente al servizio sacerdotale dell’Eucaristia nella Chiesa!

Davvero, è sconvolgente la realtà del Golgota, del sacrificio di Cristo per la redenzione del mondo! E’ sconvolgente il mistero di Dio, di cui siamo ministri nell’ordine sacramentale (cfr. 1 Cor 4, 1). Non siamo, tuttavia, minacciati dal pericolo di esser dei ministri non abbastanza degni? Dal pericolo di non presentarci con sufficiente fedeltà ai piedi della croce di Cristo, celebrando l’Eucaristia?

Cerchiamo di esser vicini a questa Madre, nel cui cuore è inscritto in modo unico ed incomparabile il mistero della redenzione del mondo.



4. «La beata Vergine, per il dono e l’ufficio della divina maternità che la unisce col Figlio redentore... è pure intimamente congiunta con la Chiesa» - proclama il Concilio -. «La Madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant’Ambrogio, nell’ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo. Infatti, nel mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e vergine, la beata Vergine Maria è andata innanzi, presentandosi in modo eminente e singolare quale vergine e quale madre» («Lumen Gentium», 63).

Più avanti il testo conciliare sviluppa questa analogia tipologica: «Orbene, la Chiesa, la quale contempla l’arcana santità di lei e ne imita la carità e adempie fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio fedelmente accolta, diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo Sposo». La Chiesa, pertanto, «ad imitazione della madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità» («Lumen Gentium», 64).

Ai piedi della croce sul Golgota «il discepolo prese nella sua casa» Maria, indicatagli da Cristo con le parole: «Ecco la tua madre». L’insegnamento del Concilio dimostra quanto la Chiesa intera abbia preso Maria «nella sua casa»; quanto profondamente il mistero di questa Madre-Vergine appartenga al mistero della Chiesa, alla sua intima realtà.

Tutto ciò ha un’importanza fondamentale per tutti i figli e le figlie della Chiesa. Tutto ciò ha un significato speciale per noi, che siamo stati marcati col segno sacramentale del Sacerdozio, il quale, se è «gerarchico», è al tempo stesso «ministeriale» sull’esempio di Cristo: il primo servitore della redenzione del mondo.

Se tutti nella Chiesa - uomini e donne per mezzo del Battesimo partecipano alla funzione di Cristo sacerdote - possiedono il «sacerdozio regale» comune, di cui parla l’apostolo Pietro (cfr. 1 Pt 2, 9), tutti devono riferire a sè le parole della Costituzione conciliare riportate poc’anzi; queste parole, tuttavia, si riferiscono in modo speciale a noi.

Il Concilio vede la maternità della Chiesa - sul modello della maternità di Maria - nel fatto che essa «genera a una vita nuova ed immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio». Avvertiamo qui come un’eco delle parole di san Paolo circa i «figli che egli partorisce nel dolore» (cfr. Gal 4, 19), così come partorisce una madre. Quando, nella lettera agli Efesini leggiamo di Cristo-Sposo che «nutre e cura» la Chiesa come suo corpo (cfr. Ef 5, 29), non possiamo non collegare tale sollecitudine sponsale di Cristo soprattutto col dono del cibo eucaristico, assimilabile alle tante premure materne nel «nutrire e curare» il bambino.

Vale la pena richiamare alla memoria queste espressioni bibliche, affinché la verità della maternità della Chiesa sull’esempio della Madre di Dio diventi più vicina alla nostra coscienza sacerdotale. E se ciascuno di noi vive tale maternità spirituale piuttosto in modo maschile, quale «paternità nello Spirito» - Maria, come «figura» della Chiesa, ha in questa esperienza la sua parte. E i passi riportati dimostrano quanto profondamente questa parte sia inscritta al centro stesso del nostro servizio sacerdotale e pastorale. L’analogia di Paolo circa il «parto nel dolore» non è forse vicina a tutti noi in molte situazioni, in cui anche noi siamo coinvolti nel processo spirituale della «generazione» e della «rigenerazione» dell’uomo in virtù dello Spirito datore di vita? Le esperienze più forti su questo tema le vivono i confessori nei più svariati luoghi del mondo, e non essi soltanto.

In occasione del Giovedì santo, bisogna approfondire nuovamente questa verità misteriosa della nostra vocazione: questa «paternità nello spirito», che sul piano umano è simile alla maternità. Del resto, Dio creatore e Padre non fa egli stesso il paragone tra il suo amore e quello delle madri umane (cfr. Is 49, 15; 66, 13)? Si tratta, dunque, di una caratteristica della nostra personalità sacerdotale, che ne esprime proprio la maturità apostolica e la fecondità spirituale, Se la Chiesa intera «apprende da Maria la propria maternità» (cfr. «Redemptoris Mater», 43), non bisogna che lo facciamo anche noi? Occorre, dunque, che ciascuno di noi «la prenda nella propria casa», così come la prese l’apostolo Giovanni sul Golgota, cioè che ciascuno di noi permetta a Maria di prender dimora «nella casa» del proprio Sacerdozio sacramentale, come madre e mediatrice di quel «grande mistero» (cfr. Ef 5, 32), che tutti desideriamo servire con la nostra vita.



5. Maria è Madre-Vergine, e la Chiesa, volgendosi a lei come alla propria figura, vi si riconosce perché anche essa è «chiamata madre e vergine». Essa è vergine, perché «custodisce integra e pura la fede data allo Sposo». Cristo, secondo l’insegnamento contenuto nella lettera agli Efesini (cfr. Ef 5, 32), è lo sposo della Chiesa. Il significato sponsale della redenzione spinge ciascuno di noi a custodire la fedeltà a questa vocazione, per mezzo della quale siamo resi partecipi della missione salvifica di Cristo, sacerdote, profeta e re.

L’analogia tra la Chiesa e Maria Vergine possiede una speciale eloquenza per noi, che colleghiamo la nostra vocazione sacerdotale al celibato, cioè al «farsi eunuchi per il Regno dei cieli». Ricordiamo il colloquio con gli apostoli, in cui Cristo spiegava loro il significato di questa scelta (cfr. Mt 19, 12) e cerchiamo di comprenderne pienamente i motivi. Rinunciamo liberamente al matrimonio, a fondare una nostra famiglia, per poter meglio servire Dio e i fratelli. Si può dire che noi rinunciamo alla paternità «secondo la carne», perché maturi e si sviluppi in noi la paternità «secondo lo spirito», che, come è già stato detto, possiede al tempo stesso caratteristiche materne. La fedeltà verginale allo Sposo, che trova la sua particolare espressione in questa forma di vita, ci permette di partecipare alla vita intima della Chiesa, la quale, sull’esempio della Vergine, cerca di custodire «integra e pura la fede data allo Sposo».

A motivo di questo modello - sì, del prototipo che la Chiesa trova in Maria - bisogna che la nostra scelta sacerdotale del celibato per tutta la vita sia depositata anche nel suo cuore. Bisogna ricorrere a questa Madre-Vergine, quando incontriamo delle difficoltà sulla strada prescelta. Bisogna che col suo aiuto cerchiamo una sempre più profonda comprensione di questa strada, l’affermazione sempre più completa di essa nei nostri cuori. Bisogna, infine, che si sviluppi nella nostra vita quella paternità «secondo lo spirito», che è uno dei frutti del «farsi eunuchi per il Regno di Dio».

Da Maria, che rappresenta il singolare «compimento» della «donna» biblica del Protovangelo (cfr. Gen 3, 15) e dell’Apocalisse (cfr. Ap 12, 1), cerchiamo anche di ottenere la capacità di un giusto rapporto con le donne e l’atteggiamento nei loro riguardi dimostrato dallo stesso Gesù di Nazaret. Ne troviamo l’espressione in tanti passi del Vangelo. E’ questo un tema importante nella vita di ogni sacerdote, e l’anno mariano induce a riprenderlo e ad approfondirlo in modo speciale. Il sacerdote, in ragione della sua vocazione e del suo servizio, deve scoprire in un modo nuovo il problema della dignità e della vocazione della donna, sia nella Chiesa sia nel mondo d’oggi. Egli deve comprendere fino in fondo che cosa intendeva dire a noi tutti il Cristo parlando con la samaritana (cfr. Gv 4, 1-42), difendendo l’adultera minacciata di lapidazione (cfr. Gv 8, 1-11), rendendo testimonianza a colei alla quale furono perdonati i molti peccati, poiché aveva molto amato (cfr. Lc 7, 36-50), conversando con Maria a Betania (cfr. Lc 10, 38-42; Gv 11, 1-44) e, infine, trasmettendo alle donne, prima che ad altri, «la buona novella» pasquale della sua risurrezione (cfr. Mt 28, 1-10).

La missione della Chiesa, sin dai tempi apostolici, fu assunta in varia misura dagli uomini e dalle donne. Ai nostri tempi, dopo il Concilio Vaticano II, questo fatto comporta una nuova chiamata indirizzata a ciascuno di noi, se il Sacerdozio, che esercitiamo nelle varie comunità della Chiesa, vuole essere veramente ministeriale, e per ciò stesso apostolicamente efficace e fruttuoso.



6. Incontrandoci oggi, Giovedì santo, presso il luogo di nascita del nostro Sacerdozio, desideriamo rileggerne fino in fondo il significato attraverso il prisma della dottrina conciliare sulla Chiesa e la sua missione. La figura della Madre di Dio appartiene a questa dottrina nel suo insieme. Di qui anche le riflessioni della presente meditazione.

Parlando dall’alto della croce sul Golgota, Cristo disse al discepolo: «Ecco la tua madre». E il discepolo «la prese nella sua casa» come Madre. Introduciamo anche noi Maria come Madre nella «casa»interiore del nostro Sacerdozio. Anche noi, infatti, apparteniamo ai «fedeli alla cui rigenerazione e formazione» la Madre di Dio «coopera con amore di madre» (cfr. «Lumen Gentium», 63). Sì, noi abbiamo, in un certo senso, uno speciale «diritto» a questo amore in considerazione del mistero del cenacolo. Cristo diceva: «Non vi chiamo più servi..., ma vi ho chiamati amici» (Gv 15, 15). Senza questa «amicizia» sarebbe difficile pensare che egli abbia affidato a noi, dopo gli apostoli, il sacramento del suo corpo e sangue, il sacramento della sua morte redentrice e della sua risurrezione, perché noi celebrassimo questo ineffabile sacramento in suo nome, anzi «in persona Christi». Senza questa speciale «amicizia» sarebbe anche difficile pensare alla sera di Pasqua, quando il Risorto si presentò in mezzo agli apostoli, dicendo loro: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).

Una tale amicizia impegna. Una tale amicizia dovrebbe infondere un santo timore, un ben maggiore senso di responsabilità, una ben maggiore disponibilità nel dare di sé tutto ciò di cui si è capaci, con l’aiuto di Dio. Nel cenacolo una tale amicizia è stata profondamente consolidata con la promessa del Paraclito: «Egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto... Egli mi renderà testimonianza, ed anche voi mi renderete testimonianza» (Gv 14, 26; 15, 26-27).

Ci sentiamo sempre indegni dell’amicizia di Cristo. Ma è bene che abbiamo il santo timore di non rimanere ad essa fedeli.

La Madre di Cristo sa tutto questo. Ella stessa ha compreso pienamente che cosa significavano le parole pronunciate dal Figlio al momento dell’agonia sulla croce: «Donna, ecco il tuo figlio... Ecco la tua madre». Esse si riferivano a lei e al discepolo, uno di coloro ai quali Cristo disse nel cenacolo: «Voi siete miei amici» (Gv 15, 14): a Giovanni e a tutti coloro che, mediante il mistero dell’ultima Cena, partecipano alla stessa «amicizia». La Madre di Dio, la quale (come insegna il Concilio) coopera con amore di madre alla rigenerazione e alla formazione di tutti coloro che diventano fratelli del suo Figlio - che sono diventati i suoi amici - farà di tutto perché essi possano non deludere questa santa amicizia. Perché possano essere all’altezza di essa.



7. Insieme a Giovanni apostolo ed evangelista, volgiamo ancora lo sguardo del nostro animo verso quella «donna vestita di sole», che appare sull’orizzonte escatologico della Chiesa e del mondo nel libro dell’Apocalisse (cfr. Ap 12,1 s.). Non è difficile riconoscere in lei la stessa figura che, all’inizio della storia dell’uomo, dopo il peccato originale, fu annunciata come Madre del Redentore (cfr. Gen 3, 15). Nell’Apocalisse la vediamo, da un lato, come donna eccelsa in mezzo alla creazione visibile, e, dall’altro, come colei che continua a prendere parte alla lotta spirituale per la vittoria del bene sul male. Questo è il combattimento condotto dalla Chiesa unita alla Madre di Dio, come a suo «modello», «contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male», come leggiamo nella lettera agli Efesini (Ef 6, 12). L’inizio di questa lotta spirituale risale al momento in cui l’uomo «tentato dal maligno, erigendosi contro Dio, abusò della sua libertà, bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui» (cfr. «Gaudium et Spes», 13). Si può dire che l’uomo, accecato dalla prospettiva di essere elevato oltre la misura di creatura quale era (secondo le parole del tentatore: «Diventerete come Dio» (cfr. Gen 3, 5), ha cessato di cercare la verità della propria esistenza e del proprio progresso in colui che è «generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15), e ha cessato di donare questa creazione e se stesso in Cristo a Dio, da cui ogni cosa prende inizio. L’uomo ha smarrito la coscienza di essere il sacerdote di tutto il mondo visibile, volgendo questo esclusivamente verso se stesso.

Le parole del Protovangelo all’inizio della Sacra Scrittura e quelle dell’Apocalisse al termine si riferiscono alla stessa lotta, nella quale è implicato l’uomo. Nella prospettiva di questa lotta spirituale, che si svolge durante la storia, il Figlio della donna è il Redentore del mondo. La redenzione si compie mediante il sacrificio, in cui Cristo - il mediatore della nuova ed eterna alleanza - «entrò una volta per sempre nel santuario... col proprio sangue», schiudendo nella casa del Padre - nel seno della Santissima Trinità - lo spazio per tutti i «chiamati all’eredità eterna» (cfr. Eb 9, 12. 15). Proprio per questo, Cristo crocifisso e risorto è «il sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9, 11) e il suo sacrificio significa un nuovo orientamento della storia spirituale dell’uomo verso Dio - creatore e padre, verso il quale il primogenito di tutta la creazione conduce tutti nello Spirito Santo.

Il Sacerdozio, che ha il suo inizio nell’ultima Cena, ci permette di partecipare a questa essenziale trasformazione della storia spirituale dell’uomo. Nell’Eucaristia, infatti, noi presentiamo il sacrificio della redenzione, lo stesso che Cristo offrì sulla croce «col proprio sangue». Mediante questo sacrificio anche noi, suoi dispensatori sacramentali, insieme con tutti coloro che serviamo per mezzo della sua celebrazione, tocchiamo continuamente il momento decisivo di quel combattimento spirituale, il quale secondo il libro della Genesi e l’Apocalisse, è collegato alla «donna». In questa lotta ella è interamente unita al Redentore. E perciò anche il nostro servizio sacerdotale ci unisce a lei: a lei che è la Madre del Redentore e il «modello» della Chiesa. In tal modo tutti rimangono uniti a lei in questa lotta spirituale, che si svolge nel corso di tutta la storia dell’uomo. In questa lotta noi abbiamo una parte speciale in virtù del nostro Sacerdozio sacramentale. Noi adempiamo uno speciale servizio nell’opera della redenzione del mondo.

Il Concilio insegna che Maria, avanzando nella peregrinazione della fede mediante la sua perfetta unione col Figlio sino alla croce, va innanzi presentandosi in modo eminente e singolare a tutto il Popolo di Dio, che procede lungo la stessa via, seguendo il Cristo nello Spirito Santo. Non dovremmo unirci in modo speciale a lei noi sacerdoti, che, come pastori della Chiesa, dobbiamo anche condurre le comunità a noi affidate, sulla via che dal cenacolo della Pentecoste segue il Cristo lungo tutta la storia dell’uomo?



8. Mentre oggi, cari fratelli nel sacerdozio, ci riuniamo insieme ai Vescovi in tanti luoghi della terra, ho desiderato sviluppare in questa lettera annuale proprio tale motivo, che mi sembra, altresì, singolarmente collegato al contenuto dell’anno mariano.

Celebrando l’Eucaristia presso i tanti altari sparsi in tutto il mondo, ringraziamo l’eterno Sacerdote per il dono che ha elargito a noi nel sacramento del Sacerdozio. E che in questo ringraziamento si facciano sentire le parole che l’evangelista pone sulle labbra di Maria in occasione della sua visita alla cugina Elisabetta: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, e santo è il suo nome» (Lc 1, 49). Ringraziamo anche Maria per l’ineffabile dono del Sacerdozio, per il quale possiamo servire nella Chiesa ogni uomo. Che la gratitudine risvegli anche il nostro zelo! Non si compie forse, mediante il nostro servizio sacerdotale, ciò di cui parlano i successivi versetti del Magnificat di Maria? Ecco, il Redentore, il Dio della croce e dell’Eucaristia, davvero «innalza gli umili» e «ricolma di beni gli affamati». Egli, che «da ricco che era, si è fatto povero per noi per farci diventare ricchi per mezzo della sua povertà» (cfr. 2 Cor 8, 9), ha affidato all’umile Vergine di Nazaret il mirabile mistero della sua povertà che fa diventare ricchi. Ed affida lo stesso mistero anche a noi mediante il sacramento del Sacerdozio.

Ringraziamo incessantemente per questo. Ringraziamo con tutta la nostra vita. Ringraziamo con tutto ciò di cui siamo capaci. Ringraziamo insieme a Maria, Madre dei sacerdoti. «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore» (Sal 116, [115], 12-13). A tutti i miei fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato invio, con fraterna carità, per il giorno della comune nostra festa, il cordiale saluto e la benedizione apostolica.
  • Dal Vaticano, il 25 Marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 1988 decimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 05, 2010 3:16 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1989
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Amati fratelli nel sacerdozio di Cristo!

1. Anche quest'anno desidero mettere in rilievo la grandezza di questo giorno, che ci riunisce tutti intorno a Cristo. Durante il triduo sacro la Chiesa approfondisce la consapevolezza del mistero pasquale. A noi in modo particolare si indirizza il giorno del giovedì santo. E' la memoria dell'ultima Cena che si ravviva e si ripresenta in questo giorno, e noi ritroviamo in esso ciò di cui viviamo, ciò che siamo per grazia di Dio. Noi ritorniamo all'inizio stesso del sacrificio della nuova ed eterna alleanza ed insieme all'inizio del nostro sacerdozio, che è tutto e pieno in Cristo. Colui che durante la Cena pasquale disse le parole: «Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi»; «questo è il calice del mio sangue... versato per voi e per tutti, in remissione dei peccati» (cfr. Mt 26,26-28), in virtù di queste parole sacramentali si è rivelato come Redentore del mondo ed insieme come Sacerdote della nuova ed eterna alleanza.

La lettera agli Ebrei esprime questa verità nel modo più completo, scrivendo di Cristo come «sommo sacerdote dei beni futuri», il quale «entrò una volta per sempre nel santuario...con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna»; mediante il sangue versato sulla Croce egli «offrì se stesso senza macchia a Dio» in virtù di uno «Spirito eterno» (cfr. Eb 9,11-14).

Per questo l'unico sacerdozio di Cristo è eterno e definitivo, così come definitivo ed eterno è anche il sacrificio da lui offerto. Sempre, ogni giorno e, in particolare, durante il triduo sacro questa verità vive nella consapevolezza della Chiesa: «Abbiamo un grande sommo sacerdote» (cfr. Eb 4,14).

E allo stesso tempo ciò che si compì durante l'ultima Cena, ha reso questo sacerdozio di Cristo sacramento della Chiesa. Esso è divenuto sino alla fine dei tempi il segno della sua identità e la fonte di quella vita nello Spirito Santo, che la Chiesa riceve incessantemente da Cristo. Questa vita viene partecipata da tutti coloro che in Cristo costituiscono la Chiesa. E tutti partecipano del sacerdozio di Cristo, e tale partecipazione significa che già mediante il Battesimo «da acqua e da Spirito Santo» (cfr. Gv 3,5) sono consacrati per offrire i sacrifici spirituali in unione con l'unico sacrificio della Redenzione, offerto da Cristo stesso. Tutti - come popolo messianico della nuova alleanza - diventano in Cristo «sacerdozio regale» (cfr. 1Pt 2,9).

2. Ricordare questa verità sembra particolarmente attuale in occasione della pubblicazione dell'esortazione apostolica «Christifideles Laici», recentemente avvenuta. In essa è contenuto il frutto dei lavori del Sinodo dei Vescovi, radunato in sessione ordinaria nel 1987 ed il cui tema fu la vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo.

Occorre che tutti noi prendiamo conoscenza di questo importante documento. Occorre anche che alla sua luce meditiamo circa la nostra propria vocazione. Una tale riflessione appare molto attuale specialmente nel giorno che ricorda la nascita dell'Eucaristia, nonché del servizio sacramentale dei sacerdoti che è connesso all'Eucaristia.

Nella costituzione «Lumen Gentium» il Concilio Vaticano II ha ricordato in che cosa consiste la differenza tra il sacerdozio comune di tutti i battezzati ed il sacerdozio che si riceve nel sacramento dell'Ordine. Il Concilio chiama quest'ultimo «sacerdozio ministeriale», il che significa insieme «ufficio» e «servizio». Esso è anche «gerarchico» nel senso di sacro servizio. «Gerarchia», infatti, significa sacro governo, il quale nella Chiesa è servizio.

Ricordiamo il noto testo conciliare: «Il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale con la potestà sacra, di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nella persona di Cristo ("in persona Christi") e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale e sacerdozio, concorrono alla oblazione dell'Eucaristia, e lo esercitano col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità» («Lumen Gentium», 10; cfr. «Christifideles Laici», 22).

3. Durante il triduo sacro si presenta agli occhi della nostra fede l'unico sacerdozio della nuova ed eterna alleanza, che è in Cristo stesso. A lui, infatti, si possono applicare le parole sul sommo sacerdote che, «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini» (Eb 5,1). Come uomo Cristo è sacerdote, è il «sommo sacerdote dei beni futuri»; al tempo stesso, però, questo uomo-sacerdote è il Figlio consostanziale al Padre. Per questo anche il suo sacerdozio - il sacerdozio del suo sacrificio redentore - è unico ed irripetibile. E' il compimento trascendente di tutto il contenuto del sacerdozio.

Ora proprio questo unico sacerdozio di Cristo, per mezzo del sacramento del Battesimo, è partecipato da tutti nella Chiesa. Se le parole «sacerdote scelto fra gli uomini» si riferiscono anche a ciascuno di noi, partecipi del sacerdozio ministeriale, esse tuttavia indicano prima di tutto l'appartenenza al popolo messianico, al sacerdozio regale, nonché il nostro radicamento nel sacerdozio comune dei fedeli, che sta alla base della chiamata di ciascuno di noi al ministero sacerdotale.

I «fedeli laici» sono coloro tra i quali ciascuno di noi «viene scelto», coloro tra i quali è nato il nostro sacerdozio. Prima di tutto, sono i nostri genitori, poi i fratelli e le sorelle e tante persone dei vari ambienti, dai quali ognuno di noi proviene: ambienti umani e cristiani, a volte anche scristianizzati. La vocazione sacerdotale, infatti, non sempre nasce in un'atmosfera ad essa favorevole; a volte la grazia della vocazione passa attraverso un contrasto con l'ambiente, persino attraverso la resistenza fatta da familiari.

Ed oltre a tutti coloro che conosciamo e che possiamo finalmente identificare lungo la via della nostra vocazione, ci sono altri ancora, che rimangono sconosciuti. Non siamo mai in grado di stabilire a chi noi dobbiamo questa grazia, alla preghiera ed ai sacrifici di quali persone la dobbiamo, nel mistero della divina economia.

In ogni caso le parole «sacerdote scelto fra gli uomini» possiedono un'ampia estensione. Se oggi meditiamo la nascita del sacerdozio di Cristo, prima di tutto, nell'intimo di ognuno di noi (prima ancora di averlo ricevuto mediante la imposizione delle mani del Vescovo), dobbiamo vivere questo giorno come debitori. Sì, fratelli, noi siamo debitori! Come debitori dell'inscrutabile grazia di Dio, noi nasciamo al sacerdozio, nasciamo dal cuore del Redentore stesso - al centro del suo sacrificio della Croce. Ed insieme noi nasciamo dal seno della Chiesa, popolo sacerdotale. Questo popolo, infatti, è come la terra spirituale delle vocazioni, la terra coltivata dallo Spirito Santo, che è il Paraclito della Chiesa per tutti i tempi.

Il Popolo di Dio gioisce della vocazione sacerdotale dei suoi figli. In questa vocazione esso trova la conferma della propria vitalità nello Spirito Santo, la conferma del sacerdozio regale, mediante il quale Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri», è presente nelle generazioni degli uomini e nelle comunità cristiane. Anche egli è «scelto fra gli uomini». E il «Figlio dell'uomo», il Figlio di Maria.

4. Là dove mancano le vocazioni, la Chiesa deve farsi premurosa. E si fa premurosa, molto premurosa. Questa sollecitudine è partecipata anche dai laici nella Chiesa. In proposito, al Sinodo del 1987 abbiamo sentito parole toccanti non soltanto da parte dei Vescovi e sacerdoti, ma anche dagli stessi laici presenti.

Tale sollecitudine testimonia nel modo migliore chi è il sacerdote per i laici: testimonia la sua identità, e si tratta di una testimonianza della comunità, di una testimonianza sociale. Il sacerdozio, infatti, è un sacramento «sociale»: il sacerdote, «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (Eb 5,1).

Il giorno prima della sua Passione e morte in Croce, Gesù nel Cenacolo lavò i piedi agli apostoli e ciò fece per sottolineare che «non era venuto per essere servito, ma per servire» (cfr. Mc 10,45). Tutto ciò che Cristo faceva e insegnava era a servizio della nostra redenzione. L'ultima e più completa espressione di questo servizio messianico doveva diventare la Croce sul Calvario. In essa ha trovato conferma «sino alla fine» che il Figlio di Dio si è fatto uomo «per noi uomini e per la nostra salvezza» («Credo» Missae). E questo servizio salvifico, che ha un raggio di azione universale, è «iscritto» per sempre nel sacerdozio di Cristo. L'Eucaristia - il sacramento del sacrificio redentore di Cristo - contiene in sé questa «iscrizione». Cristo, che è venuto per servire, è presente sacramentalmente nell'Eucaristia appunto per servire. Questo servizio nello stesso tempo è la pienezza della mediazione salvifica: Cristo è entrato in un santuario eterno, «nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24). Davvero, egli fu «costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio».

Ognuno di noi, che grazie all'ordinazione sacramentale, partecipa del sacerdozio di Cristo, deve costantemente rileggere questa «iscrizione» del servizio redentore di Cristo. Infatti, anche noi - ciascuno di noi - siamo costituiti «per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio». Il Concilio afferma giustamente che «i laici... hanno diritto di ricevere abbondantemente dai sacri Pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti» («Lumen Gentium», 37).

Questo servizio si trova al centro stesso della nostra missione. Certamente anche i nostri fratelli e le nostre sorelle - i fedeli laici - desiderano trovare in noi dei «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). In questa dimensione va cercata la piena autenticità della nostra vocazione, del nostro posto nella Chiesa. Durante il Sinodo dei Vescovi, sul tema dell'apostolato dei laici, fu spesso ricordato che i laici hanno a cuore una tale autenticità della vocazione e della vita sacerdotale. Questa, anzi, è la prima condizione per la vitalità del laicato e per l'apostolato proprio dei laici. In nessun modo si tratta di «laicizzazione» del clero, come non si tratta neppure di «clericalizzazione» dei laici. La Chiesa si sviluppa organicamente secondo il principio della molteplicità e diversità dei «doni», cioè dei carismi (cfr. «Christifideles Laici», 21-23). Ciascuno, infatti, «ha il proprio dono» (1Cor 7,7) «per l'utilità comune» (1Cor 12,7). «Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori della grazia di Dio» (1Pt 4,10).

Queste indicazioni degli apostoli sono pienamente attuali anche nella nostra epoca.

Parimenti a tutti - sia agli ordinati che ai laici - si riferisce la raccomandazione di «comportarsi in maniera degna della vocazione» (cfr. Ef 4,1), di cui ciascuno è stato fatto partecipe.

5. Bisogna dunque che oggi, in un giorno così santo e pieno di profondi contenuti spirituali per noi, meditiamo ancora una volta, ed a fondo, il carattere particolare della nostra vocazione e del nostro servizio sacerdotale. I presbìteri - insegna il Concilio - «per il loro stesso ministero sono tenuti ...a non conformarsi a questo secolo: al tempo stesso, tuttavia, sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini» («Presbyterorum Ordinis», 3). Nella vocazione sacerdotale di un pastore ci deve essere uno spazio speciale per queste persone, per i laici e per la loro «laicità», la quale è anch'essa un grande bene della Chiesa. Un tale spazio interiore è degno della vocazione del sacerdote come pastore.

Il Concilio ha dimostrato con acuta chiarezza che la «laicità» radicata nei sacramenti del Battesimo e della Confermazione, la laicità come dimensione della comune partecipazione al sacerdozio di Cristo costituisce l'essenziale vocazione di tutti i fedeli laici. E i sacerdoti «non potrebbero essere ministri di Cristo, se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena», ma al tempo stesso «non potrebbero nemmeno servire gli uomini, se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente» («Presbyterorum Ordinis», 3). Ciò indica proprio quello spazio interiore per la «laicità», che è profondamente iscritta nella vocazione sacerdotale di ogni pastore: lo spazio per tutto ciò in cui questa «laicità» si esprime. In tutto ciò il sacerdote deve cercare di riconoscere la «vera dignità cristiana» («Lumen Gentium», 18) di ciascuno dei suoi fratelli e sorelle laici; anzi, si deve adoperare per farla presente ad essi stessi, per educarli a questa dignità mediante il suo servizio sacerdotale.

Riconoscendo la dignità dei laici e «il loro ruolo specifico nell'ambito della missione della Chiesa», «i presbìteri sono fratelli tra i fratelli, come membra dell'unico e medesimo corpo di Cristo, la cui edificazione è compito di tutti» («Presbyterorum Ordinis», 9).

6. Sviluppando in sé un tale atteggiamento verso tutti i fedeli laici, verso i laici e la loro «laicità», segnati anch'essi dal dono della vocazione ricevuta da Cristo, il sacerdote può attuare questo compito sociale, che è legato alla sua vocazione di pastore. Egli, cioè, può «radunare» le comunità cristiane, alle quali viene inviato. Il Concilio in più punti mette in rilievo questo compito. Ecco, i sacerdoti, «esercitando... l'ufficio di Cristo..., radunano la famiglia di Dio, quale fraternità animata da un solo intento, e per mezzo di Cristo nello Spirito la conducono a Dio Padre» («Lumen Gentium», 28).

Questo «radunare» è servizio. Ognuno di noi deve essere consapevole di radunare la comunità non intorno a sé, ma intorno a Cristo, e non per sé, ma per Cristo, affinché egli stesso possa agire in questa comunità, ed insieme in ognuno, con la potenza del suo Spirito paraclito, e a misura del «dono» ricevuto da ciascuno in questo Spirito «per l'utilità comune».

Pertanto, questo «radunare» è servizio, e tanto più è servizio, in quanto il sacerdote «presiede» alla comunità. A questo proposito il Concilio sottolinea che «occorre che i presbìteri presiedano in modo tale che, non cercando le cose proprie, ma quelle di Gesù Cristo, uniscano la loro opera a quella dei fedeli laici» («Presbyterorum Ordinis», 9).

Questo «radunare» va inteso non come qualcosa di occasionale, ma come una continua e coerente «edificazione» della comunità. Proprio qui è indispensabile la collaborazione, di cui si parla nel testo conciliare. Qui anche devono essi «scoprire con senso di fede i multiformi carismi, sia umili che più elevati, concessi ai laici; devono ammetterli con gioia e favorirli con diligenza», leggiamo nel decreto conciliare («Presbyterorum Ordinis», 9). «Parimenti, devono assegnare con fiducia ai laici degli incarichi per il servizio della Chiesa, lasciando loro libertà e margine di azione» («Presbyterorum Ordinis», 9).

Rifacendosi alle parole di san Paolo, il Concilio ricorda ai presbìteri che essi «si trovano in mezzo ai laici per condurre tutti all'unità della carità, "amandosi gli uni gli altri con carità fraterna, prevenendosi gli uni gli altri nella deferenza (Rm 12,10)» («Presbyterorum Ordinis», 9).

7. Al presente, dopo al pubblicazione dell'esortazione post-sinodale «Christifideles Laici», molti ambienti nella Chiesa stanno studiando il suo contenuto, in cui ha trovato espressione la sollecitudine collegiale dei Vescovi, riuniti nel Sinodo. Il Sinodo, del resto, è stato un'eco del Concilio, nel tentativo di indicare - alla luce di molteplici esperienze - la direzione in cui dovrebbe procedere l'attuazione del Magistero conciliare circa il laicato. E' noto che esso si è dimostrato particolarmente ricco e stimolante, il che certamente corrisponde anche alle necessità della Chiesa nel mondo contemporaneo.

Noi avvertiamo queste necessità in tutta la loro importanza e complessità. Perciò, la conoscenza del documento post-sinodale ci permetterà di far fronte ad esse e, in molti casi, di aiutarci, altresì, nel nostro servizio sacerdotale. «l sacri Pastori, infatti - leggiamo nella costituzione «Lumen Gentium» - sanno esattamente quanto contribuiscono i laici al bene di tutta la Chiesa. Essi sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutta quanta la missione salvifica della Chiesa verso il mondo» (30).

Sostenendo la dignità e la responsabilità dei laici, «si servano volentieri del loro prudente consiglio» («Lumen Gentium», 37). Tutti i Pastori - Vescovi e sacerdoti - «mostrano al mondo il volto della Chiesa, in base al quale gli uomini giudicano della forza e della verità del messaggio cristiano» («Gaudium et Spes», 43). In tal maniera «è rafforzato nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei Pastori» («Lumen Gentium», 37).

Anche ciò - tra l'altro - sarà oggetto di studio nell'assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema della formazione sacerdotale, annunciato per l'anno 1990. Una tale sequenza di temi già di per sé permette di comprendere che, nella Chiesa, esiste un profondo collegamento tra la vocazione dei laici e quella dei sacerdoti.

8. Nel ricordare tutto ciò nella lettera per il giovedì santo di quest'anno, ho desiderato toccare un argomento collegato in modo essenziale al sacramento del'Ordine. Oggi ci raccogliamo intorno ai nostri Vescovi, come presbiterio delle singole Chiese locali e particolari, in tanti luoghi della terra. Concelebriamo l'Eucaristia, rinnoviamo le promesse sacerdotali connesse alla nostra vocazione ed al nostro servizio nella Chiesa di Cristo. E' la grande giornata sacerdotale di tutte le Chiese del mondo nell'unica Chiesa universale! Ci offriamo reciprocamente il bacio della pace e con questo segno cerchiamo di raggiungere tutti i fratelli nel sacerdozio, persino coloro che sono i più distanti nello spazio del mondo visibile.

Offriamo proprio questo mondo insieme con Cristo al Padre nello Spirito Santo: questo mondo di oggi, «ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà, in mezzo alle quali essa vive» («Gaudium et Spes», 2). Agendo «in persona Christi», come «amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1), siamo consapevoli della dimensione universale del sacrificio eucaristico.

I fedeli laici - nostri fratelli e sorelle - in forza della loro propria vocazione sono uniti a questo «mondo» in modo diverso dal nostro. Il mondo è dato loro in compito da Dio in Cristo redentore. Il loro apostolato deve condurre direttamente alla trasformazione del mondo nello spirito del Vangelo (cfr. «Christifideles Laici», 36). Essi vengono per trovare nell'Eucaristia, di cui noi siamo ministri per grazia di Cristo, la luce e la forza per attuare questo compito.

Rinnoviamo presso tutti gli altari della Chiesa nel mondo di oggi il servizio redentore di Cristo, pensando a loro! Rinnoviamolo come servitori «bravi e fedeli», «che il padrone al suo ritorno troverà vigilanti» (cfr. Lc 19,17; 12,37).

A tutti i cari fratelli nel sacerdozio di Cristo invio il mio cordiale saluto e la benedizione apostolica.
  • Dal Vaticano, il 12 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 1989 undicesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 12, 2010 12:20 pm


  • Solo sacerdoti che chiedono perdono possono insegnare a chiedere perdono
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Solo sacerdoti che avvertono "la coscienza del proprio limite" e "il bisogno di ricorrere alla misericordia divina per chiedere perdono" possono annunciare e amministrare, a loro volta, la misericordia e il perdono di Dio. Lo ha detto il Papa giovedì mattina, 11 marzo, ricevendo in udienza i partecipanti all'annuale corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica.

Cari amici,

sono lieto di incontrarvi e di rivolgere a ciascuno di voi il mio benvenuto, in occasione dell'annuale Corso sul Foro Interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica. Saluto cordialmente Mons. Fortunato Baldelli, che, per la prima volta, come Penitenziere Maggiore, ha guidato le vostre sessioni di studio e lo ringrazio per le parole che mi ha indirizzato. Con lui saluto Mons. Gianfranco Girotti, Reggente, il personale della Penitenzieria e tutti voi che, con la partecipazione a questa iniziativa, manifestate la forte esigenza di approfondire una tematica essenziale per il ministero e la vita dei presbiteri.

Il vostro Corso si colloca, provvidenzialmente, nell'Anno Sacerdotale, che ho indetto per il 150° anniversario della nascita al Cielo di san Giovanni Maria Vianney, il quale ha esercitato in modo eroico e fecondo il ministero della Riconciliazione. Come ho affermato nella Lettera d'indizione: "Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli, [il Curato d'Ars], metteva in bocca a Cristo: "Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia Misericordia è infinita". Dal Santo Curato d'Ars, noi sacerdoti possiamo imparare non solo una inesauribile fiducia nel Sacramento della Penitenza, che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del "dialogo di salvezza" che in esso si deve svolgere". Dove affondano le radici dell'eroicità e della fecondità, con cui San Giovanni Maria Vianney ha vissuto il proprio ministero di confessore? Anzitutto in un'intensa dimensione penitenziale personale. La coscienza del proprio limite ed il bisogno di ricorrere alla Misericordia Divina per chiedere perdono, per convertire il cuore e per essere sostenuti nel cammino di santità, sono fondamentali nella vita del sacerdote: solo chi per primo ne ha sperimentato la grandezza può essere convinto annunciatore e amministratore della Misericordia di Dio. Ogni sacerdote diviene ministro della Penitenza per la configurazione ontologica a Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, che riconcilia l'umanità con il Padre; tuttavia, la fedeltà nell'amministrare il Sacramento della Riconciliazione è affidata alla responsabilità del presbitero.

Viviamo in un contesto culturale segnato dalla mentalità edonistica e relativistica, che tende a cancellare Dio dall'orizzonte della vita, non favorisce l'acquisizione di un quadro chiaro di valori di riferimento e non aiuta a discernere il bene dal male e a maturare un giusto senso del peccato. Questa situazione rende ancora più urgente il servizio di amministratori della Misericordia Divina. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che c'è una sorta di circolo vizioso tra l'offuscamento dell'esperienza di Dio e la perdita del senso del peccato. Tuttavia, se guardiamo al contesto culturale in cui visse san Giovanni Maria Vianney, vediamo che, per vari aspetti, non era così dissimile dal nostro. Anche al suo tempo, infatti, esisteva una mentalità ostile alla fede, espressa da forze che cercavano addirittura di impedire l'esercizio del ministero. In tali circostanze, il Santo Curato d'Ars fece "della chiesa la sua casa", per condurre gli uomini a Dio. Egli visse con radicalità lo spirito di orazione, il rapporto personale ed intimo con Cristo, la celebrazione della S. Messa, l'Adorazione eucaristica e la povertà evangelica, apparendo ai suoi contemporanei un segno così evidente della presenza di Dio, da spingere tanti penitenti ad accostarsi al suo confessionale. Nelle condizioni di libertà in cui oggi è possibile esercitare il ministero sacerdotale, è necessario che i presbiteri vivano in "modo alto" la propria risposta alla vocazione, perché soltanto chi diventa ogni giorno presenza viva e chiara del Signore può suscitare nei fedeli il senso del peccato, dare coraggio e far nascere il desiderio del perdono di Dio.

Cari confratelli, è necessario tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui "abitare" più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell'Eucaristia. La "crisi" del Sacramento della Penitenza, di cui spesso si parla, interpella anzitutto i sacerdoti e la loro grande responsabilità di educare il Popolo di Dio alle radicali esigenze del Vangelo. In particolare, chiede loro di dedicarsi generosamente all'ascolto delle confessioni sacramentali; di guidare con coraggio il gregge, perché non si conformi alla mentalità di questo mondo (cfr. Rm 12, 2), ma sappia compiere scelte anche controcorrente, evitando accomodamenti o compromessi. Per questo è importante che il sacerdote abbia una permanente tensione ascetica, nutrita dalla comunione con Dio, e si dedichi ad un costante aggiornamento nello studio della teologia morale e delle scienze umane.

San Giovanni Maria Vianney sapeva instaurare con i penitenti un vero e proprio "dialogo di salvezza", mostrando la bellezza e la grandezza della bontà del Signore e suscitando quel desiderio di Dio e del Cielo, di cui i santi sono i primi portatori. Egli affermava: "Il Buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l'Amore del nostro Dio, che si spinge fino a dimenticare volontariamente l'avvenire, pur di perdonarci" (Monnin A., Il Curato d'Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. i, Torino 1870, p. 130). È compito del sacerdote favorire quell'esperienza di "dialogo di salvezza", che, nascendo dalla certezza di essere amati da Dio, aiuta l'uomo a riconoscere il proprio peccato e a introdursi, progressivamente, in quella stabile dinamica di conversione del cuore, che porta alla radicale rinuncia al male e ad una vita secondo Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1431).

Cari sacerdoti, quale straordinario ministero il Signore ci ha affidato! Come nella Celebrazione Eucaristica Egli si pone nelle mani del sacerdote per continuare ad essere presente in mezzo al suo Popolo, analogamente, nel Sacramento della Riconciliazione Egli si affida al sacerdote perché gli uomini facciano l'esperienza dell'abbraccio con cui il padre riaccoglie il figlio prodigo, riconsegnandogli la dignità filiale e ricostituendolo pienamente erede (cfr. Lc 15, 11-32). La Vergine Maria e il Santo Curato d'Ars ci aiutino a sperimentare nella nostra vita l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità dell'Amore di Dio (cfr. Ef 3, 18-19), per esserne fedeli e generosi amministratori. Vi ringrazio tutti di cuore e volentieri vi imparto la mia Benedizione.
  • Benedetto XVI
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 12, 2010 12:30 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1990
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«Veni, Creator Spiritus»!

1. Con queste parole la Chiesa ha pregato nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale. Oggi, mentre comincia il triduo sacro dell'anno del Signore 1990, ricordiamo insieme il giorno della nostra ordinazione. Ci rechiamo al cenacolo con Cristo e con gli apostoli per celebrare l'Eucaristia «in cena Domini» e per ritrovare quella radice che in sé unisce l'Eucaristia della Pasqua di Cristo e il nostro sacerdozio sacramentale, ereditato dagli apostoli: «Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

«Veni, Creator Spiritus»!

In questo Giovedì santo, ritornando all'origine del sacerdozio della nuova ed eterna alleanza, ciascuno di noi ricorda, al tempo stesso, quel giorno che è inscritto nella storia della propria vita come inizio del suo sacerdozio sacramentale, quale servizio nella Chiesa di Cristo. La voce della Chiesa, che invoca lo Spirito Santo in questo giorno per noi decisivo, fa riferimento alla promessa di Cristo nel cenacolo: «Io pregherò il Padre (per voi), ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità» (Gv 14,16-17). Il Consolatore, il Paraclito! La Chiesa è sicura della sua presenza salvifica e santificatrice. E' lui «che dà la vita» (Gv 6,63). «Lo Spirito di verità, che procede dal Padre, che io vi manderò dal Padre», proprio lui ha generato in noi quella nuova vita che si chiama ed è il sacerdozio ministeriale di Cristo. Questi dice: «Egli... prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 15,26). E' accaduto proprio così. Lo Spirito di verità, il Paraclito, «ha preso» da quell'unico sacerdozio che è in Cristo e ce lo ha rivelato come la via della nostra vocazione e della nostra vita.

E' stato in tale giorno che ciascuno di noi ha visto se stesso, nel sacerdozio di Cristo al cenacolo, come ministro dell'Eucaristia e, vedendosi, ha cominciato a camminare in questa direzione.

E' stato in tale giorno che ciascuno di noi, per virtù del sacramento, ha visto questo sacerdozio come realizzato in se stesso, come impresso nella propria anima sotto forma di un sigillo indelebile: «Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchisedek».

2. Tutto questo si ripresenta ogni anno dinanzi ai nostri occhi nel giorno anniversario della nostra ordinazione, ma si ripresenta, altresì, nel giorno del Giovedì santo. Oggi, infatti, nella liturgia mattutina della Messa crismale, noi ci riuniamo, all'interno delle rispettive comunità sacerdotali, intorno ai nostri vescovi per ravvivare la grazia sacramentale dell'Ordine. Ci riuniamo per rinnovare, davanti al popolo sacerdotale della nuova alleanza, quelle promesse che dal giorno dell'ordinazione fondano lo speciale carattere del nostro ministero della Chiesa.

E col rinnovarle noi invochiamo lo Spirito di verità, il Paraclito, perché conceda la forza salvifica e santificatrice alle parole che la Chiesa pronuncia nel suo inno di invocazione: «Mentes tuorum visita, / imple superna gratia, / quae tu creasti pectora».

Sì! Oggi apriamo i nostri cuori, questi cuori che egli ha ricreati con la sua opera divina. Egli li ha ricreati con la grazia della vocazione sacerdotale, e in essi continuamente agisce. Egli ogni giorno crea: crea in noi, sempre di nuovo, quella realtà che costituisce l'essenza del nostro sacerdozio, che conferisce a ciascuno di noi la piena identità e autenticità nel servizio sacerdotale, che ci consente di «andare e portare frutto» e procura che questo frutto «rimanga» (Gv 15,16). E' lui, lo Spirito del Padre e del Figlio, che ci consente di riscoprire sempre più profondamente il mistero di quell'amicizia, alla quale Cristo Signore ci ha chiamati nel cenacolo: «Non vi chiamo più servi..., ma vi ho chiamati amici» (Gv 15,15). Se infatti il servo non sa ciò che fa il suo padrone, l'amico invece è al corrente dei segreti del suo padrone. Il servo può essere soltanto obbligato a lavorare. L'amico gode della scelta di colui che gli si è affidato e al quale anch'egli si affida, si affida totalmente.

Oggi, dunque, preghiamo lo Spirito Santo, affinché visiti di continuo i nostri pensieri e i nostri cuori. La sua visita è condizione per rimanere nell'amicizia con Cristo: essa garantisce anche a noi una conoscenza sempre più profonda, sempre più commovente del mistero del nostro Maestro e Signore. Di questo mistero noi partecipiamo in maniera singolare: ne siamo gli araldi e, soprattutto, i dispensatori. Questo mistero penetra in noi e, per mezzo di noi, a somiglianza della vite, fa nascere i tralci della vita divina. Quanto, dunque, è da desiderare il tempo della venuta di questo Spirito che «dà la vita»! Quanto deve essere a lui unito il nostro sacerdozio per «rimanere nella vite che è Cristo»!

«Veni, Creator Spiritus»!

3. Fra alcuni mesi queste stesse parole dell'inno liturgico inaugureranno l'assemblea del Sinodo dei vescovi, dedicata al sacerdozio e alla formazione sacerdotale nella Chiesa. Questo tema apparve all'orizzonte della precedente assemblea del Sinodo tre anni fa, nel 1987. Frutto del lavoro di quella sessione sinodale fu l'esortazione apostolica «Christifideles Laici», che in molti ambienti è stata accolta con grande soddisfazione. Fu, questo, un tema obbligato, e i lavori del Sinodo, svoltisi con una notevole partecipazione del laicato cattolico - uomini e donne di tutti i continenti - si sono rivelati particolarmente utili in ordine ai problemi dell'apostolato nella Chiesa. Conviene anche aggiungere che all'ispirazione sinodale deve la sua genesi il documento «Mulieris Dignitatem», che costituì, in certo modo, il completamento dell'Anno mariano.

Ma già allora all'orizzonte di quei lavori si dimostrò presente il tema del sacerdozio e della formazione sacerdotale. «Senza i presbiteri che possono chiamare i laici a svolgere il loro ruolo nella Chiesa e nel mondo, che possono essere di aiuto nella formazione dei laici all'apostolato, sostenendoli nella loro difficile vocazione, verrebbe a mancare una testimonianza essenziale nella vita della Chiesa». Con queste parole un benemerito ed esperto rappresentante del laicato si espresse su quello che avrebbe poi costituito il tema della prossima assemblea sinodale dei vescovi di tutto il mondo. Né questa voce fu l'unica. La stessa necessità avverte il popolo di Dio tanto nei Paesi dove il cristianesimo e la Chiesa esistono da molti secoli, quanto nei Paesi di missione, dove la Chiesa e il cristianesimo stanno mettendo le radici. Se nei primi anni dopo il Concilio si avvertì un certo disorientamento in questo ambito da parte sia dei laici che dei pastori di anime, al giorno d'oggi il bisogno di sacerdoti è diventato ovvio e urgente per tutti.

In questa problematica è implicita anche l'esatta rilettura dello stesso insegnamento del Concilio circa il rapporto tra il «sacerdozio dei fedeli» - risultante già fin dalla loro fondamentale inserzione, per mezzo del battesimo, nella realtà della missione sacerdotale di Cristo - e il «sacerdozio ministeriale», del quale - in diverso grado - partecipano i vescovi, i presbiteri e i diaconi. Tale rapporto corrisponde alla struttura comunitaria della Chiesa. Il sacerdozio non è un'istituzione che esista «accanto» al laicato, oppure «sopra» di esso. Il sacerdozio dei vescovi, dei presbiteri, come anche il ministero dei diaconi, è «per» i laici e, proprio per questo, possiede un carattere «ministeriale» cioè «di servizio». Esso, inoltre, fa risaltare lo stesso «sacerdozio battesimale», cioè il sacerdozio comune di tutti i fedeli: lo fa risaltare e insieme lo aiuta ad attuarsi nella vita sacramentale.

Si vede così come il tema del sacerdozio e della formazione sacerdotale emerga dall'interno stesso della tematica del precedente Sinodo dei vescovi. Si vede, altresì, come questo tema, in tale ordine, sia tanto più giustificato e obbligato, quanto più è urgente.

4. Conviene, pertanto, che il triduo sacro di quest'anno, in particolar modo il Giovedì santo sia un giorno-chiave per la preparazione dell'assemblea autunnale del Sinodo dei vescovi. Durante la fase preparatoria, già in corso da circa due anni, è stato chiesto ai presbiteri diocesani e religiosi di intervenire attivamente e di presentare osservazioni, proposte e conclusioni. Benché il tema riguardi la Chiesa nel suo complesso, sono tuttavia i sacerdoti del mondo intero che hanno per primi il diritto e insieme il dovere di considerare questo Sinodo come «proprio»: davvero, «res nostra agitur»!

E poiché tutto ciò è, nello stesso tempo, «res sacra», conviene allora che la preparazione del Sinodo si appoggi non soltanto sull'interscambio di riflessioni, esperienze e suggerimenti, ma che abbia anche un carattere sacrale. Bisogna pregare molto per i lavori del Sinodo. Molto dipende da essi ai fini dell'ulteriore processo di rinnovamento, avviato dal Concilio Vaticano II. Molto in questo campo dipende da quegli «operai» che «il padrone manderà nella sua messe». Oggi, forse, in vista del terzo millennio dalla venuta di Cristo, sperimentiamo in modo più profondo la grandezza e le difficoltà della messe: «La messe è molta»; ma avvertiamo anche la mancanza di operai: «Gli operai sono pochi». «Pochi»: e ciò riguarda non soltanto la quantità, ma anche la qualità! Di qui allora la necessità della formazione! E di qui assumono decisivo significato le parole successive del maestro: «Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe».

Il Sinodo, al quale ci prepariamo, deve avere un carattere di preghiera. I suoi lavori devono trascorrere in un'atmosfera di preghiera da parte degli stessi membri. Ma non basta. Occorre che tali lavori siano accompagnati dalla preghiera di tutti i sacerdoti e di tutta la Chiesa. Le riflessioni da me proposte durante l'Angelus domenicale, da alcune settimane, tendono a suscitare una tale preghiera.

5. Per queste ragioni il Giovedì santo del 1990 - dies sacerdotalis di tutta la Chiesa - ha in tale iter preparatorio un significato fondamentale. Fin da oggi occorre invocare lo Spirito santo che dà la vita: «Veni, Creator Spiritus»! Nessun altro tempo fa percepire così intimamente la profonda verità intorno al sacerdozio di Cristo. Colui che «col proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, dopo averci ottenuto una redenzione eterna» (Eb 9,12), essendo egli stesso il sacerdote della nuova ed eterna alleanza, nello stesso tempo «amò sino alla fine i suoi che erano nel mondo» (Gv 13,1). E la misura di questo amore è il dono dell'ultima cena: l'Eucaristia e il sacerdozio.

Riuniti intorno a questo dono mediante l'odierna liturgia, e nella prospettiva del Sinodo dedicato al sacerdozio, lasciamo operare in noi lo Spirito Santo, affinché la missione della Chiesa continui a maturare secondo quella misura che è in Gesù Cristo. Che ci sia dato di conoscere sempre più perfettamente «l'amore di Cristo, il quale sorpassa ogni conoscenza»! Che in lui e per lui possiamo essere «ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,19) nella nostra vita e nel servizio sacerdotale.

A tutti i fratelli nel sacerdozio di Cristo invio l'espressione della mia stima e del mio amore, con una speciale benedizione apostolica.
  • Dal Vaticano, il 12 aprile, Giovedì Santo, dell'anno 1990, dodicesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 19, 2010 12:14 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1991
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Venerati e cari fratelli nel sacerdozio ministeriale di Cristo!

«Lo Spirito del Signore è sopra di me».

1. Mentre siamo raccolti nelle cattedrali delle nostre diocesi in torno al Vescovo per la liturgia della Messa crismale, ascoltiamo queste parole pronunciate da Cristo nella sinagoga di Nazareth. Presentandosi per la prima volta dinanzi alla comunità del suo paese di origine, Gesù legge dal Libro del profeta Isaia le parole dell'annuncio messianico: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato». Nel loro significato immediato queste parole indicano la missione profetica del Signore quale annunciatore del Vangelo. Ma possiamo applicarle alla multiforme grazia che Egli ci comunica. Il rinnovamento delle promesse sacerdotali del Giovedì Santo è unito al rito della benedizione degli Oli santi, i quali, in alcuni sacramenti della Chiesa, esprimono quell'unzione dello Spirito Santo che deriva dalla pienezza che è in Cristo. L'unzione dello Spirito Santo attua prima il dono soprannaturale della grazia santificante, mediante il quale l'uomo diventa in Cristo partecipe della natura divina e della vita della Santissima Trinità.

Tale donazione è in ciascuno di noi la fonte interiore della vocazione cristiana e di ogni vocazione nella comunità della Chiesa, quale Popolo di Dio della Nuova Alleanza. In questo giorno, dunque, noi guardiamo il Cristo, che è la pienezza, la fonte ed il modello di tutte le vocazioni e, in particolare, della vocazione al servizio sacerdotale quale partecipazione peculiare, mediante il carattere sacerdotale dell'Ordine, al suo sacerdozio. In lui solo c'è la pienezza dell'unzione, la pienezza del dono, la quale è per tutti e per ciascuno: essa è inesauribile. All'inizio del triduum sacrum, mentre la Chiesa intera, mediante la liturgia, penetra in modo singolare nel mistero pasquale di Cristo, noi leggiamo la profondità della nostra vocazione, che è ministeriale, la quale deve essere vissuta sull'esempio del Maestro che prima dell'ultima Cena lava i piedi agli Apostoli. Durante questa stessa Cena, dalla pienezza del dono del Padre che è in lui e che, per mezzo suo, viene elargito all'uomo, Cristo istituirà il sacramento del suo Corpo e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e lo affiderà - il sacramento dell'Eucaristia - nelle mani degli Apostoli e, per il loro tramite, nelle mani della Chiesa, per tutti i tempi fino alla sua definitiva venuta nella gloria.

Nella potenza dello Spirito Santo, operante nella Chiesa dal giorno di Pentecoste, questo sacramento, attraverso la lunga serie delle generazioni sacerdotali è stato affidato anche a noi nel presente momento della storia dell'uomo e del mondo, la quale in Cristo è diventata definitivamente storia della salvezza. Ciascuno di noi, cari fratelli, ripercorre oggi con la mente e col cuore la propria via al sacerdozio e, in seguito, la propria via nel sacerdozio, che è via della vita e del servizio e che a noi è derivata dal Cenacolo. Tutti ricordiamo il giorno e l'ora allorché, dopo aver recitato insieme le Litanie dei Santi, prostrati sul pavimento del tempio, il Vescovo impose su ciascuno di noi le sue mani, in profondo silenzio. Sin dai tempi apostolici, l'imposizione delle mani è il segno della trasmissione dello Spirito Santo, che è, egli stesso, il supremo artefice della santa potestà sacerdotale: autorità sacramentale e ministeriale. Tutta la liturgia del triduum sacrum ci avvicina al Mistero pasquale, da cui tale autorità ha il suo inizio per essere servizio e missione: a questo possiamo applicare le parole del Libro di Isaia, pronunciate da Gesù nella sinagoga di Nazareth: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato».

2. Venerati e cari fratelli, scrivendovi per il Giovedì Santo dello scorso anno, cercai di orientare la vostra attenzione verso l'assemblea del Sinodo dei Vescovi che sarebbe stata dedicata al tema della formazione sacerdotale. L'assemblea si svolse nell'ottobre scorso, ed al presente, insieme al Consiglio della Segreteria Generale del Sinodo, stiamo preparando la pubblicazione del relativo Documento. Ma prima che tale testo sia pubblicato, desidero dirvi già oggi che il Sinodo stesso è stato una grande grazia. Ogni Sinodo è sempre per la Chiesa una grazia di speciale attuazione della collegialità dell'episcopato di tutta la Chiesa. Questa volta l'esperienza è stata arricchita in modo singolare; infatti, nell'assemblea sinodale hanno preso la parola i Vescovi di Paesi in cui la Chiesa da poco tempo appena è uscita fuori, per così dire, dalle catacombe. Altra grazia del Sinodo è stata una nuova maturità nella visione del servizio sacerdotale nella Chiesa: maturità a misura dei tempi in cui si esplica la nostra missione.

Questa maturità si esprime come un'approfondita lettura dell'essenza stessa del sacerdozio sacramentale e, dunque, anche della vita personale di ogni sacerdote, cioè della sua partecipazione al mistero salvifico di Cristo: «Sacerdos alter Christus». E' un'espressione, questa, che indica quanto sia necessario partire da Cristo per leggere la realtà sacerdotale. Soltanto così possiamo corrispondere pienamente alla verità sul sacerdote, il quale «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio». La dimensione umana del servizio sacerdotale, per essere del tutto autentica, deve essere radicata in Dio. Infatti, attraverso tutto ciò che in esso è «per il bene degli uomini», tale servizio «riguarda Dio»: serve la molteplice ricchezza di questo rapporto. Senza uno sforzo per corrispondere pienamente a quell'«unzione con lo Spirito del Signore», che lo costituisce nel sacerdozio ministeriale, il sacerdote non può soddisfare a quelle attese che gli uomini - la Chiesa e il mondo - giustamente collegano ad esso.

Tutto ciò è strettamente connesso con la questione dell'identità sacerdotale. E' difficile dire per quali ragioni nel periodo postconciliare la consapevolezza di questa identità in alcuni ambienti sia diventata incerta. Ciò poteva dipendere da una lettura impropria del Magistero conciliare della Chiesa nel contesto di certe premesse ideologiche estranee alla Chiesa e di certi «trends» che provengono dall'ambiente culturale. Sembra che negli ultimi tempi - anche se le stesse premesse e gli stessi «trends» continuano ad operare - stia avvenendo una significativa trasformazione nelle Comunità ecclesiali stesse. I laici vedono l'indispensabile necessità dei sacerdoti come condizione della loro autentica vita e del loro stesso apostolato. A sua volta, questa esigenza si fa notare, anzi diventa impellente in molte situazioni, in base alla mancanza o all'insufficiente numero di ministri dei misteri di Dio. Ciò riguarda anche, sotto un altro aspetto, le terre della prima evangelizzazione, come dimostra la recente Enciclica sulle missioni. Questa necessità di sacerdoti - fenomeno variamente crescente - dovrà aiutare a superare la crisi dell'identità sacerdotale.

L'esperienza degli ultimi decenni dimostra sempre più chiaramente quanto ci sia bisogno del sacerdote nella Chiesa e nel mondo -, e questo non in una qualche forma «laicizzata», ma in quella che si attinge dal Vangelo e dalla ricca Tradizione della Chiesa. Il Magistero del Concilio Vaticano II è l'espressione e la conferma di questa Tradizione nel senso di un opportuno aggiornamento («accommodata renovatio»); ed in questa stessa direzione si sono orientati gli interventi dei partecipanti all'ultimo Sinodo, nonché quelli dei rappresentanti dei sacerdoti, invitati da varie parti del mondo. Il processo di rinascita delle vocazioni sacerdotali soddisfa solo parzialmente la carenza di sacerdoti. Anche se tale processo su scala globale è positivo, si determinano tuttavia sproporzioni tra le diverse parti della comunità della Chiesa in tutto il mondo. Il quadro è molto diversificato. In occasione del Sinodo questo quadro è stato sottoposto alle analisi più dettagliate non soltanto a fini statistici, ma anche in rapporto ad un possibile «scambio dei doni», cioè al reciproco aiuto.

L'opportunità di un tale aiuto si impone da sola essendo noto che ci sono dei luoghi dove risulta un solo sacerdote per alcune centinaia di fedeli, e ce ne sono dove c'è un sacerdote per diecimila fedeli e persino per un numero ancora maggiore. Vorrei richiamare al riguardo alcune espressioni del Decreto del Concilio Vaticano II su «il ministero e la vita sacerdotale»: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'Ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli ultimi confini della terra"... Ricordino quindi i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le Chiese». L'angosciosa carenza di sacerdoti in alcune Regioni rende oggi attuali più che mai queste parole del Concilio. Mi auguro che, particolarmente nelle diocesi più ricche di clero, esse siano seriamente meditate e attuate nel modo più generoso possibile.

In ogni caso, dappertutto, per ogni luogo è indispensabile la preghiera, perché «il Padrone della messe mandi operai nella sua messe». E' questa la preghiera per le vocazioni ed è la preghiera, altresì, perché ogni sacerdote raggiunga una maturità sempre maggiore nella sua vocazione: nella vita e nel servizio. Tale maturità contribuisce in modo speciale all'aumento delle vocazioni. Occorre semplicemente amare il proprio sacerdozio, metterci tutto se stesso affinché la verità sul sacerdozio ministeriale diventi in tal modo attraente per gli altri. Nella vita di ciascuno di noi deve essere leggibile il mistero di Cristo, da cui prende inizio il sacerdos come alter Christus.

3. Congedandosi dagli Apostoli nel Cenacolo, Cristo promise loro il Paraclito, un altro Consolatore, lo Spirito Santo, «che procede dal Padre e dal Figlio». Disse infatti: «E' bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò». Queste parole mettono in particolare rilievo il rapporto tra l'ultima Cena e la Pentecoste. A prezzo della sua «dipartita» mediante il sacrificio della croce sul Calvario (ancor prima che avvenga la sua «dipartita» verso il Padre il 40 giorno dopo la Risurrezione), Cristo rimane nella Chiesa: rimane nella potenza del Paraclito, dello Spirito Santo, che «dà la vita». E' lo Spirito Santo a «dare» questa vita divina: vita che si è rivelata nel mistero pasquale di Cristo come più potente della morte, vita che è iniziata con la Risurrezione di Cristo nella storia dell'uomo. Il sacerdozio è tutto al servizio di questa vita: le rende testimonianza mediante il servizio della Parola, la genera, la rigenera e moltiplica mediante il servizio dei sacramenti.

Il sacerdote stesso prima di tutto vive di questa vita, la quale è la più profonda fonte della sua maturità ed è anche la garanzia della fecondità spirituale di tutto il suo servizio! Il sacramento dell'Ordine imprime nell'anima del sacerdote un carattere particolare che, una volta ricevuto, permane in lui come fonte della grazia sacramentale, di tutti quei doni e carismi che corrispondono alla vocazione al servizio sacerdotale nella Chiesa. La liturgia del Giovedì Santo è uno speciale momento dell'anno, in cui possiamo e dobbiamo rinnovare e ravvivare in noi la grazia sacramentale del sacerdozio. Ciò facciamo in unione col Vescovo e con l'intero Presbiterio, avendo dinanzi agli occhi la realtà misteriosa del Cenacolo: sia quella del Giovedì Santo, sia quella del giorno di Pentecoste. Entrando nella divina profondità del sacrificio di Cristo, noi ci apriamo al tempo stesso verso lo Spirito Santo Paraclito, il cui dono è la nostra speciale partecipazione all'unico sacerdozio di Cristo, l'eterno sacerdote.

E' per opera dello Spirito Santo che noi possiamo operare «in persona Christi», celebrando l'Eucaristia e svolgendo tutto il servizio sacramentale per la salvezza degli altri. La nostra testimonianza a Cristo sovente è molto imperfetta e difettosa. Quale conforto rimane per noi l'assicurazione che è lui prima di tutto, lo Spirito di verità, a rendere testimonianza a Cristo. Che la nostra testimonianza umana si apra soprattutto alla sua testimonianza! Infatti, egli stesso «scruta le profondità di Dio», ed egli soltanto può avvicinare queste «profondità», queste «grandi opere di Dio» alle menti e ai cuori degli uomini, ai quali noi siamo mandati come servitori del Vangelo della salvezza. Quanto più sentiamo che la nostra missione ci sovrasta, tanto più dobbiamo aprirci all'azione dello Spirito Santo. Specialmente quando la resistenza delle menti e dei cuori, la resistenza di una civiltà generata sotto l'influsso dello «spirito del mondo», diventa particolarmente percepibile e forte. «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza..., intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili».

Nonostante la resistenza delle menti, dei cuori e della civiltà pervasa dallo «spirito del mondo», perdura tuttavia in tutta la creazione l'«attesa», della quale l'Apostolo scrive nella Lettera ai Romani: «Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto», «per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». Che questa visione paolina non abbandoni la nostra consapevolezza sacerdotale, e ci sia di sostegno per la vita e per il servizio! Allora comprenderemo meglio perché il sacerdote è necessario al mondo ed agli uomini.

4. «Lo Spirito del Signore è sopra di me». Prima che giunga alle nostre mani il testo dell'Esortazione post-sinodale sul tema della formazione sacerdotale, vogliate accogliere, venerati e cari fratelli nel sacerdozio ministeriale, questa Lettera per il Giovedì Santo. Sia essa il segno e l'espressione di quella comunione che ci unisce tutti - Vescovi, Sacerdoti ed anche Diaconi - con un legame sacramentale. Possa essa aiutarci a seguire, nella potenza dello Spirito Santo, Gesù Cristo, «l'autore e perfezionatore della fede». Con la mia Benedizione Apostolica.
  • Dal Vaticano, il 10 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell’anno 1991, tredicesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 26, 2010 11:59 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1992
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«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo» (Gv 15,1).

Cari fratelli Sacerdoti!

1. Consentite che mi richiami oggi a queste parole del Vangelo di Giovanni. Esse sono collegate con la liturgia del Giovedì Santo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora» (Gv 13,1), lavò i piedi ai suoi discepoli, e poi parlò loro in modo particolarmente intimo e cordiale, come riferisce il testo giovanneo. Nel quadro di questo discorso d'addio vi è anche l'allegoria della vite e dei tralci: «Io sono la vite, voi i tralci: Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Proprio a queste parole di Cristo desidero riferirmi in occasione del Giovedì Santo di quest'anno del Signore 1992, offrendo alla Chiesa l'Esortazione Apostolica sulla formazione sacerdotale. Essa è frutto del lavoro collegiale del Sinodo dei Vescovi nell'anno 1990, che fu totalmente dedicato proprio a quest'argomento. Abbiamo elaborato insieme un documento, tanto necessario ed atteso, del Magistero della Chiesa, raccogliendo in esso la dottrina del Concilio Vaticano II ed anche la riflessione sulle esperienze dei venticinque anni trascorsi dalla sua conclusione.

2. Desidero oggi deporre tale frutto della preghiera e della riflessione dei Padri Sinodali ai piedi di Cristo Sacerdote e Pastore delle nostre anime (cfr. 1Pt 2,25). Insieme a voi desidero ricevere questo testo dall'altare di quell'unico ed eterno Sacerdozio del Redentore, che durante l'Ultima Cena è divenuto in modo sacramentale la nostra parte. Cristo è la vera Vite. Se l'Eterno Padre coltiva in questo mondo la sua vigna, lo fa nella potenza della Verità e della Vita che sono nel Figlio. Qui si trova l'incessante inizio e l'inesauribile fonte della formazione di ogni cristiano e specialmente di ogni sacerdote. Nel giorno del Giovedì Santo cerchiamo di rinnovare in modo particolare questa consapevolezza e insieme la disposizione indispensabile per poter rimanere, in Cristo, sotto il soffio dello Spirito di Verità, e per poter recare un frutto abbondante nella vigna di Dio.

3. Unendoci nella liturgia del Giovedì Santo con tutti i Pastori della Chiesa, ringraziamo per il dono del Sacerdozio al quale partecipiamo. Al tempo stesso, preghiamo perché i molti sollecitati dalla grazia della vocazione in tutto il mondo rispondano a questo dono. Perché non manchino gli operai per la messe che è grande! (cfr. Mt 9,37). Con questo auspicio, a tutti invio un affettuoso saluto e la Benedizione Apostolica.
  • Dal Vaticano, il 29 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell’anno 1992, quattordicesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 01, 2010 7:55 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1993
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Cari fratelli nel Sacerdozio di Cristo!

1. Mentre oggi ci incontriamo presso le tante Cattedre vescovili del mondo - i componenti delle comunità presbiterali di tutte le Chiese insieme con i Pastori delle diocesi - alla nostra mente ritornano con nuova forza le parole su Gesù Cristo, che sono diventate il filo conduttore del 500 anniversario dell'evangelizzazione del Nuovo Mondo. «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre»: sono le parole sull'Unico ed Eterno Sacerdote, che «entrò una volta per sempre nel santuario... con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna» (Eb 9,12). Ecco, sono giunti i giorni - il «Triduum Sacrum» della santa liturgia della Chiesa - in cui, con venerazione ed adorazione anche più profonda, rinnoviamo la Pasqua di Cristo, quella «sua ora» (cfr. Gv 2,4; 13,1) che è la benedetta «pienezza del tempo» (Gal 4,4). Per mezzo dell'Eucaristia, questa «ora» della redenzione di Cristo continua, nella Chiesa, ad essere salvifica, e proprio oggi la Chiesa ricorda la sua istituzione durante l'Ultima Cena. «Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi» (Gv 14,18). «L'ora» del Redentore, «ora» del suo passaggio da questo mondo al Padre, «ora» della quale Egli stesso dice: «Vado, e tornerò a voi»! (Gv 14,28). Proprio attraverso il suo «andare pasquale», Egli continuamente viene e continuamente è presente tra noi, nella forza dello Spirito Paraclito. E' presente in modo sacramentale. E' presente per mezzo dell'Eucaristia. E' presente realmente.

Noi, cari Fratelli, abbiamo ricevuto dopo gli Apostoli questo ineffabile dono in modo tale da poter essere i ministri di questo andare di Cristo mediante la Croce e, nello stesso tempo, del suo venire mediante l'Eucaristia. Che cosa è per noi questo Santo Triduo! Che cosa è per noi questo giorno - il giorno dell'Ultima Cena! Siamo ministri del mistero della redenzione del mondo, ministri del Corpo che è stato offerto e del Sangue che è stato versato in remissione dei nostri peccati. Ministri di quel Sacrificio per mezzo del quale Lui, l'Unico, è entrato una volta per sempre nel santuario: «offrendo se stesso senza macchia a Dio, purifica la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente» (cfr. Eb 9,14).

Se tutti i giorni della nostra vita sono segnati da questo grande mistero della fede, quello di oggi lo è in modo particolare. Questo è il nostro giorno con Lui.

2. In questo giorno ci ritroviamo insieme, nelle nostre comunità presbiterali, affinché ciascuno possa più profondamente contemplare il mistero di quel Sacramento per mezzo del quale siamo diventati, nella Chiesa, ministri dell'offerta sacerdotale di Cristo. Siamo diventati, nello stesso tempo, servi del sacerdozio regale di tutto il Popolo di Dio, di tutti i battezzati, per annunziare i «magnalia Dei» - le «grandi opere di Dio» (At 2,11). E' bene includere, quest'anno, nel nostro ringraziamento un particolare elemento di riconoscenza per il dono del «Catechismo della Chiesa Cattolica». Tale testo, infatti, è anche una risposta alla missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa: custodire il deposito della fede e trasmetterlo integro, con autorevole e affettuosa sollecitudine, alle generazioni che si susseguono. Frutto della feconda collaborazione di tutto l'Episcopato della Chiesa Cattolica, esso viene affidato anzitutto a noi Pastori del Popolo di Dio, per rafforzare i nostri profondi legami di comunione nella medesima fede apostolica. Compendio dell'unica perenne fede cattolica, esso costituisce uno strumento qualificato e autorevole per testimoniare e garantire quell'unità nella fede, per la quale Cristo stesso, all'avvicinarsi della sua «ora», ha rivolto al Padre un'intensa preghiera (cfr. Gv 17,21-23). Riproponendo i contenuti fondamentali ed essenziali della fede e della morale cattolica, come essi sono creduti, celebrati, vissuti, pregati dalla Chiesa oggi, il Catechismo è un mezzo privilegiato per approfondire la conoscenza dell'inesauribile mistero cristiano, per dare nuovo slancio ad una preghiera intimamente unita a quella di Cristo, per corroborare l'impegno di una coerente testimonianza di vita. Nello stesso tempo, tale Catechismo viene a noi donato come sicuro punto di riferimento per il compimento della missione, affidataci nel sacramento dell'Ordine, di annunziare in nome di Cristo e della Chiesa la «Buona Novella» a tutti gli uomini. Grazie ad esso, possiamo attuare, in maniera sempre rinnovata, il comandamento perenne di Cristo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). In tale sintetico compendio del deposito della fede, possiamo infatti trovare una norma autentica e sicura per l'insegnamento della dottrina cattolica, per lo svolgimento dell'attività catechetica presso il Popolo cristiano, per quella nuova evangelizzazione, di cui il mondo di oggi ha immenso bisogno. Cari Sacerdoti, la nostra vita e il nostro ministero diventeranno, di per se stessi, eloquente catechesi per l'intera comunità a noi affidata, se saranno radicati nella Verità che è Cristo. La nostra, allora, non sarà una testimonianza isolata, ma corale, offerta da persone unite nella stessa fede e comunicanti allo stesso calice. E' a questo «contagio» vitale che dobbiamo mirare insieme, in comunione effettiva ed affettiva, per realizzare la «nuova evangelizzazione» che sempre più urge.

3. Riuniti nel Giovedì Santo in tutte le Comunità presbiterali della Chiesa su tutta la terra, ringraziamo per il dono del sacerdozio di Cristo a cui partecipiamo attraverso il sacramento dell'Ordine. In questo ringraziamento vogliamo includere il tema del «Catechismo», perché ciò che contiene e ciò a cui serve è in modo particolare legato con la nostra vita sacerdotale e con il ministero pastorale nella Chiesa.

Ecco - nel cammino verso il Grande Giubileo dell'Anno 2000 - la Chiesa è riuscita ad elaborare, dopo il Concilio Vaticano II, il compendio della dottrina della fede e della morale, della vita sacramentale e della preghiera. Questa sintesi può recare in vari modi sostegno al nostro ministero sacerdotale. Può anche illuminare la consapevolezza apostolica dei nostri fratelli e sorelle che, conformemente alla loro vocazione cristiana, desiderano insieme con noi dare testimonianza di quella speranza (cfr. 1Pt 3,15), che ci ravviva insieme in Gesù Cristo.

Il Catechismo presenta la «novità del Concilio», collocandola, al tempo stesso, nell'intera Tradizione; è un Catechismo così pieno di quei tesori che troviamo nella Sacra Scrittura e poi nei Padri e Dottori della Chiesa lungo lo spazio dei millenni da permettere a ciascuno di noi di diventare simile a quell'uomo della parabola evangelica «che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52), le antiche e sempre nuove ricchezze del Deposito divino. Ravvivando in noi la grazia del sacramento dell'Ordine, consapevoli di ciò che significa per il nostro ministero sacerdotale il «Catechismo della Chiesa Cattolica», confessiamo con l'adorazione e l'amore Colui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

«Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre».
  • Dal Vaticano, l'8 aprile, Giovedì Santo, dell'anno 1993, quindicesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 01, 2010 8:06 am


  • Carissimi Confratelli nel Sacerdozio
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      • «Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato il Spirito Santo e potenza sia sempre con te per la santificazione del Suo popolo e per l’offerta del sacrificio eucaristico»; «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, vivi il mistero che è posto nelle tue mani e sii imitatore di Cristo immolato per noi».

        (Pontificale Romanum. De Ordinatione Episcopi, presbyterorum et diaconorum,
        editio typica altera , Typis Polyglottis Vaticanis 1990)


Carissimi Confratelli nel Sacerdozio,

In questi giorni pasquali rivivremo il Mistero della nostra Redenzione e compiremo gesti e pronunceremo parole che si collocano davvero al cuore della nostra esistenza sacerdotale. Rivivremo, il Venerdì Santo, il gesto umile e profetico della prostrazione, identico a quello vissuto il giorno della nostra Ordinazione; avremo l’occasione, così, di accogliere, nel Santo Triduo, i doni di grazia rinnovati, mendicando dalla Provvidenza Divina di poter portare frutti abbondanti per noi e per la Salvezza del mondo.
Come ci ricorda la formula dell’unzione crismale, siamo investiti della medesima potenza di Cristo, di quella potestas con la quale il Padre ha consacrato il Suo unico Figlio nello Spirito Santo, e che ci è data con l’esplicito fine di santificare il Suo Popolo e di offrire il Sacrificio Eucaristico. Ogni altro utilizzo della potestà sacramentale ricevuta dall’Ordine Sacro è illegittimo e pericoloso, sia per la nostra salvezza personale, sia per il bene stesso della Chiesa.
Non a caso il rito, quasi nella coscienza della sproporzione assoluta tra la grandezza del Mistero e la piccolezza dell’uomo, richiama: «Renditi conto di ciò che farai». Non ci renderemo mai pienamente conto del grande Mistero che è posto nelle nostre mani, tuttavia siamo chiamati ad una continua tensione di perfezione morale, per vivere «il Mistero che è posto nelle nostre mani» ed essere «imitatori di Cristo».
È questa la straordinaria ed irriducibile novità quotidiana del Sacerdozio: il Mistero si è posto nelle nostre mani! Il Signore del tempo e della storia, Colui che ha fatto tutte le cose, dal Quale veniamo e verso il Quale andiamo, l’Autore della vita, rende alcune Sue povere creature, partecipi della propria potestà salvifica, consegnandosi totalmente, come inerme Agnello immolato, nelle loro mani. Questa consegna non diventi mai un tradimento! Mantenga desta la consapevolezza dell’abbraccio di predilezione di cui siamo stati fatti oggetto e ci conduca, anche e soprattutto nel tempo della prova, a ridire il nostro totale “sì”: un “sì” consapevole dei propri limiti, ma non bloccato da essi; un “sì” libero da ogni complesso di inferiorità; un “sì” cosciente della storia, ma mai intimidito di fronte ad essa; un “sì” che, da quello pronunciato dalla Beata Vergine Maria, nella casa di Nazareth, ha attraversato i secoli, divenendo attuale nei Santi e nell’oggi della nostra esistenza.
Un sacerdote che si renda conto di ciò che compie, conformando a Cristo la propria esistenza, vince il mondo! E tale vittoria è il vero “documento” della Risurrezione di Cristo.
  • Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 09, 2010 10:59 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1994
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Cari fratelli nel sacerdozio!

1. Ci incontriamo oggi intorno all'Eucaristia, nella quale, come ricorda il Concilio Vaticano II, «è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa» (Presbyterorum Ordinis, 5). Quando nella liturgia del Giovedì Santo facciamo memoria dell'istituzione dell'Eucaristia, ci è ben chiaro quello che Cristo ci ha lasciato in così sublime Sacramento. «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1).Quest'espressione di San Giovanni racchiude, in un certo senso, l'intera verità sull'Eucaristia: verità che costituisce contemporaneamente il cuore della verità sulla Chiesa. E', infatti, come se la Chiesa nascesse quotidianamente dall'Eucaristia, celebrata in molti luoghi della terra in condizioni tanto varie e fra culture così diverse, da far sì che il rinnovarsi del mistero eucaristico diventi quasi una giornaliera «creazione». Grazie alla celebrazione dell'Eucaristia, matura sempre più la coscienza evangelica del popolo di Dio, sia nelle nazioni di secolare tradizione cristiana, sia nei popoli da poco entrati nella dimensione nuova che sempre e dappertutto viene conferita alla cultura degli uomini dal mistero dell'incarnazione del Verbo e dalla redenzione mediante la sua morte in croce e la sua resurrezione.

Il «Triduo Sacro» ci introduce in questo mistero in modo unico per tutto l'anno liturgico. La liturgia dell'istituzione dell'Eucaristia costituisce una singolare anticipazione della Pasqua, che si sviluppa attraverso il Venerdì Santo e la Veglia pasquale fino alla Domenica e all'Ottava della Risurrezione.Alla soglia della celebrazione di questo grande mistero della fede, cari fratelli nel Sacerdozio, voi vi incontrate, oggi, intorno ai vostri rispettivi Vescovi, nelle cattedrali delle Chiese diocesane, per rivivere l'istituzione del Sacramento del Sacerdozio insieme con quello dell'Eucaristia. Il Vescovo di Roma celebra tale liturgia circondato dal Presbiterio della sua Chiesa, così come fanno i miei Fratelli nell'episcopato insieme con i presbiteri delle loro Comunità diocesane.

Ecco il motivo dell'odierno appuntamento. Desidero che in questa circostanza giunga a voi una mia speciale parola, affinché tutti insieme possiamo vivere appieno il grande dono che Cristo ci ha elargito. Per noi presbiteri, infatti, il Sacerdozio costituisce il dono supremo, una particolare chiamata a partecipare al mistero di Cristo, che ci conferisce la sublime possibilità di parlare e di agire a suo nome. Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, questa possibilità diventa realtà. Operiamo «in persona Christi» quando, nel momento della consacrazione, pronunciamo le parole: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi (...). Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me». Facciamo proprio questo: con umiltà grande e profonda gratitudine. Questo atto sommo ed allo stesso tempo semplice della nostra missione quotidiana di sacerdoti allarga, si potrebbe dire, la nostra umanità fino agli estremi confini.

Partecipiamo al mistero dell'incarnazione del Verbo, «generato prima di ogni creatura» (Col 1, 15), che nell'Eucaristia restituisce al Padre tutto il creato, il mondo del passato e quello del futuro, e prima di tutto il mondo contemporaneo, nel quale egli vive insieme con noi, è presente per mezzo nostro e proprio per nostro mezzo offre al Padre il sacrificio redentore. Partecipiamo al mistero di Cristo, «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1, 18), che nella sua Pasqua trasforma incessantemente il mondo facendolo progredire verso «la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19). Così, dunque, l'intera realtà, in ogni suo ambito, si fa presente nel nostro ministero eucaristico, che si apre contemporaneamente ad ogni concreta esigenza personale, ad ogni sofferenza, attesa, gioia o tristezza, a seconda delle intenzioni che i fedeli presentano per la Santa Messa. Noi riceviamo tali intenzioni in spirito di carità, introducendo così ogni problema umano nella dimensione della redenzione universale.

Cari fratelli nel Sacerdozio! Questo ministero forma una nuova vita in noi ed intorno a noi. L'Eucaristia evangelizza gli ambienti umani e ci rafforza nella speranza che le parole di Cristo non passano (cfr. Lc 21, 33). Non passano, le sue parole, radicate come sono nel sacrificio della Croce: della perpetuità di questa verità e del divino amore noi siamo testimoni particolari e ministri privilegiati. Possiamo allora gioire insieme, se gli uomini sentono il bisogno del nuovo Catechismo, se prendono nelle mani l'Enciclica Veritatis splendor. Tutto ciò ci conferma nella convinzione che il nostro ministero del Vangelo diventa fruttuoso in virtù dell'Eucaristia. Nel corso dell'ultima Cena, del resto, Cristo disse agli Apostoli: «Non vi chiamo più servi (...); ma vi ho chiamati amici (...). Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15, 15-16).

Quale immensa ricchezza di contenuti la Chiesa ci offre durante il Triduo Sacro, e specialmente il Giovedì Santo, nella liturgia crismale! Queste mie parole sono soltanto un parziale riflesso dei sentimenti che ognuno di voi certamente porta nel cuore. E forse questa Lettera per il Giovedì Santo servirà a far sì che le molteplici manifestazioni del dono di Cristo, sparse nel cuore di tanti, confluiscano davanti alla maestà del grande «mistero della fede» in una significativa condivisione di ciò che il Sacerdozio è, e per sempre rimarrà, nella Chiesa. Possa allora la nostra unione intorno all'altare comprendere quanti portano in sé il segno indelebile di questo Sacramento, nel ricordo anche di quei nostri fratelli che in qualche modo si sono allontanati dal sacro ministero. Confido che tale ricordo conduca ciascuno di noi a vivere ancora più profondamente la sublimità del dono costituito dal Sacerdozio di Cristo.

2. Oggi desidero consegnarvi idealmente, cari Fratelli, la Lettera che ho indirizzato alle Famiglie nell'Anno ad esse dedicato. Ritengo circostanza provvidenziale che l'Organizzazione delle Nazioni Unite abbia proclamato il 1994 Anno Internazionale della Famiglia. La Chiesa, fissando lo sguardo sul mistero della Santa Famiglia di Nazaret, partecipa a tale iniziativa, trovandovi una speciale occasione per annunziare il «vangelo della famiglia». Cristo lo ha proclamato con la sua vita nascosta a Nazaret nel seno della Santa Famiglia. Questo vangelo è stato poi annunziato dalla Chiesa apostolica, come ben emerge dal Nuovo Testamento e, più tardi, è stato testimoniato dalla Chiesa postapostolica, dalla quale abbiamo ereditato la consuetudine di considerare la famiglia come ecclesia domestica.

Nel nostro secolo il «vangelo della famiglia» è presentato dalla Chiesa con la voce di tanti sacerdoti, parroci, confessori, Vescovi; in particolare, con la voce del Successore di Pietro. Quasi tutti i miei Predecessori hanno dedicato alla famiglia una significativa parte del loro «magistero petrino». Il Concilio Vaticano II ha, inoltre, espresso il suo amore per l'istituto familiare attraverso la Costituzione pastorale Gaudium et spes, nella quale ha ribadito la necessità di sostenere la dignità del matrimonio e della famiglia nel mondo contemporaneo.

Il Sinodo dei Vescovi del 1980 è all'origine dell'Esortazione Apostolica Familiaris consortio, che può considerarsi la magna charta della pastorale della famiglia. Le difficoltà del mondo contemporaneo, e specialmente della famiglia, affrontate con coraggio da Paolo VI nell'Enciclica Humanae vitae, esigevano uno sguardo globale sulla famiglia umana e sull'ecclesia domestica nella società attuale. L'Esortazione Apostolica proprio questo si è proposta. E' stato necessario elaborare nuovi metodi di azione pastorale secondo le esigenze della famiglia contemporanea. In sintesi, si potrebbe dire che la sollecitudine per la famiglia e in particolare per i coniugi, per i bambini, i giovani e gli adulti, richiede da noi, sacerdoti e confessori, prima di tutto la scoperta e la costante promozione dell'apostolato dei laici in tale ambito. La pastorale familiare - lo so per mia esperienza personale - costituisce in un certo senso la quintessenza dell'attività dei sacerdoti ad ogni livello. Di tutto questo parla la Familiaris consortio. La Lettera alle Famiglie null'altro fa che riprendere ed attualizzare tale patrimonio della Chiesa postconciliare.

Desidero che questa Lettera risulti utile alle famiglie nella Chiesa e fuori della Chiesa; che serva a voi, cari sacerdoti, nel vostro ministero pastorale dedicato alle famiglie. E' un po' come la Lettera ai Giovani del 1985, che diede inizio ad una grande animazione apostolica e pastorale dei giovani in ogni parte del mondo. Di questo movimento sono manifestazione le Giornate Mondiali della Gioventù, celebrate nelle parrocchie, nelle Diocesi ed a livello di tutta la Chiesa - come quella svoltasi recentemente a Denver, negli Stati Uniti.

Questa Lettera alle Famiglie è più ampia. Più complessa ed universale è, infatti, la problematica della famiglia. Preparandone il testo, mi sono convinto ancora una volta che il magistero del Concilio Vaticano II e, in particolare, la Costituzione pastorale Gaudium et spes, è veramente una ricca fonte di pensiero e di vita cristiana. Spero che questa Lettera, ispirata all'insegnamento conciliare, possa costituire per voi un aiuto non minore che per tutte le famiglie di buona volontà, alle quali essa è indirizzata.

Per un corretto approccio a questo testo converrà tornare a quel passaggio degli Atti degli Apostoli, dove si legge che le prime Comunità erano assidue «nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2, 42). La Lettera alle Famiglie non è tanto un trattato dottrinale quanto, piuttosto, una preparazione ed un'esortazione alla preghiera con le famiglie e per le famiglie.

E' questo il primo compito attraverso il quale voi, cari Fratelli, potete iniziare o sviluppare la pastorale e l'apostolato delle famiglie nelle vostre comunità parrocchiali. Se vi trovate davanti all'interrogativo: come realizzare i compiti dell'Anno della Famiglia?, l'esortazione alla preghiera, contenuta nella Lettera, vi indica in un certo senso la direzione più semplice da intraprendere. Gesù ha detto agli Apostoli: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). E', dunque, chiaro che dobbiamo «fare con Lui»; cioè in ginocchio e in preghiera. «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Queste parole di Cristo vanno tradotte in concrete iniziative in ogni Comunità. Da esse si può ricavare un bel programma pastorale, un programma ricco, pur con grande povertà di mezzi.

Quante famiglie nel mondo pregano! Pregano i bambini, ai quali, in primo luogo, appartiene il Regno dei cieli (cfr. Mt 18, 2-5); grazie a loro pregano non soltanto le madri, ma anche i padri, ritrovando a volte la pratica religiosa da cui si erano allontanati. Non lo si sperimenta forse in occasione della Prima Comunione? E non si avverte forse come sale la «temperatura spirituale» dei giovani, e non dei giovani soltanto, in occasione di pellegrinaggi nei santuari? Gli antichissimi percorsi di pellegrinaggi nell'Oriente e nell'Occidente, cominciando da quelli per Gerusalemme, per Roma e per San Giacomo di Compostella, fino a quelli verso i santuari mariani di Lourdes, Fatima, Jasna Góra e molti altri, sono divenuti nel corso dei secoli occasione di scoperta della Chiesa da parte di moltitudini di credenti e certamente anche di numerose famiglie. L'Anno della Famiglia deve confermare, ampliare ed arricchire questa esperienza. Veglino su ciò tutti i pastori e tutte le istanze responsabili della pastorale familiare, di concerto con il Pontificio Consiglio per la Famiglia, al quale è affidato questo ambito nella dimensione della Chiesa universale. Com'è noto, il Presidente di questo Consiglio ha inaugurato, a Nazaret, l'Anno della Famiglia nella solennità della Santa Famiglia il 26 dicembre 1993.

3. «Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2, 42). Secondo la Costituzione Lumen gentium la Chiesa è la «casa di Dio (cfr. 1 Tm 3, 15), nella quale abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef 2, 19-22), "la dimora di Dio con gli uomini" (Ap 21, 3)» (n. 6). Così l'immagine della «casa di Dio», tra le tante altre immagini bibliche, è ricordata dal Concilio per descrivere la Chiesa. Tale immagine, del resto, è racchiusa in qualche modo in ogni altra; entra anche nell'analogia paolina del Corpo di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 13.27; Rm 12,5), alla quale si riferiva Pio XII nella sua storica enciclica Mystici Corporis; entra nelle dimensioni del Popolo di Dio, secondo i riferimenti del Concilio. L'Anno della Famiglia è per noi tutti un appello a rendere la Chiesa più ancora «casa in cui abita la famiglia di Dio».

E' una chiamata, è un invito che può rivelarsi straordinariamente fecondo per l'evangelizzazione del mondo contemporaneo. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, la fondamentale dimensione dell'esistenza umana, costituita dalla famiglia, è seriamente minacciata nella civiltà contemporanea da varie parti (cfr. Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, n. 13). Eppure quest'«essere famiglia» della vita umana rappresenta un grande bene dell'uomo. La Chiesa desidera servirlo. L'Anno della Famiglia costituisce allora un'occasione significativa per rinnovare l'«essere famiglia» della Chiesa nei suoi vari ambiti.

Cari fratelli nel Sacerdozio! Ciascuno di voi troverà di sicuro nella preghiera la luce necessaria per sapere come attuare tutto ciò: voi, nelle vostre parrocchie e nei vari campi di lavoro evangelico; i Vescovi nelle loro Diocesi; la Sede Apostolica nei riguardi della Curia Romana, seguendo la Costituzione Apostolica Pastor bonus.

La Chiesa, conformemente alla volontà di Cristo, si sforza di diventare sempre più «famiglia», e l'impegno della Sede Apostolica è volto a favorire una tale crescita. Lo sanno bene i Vescovi, che qui giungono in visita ad limina Apostolorum. Le loro visite, sia al Papa che ai singoli Dicasteri, pur conservando quanto è prescritto dalla legge canonica, perdono sempre più l'antico sapore giuridico-amministrativo. Si assiste in modo crescente ad un clima di «scambio di doni», secondo l'insegnamento della Costituzione Lumen gentium (cfr. Giovanni Paolo II, Gratissimam Sane, n. 13). I Fratelli nell'episcopato spesso ne rendono testimonianza durante i nostri incontri.

Desidero in questa circostanza far cenno al Direttorio preparato dalla Congregazione per il Clero, che verrà consegnato ai Vescovi, ai Consigli Presbiterali e a tutti i sacerdoti. Esso non mancherà di recare un provvido contributo al rinnovamento della loro vita e del loro ministero.

4. L'appello alla preghiera con le famiglie e per le famiglie riguarda, cari Fratelli, ciascuno di voi in modo quanto mai personale. Dobbiamo la vita ai nostri genitori ed abbiamo nei loro riguardi costanti debiti di gratitudine. Con loro, ancora vivi o già passati all'eternità, siamo uniti da uno stretto vincolo che il tempo non distrugge. Se a Dio dobbiamo la nostra vocazione, in essa una parte significativa va riconosciuta anche a loro. La decisione di un figlio di dedicarsi al ministero sacerdotale, specialmente in terra di missione, costituisce un sacrificio non piccolo per i genitori. Così è stato anche per i nostri cari, i quali tuttavia hanno presentato a Dio l'offerta dei loro sentimenti, lasciandosi guidare da fede profonda, e ci hanno poi seguito con la preghiera, come fece Maria nei confronti di Gesù, quando egli lasciò la casa di Nazaret per recarsi a svolgere la sua missione messianica.

Quale esperienza fu per ciascuno di noi e, allo stesso tempo, per i nostri genitori, per i nostri fratelli e sorelle e per le persone care il giorno della prima S. Messa! Che cosa sono diventate quelle primizie per le nostre parrocchie e gli ambienti in cui eravamo cresciuti! Ogni nuova vocazione rende la parrocchia consapevole della fecondità della sua maternità spirituale: più spesso ciò avviene, più grande è l'incoraggiamento che ne deriva per gli altri! Ciascun sacerdote può dire di sé: «Sono diventato debitore a Dio e agli uomini». Numerose sono le persone che ci hanno accompagnato con il pensiero e con la preghiera, così come numerose sono quelle che accompagnano con il pensiero e la preghiera il mio ministero sulla Sede di Pietro. Questa grande solidarietà orante è per me fonte di forza. Sì, gli uomini ripongono la loro fiducia nella nostra vocazione al servizio di Dio. La Chiesa prega costantemente per le nuove vocazioni sacerdotali, gioisce del loro aumento, si rattrista per la loro mancanza là dove ciò accade, così come si addolora per la scarsa generosità di molte persone.

In questo giorno rinnoviamo ogni anno le nostre promesse legate al Sacramento del Sacerdozio. E' grande la portata di tali promesse. Si tratta della parola data a Cristo stesso. La fedeltà alla vocazione edifica la Chiesa, ogni infedeltà, invece, diventa una dolorosa ferita nel Corpo mistico di Cristo. Mentre, dunque, contempliamo, riuniti insieme, il mistero dell'Eucaristia e del Sacerdozio, imploriamo il Sommo Sacerdote che - come dice la Sacra Scrittura - si dimostrò fedele (cfr. Eb 2, 17), affinché sia dato anche a noi di mantenerci fedeli. Nello spirito di questa «sacramentale fratellanza» preghiamo vicendevolmente - i sacerdoti per i sacerdoti! Che il Giovedì Santo diventi per noi una rinnovata chiamata a cooperare alla grazia del Sacramento del Sacerdozio! Preghiamo per le nostre famiglie spirituali, per le persone affidate al nostro ministero; preghiamo specialmente per coloro che attendono in modo particolare la nostra preghiera e ne hanno bisogno: la fedeltà alla preghiera faccia sì che Cristo diventi sempre più vita delle nostre anime.

O grande Sacramento della Fede, o santo Sacerdozio del Redentore del mondo! Quanto ti siamo grati, Cristo, che ci hai ammessi alla comunione con te, che ci hai resi una sola comunità intorno a te, che ci permetti di celebrare il tuo sacrificio incruento e di essere ministri dei misteri divini dappertutto: all'altare, nel confessionale, sul pulpito, in occasione delle visite agli ammalati e ai carcerati nelle aule scolastiche, sulle cattedre universitarie, negli uffici in cui lavoriamo. Sii lodata, Santissima Eucaristia! Ti saluto, Chiesa di Dio, che sei il popolo sacerdotale (cfr. 1 Pt 2, 9), redento in virtù del preziosissimo Sangue di Cristo!
  • Dal Vaticano, il 13 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell'anno 1994, decimosesto di Pontificato
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 16, 2010 3:25 pm


  • La conclusione dell’Anno Sacerdotale
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Cari Presbiteri,

la Chiesa è senz’altro molto lieta per l’Anno Sacerdotale e ringrazia il Signore per aver ispirato il Santo Padre ad indirlo. Tutte le informazioni che arrivano qui a Roma sulle numerose e molteplici iniziative intraprese dalle Chiese locali nel mondo intero per realizzare quest’anno speciale costituiscono la prova di come esso sia stato ben recepito e – possiamo dire – abbia risposto ad uno vero e profondo anelito dei presbiteri e di tutto il popolo di Dio. Era ora di dare un’attenzione speciale, riconoscente e intraprendente al grande, laborioso e insostituibile presbiterio e ad ogni singolo presbitero della Chiesa.

È vero che alcuni, ma proporzionalmente molto pochi, presbiteri hanno commesso orribili e gravissimi delitti di abusi sessuali contro minorenni, fatti che dobbiamo in modo assoluto e intransigente rifiutare e condannare. Loro devono rispondere davanti a Dio e davanti ai tribunali, anche civili. Nondimeno preghiamo che arrivino alla conversione spirituale e al perdono di Dio. La Chiesa intanto è decisa a non nascondere o minimizzare tali crimini. Ma soprattutto siamo da parte delle vittime e loro vogliamo sostenere nel recupero e nei loro diritti offesi.

D’altra parte, i delitti di alcuni non possono assolutamente essere usati per infangare l’intero corpo ecclesiale dei presbiteri. Chi lo fa, commette una clamorosa ingiustizia. La Chiesa, in quest’Anno Sacerdotale, cerca di dire ciò alla società umana. Qualsiasi persona di buon senso e di buona volontà lo capisce.

Detto necessariamente questo, torniamo a voi, cari presbiteri. A voi vogliamo dire, ancora una volta, che riconosciamo quello che siete e quello che fate nella Chiesa e nella società. La Chiesa vi ama, vi ammira e vi rispetta. Siete anche una gioia per la nostra gente cattolica nel mondo, che vi accoglie ed appoggia, soprattutto in questi tempi di sofferenze.

Tra due mesi arriveremo alla conclusione dell’Anno Sacerdotale. Il Papa, cari sacerdoti, vi invita di cuore a venire da tutto il mondo a Roma per questa conclusione il 9, 10 e 11 giugno prossimo. Da tutti i paesi del mondo. Dai paesi più vicini a Roma bisognerebbe aspettarsene migliaia e migliaia, vero? Allora, non rifiutate l’invito pressante e cordiale del Santo Padre. Venite e Dio vi benedirà. Il Papa vorrà confermare i presbiteri della Chiesa. La loro presenza numerosa in Piazza San Pietro costituirà anche una forma propositiva e responsabile dei presbiteri a presentarsi pronti e non intimiditi per il servizio all’umanità loro affidato da Gesù Cristo. La loro visibilità in piazza, dinanzi al mondo odierno, sarà una proclamazione del loro invio al mondo non per condannare il mondo, ma per salvarlo (cfr. Gv 3,17 e 12,47). In tale contesto, anche il grande numero avrà un significato speciale.

Per tale presenza numerosa dei presbiteri nella conclusione dell’Anno Sacerdotale, a Roma, c’è ancora un motivo particolare, che si colloca nel cuore della Chiesa, oggi. Trattasi di offrire al nostro amato Papa Benedetto XVI la nostra solidarietà, il nostro appoggio, la nostra fiducia e la nostra comunione incondizionata, dinanzi agli attacchi frequenti che Gli sono rivolti, nel momento attuale, nell’ambito delle sue decisioni riguardo ai chierici incorsi nei delitti di abusi sessuali su minorenni. Le accuse contro di Lui sono evidentemente ingiuste e è stato dimostrato che nessuno ha fatto tanto quanto Benedetto XVI per condannare e per combattere correttamente tali crimini. Allora, la presenza massiva dei presbiteri in piazza con Lui sarà un segno forte del nostro deciso rifiuto degli attacchi ingiusti di cui è vittima. Allora, venite anche per appoggiare pubblicamente il Santo Padre.

La conclusione dell’Anno Sacerdotale non costituirà propriamente una conclusione, ma un nuovo inizio. Noi, il popolo di Dio e i pastori, vogliamo ringraziare il Signore per questo periodo privilegiato di preghiera e di riflessione sul sacerdozio. Al contempo, ci proponiamo di essere sempre attenti a ciò che lo Spirito Santo vuol dirci. Intanto, torneremo all’esercizio della nostra missione nella Chiesa e nel mondo con gioia rinnovata e con la convinzione che Dio, il Signore della storia, resta con noi, sia nelle crisi sia nei nuovi tempi.

La Vergine Maria, Madre e Regina dei sacerdoti, interceda per noi e ci ispiri nella sequela del suo Figlio Gesù Cristo, nostro Signore.
  • Cardinale Cláudio Hummes, Arcivescovo Emerito di São Paulo, Prefetto della Congregazione per il Clero
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 16, 2010 3:45 pm


  • Munus docendi
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Cari amici,

in questo periodo pasquale, che ci conduce alla Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di chiusura dell’Anno Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno prossimo, mi è caro dedicare ancora alcune riflessioni al tema del Ministero ordinato, soffermandomi sulla realtà feconda della configurazione del sacerdote a Cristo Capo, nell’esercizio dei tria munera che riceve, cioè dei tre uffici di insegnare, santificare e governare.

Per capire che cosa significhi agire in persona Christi Capitis - in persona di Cristo Capo - da parte del sacerdote, e per capire anche quali conseguenze derivino dal compito di rappresentare il Signore, specialmente nell’esercizio di questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che cosa si intenda per “rappresentanza”. Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa “rappresentare” qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente - ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione, che contempliamo in modo speciale in questo tempo di Pasqua.

Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati. Il Signore rende presente la sua propria azione nella persona che compie tali gesti. Questi tre compiti del sacerdote - che la Tradizione ha identificato nelle diverse parole di missione del Signore: insegnare, santificare e governare - nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa rappresentazione efficace. Essi sono in realtà le tre azioni del Cristo risorto, lo stesso che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale; e santifica e guida.

Il primo compito del quale vorrei parlare oggi è il munus docendi, cioè quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante. Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali, come vivere, perché non sappiamo più, comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva visto le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo. Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti. Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: “La mia dottrina non è mia” (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: “la mia dottrina non è mia, non propago le mie idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna”.

Questo fatto, che il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama proprie idee in quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo, non significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un portavoce che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in questo caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da me e non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò, in questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del Padre e lui stesso è uno col Padre. Il sacerdote che annuncia la parola di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire: Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha detto: “E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi” (Discorso 229/E, 4).

L’insegnamento che il sacerdote è chiamato ad offrire, le verità della fede, devono essere interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale personale, così che realmente il sacerdote entri in una profonda, interiore comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e cerca di vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha insegnato e la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione con il proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). “Uniti nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino - siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro” (Enarr. in Ps. 131, 1, 7).

Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado potrebbe sembrare “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1,3), ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere.

Nella preparazione attenta della predicazione festiva, senza escludere quella feriale, nello sforzo di formazione catechetica, nelle scuole, nelle istituzioni accademiche e, in modo speciale, attraverso quel libro non scritto che è la sua stessa vita, il sacerdote è sempre “docente”, insegna. Ma non con la presunzione di chi impone proprie verità, bensì con l’umile e lieta certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato afferrato e trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.

Cari confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e la salvezza degli uomini. “Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi [...] nella Verità” (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile 2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con la quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente, nasce anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del Figlio giustifica il mandato missionario: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Solo se è la Verità è destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.

Cari fratelli e sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande compito: essere annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva; essere sua voce nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle anime e all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni Maria Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di grande sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità, fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la voce del Buon Pastore.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 14 aprile 2010
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 22, 2010 2:29 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1995
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1. «Onore a Maria,
onore e gloria,
onore alla Santa Vergine! (...)
Colui che creò il mondo
meraviglioso
in Lei onorava
la propria Madre (...).
L'amava come Madre,
visse nell'obbedienza.
Benché fosse Dio,
rispettava ogni sua parola».



Cari Fratelli nel sacerdozio!

Non vi stupite se inizio questa Lettera, che tradizionalmente vi rivolgo in occasione del Giovedì Santo, con le parole di un canto mariano polacco. Lo faccio perché quest'anno desidero parlarvi dell'importanza della donna nella vita del sacerdote, e questi versi, che cantavo sin da bambino, possono costituire una significativa introduzione a tale tematica.

Il canto evoca l'amore di Cristo per sua Madre. Il primo e fondamentale rapporto che l'essere umano stabilisce con la donna è proprio quello da figlio a madre. Ciascuno di noi può esprimere il suo amore alla madre terrena come il Figlio di Dio ha fatto e fa con la sua. La madre è la donna alla quale dobbiamo la vita. Ci ha concepito nel suo grembo, ci ha dato alla luce tra le doglie che accompagnano l'esperienza di ogni donna che partorisce. Mediante la generazione viene ad instaurarsi uno speciale vincolo, quasi sacro, tra l'essere umano e sua madre.

Dopo averci generato alla vita terrena, furono ancora i nostri genitori a farci diventare in Cristo, grazie al sacramento del Battesimo, figli adottivi di Dio. Tutto ciò ha reso ancor più profondo il legame esistente tra noi e i genitori, in particolare tra noi e le nostre madri. Il prototipo qui è Cristo stesso, Cristo-Sacerdote, che si rivolge così all'eterno Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo (...) per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5-7). Queste parole implicano in qualche modo anche la Madre, avendo l'eterno Padre formato il corpo di Cristo per opera dello Spirito Santo, nel seno della Vergine Maria, anche grazie al suo consenso: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38).

Quanti di noi debbono alla propria madre anche la stessa vocazione al sacerdozio! L'esperienza insegna che molto spesso è la mamma a coltivare per lunghi anni nel proprio cuore il desiderio della vocazione sacerdotale del figlio e ad ottenerla pregando con insistente fiducia e profonda umiltà. Così, senza imporre la propria volontà, ella favorisce, con l'efficacia tipica della fede, lo sbocciare dell'aspirazione al sacerdozio nell'anima del figlio, aspirazione che porterà frutto al momento opportuno.

2. Desidero riflettere in questa Lettera sul rapporto tra il sacerdote e la donna, traendo spunto dal fatto che il tema della donna richiama quest'anno un'attenzione speciale, analogamente a quanto è stato lo scorso anno per il tema della famiglia. Alla donna, infatti, sarà dedicata l'importante Conferenza internazionale convocata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite a Pechino, per il prossimo settembre. E' un tema nuovo rispetto a quello dell'anno scorso, ma con esso strettamente collegato.

Alla presente Lettera, cari Fratelli nel sacerdozio, desidero unire un altro documento. Come l'anno passato ho accompagnato il Messaggio del Giovedì Santo con la Lettera alle Famiglie, così ora vorrei riconsegnarvi la Lettera apostolica Mulieris dignitatem, del 15 agosto 1988. Come ricorderete, si tratta di un testo elaborato al termine dell'Anno Mariano del 1987-1988, durante il quale avevo pubblicato l'Enciclica Redemptoris Mater (25 marzo 1987). E' mio vivo desiderio che nel corso di questo anno si rilegga la Mulieris dignitatem, facendola oggetto di speciale meditazione e considerandone in modo particolare gli aspetti mariani.

Il legame con la Madre di Dio è fondamentale per il «pensare» cristiano. Lo è innanzitutto sul piano teologico, per lo specialissimo rapporto di Maria con il Verbo Incarnato e la Chiesa, suo mistico Corpo. Ma lo è anche sul piano storico, antropologico e culturale. Nel cristianesimo, in effetti, la figura della Madre di Dio rappresenta una grande fonte di ispirazione non soltanto per la vita religiosa, ma anche per la cultura cristiana e per lo stesso amor di patria. Esistono prove di ciò nel patrimonio storico di molte nazioni. In Polonia, per esempio, il più antico monumento letterario è il canto Bogurodzica (Genitrice di Dio), che ha ispirato i nostri avi non solo nel plasmare la vita della nazione, ma perfino nel difendere la giusta causa sul campo di battaglia. La Madre del Figlio di Dio è diventata la «grande ispirazione» per singoli individui e per intere nazioni cristiane. Anche questo, a suo modo, dice moltissimo a proposito dell'importanza della donna nella vita dell'uomo e, a titolo speciale, nell'esistenza del sacerdote.

Ho avuto già occasione di trattare tale argomento nell'Enciclica Redemptoris Mater e nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, rendendo omaggio a quelle donne - madri, spose, figlie o sorelle - che per i relativi figli, mariti, genitori e fratelli sono state un'efficace ispirazione al bene. Non senza motivo si parla di «genio femminile», e quanto ho scritto finora conferma la fondatezza di tale espressione. Tuttavia, trattandosi della vita sacerdotale, la presenza della donna riveste un carattere peculiare ed esige un'analisi specifica.

3. Ma torniamo, intanto, al Giovedì Santo, giorno nel quale acquistano speciale rilievo le parole dell'inno liturgico:

Ave verum Corpus natum de Maria Virgine:
Vere passum, immolatum in cruce pro homine.
Cuius latus perforatum fluxit aqua et sanguine:
Esto nobis praegustatum mortis in examine.
O Iesu dulcis! O Iesu pie! O Iesu, fili Mariae!

Pur non appartenendo, tali parole, alla liturgia del Giovedì Santo, sono ad essa profondamente collegate.

Con l'Ultima Cena, durante la quale Cristo istituì i sacramenti del Sacrificio e del Sacerdozio della Nuova Alleanza, ha inizio il Triduum paschale. Al suo centro si trova il Corpo di Cristo. E' proprio questo Corpo che, prima di essere esposto alla passione e alla morte, durante l'Ultima Cena è offerto come cibo nell'istituzione eucaristica. Cristo prende nelle sue mani il pane, lo spezza e lo distribuisce agli Apostoli, pronunciando le parole: «Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo» (Mt 26,26). Istituisce così il sacramento del suo Corpo, di quel Corpo, che, quale Figlio di Dio, aveva assunto dalla Genitrice, la Vergine Immacolata. Successivamente presenta agli Apostoli nel calice il proprio Sangue sotto la specie del vino, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio Sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,27-28). E qui ancora si tratta del Sangue, che animava il Corpo ricevuto dalla Vergine Madre: Sangue che doveva essere sparso, adempiendo il mistero della Redenzione, perché il Corpo ricevuto dalla Madre, potesse - come Corpus immolatum in cruce pro homine - diventare per noi e per tutti sacramento di vita eterna, viatico per l'eternità. Perciò nell'Ave verum, inno eucaristico e insieme mariano, noi chiediamo: Esto nobis praegustatum mortis in examine.

Anche se nella liturgia del Giovedì Santo non si parla di Maria - la troviamo invece il Venerdì Santo ai piedi della Croce con l'apostolo Giovanni - è difficile non avvertirne la presenza nell'istituzione dell'Eucaristia, anticipo della passione e morte del Corpo di Cristo, di quel Corpo che il Figlio di Dio aveva ricevuto dalla Vergine Madre, al momento dell'Annunciazione.

Per noi, in quanto sacerdoti, l'Ultima Cena è momento particolarmente santo. Cristo, che dice agli Apostoli: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24), istituisce il sacramento dell'Ordine. Rispetto alla nostra vita di presbiteri, questo è un momento spiccatamente cristocentrico: riceviamo infatti il sacerdozio da Cristo-Sacerdote, l'unico Sacerdote della Nuova Alleanza. Ma pensando al sacrificio del Corpo e del Sangue, che in persona Christi viene da noi offerto, ci è difficile non ravvisare in esso la presenza della Madre. Maria ha dato la vita al Figlio di Dio, così come han fatto per noi le nostre madri, perché Egli si offrisse e anche noi ci offrissimo in sacrificio insieme con Lui mediante il ministero sacerdotale. Dietro tale missione c'è la vocazione ricevuta da Dio, ma si nasconde anche il grande amore delle nostre madri, così come dietro al sacrificio di Cristo nel Cenacolo si celava l'ineffabile amore di sua Madre.

Oh, quanto realmente e al tempo stesso discretamente è presente la maternità e, grazie ad essa, la femminilità nel sacramento dell'Ordine, di cui rinnoviamo la festa ogni anno, il Giovedì Santo!

4. Cristo Gesù è l'unico figlio di Maria Santissima. Comprendiamo bene il significato di questo mistero: così era conveniente che fosse, giacché un Figlio tanto singolare per la sua divinità non poteva essere che l'unico figlio della sua Vergine Madre. Ma proprio tale unicità si pone, in qualche modo, quale migliore «garanzia» di una «molteplicità» spirituale. Cristo, vero uomo e insieme eterno ed unigenito Figlio del Padre celeste, conta, sul piano spirituale, un numero sterminato di fratelli e di sorelle. La famiglia di Dio infatti comprende tutti gli uomini: non soltanto quanti mediante il Battesimo diventano figli adottivi di Dio, ma in certo senso l'intera umanità, giacché Cristo ha redento tutti gli uomini e tutte le donne, offrendo loro la possibilità di diventare figli e figlie adottivi dell'eterno Padre. Tutti, così, diventiamo in Cristo fratelli e sorelle.

Ed ecco emergere all'orizzonte della nostra riflessione sul rapporto tra il sacerdote e la donna, accanto alla figura della madre, quella della sorella. Grazie alla Redenzione, il sacerdote partecipa in un modo particolare alla relazione di fraternità offerta da Cristo a tutti i redenti.

Molti tra noi sacerdoti hanno in famiglia delle sorelle. In ogni caso, ciascun sacerdote sin da bambino ha avuto modo di incontrarsi con ragazze, se non nella propria famiglia, almeno nell'ambito del vicinato, nei giochi d'infanzia e a scuola. Un tipo di comunità mista possiede un'importanza enorme per la formazione della personalità dei ragazzi e delle ragazze.

Tocchiamo qui il disegno originario del Creatore, il quale in principio creò l'uomo «maschio e femmina» (cfr. Gen 1,27). Tale divino atto creativo prosegue attraverso le generazioni. Il libro della Genesi ne parla nel contesto della vocazione al matrimonio: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie» (2,24). La vocazione al matrimonio ovviamente suppone ed esige che l'ambiente in cui si vive risulti composto di uomini e di donne.

In tale contesto nascono però non soltanto le vocazioni al matrimonio, ma anche quelle al sacerdozio e alla vita consacrata. Esse non si formano nell'isolamento. Ogni candidato al sacerdozio, nel varcare la soglia del seminario, ha alle spalle l'esperienza della propria famiglia e della scuola, dove ha avuto modo di incontrare molti coetanei e coetanee. Per vivere nel celibato in modo maturo e sereno, sembra essere particolarmente importante che il sacerdote sviluppi profondamente in sé l'immagine della donna come sorella. In Cristo, uomini e donne sono fratelli e sorelle indipendentemente dai legami di parentela. Si tratta di un legame universale, grazie al quale il sacerdote può aprirsi ad ogni ambiente nuovo, perfino il più distante sotto l'aspetto etnico o culturale, con la consapevolezza di dover esercitare verso gli uomini e le donne a cui è inviato un ministero di autentica paternità spirituale, che gli procura «figli» e «figlie» nel Signore (cfr. 1Ts 2,11; Gal 4,19).

5. Senza dubbio «la sorella» rappresenta una specifica manifestazione della bellezza spirituale della donna; ma essa è, al tempo stesso, rivelazione di una sua «intangibilità». Se il sacerdote, con l'aiuto della grazia divina e sotto la speciale protezione di Maria Vergine e Madre, matura in questo senso il suo atteggiamento verso la donna, vedrà il suo ministero accompagnato da un sentimento di grande fiducia proprio da parte delle donne, guardate da lui, nelle diverse età e situazioni di vita, come sorelle e madri.

La figura della donna-sorella riveste notevole importanza nella nostra civiltà cristiana, dove innumerevoli donne sono diventate sorelle in modo universale, grazie al tipico atteggiamento da esse assunto verso il prossimo, specialmente verso quello più bisognoso. Una «sorella» è garanzia di gratuità: nella scuola, nell'ospedale, nel carcere e in altri settori dei servizi sociali. Quando una donna rimane nubile, nel suo «donarsi come sorella» mediante l'impegno apostolico o la generosa dedizione al prossimo, sviluppa una peculiare maternità spirituale. Questo dono disinteressato di «fraterna» femminilità irradia di luce l'umana esistenza, suscita i migliori sentimenti di cui l'uomo è capace e lascia sempre dopo di sé una traccia di riconoscenza per il bene gratuitamente offerto.

Così, dunque, quelle di madre e di sorella sono le due fondamentali dimensioni del rapporto tra donna e sacerdote. Se questo rapporto è elaborato in modo sereno e maturo, la donna non troverà particolari difficoltà nei suoi contatti con il sacerdote. Non ne troverà, ad esempio, nel confessare le proprie colpe nel sacramento della Penitenza. Tanto meno ne incontrerà nell'intraprendere attività apostoliche di vario tipo con i sacerdoti. Ogni prete ha dunque la grande responsabilità di sviluppare in sé un autentico atteggiamento di fratello nei riguardi della donna, un atteggiamento che non ammette ambiguità. In questa prospettiva, al discepolo Timoteo l'Apostolo raccomanda di trattare «le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle in tutta purezza» (1Tm 5,2).

Quando Cristo affermò - come scrive l'evangelista Matteo - che l'uomo può rimanere celibe per il Regno di Dio, gli Apostoli rimasero perplessi (cfr. 19,10-12). Poco prima egli aveva dichiarato indissolubile il matrimonio, e già questa verità aveva suscitato in loro una reazione sintomatica: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10). Come si vede, la loro reazione andava in direzione opposta rispetto alla logica di fedeltà alla quale si ispirava Gesù. Ma il Maestro approfitta anche di questa incomprensione, per introdurre nell'orizzonte angusto del loro modo di pensare la prospettiva del celibato per il Regno di Dio. Con ciò Egli intende affermare che il matrimonio possiede una propria dignità e santità sacramentale e che tuttavia esiste un'altra via per il cristiano: una via che non è fuga dal matrimonio, bensì consapevole scelta del celibato per il Regno dei cieli.

In tale orizzonte la donna non può essere per il sacerdote che una sorella, e questa sua dignità di sorella dev'essere da lui consapevolmente coltivata. L'apostolo Paolo, che viveva nel celibato, così scrive nella Prima Lettera ai Corinzi: «Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (7,7). Per lui non vi è dubbio: sia il matrimonio sia il celibato sono doni di Dio, da custodire e coltivare con premura. Sottolineando la superiorità della verginità, egli non svaluta in alcun modo il matrimonio. Ad entrambi corrisponde uno specifico carisma; ciascuno di essi è una vocazione, che l'uomo, con l'aiuto della grazia di Dio, deve saper discernere nella propria esistenza.

La vocazione al celibato richiede di essere consapevolmente difesa con una speciale vigilanza sui sentimenti e su tutta la propria condotta. In particolare deve difendere la propria vocazione il sacerdote che, secondo la disciplina vigente nella Chiesa occidentale e tanto stimata da quella orientale, ha optato per il celibato in vista del Regno di Dio. Quando nel rapporto con una donna venissero esposti a pericolo il dono e la scelta del celibato, il sacerdote non potrebbe non lottare per mantenersi fedele alla propria vocazione. Una simile difesa non significherebbe che il matrimonio in sé stesso sia qualcosa di male, ma che per lui la strada è un'altra.

Lasciarla, nel suo caso, sarebbe venir meno alla parola data a Dio.

La preghiera del Signore: «E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male», acquista un singolare significato nel contesto della civiltà contemporanea, satura di elementi di edonismo, di egocentrismo e di sensualità. Dilaga purtroppo la pornografia, che umilia la dignità della donna, trattandola come esclusivo oggetto di godimento sessuale. Questi aspetti dell'attuale civiltà non favoriscono certo né la fedeltà coniugale né il celibato per il Regno di Dio. Se il sacerdote non alimenta in sé disposizioni autentiche di fede, di speranza e di amore verso Dio, facilmente può cedere ai richiami che gli provengono dal mondo. Come dunque non rivolgermi a voi, cari Fratelli nel sacerdozio, oggi, Giovedì Santo, per esortarvi a restare fedeli al dono del celibato, offertoci da Cristo? In esso è contenuto un bene spirituale che appartiene a ciascuno ed all'intera Chiesa.

Nel pensiero e nella preghiera sono presenti quest'oggi in modo particolare i nostri fratelli nel sacerdozio che incontrano difficoltà in questo campo, quanti proprio a causa di una donna hanno abbandonato il ministero sacerdotale. Raccomandiamo a Maria Santissima, Madre dei sacerdoti, e all'intercessione degli innumerevoli santi sacerdoti della storia della Chiesa il momento difficile che essi stanno attraversando, domandando per loro la grazia del ritorno al fervore primitivo (cfr. Ap 2,4-5). L'esperienza del mio ministero, e credo che ciò valga per ogni Vescovo, conferma che tali riprese avvengono e che pure oggi non sono poche. Dio resta fedele all'alleanza che stringe con l'uomo nel sacramento dell'Ordine.

6. A questo punto, vorrei toccare l'argomento, ancor più ampio, del ruolo che la donna è chiamata a svolgere nell'edificazione della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha colto pienamente la logica del Vangelo, nei capitoli II e III della Lumen gentium, presentando la Chiesa prima come Popolo di Dio e soltanto dopo come struttura gerarchica. Essa è anzitutto Popolo di Dio, giacché quanti la formano, uomini e donne, partecipano - ciascuno nel modo che gli è proprio - alla missione profetica, sacerdotale e regale di Cristo. Mentre invito a rileggere i citati testi conciliari, mi limiterò qui ad alcune brevi riflessioni prendendo spunto dal Vangelo.

Al momento di ascendere al cielo, Cristo comanda agli Apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Predicare il Vangelo è adempiere alla missione profetica, la quale ha nella Chiesa forme diverse secondo il carisma donato a ciascuno (cfr. Ef 4,11-12). In quella circostanza, trattandosi degli Apostoli e della loro peculiare missione, è a degli uomini che tale compito viene affidato; ma, se leggiamo attentamente i racconti evangelici e specialmente quello di Giovanni, non può non colpire il fatto che la missione profetica, considerata secondo tutta la sua diversificata ampiezza, viene distribuita tra uomini e donne. Basti ricordare, per esempio, la Samaritana e il suo dialogo con Cristo presso il pozzo di Giacobbe a Sicar (cfr. Gv 4,1-42): è a lei, samaritana e per giunta peccatrice, che Gesù rivela le profondità del vero culto a Dio, al quale non importa il luogo ma l'atteggiamento dell'adorazione «in spirito e verità».

E che dire delle sorelle di Lazzaro, Maria e Marta? I Sinottici, a proposito della «contemplativa» Maria, annotano la preminenza riconosciuta da Cristo alla contemplazione rispetto all'azione (cfr. Lc 10,42). Più importante ancora è quanto scrive san Giovanni nel contesto della risurrezione di Lazzaro, loro fratello. In questo caso è a Marta, la più «attiva» delle due, che Gesù rivela i misteri profondi della sua missione: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Il mistero pasquale è contenuto in queste parole rivolte ad una donna.

Ma procediamo nel racconto evangelico ed entriamo nella narrazione della Passione. Non è forse un dato incontestabile che proprio le donne furono più vicine a Cristo sulla via della croce e nell'ora della morte? Un uomo, Simone di Cirene, viene costretto a portare la croce (cfr. Mt 27,32); numerose donne di Gerusalemme invece spontaneamente gli dimostrano compassione lungo la «via crucis» (cfr. Lc 23,27). La figura della Veronica, pur non biblica, ben esprime i sentimenti delle donne di Gerusalemme sulla via dolorosa.

Sotto la croce c'è soltanto un apostolo, Giovanni di Zebedeo, mentre ci sono diverse donne (cfr. Mt 27,55-56): la Madre di Cristo, che, secondo la tradizione, l'aveva accompagnato nel cammino verso il Calvario; Salome, la madre dei figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo; Maria, madre di Giacomo il minore e di Giuseppe; e Maria di Magdala. Tutte intrepidi testimoni dell'agonia di Gesù; tutte presenti nel momento dell'unzione e della deposizione del suo corpo nel sepolcro. Dopo la sepoltura, volgendo al termine il giorno prima del sabato, esse partono, con il proposito però di ritornare, appena consentito. E saranno loro le prime a recarsi al sepolcro, di buon mattino, il giorno dopo la festa. Saranno esse le prime testimoni della tomba vuota, e saranno ancora esse ad informarne gli Apostoli (cfr. Gv 20,1-2). Maria Maddalena, rimasta in lacrime presso il sepolcro, è la prima ad incontrare il Risorto, che la invia agli Apostoli, quale prima annunciatrice della sua risurrezione (cfr. Gv 20,11-18). A ragione, pertanto, la tradizione orientale pone Maddalena quasi alla pari degli Apostoli, essendo stata lei la prima ad annunziare la verità della risurrezione, seguita poi dagli Apostoli e dai discepoli di Cristo.

Così anche le donne, accanto agli uomini, hanno parte nella missione profetica di Cristo. E lo stesso si può dire circa la loro partecipazione alla sua missione sacerdotale e regale. Il sacerdozio universale dei fedeli e la dignità regale investono uomini e donne. Al riguardo, è quanto mai illuminante una lettura attenta dei passi della Prima Lettera di san Pietro (2,9-10) e della Costituzione conciliare Lumen gentium (nn. 10-12; 34-36).

7. In quest'ultima, al capitolo sul Popolo di Dio segue quello sulla struttura gerarchica della Chiesa. Si parla in esso del sacerdozio ministeriale, al quale per volontà di Cristo sono ammessi soltanto gli uomini. Oggi, in alcuni ambienti, il fatto che la donna non possa essere ordinata sacerdote viene interpretato come una forma di discriminazione. Ma è veramente così?

Certo, la questione potrebbe essere posta in questi termini, se il sacerdozio gerarchico determinasse una posizione sociale di privilegio, caratterizzata dall'esercizio del «potere». Ma così non è: il sacerdozio ministeriale, nel disegno di Cristo, non è espressione di dominio, ma di servizio. Chi lo interpretasse come «dominio», sarebbe certamente lontano dall'intenzione di Cristo, che nel Cenacolo iniziò l'Ultima Cena lavando i piedi agli Apostoli. In questo modo pose fortemente in rilievo il carattere «ministeriale» del sacerdozio istituito quella sera stessa. «Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).

Sì, il sacerdozio che oggi ricordiamo con tanta venerazione come nostra speciale eredità, cari Fratelli, è un sacerdozio ministeriale! Serviamo il Popolo di Dio! Serviamo la sua missione! Questo nostro sacerdozio deve garantire la partecipazione di tutti uomini e donne - alla triplice missione profetica, sacerdotale e regale di Cristo. E non solo il sacramento dell'Ordine è ministeriale: ministeriale è prima di tutto la stessa Eucaristia. Affermando: «Questo è il mio Corpo che è dato per voi (...) Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22,19.20), il Cristo rivela il suo servizio più grande: il servizio della Redenzione, in cui l'unigenito ed eterno Figlio di Dio diventa Servo dell'uomo nel senso più pieno e profondo.

8. Accanto a Cristo-Servo, non possiamo dimenticare Colei che è «la Serva », Maria. San Luca ci informa che, nel momento decisivo dell'Annunciazione, la Vergine pronunciò il suo «fiat» dicendo: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc 1,38). Il rapporto del sacerdote verso la donna come madre e sorella si arricchisce, grazie alla tradizione mariana, di un altro aspetto: quello del servizio ad imitazione di Maria serva. Se il sacerdozio è per sua natura ministeriale, occorre viverlo in unione con la Madre, che è serva del Signore. Allora, il nostro sacerdozio sarà custodito nelle sue mani, anzi nel suo cuore, e potremo aprirlo a tutti. Sarà in tal modo fecondo e salvifico, in ogni sua dimensione.

Voglia la Vergine Santa guardare con particolare affetto a tutti noi, suoi figli prediletti, in questa festa annuale del nostro sacerdozio. Ci metta nel cuore soprattutto un grande anelito di santità. Scrivevo nell'Esortazione apostolica Pastores dabo vobis: «La nuova evangelizzazione ha bisogno di nuovi evangelizzatori, e questi sono i sacerdoti che si impegnano a vivere il loro ministero come cammino specifico verso la santità» (n. 82). Il Giovedì Santo, riportandoci alle origini del nostro sacerdozio, ci ricorda anche il dovere di tendere alla santità, per essere «ministri di santità» verso gli uomini e le donne affidati al nostro servizio pastorale. In questa luce appare quanto mai opportuna la proposta, avanzata dalla Congregazione per il Clero, di celebrare in ogni diocesi una «Giornata per la Santificazione dei Sacerdoti» in occasione della festa del Sacro Cuore, o in altra data più consona alle esigenze ed alle consuetudini pastorali del luogo. Faccio mia questa proposta, auspicando che tale Giornata aiuti i sacerdoti a vivere nella conformazione sempre più piena al cuore del Buon Pastore.

Invocando su tutti voi la protezione di Maria, Madre della Chiesa, Madre dei sacerdoti, con affetto vi benedico.
  • Dal Vaticano, il 25 marzo, Solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 30, 2010 8:46 am


  • San Leonardo Murialdo e San Giuseppe Benedetto Cottolengo
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Cari fratelli e sorelle,

ci stiamo avviando verso la conclusione dell’Anno Sacerdotale e, in questo ultimo mercoledì di aprile, vorrei parlare di due santi Sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi: san Leonardo Murialdo e san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Del primo ricordiamo i 110 anni dalla morte e i 40 anni dalla canonizzazione; del secondo sono iniziate le celebrazioni per il 2° centenario di Ordinazione sacerdotale.

Il Murialdo nacque a Torino il 26 ottobre 1828: è la Torino di san Giovanni Bosco, dello stesso san Giuseppe Cottolengo, terra fecondata da tanti esempi di santità di fedeli laici e di sacerdoti. Leonardo è l’ottavo figlio di una famiglia semplice. Da bambino, insieme con il fratello, entrò nel collegio dei Padri Scolopi di Savona per il corso elementare, le scuole medie e il corso superiore; vi trovò educatori preparati, in un clima di religiosità fondato su una seria catechesi, con pratiche di pietà regolari. Durante l’adolescenza visse, però, una profonda crisi esistenziale e spirituale che lo portò ad anticipare il ritorno in famiglia e a concludere gli studi a Torino, iscrivendosi al biennio di filosofia. Il “ritorno alla luce” avvenne - come egli racconta - dopo qualche mese, con la grazia di una confessione generale, nella quale riscoprì l’immensa misericordia di Dio; maturò, allora, a 17 anni, la decisione di farsi sacerdote, come riposta d’amore a Dio che lo aveva afferrato con il suo amore. Venne ordinato il 20 settembre 1851. Proprio in quel periodo, come catechista dell’Oratorio dell’Angelo Custode, fu conosciuto ed apprezzato da Don Bosco, il quale lo convinse ad accettare la direzione del nuovo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova che tenne fino al 1865. Lì venne in contatto anche con i gravi problemi dei ceti più poveri, ne visitò le case, maturando una profonda sensibilità sociale, educativa ed apostolica che lo portò poi a dedicarsi autonomamente a molteplici iniziative in favore della gioventù. Catechesi, scuola, attività ricreative furono i fondamenti del suo metodo educativo in Oratorio. Sempre Don Bosco lo volle con sé in occasione dell’Udienza concessagli dal beato Pio IX nel 1858.

Nel 1873 fondò la Congregazione di San Giuseppe, il cui fine apostolico fu, fin dall’inizio, la formazione della gioventù, specialmente quella più povera e abbandonata. L’ambiente torinese del tempo fu segnato dall’intenso fiorire di opere e di attività caritative promosse dal Murialdo fino alla sua morte, avvenuta il 30 marzo del 1900.

Mi piace sottolineare che il nucleo centrale della spiritualità del Murialdo è la convinzione dell’amore misericordioso di Dio: un Padre sempre buono, paziente e generoso, che rivela la grandezza e l’immensità della sua misericordia con il perdono. Questa realtà san Leonardo la sperimentò a livello non intellettuale, ma esistenziale, mediante l’incontro vivo con il Signore. Egli si considerò sempre un uomo graziato da Dio misericordioso: per questo visse il senso gioioso della gratitudine al Signore, la serena consapevolezza del proprio limite, il desiderio ardente di penitenza, l’impegno costante e generoso di conversione. Egli vedeva tutta la sua esistenza non solo illuminata, guidata, sorretta da questo amore, ma continuamente immersa nell’infinita misericordia di Dio. Scrisse nel suo Testamento spirituale: “La tua misericordia mi circonda, o Signore… Come Dio è sempre ed ovunque, così è sempre ed ovunque amore, è sempre ed ovunque misericordia”. Ricordando il momento di crisi avuto in giovinezza, annotava: “Ecco che il buon Dio voleva far risplendere ancora la sua bontà e generosità in modo del tutto singolare. Non soltanto egli mi ammise di nuovo alla sua amicizia, ma mi chiamò ad una scelta di predilezione: mi chiamò al sacerdozio, e questo solo pochi mesi dopo il mio ritorno a lui”. San Leonardo visse perciò la vocazione sacerdotale come dono gratuito della misericordia di Dio con senso di riconoscenza, gioia e amore. Scrisse ancora: “Dio ha scelto me! Egli mi ha chiamato, mi ha perfino forzato all’onore, alla gloria, alla felicità ineffabile di essere suo ministro, di essere «un altro Cristo» … E dove stavo io quando mi hai cercato, mio Dio? Nel fondo dell’abisso! Io ero là, e là Dio venne a cercarmi; là egli mi fece intendere la sua voce…”.

Sottolineando la grandezza della missione del sacerdote che deve “continuare l’opera della redenzione, la grande opera di Gesù Cristo, l’opera del Salvatore del mondo”, cioè quella di “salvare le anime”, san Leonardo ricordava sempre a se stesso e ai confratelli la responsabilità di una vita coerente con il sacramento ricevuto. Amore di Dio e amore a Dio: fu questa la forza del suo cammino di santità, la legge del suo sacerdozio, il significato più profondo del suo apostolato tra i giovani poveri e la fonte della sua preghiera. San Leonardo Murialdo si è abbandonato con fiducia alla Provvidenza, compiendo generosamente la volontà divina, nel contatto con Dio e dedicandosi ai giovani poveri. In questo modo egli ha unito il silenzio contemplativo con l’ardore instancabile dell’azione, la fedeltà ai doveri di ogni giorno con la genialità delle iniziative, la forza nelle difficoltà con la serenità dello spirito. Questa è la sua strada di santità per vivere il comandamento dell’amore, verso Dio e verso il prossimo.

Con lo stesso spirito di carità è vissuto, quarant’anni prima del Murialdo, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera da lui stesso denominata “Piccola Casa della Divina Provvidenza” e chiamata oggi anche “Cottolengo”. Domenica prossima, nella mia Visita pastorale a Torino, avrò modo di venerare le spoglie di questo Santo e di incontrare gli ospiti della “Piccola Casa”.

Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra, cittadina della provincia di Cuneo, il 3 maggio 1786. Primogenito di 12 figli, di cui 6 morirono in tenera età, mostrò fin da fanciullo grande sensibilità verso i poveri. Abbracciò la via del sacerdozio, imitato anche da due fratelli. Gli anni della sua giovinezza furono quelli dell’avventura napoleonica e dei conseguenti disagi in campo religioso e sociale. Il Cottolengo divenne un buon sacerdote, ricercato da molti penitenti e, nella Torino di quel tempo, predicatore di esercizi spirituali e conferenze presso gli studenti universitari, dove riscuoteva sempre un notevole successo. All’età di 32 anni, venne nominato canonico della Santissima Trinità, una congregazione di sacerdoti che aveva il compito di officiare nella Chiesa del Corpus Domini e di dare decoro alle cerimonie religiose della città, ma in quella sistemazione egli si sentiva inquieto. Dio lo stava preparando ad una missione particolare, e, proprio con un incontro inaspettato e decisivo, gli fece capire quale sarebbe stato il suo futuro destino nell’esercizio del ministero.

Il Signore pone sempre dei segni sul nostro cammino per guidarci secondo la sua volontà al nostro vero bene. Per il Cottolengo questo avvenne, in modo drammatico, la domenica mattina del 2 settembre 1827. Proveniente da Milano giunse a Torino la diligenza, affollata come non mai, dove si trovava stipata un’intera famiglia francese in cui la moglie, con cinque bambini, era in stato di gravidanza avanzata e con la febbre alta. Dopo aver vagato per vari ospedali, quella famiglia trovò alloggio in un dormitorio pubblico, ma la situazione per la donna andò aggravandosi e alcuni si misero alla ricerca di un prete. Per un misterioso disegno incrociarono il Cottolengo, e fu proprio lui, con il cuore pesante e oppresso, ad accompagnare alla morte questa giovane madre, fra lo strazio dell’intera famiglia. Dopo aver assolto questo doloroso compito, con la sofferenza nel cuore, si recò davanti al Santissimo Sacramento e pregò: “Mio Dio, perchè? Perchè mi hai voluto testimone? Cosa vuoi da me? Bisogna fare qualcosa!”. Rialzatosi, fece suonare tutte le campane, accendere le candele, e accogliendo i curiosi in chiesa disse: “La grazia è fatta! La grazia è fatta!”. Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi.

Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. Spostandosi verso la periferia di Torino per espandere la sua opera, creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio che riuscì a costruire assegnò un nome significativo: “casa della fede”, “casa della speranza”, “casa della carità”. Mise in atto lo stile delle “famiglie”, costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano. Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso: chi lavorava, chi pregava, chi serviva, chi istruiva, chi amministrava. Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari. Pensò anche ad un proprio seminario, per una formazione specifica dei sacerdoti dell’Opera. Fu sempre pronto a seguire e a servire la Divina Provvidenza, mai ad interrogarla. Diceva: “Io sono un buono a nulla e non so neppure cosa mi faccio. La Divina Provvidenza però sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino”. Per i suoi poveri e i più bisognosi, si definirà sempre “il manovale della Divina Provvidenza”.

Accanto alle piccole cittadelle volle fondare anche cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti, e li considerò tra le realizzazioni più importanti: una sorta di “cuore” che doveva battere per tutta l’Opera. Morì il 30 aprile 1842, pronunciando queste parole: “Misericordia, Domine; Misericordia, Domine. Buona e Santa Provvidenza… Vergine Santa, ora tocca a Voi”. La sua vita, come scrisse un giornale del tempo, era stata tutta “un’intensa giornata d’amore”.

Cari amici, questi due santi Sacerdoti, dei quali ho presentato qualche tratto, hanno vissuto il loro ministero nel dono totale della vita ai più poveri, ai più bisognosi, agli ultimi, trovando sempre la radice profonda, la fonte inesauribile della loro azione nel rapporto con Dio, attingendo dal suo amore, nella profonda convinzione che non è possibile esercitare la carità senza vivere in Cristo e nella Chiesa. La loro intercessione e il loro esempio continuino ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato, e aiutino ciascuno a donarsi con gioia e generosità a Dio e al prossimo.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 28 aprile 2010
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 30, 2010 9:16 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1996
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Carissimi Fratelli nel sacerdozio!

«Consideriamo... la nostra vocazione, fratelli» (cfr 1 Cor 1, 26). Il sacerdozio è una vocazione, una vocazione particolare: «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (Eb 5, 4). La Lettera agli Ebrei fa riferimento al sacerdozio dell'Antico Testamento, per introdurre alla comprensione del mistero di Cristo Sacerdote: «Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: ... Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek» (5, 5-6).

La singolare vocazione di Cristo Sacerdote

1. Cristo, Figlio consostanziale al Padre, è costituito sacerdote della Nuova Alleanza secondo l'ordine di Melchisedek: anch'egli viene, dunque, chiamato al sacerdozio. È il Padre a «chiamare» il proprio Figlio, da Lui generato con un atto di eterno amore, perché «entri nel mondo» (cfr Eb 10, 5) e si faccia uomo. Egli vuole che il suo unigenito Figlio, incarnandosi, diventi «sacerdote per sempre»: l'unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Nella vocazione del Figlio al sacerdozio si esprime la profondità del mistero trinitario. Soltanto il Figlio, infatti, il Verbo del Padre, nel quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, può offrire incessantemente in sacrificio al Padre la creazione, confermando che quanto è creato proviene dal Padre e deve diventare un'offerta di lode al Creatore. Così, dunque, il mistero del sacerdozio trova il suo inizio nella Trinità ed è al tempo stesso conseguenza dell'Incarnazione. Facendosi uomo, l'unigenito ed eterno Figlio del Padre nasce da donna, entra nell'ordine della creazione e diventa così sacerdote, unico ed eterno sacerdote.

L'Autore della Lettera agli Ebrei sottolinea che il sacerdozio di Cristo è legato al sacrificio della Croce: «Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, entrò una volta per sempre nel santuario... con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna» (Eb 9,11-12). Il sacerdozio di Cristo è radicato nell'opera della redenzione. Cristo è sacerdote del proprio sacrificio: «Con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14). Il sacerdozio della Nuova Alleanza, al quale veniamo chiamati nella Chiesa, costituisce perciò la partecipazione a questo singolare sacerdozio di Cristo.

Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale

2. Il Concilio Vaticano II presenta il concetto di «vocazione» in tutta la sua ampiezza. Parla, infatti, di vocazione dell'uomo, di vocazione cristiana, di vocazione alla vita coniugale e familiare. In tale contesto il sacerdozio costituisce una delle vocazioni, una delle possibili forme di realizzazione della sequela di Cristo, il quale più volte nel Vangelo rivolge l'invito: «Seguimi!».

Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, il Concilio insegna che tutti i battezzati partecipano del sacerdozio di Cristo; allo stesso tempo, però, distingue chiaramente tra il sacerdozio del popolo di Dio, comune a tutti i fedeli, e il sacerdozio gerarchico, cioè ministeriale. Merita, in proposito, di essere riportato per intero un illuminante passo del citato documento conciliare: «Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr Eb 5, 1-5), fece del nuovo popolo "un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo" (Ap 1, 6; cfr 5, 9-10). Infatti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr 1 Pt 2, 4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr At 2, 42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr Rm 12, 1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in loro della vita eterna (cfr 1 Pt 3, 15). Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano all'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'Eucaristia, ed esercitano il sacerdozio con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità».

Il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio comune dei fedeli. Il sacerdote, infatti, quando celebra l'Eucaristia e amministra i sacramenti, rende consapevoli i fedeli della loro partecipazione peculiare al sacerdozio di Cristo.

La chiamata personale al sacerdozio

3. Appare, pertanto, con chiarezza che, nell'ambito più vasto della vocazione cristiana, quella sacerdotale costituisce una chiamata specifica. E ciò è conforme in genere all'esperienza personale di noi sacerdoti: abbiamo ricevuto il battesimo e la confermazione; abbiamo partecipato alla catechesi, alle celebrazioni liturgiche e, soprattutto, all'Eucaristia. La nostra vocazione al sacerdozio è sbocciata nel contesto della vita cristiana.

Ogni vocazione al sacerdozio ha, tuttavia, una sua storia individuale, che fa riferimento a momenti ben precisi della vita di ciascuno. Chiamando gli Apostoli, Cristo diceva ad ognuno: «Seguimi!» (Mt 4, 19; 9, 9; Mc 1, 17; 2, 14; Lc 5, 27; Gv 1, 43; 21, 19). Da duemila anni Egli continua a rivolgere lo stesso invito a molti uomini, in particolare ai giovani. Talora chiama anche in modo sorprendente, benché non si tratti mai di una chiamata del tutto inattesa. L'invito di Cristo a seguirlo è, di solito, preparato nell'arco di tempi lunghi. Presente già nella coscienza del ragazzo, anche se offuscato in seguito dall'indecisione o dal richiamo a seguire altre strade, quando l'invito torna a farsi sentire non costituisce una sorpresa. Non ci si meraviglia allora che sia stata proprio questa vocazione a prevalere sulle altre, e il giovane può intraprendere la via indicatagli da Cristo: lascia la famiglia ed inizia la preparazione specifica al sacerdozio.

Esiste una tipologia della chiamata, a cui vorrei ora accennare. Ne troviamo un abbozzo nel Nuovo Testamento. Con il suo «Seguimi!» Cristo si rivolge a varie persone: ci sono pescatori come Pietro o i figli di Zebedeo (cfr Mt 4, 19.22), ma c'è anche Levi, un pubblicano, in seguito chiamato Matteo. La professione di esattore delle imposte era ritenuta in Israele peccaminosa e meritevole di disprezzo. Eppure Cristo chiama nel gruppo degli Apostoli proprio un pubblicano (cfr Mt 9, 9). Massimo stupore desta certamente la chiamata di Saulo di Tarso (cfr At 9, 1-19), noto e temuto persecutore dei cristiani, che aveva in odio il nome di Gesù. Proprio questo fariseo viene chiamato sulla via di Damasco: di lui il Signore vuol fare «uno strumento eletto», destinato a soffrire molto per il suo nome (cfr At 9, 15-16).

Ciascuno di noi sacerdoti riconosce se stesso nell'originale tipologia evangelica della vocazione; al tempo stesso, egli sa che la storia della sua vocazione, il cammino lungo il quale Cristo lo conduce per l'intera esistenza, è in certo senso irripetibile.

Carissimi Fratelli nel sacerdozio, dobbiamo sostare spesso in preghiera, meditando il mistero della nostra vocazione, con il cuore colmo di stupore e di gratitudine verso Dio per così ineffabile dono.

La vocazione sacerdotale degli Apostoli

4. L'immagine della vocazione trasmessaci dai Vangeli è particolarmente legata alla figura del pescatore. Gesù chiamò a sé alcuni pescatori di Galilea, fra i quali Simon Pietro, e definì la missione apostolica riferendosi al loro mestiere. Dopo la pesca miracolosa, quando Pietro gli si gettò ai piedi esclamando: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore», Cristo rispose: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5, 8.10).

Pietro e gli altri Apostoli vivevano insieme con Gesù e con Lui percorrevano le strade della sua missione. Udivano le parole che Egli pronunciava, ne ammiravano le opere, si stupivano per i miracoli che operava. Sapevano che Gesù era il Messia, mandato da Dio per indicare ad Israele e all'intera umanità la via della salvezza. Ma la loro fede doveva passare attraverso il misterioso evento salvifico che Egli aveva più volte preannunciato: «Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà» (Mt 17, 22-23). Tutto questo si realizzò con la sua morte e la sua risurrezione, nei giorni che la Liturgia chiama Triduum sacrum.

Proprio durante tale evento pasquale Cristo rivelò agli Apostoli che la loro vocazione era quella di diventare sacerdoti come Lui e in Lui. Ciò avvenne quando, nel Cenacolo, alla vigilia della morte in croce, Egli prese il pane e poi il calice del vino, pronunciando su di essi le parole della consacrazione. Il pane e il vino diventarono il suo Corpo e il suo Sangue, offerti in sacrificio per l'intera umanità. Gesù concluse questo gesto ingiungendo agli Apostoli: «Fate questo... in memoria di me» (1 Cor 11, 25). Con queste parole affidò loro il proprio sacrificio e lo trasmise, attraverso le loro mani, alla Chiesa per tutti i tempi. Affidando agli Apostoli il Memoriale del suo sacrificio, Cristo li rese partecipi anche del suo sacerdozio. Esiste, infatti, uno stretto ed indissolubile legame tra l'offerta e il sacerdote: colui che offre il sacrificio di Cristo deve avere parte al sacerdozio di Cristo. La vocazione al sacerdozio è, dunque, vocazione ad offrire in persona Christi il suo sacrificio, in virtù della partecipazione al suo sacerdozio. Dagli Apostoli, perciò, abbiamo ereditato il ministero sacerdotale.

Il sacerdote realizza se stesso in una risposta sempre rinnovata e vigilante

5. «Il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11, 28). Queste parole si possono leggere con riferimento alla vocazione sacerdotale. La chiamata di Dio sta all'origine del cammino che l'uomo deve compiere nella vita: è questa la dimensione primaria e fondamentale della vocazione, ma non l'unica. Con l'ordinazione sacerdotale, infatti, inizia un cammino che dura fino alla morte e che è tutto un itinerario «vocazionale». Il Signore chiama i presbiteri a vari compiti e ministeri derivanti da tale vocazione. Ma vi è un livello ancora più profondo. Oltre ai compiti che sono l'espressione del ministero sacerdotale, rimane sempre, al fondo di tutto, la realtà stessa dell'«essere sacerdote». Le situazioni e le circostanze della vita invitano incessantemente il sacerdote a confermare la sua scelta originaria, a rispondere sempre e di nuovo alla chiamata di Dio. La nostra vita sacerdotale, come ogni autentica esistenza cristiana, è un succedersi di risposte a Dio che chiama.

E' emblematica, in proposito, la parabola dei servi che attendono il ritorno del loro padrone. Poiché questi tarda, essi devono vegliare per essere trovati, alla sua venuta, vigilanti (cfr Lc 12, 35-40). Non potrebbe essere, questa vigilanza evangelica, un'altra definizione della risposta alla vocazione? Questa, in effetti, si compie grazie ad un vigile senso di responsabilità. Cristo sottolinea: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli... E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12, 37-38).

I presbiteri della Chiesa latina assumono l'impegno di vivere nel celibato. Se la vocazione è vigilanza, un aspetto significativo di quest'ultima è certamente la fedeltà a tale impegno per l'intero arco dell'esistenza. Il celibato, tuttavia, costituisce soltanto una delle dimensioni della vocazione, la quale si attua, lungo il cammino della vita, nel contesto di impegno globale verso i molteplici compiti che derivano dal sacerdozio.

La vocazione non è realtà statica: possiede una propria dinamica. Carissimi Fratelli nel sacerdozio, noi confermiamo e realizziamo sempre più la nostra vocazione, nella misura in cui viviamo fedelmente il «mysterium» dell'alleanza di Dio con l'uomo e, in particolare, il «mysterium» dell'Eucaristia; la realizziamo nella misura in cui con crescente intensità amiamo il sacerdozio e il ministero sacerdotale, che siamo chiamati a svolgere. Scopriamo allora che, nell'essere sacerdoti, «realizziamo» noi stessi, confermando l'autenticità della nostra vocazione, secondo il singolare ed eterno disegno di Dio su ciascuno di noi. Questo divino progetto si attua nella misura in cui viene riconosciuto ed accolto da noi, come nostro progetto e programma di vita.

Il sacerdozio come «officium laudis»

6. Gloria Dei vivens homo. Le parole di sant'Ireneo (S. Irenaei Adversus Haereses, IV, 20, 7: Sch 100/2, 648-649) uniscono profondamente la gloria di Dio con l'autorealizzazione dell'uomo. «Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam» (Sal 113 B [114-115], 1): ripetendo spesso queste parole del Salmista, ci rendiamo conto che il «realizzare se stessi» nella vita ha un riferimento ed un fine trascendenti, contenuti nel concetto di «gloria di Dio»: la nostra vita è chiamata a diventare officium laudis.

La vocazione sacerdotale è una speciale chiamata all'«officium laudis». Quando il sacerdote celebra l'Eucaristia, quando partecipa nella Penitenza il perdono di Dio o amministra gli altri sacramenti, sempre egli rende lode a Dio. Occorre dunque che il sacerdote ami la gloria del Dio vivente e che, insieme con la comunità dei credenti, proclami la gloria divina, che risplende nella creazione e nella redenzione. Il sacerdote è chiamato ad unirsi in modo particolare a Cristo, Verbo eterno e vero Uomo, Redentore del mondo: nella redenzione, infatti, si manifesta la pienezza della gloria che l'umanità e l'intera creazione rendono al Padre in Gesù Cristo.

Officium laudis non sono soltanto le parole del Salterio, gli inni liturgici, i canti del popolo di Dio fatti risuonare al cospetto del Creatore in tante lingue diverse; officium laudis è soprattutto l'incessante scoperta del vero, del bene e del bello, che il mondo riceve in dono dal Creatore e, insieme, è la scoperta del senso dell'esistenza umana. Il mistero della redenzione ha pienamente compiuto e rivelato questo senso, avvicinando la vita dell'uomo alla vita di Dio. La redenzione, attuatasi definitivamente nel mistero pasquale mediante la passione, la morte e la risurrezione di Cristo, rivela non soltanto la trascendente santità di Dio, ma anche, come insegna il Concilio Vaticano II, svela «l'uomo all'uomo» (Gaudium et Spes, 22).

La gloria di Dio è inscritta nell'ordine della creazione e della redenzione; il sacerdote è chiamato a vivere fino in fondo questo mistero per partecipare al grande officium laudis, che si compie incessantemente nell'universo. Solamente vivendo in profondità la verità della redenzione del mondo e dell'uomo, egli può accostarsi alle sofferenze e ai problemi delle persone e delle famiglie e affrontare senza timore anche la realtà del male e del peccato, con le energie spirituali necessarie per superarla.

Il sacerdote accompagna i fedeli verso la pienezza della vita in Dio

7. Gloria Dei vivens homo. Il sacerdote, la cui vocazione è di dare gloria a Dio, è al tempo stesso profondamente segnato dalla verità contenuta nella seconda parte dell'espressione di sant'Ireneo: vivens homo. L'amore per la gloria di Dio non allontana il sacerdote dalla vita e da tutto ciò che la compone; al contrario, la sua vocazione lo porta a scoprirne il pieno significato.

Che cosa vuol dire vivens homo? Significa l'uomo nella pienezza della sua verità: l'uomo creato da Dio a propria immagine e somiglianza; l'uomo al quale Dio ha affidato la terra perché la soggiogasse; l'uomo segnato da una molteplice ricchezza di natura e di grazia; l'uomo liberato dalla schiavitù del peccato ed elevato alla dignità di figlio adottivo di Dio.

Ecco l'uomo e l'umanità che il sacerdote ha davanti a sé quando celebra i misteri divini: dal neonato che i genitori portano per il Battesimo, ai bambini e ai ragazzi che incontra per la catechesi o per l'insegnamento della religione. E poi i giovani che, nel periodo più delicato della vita, scelgono la loro strada, la propria vocazione, e s'avviano a formare nuove famiglie oppure a consacrarsi per il Regno di Dio entrando in Seminario o in un Istituto di vita consacrata. Occorre che il sacerdote sia molto vicino ai giovani. In questa stagione della vita essi si rivolgono spesso a lui per cercare il conforto di un consiglio, il sostegno della preghiera, un saggio accompagnamento vocazionale. In questo modo il sacerdote può constatare quanto sia aperta e dedita alle persone la sua vocazione. Accostando i giovani egli incontra futuri padri e future madri di famiglia, futuri professionisti o, comunque, persone che potranno contribuire con le proprie capacità a edificare la società di domani. Ognuna di queste molteplici vocazioni passa attraverso il suo cuore sacerdotale e si manifesta come un particolare cammino, lungo il quale Dio guida le persone e le conduce all'incontro con Sé.

Il sacerdote diventa così partecipe di tante scelte di vita, di sofferenze e gioie, di delusioni e speranze. In ogni situazione, suo compito è mostrare Dio all'uomo come il fine ultimo della sua vicenda personale. Il sacerdote diventa colui al quale le persone confidano le cose più care e i loro segreti, a volte assai dolorosi. Diventa l'atteso dagli infermi, dagli anziani e dai moribondi, consapevoli che soltanto lui, partecipe del sacerdozio di Cristo, può aiutarli nell'ultimo passaggio, che deve condurli a Dio. Il sacerdote, testimone di Cristo, è messaggero della vocazione suprema dell'uomo alla vita eterna in Dio. E mentre accompagna i fratelli, egli prepara se stesso: l'esercizio del ministero gli permette di approfondire la sua stessa vocazione a dar gloria a Dio per prendere parte alla vita eterna. Egli procede così verso il giorno in cui Cristo gli dirà: «Bene, servo buono e fedele, ...prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21).

Il giubileo sacerdotale: tempo di gioia e di rendimento di grazie

8. «Considerate... la vostra vocazione, fratelli» (1 Cor 1, 26). L'esortazione di Paolo ai cristiani di Corinto riveste un particolare significato per noi sacerdoti. Dovremmo «considerare» spesso la nostra vocazione, riscoprendone il senso e la grandezza, che sempre ci superano. Occasione privilegiata per questo è il Giovedì Santo, giorno commemorativo dell'istituzione dell'Eucaristia e del sacramento del Sacerdozio. Occasione propizia sono pure gli anniversari dell'Ordinazione sacerdotale e, specialmente, i giubilei sacerdotali.

Carissimi Fratelli sacerdoti, mentre vi partecipo queste riflessioni, penso al mio 50 di Ordinazione sacerdotale, che ricorre quest'anno. Penso ai miei compagni di seminario che, come me, hanno alle spalle un cammino verso il sacerdozio segnato dal drammatico periodo della seconda guerra mondiale. Allora i Seminari erano chiusi e i chierici vivevano in diaspora. Alcuni di essi persero la vita nelle operazioni belliche. Il Sacerdozio raggiunto in quelle condizioni acquistò per noi un valore particolare. Vive nella memoria quel grande momento quando, cinquant'anni or sono, l'Assemblea invocava: «Veni, Creator Spiritus» sopra noi giovani Diaconi, prostrati per terra al centro del tempio, prima di ricevere l'Ordinazione sacerdotale per l'imposizione delle mani del Vescovo. Rendiamo grazie allo Spirito Santo per quella effusione di grazia, che ha segnato la nostra esistenza. E continuiamo ad implorare: «Imple superna gratia, quae tu creasti pectora».

Desidero, cari Fratelli nel sacerdozio, invitarvi a partecipare al mio Te Deum di ringraziamento per il dono della vocazione. I giubilei, voi lo sapete, sono momenti importanti nella vita di un sacerdote: rappresentano quasi delle pietre miliari nel cammino della nostra vocazione. Secondo la tradizione biblica, il giubileo è tempo di gioia e di rendimento di grazie. L'agricoltore rende grazie al Creatore per i raccolti; in occasione dei nostri giubilei, noi vogliamo ringraziare l'eterno Pastore per i frutti della nostra vita sacerdotale, per il servizio reso alla Chiesa e all'umanità nei diversi luoghi del mondo, nelle condizioni più varie e nelle molteplici situazioni di lavoro, in cui la Provvidenza ci ha voluti e condotti. Sappiamo di essere «servi inutili» (Lc 17, 10), tuttavia siamo grati al Signore perché ha voluto fare di noi i suoi ministri.

Siamo riconoscenti anche agli uomini: innanzitutto a coloro che ci hanno aiutato ad arrivare al Sacerdozio ed a coloro che la divina Provvidenza ha posto sul cammino della nostra vocazione. Ringraziamo tutti, cominciando dai nostri genitori, che per noi sono stati un multiforme dono di Dio: quante e quali ricchezze di ammaestramenti e di buoni esempi ci hanno trasmesso! Mentre rendiamo grazie, chiediamo anche perdono a Dio e ai fratelli per le negligenze e le mancanze, frutto dell'umana debolezza. Il giubileo, secondo la Sacra Scrittura, non poteva essere soltanto rendimento di grazie per i raccolti: esso comportava altresì il condono dei debiti. Imploriamo, pertanto, Dio misericordioso perché ci rimetta i debiti contratti nel corso della vita e nell'esercizio del ministero sacerdotale.

«Considerate... la vostra vocazione, fratelli», ci ammonisce l'Apostolo. Stimolati dalla sua parola, noi «consideriamo» il cammino finora percorso, durante il quale la nostra vocazione si è confermata, approfondita, consolidata. «Consideriamo» per prendere più chiara coscienza dell'azione amorevole di Dio nella nostra vita. Non possiamo, al tempo stesso, dimenticare i nostri fratelli nel sacerdozio, che non hanno perseverato nel cammino intrapreso. Li affidiamo all'amore del Padre, mentre assicuriamo per ciascuno di loro la nostra preghiera.

Il «considerare» si trasforma così, quasi inavvertitamente, in preghiera. E' in questa prospettiva che desidero invitarvi, carissimi Fratelli nel sacerdozio, ad unirvi al mio rendimento di grazie per il dono della vocazione e del sacerdozio.

Preghiera di gratitudine per il dono del sacerdozio

9. «Te Deum laudamus,
Te Dominum confitemur...»
Noi Ti lodiamo e Ti ringraziamo, o Dio:
tutta la terra Ti adora.
Noi, Tuoi ministri,
con le voci dei Profeti
e con il coro degli Apostoli,
Ti proclamiamo Padre e Signore della vita,
di ogni forma di vita che da Te solo discende.
Ti riconosciamo, o Trinità Santissima,
grembo ed inizio della nostra vocazione:
Tu, Padre, dall'eternità ci hai pensati,
voluti ed amati;
Tu, Figlio, ci hai scelti e chiamati
a partecipare al Tuo unico ed eterno sacerdozio;
Tu, Spirito Santo, ci hai colmati dei Tuoi doni
e ci hai consacrati con la Tua santa unzione.
Tu, Signore del tempo e della storia,
ci hai posti sulla soglia
del terzo millennio cristiano,
per essere testimoni della salvezza,
da Te operata per tutta l'umanità.
Noi, Chiesa che proclama la Tua gloria,
Ti imploriamo:
mai vengano a mancare sacerdoti santi
al servizio del Vangelo;
risuoni solenne in ogni Cattedrale
e in ogni angolo del mondo
l'inno «Veni, Creator Spiritus».
Vieni, o Spirito Creatore!
Vieni a suscitare nuove generazioni di giovani,
pronti a lavorare nella vigna del Signore,
per diffondere il Regno di Dio
fino agli estremi confini della terra.
E Tu, Maria, Madre di Cristo,
che sotto la croce ci hai accolti
come figli prediletti con l'apostolo Giovanni,
continua a vegliare sulla nostra vocazione.
A Te affidiamo gli anni di ministero
che la Provvidenza ci concederà ancora di vivere.
Sii accanto a noi per guidarci
sulle strade del mondo,
incontro agli uomini e alle donne,
che il Tuo Figlio ha redento col suo Sangue.
Aiutaci a compiere sino in fondo
la volontà di Gesù,
nato da Te per la salvezza dell'uomo.
O Cristo, Tu sei la nostra speranza!
«In Te, Domine, speravi,
non confundar in aeternum».
  • Dal Vaticano, il 17 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell'anno 1996, decimottavo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 06, 2010 9:39 am


  • Munus sanctificandi
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Cari fratelli e sorelle,

domenica scorsa, nella mia Visita Pastorale a Torino, ho avuto la gioia di sostare in preghiera davanti alla sacra Sindone, unendomi agli oltre due milioni di pellegrini che durante la solenne Ostensione di questi giorni, hanno potuto contemplarla. Quel sacro Telo può nutrire ed alimentare la fede e rinvigorire la pietà cristiana, perché spinge ad andare al Volto di Cristo, al Corpo del Cristo crocifisso e risorto, a contemplare il Mistero Pasquale, centro del Messaggio cristiano. Del Corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia (cfr Rm 12,5), noi, cari fratelli e sorelle, siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci. Oggi, in questa catechesi, vorrei ritornare ai compiti specifici dei sacerdoti, che, secondo la tradizione, sono essenzialmente tre: insegnare, santificare e governare. In una delle catechesi precedenti ho parlato sulla prima di queste tre missioni: l’insegnamento, l’annuncio della verità, l’annuncio del Dio rivelato in Cristo, o – con altre parole – il compito profetico di mettere l’uomo in contatto con la verità, di aiutarlo a conoscere l’essenziale della sua vita, della realtà stessa.

Oggi vorrei soffermarmi brevemente con voi sul secondo compito che ha il sacerdote, quello di santificare gli uomini, soprattutto mediante i Sacramenti e il culto della Chiesa. Qui dobbiamo innanzitutto chiederci: Che cosa vuol dire la parola “Santo”? La risposta è: “Santo” è la qualità specifica dell’essere di Dio, cioè assoluta verità, bontà, amore, bellezza – luce pura. Santificare una persona significa quindi metterla in contatto con Dio, con questo suo essere luce, verità, amore puro. E’ ovvio che tale contatto trasforma la persona. Nell’antichità c’era questa ferma convinzione: Nessuno può vedere Dio senza morire subito. Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive. D’altra parte c’era anche la convinzione: Senza un minimo contatto con Dio l’uomo non può vivere. Verità, bontà, amore sono condizioni fondamentali del suo essere. La questione è: Come può trovare l’uomo quel contatto con Dio, che è fondamentale, senza morire sopraffatto dalla grandezza dell’essere divino? La fede della Chiesa ci dice che Dio stesso crea questo contatto, che ci trasforma man mano in vere immagini di Dio.

Così siamo di nuovo arrivati al compito del sacerdote di “santificare”. Nessun uomo da sé, a partire dalla sua propria forza può mettere l’altro in contatto con Dio. Parte essenziale della grazia del sacerdozio è il dono, il compito di creare questo contatto. Questo si realizza nell’annuncio della parola di Dio, nella quale la sua luce ci viene incontro. Si realizza in un modo particolarmente denso nei Sacramenti. L’immersione nel Mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo avviene nel Battesimo, è rafforzata nella Confermazione e nella Riconciliazione, è alimentata dall’Eucaristia, Sacramento che edifica la Chiesa come Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo (cfr GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Pastores gregis, n. 32). E’ quindi Cristo stesso che rende santi, cioè ci attira nella sfera di Dio. Ma come atto della sua infinita misericordia chiama alcuni a “stare” con Lui (cfr Mc 3,14) e diventare, mediante il Sacramento dell’Ordine, nonostante la povertà umana, partecipi del suo stesso Sacerdozio, ministri di questa santificazione, dispensatori dei suoi misteri, “ponti” dell’incontro con Lui, della sua mediazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio (cfr PO, 5).

Negli ultimi decenni, vi sono state tendenze orientate a far prevalere, nell’identità e nella missione del sacerdote, la dimensione dell’annuncio, staccandola da quella della santificazione; spesso si è affermato che sarebbe necessario superare una pastorale meramente sacramentale. Ma è possibile esercitare autenticamente il Ministero sacerdotale “superando” la pastorale sacramentale? Che cosa significa propriamente per i sacerdoti evangelizzare, in che cosa consiste il cosiddetto primato dell’annuncio? Come riportano i Vangeli, Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un “discorso”, ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di se, come abbiamo sentito oggi nella lettura del Vangelo. E lo stesso vale per il ministro ordinato: egli, il sacerdote, rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la “parola” e il “sacramento”, in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola. Sant’Agostino, in una lettera al Vescovo Onorato di Thiabe, riferendosi ai sacerdoti afferma: “Facciano dunque i servi di Cristo, i ministri della parola e del sacramento di Lui, ciò che egli comandò o permise” (Epist. 228, 2). E’ necessario riflettere se, in taluni casi, l’aver sottovalutato l’esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell’efficacia salvifica dei Sacramenti e, in definitiva, nell’operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo.

Chi dunque salva il mondo e l’uomo? L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr PO, 5). E’ importante, quindi, promuovere una catechesi adeguata per aiutare i fedeli a comprendere il valore dei Sacramenti, ma è altrettanto necessario, sull’esempio del Santo Curato d’Ars, essere disponibili, generosi e attenti nel donare ai fratelli i tesori di grazia che Dio ha posto nelle nostre mani, e dei quali non siamo i “padroni”, ma custodi ed amministratori. Soprattutto in questo nostro tempo, nel quale, da un lato, sembra che la fede vada indebolendosi e, dall’altro, emergono un profondo bisogno e una diffusa ricerca di spiritualità, è necessario che ogni sacerdote ricordi che nella sua missione l’annuncio missionario e il culto e i sacramenti non sono mai separati e promuova una sana pastorale sacramentale, per formare il Popolo di Dio e aiutarlo a vivere in pienezza la Liturgia, il culto della Chiesa, i Sacramenti come doni gratuiti di Dio, atti liberi ed efficaci della sua azione di salvezza.

Come ricordavo nella santa Messa Crismale di quest’anno: “Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di Sé. (...) Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali (...) che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso” (S. Messa Crismale, 1 aprile 2010). La verità secondo la quale nel Sacramento “non siamo noi uomini a fare qualcosa” riguarda, e deve riguardare, anche la coscienza sacerdotale: ciascun presbitero sa bene di essere strumento necessario all’agire salvifico di Dio, ma pur sempre strumento. Tale coscienza deve rendere umili e generosi nell’amministrazione dei Sacramenti, nel rispetto delle norme canoniche, ma anche nella profonda convinzione che la propria missione è far sì che tutti gli uomini, uniti a Cristo, possano offrirsi a Dio come ostia viva e santa a Lui gradita (cfr Rm 12,1). Esemplare, circa il primato del munus sanctificandi e della giusta interpretazione della pastorale sacramentale, è ancora san Giovanni Maria Vianney, il quale, un giorno, di fronte ad un uomo che diceva di non aver fede e desiderava discutere con lui, il parroco rispose: “Oh! amico mio, v’indirizzate assai male, io non so ragionare... ma se avete bisogno di qualche consolazione, mettetevi là... (il suo dito indicava l’inesorabile sgabello [del confessionale]) e credetemi, che molti altri vi si sono messi prima di voi, e non ebbero a pentirsene” (cfr Monnin A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, Torino 1870, pp. 163-164).

Cari sacerdoti, vivete con gioia e con amore la Liturgia e il culto: è azione che il Risorto compie nella potenza dello Spirito Santo in noi, con noi e per noi. Vorrei rinnovare l’invito fatto recentemente a “tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui ‘abitare’ più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia” (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). E vorrei anche invitare ogni sacerdote a celebrare e vivere con intensità l’Eucaristia, che è nel cuore del compito di santificare; è Gesù che vuole stare con noi, vivere in noi, donarci se stesso, mostrarci l’infinita misericordia e tenerezza di Dio; è l’unico Sacrificio di amore di Cristo che si rende presente, si realizza tra di noi e giunge fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio, abbraccia l’umanità e ci unisce a Lui (cfr Discorso al Clero di Roma, 18 febbraio 2010). E il sacerdote è chiamato ad essere ministro di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Se “la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate”, ciò non toglie nulla “alla necessaria, anzi indispensabile tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale”: c’è anche un esempio di fede e di testimonianza di santità, che il Popolo di Dio si attende giustamente dai suoi Pastori (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congr. per il Clero, 16 marzo 2009). Ed è nella celebrazione dei Santi Misteri che il sacerdote trova la radice della sua santificazione (cfr PO, 12-13).

Cari amici, siate consapevoli del grande dono che i sacerdoti sono per la Chiesa e per il mondo; attraverso il loro ministero, il Signore continua a salvare gli uomini, a rendersi presente, a santificare. Sappiate ringraziare Dio, e soprattutto siate vicini ai vostri sacerdoti con la preghiera e con il sostegno, specialmente nelle difficoltà, affinché siano sempre più Pastori secondo il cuore di Dio. Grazie.
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 5 maggio 2010
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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miriam bolfissimo
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Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 06, 2010 9:40 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1997
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1. Iesu, Sacerdos in aeternum, miserere nobis!

Carissimi sacerdoti,

seguendo la tradizione di rivolgervi la parola nel giorno in cui vi radunate intorno al vostro Vescovo, per commemorare gioiosamente l'istituzione del sacerdozio nella Chiesa, rinnovo innanzitutto i miei sentimenti di gratitudine al Signore per le celebrazioni giubilari che, nei giorni 1 e 10 novembre dello scorso anno, videro tanti Fratelli Sacerdoti partecipare alla mia gioia. Ringrazio tutti di vero cuore.

Un pensiero particolare va ai Sacerdoti, che l'anno scorso, come me, hanno celebrato il 50° della loro Ordinazione. Molti di loro non hanno esitato, nonostante gli anni e la distanza, a venire a Roma per concelebrare con il Papa il giubileo d'oro.

Ringrazio il Cardinale Vicario, i Vescovi suoi collaboratori, i presbiteri e i fedeli della Diocesi di Roma, i quali hanno manifestato in vari modi la loro unione con il Successore di Pietro, lodando Dio per il dono del sacerdozio. La mia riconoscenza si estende ai Signori Cardinali, agli Arcivescovi e ai Vescovi, ai Sacerdoti, ai Consacrati e alle Consacrate e a tutti i Fedeli della Chiesa per il dono della loro vicinanza, della loro preghiera, e per il Te Deum di ringraziamento, che insieme abbiamo cantato.

Desidero inoltre ringraziare tutti i Collaboratori della Curia Romana per quanto hanno fatto affinché questo giubileo d'oro del Papa potesse servire a ravvivare la consapevolezza del grande dono e mistero del sacerdozio. Prego costantemente il Signore di continuare ad accendere la scintilla della vocazione sacerdotale nell'anima di tanti giovani.

In quei giorni, mi sono recato più volte, col pensiero e col cuore, nella cappella privata degli Arcivescovi di Cracovia, dove il 1° novembre 1946 l'indimenticabile Metropolita di Cracovia Adam Stefan Sapieha, poi Cardinale, impose su di me le sue mani, trasmettendomi la grazia sacramentale del sacerdozio. Con commozione sono ritornato spiritualmente nella Cattedrale del Wawel, in cui ho celebrato la prima Santa Messa, all'indomani dell'Ordinazione. Nei giorni giubilari, abbiamo tutti sentito in modo particolare la presenza di Cristo Sommo Sacerdote, meditando le parole della liturgia: « Ecco il sommo sacerdote che ai suoi giorni piacque a Dio e fu trovato giusto ». Ecce Sacerdos magnus. Queste parole trovano la loro piena applicazione in Cristo stesso. E Lui il Sommo Sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza, l'unico Sacerdote, da cui tutti noi sacerdoti attingiamo la grazia della vocazione e del ministero. Gioisco del fatto che nelle celebrazioni per il giubileo della mia Ordinazione, il sacerdozio di Cristo ha potuto risplendere nella sua ineffabile verità come dono e mistero a favore degli uomini di tutti i tempi, sino alla consumazione dei secoli.

A cinquant'anni dall'Ordinazione sacerdotale, ogni giorno, come sempre, rivolgo il pensiero ai miei coetanei, sia di Cracovia che di tutte le altre Chiese del mondo, ai quali non è stato dato di arrivare a tale giubileo. Prego Cristo, eterno Sacerdote, di donare loro in eredità l'eterna ricompensa, accogliendoli nella gloria del suo Regno.

2. Iesu, Sacerdos in aeternum, miserere nobis!

Vi scrivo questa lettera, cari Fratelli, durante il primo anno di preparazione immediata all'inizio del terzo millennio: Tertio millennio adveniente. Nella Lettera apostolica che inizia con queste parole, ho messo in rilievo il significato del passaggio dal secondo al terzo millennio dopo la nascita di Cristo ed ho stabilito che gli ultimi tre anni prima del 2000 siano dedicati alla Santissima Trinità. Il primo anno, inaugurato solennemente nella scorsa prima domenica d'Avvento, è centrato su Cristo. È Lui, infatti, l'eterno Figlio di Dio, fatto uomo e nato da Maria Vergine, che ci conduce al Padre. L'anno prossimo sarà dedicato allo Spirito Santo Paraclito, promesso da Cristo agli Apostoli al momento del suo passaggio da questo mondo al Padre. Infine, l'anno 1999 sarà dedicato al Padre, al quale il Figlio vuole condurci nello Spirito Santo, il Consolatore.

Vogliamo così terminare il secondo millennio con una corale lode alla Santissima Trinità. In tale itinerario troverà eco la trilogia di Encicliche che, per grazia di Dio, mi è stato dato di pubblicare all'inizio del Pontificato: Redemptor hominis, Dominum et vivificantem e Dives in misericordia, e che vi esorto, cari Fratelli, a rimeditare nel corso del triennio. Nel nostro ministero, specialmente in quello liturgico, deve essere sempre presente la consapevolezza di essere in cammino verso il Padre, guidati dal Figlio nello Spirito Santo. Appunto a tale consapevolezza ci richiamano le parole con cui terminiamo ogni orazione: « Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen ».

3. Iesu, Sacerdos in aeternum, miserere nobis!

Questa invocazione è tratta dalle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima, che venivano recitate nel Seminario di Cracovia il giorno prima dell'Ordinazione sacerdotale. Le ho volute porre in appendice al libro Dono e mistero, pubblicato in occasione del mio giubileo sacerdotale. Ma voglio porle in evidenza anche nella presente lettera, poiché mi sembrano illustrare in modo ricco e profondo il sacerdozio di Cristo e il nostro legame con esso. Sono basate su testi della Sacra Scrittura, in particolare sulla Lettera agli Ebrei, ma non soltanto. Quando, ad esempio, preghiamo: Iesu, Sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, riandiamo idealmente all'Antico Testamento, al Salmo 110 [109]. Sappiamo bene che cosa significhi per Cristo essere sacerdote al modo di Melchisedech. Il suo sacerdozio si è espresso nell'offerta del proprio corpo, « fatta una volta per sempre » (Eb 10, 10). Essendosi offerto in sacrificio cruento sulla croce, Egli stesso ne ha istituito la « memoria » incruenta per tutti i tempi, sotto le specie del pane e del vino. E sotto tali specie Egli ha affidato questo suo Sacrificio alla Chiesa. Così dunque la Chiesa - e in essa ogni sacerdote - celebra l'unico Sacrificio di Cristo.

Ricordo intensamente i sentimenti che suscitarono in me le parole della consacrazione pronunciate per la prima volta insieme col Vescovo che mi aveva appena ordinato, parole che ripetei il giorno successivo, nella S. Messa celebrata nella Cripta di S. Leonardo. E da allora tante, tante volte - è difficile contarle - queste parole sacramentali sono risonate sulle mie labbra, per rendere presente, sotto le specie del pane e del vino, Cristo nell'atto salvifico di sacrificare se stesso sulla croce.

Contempliamo insieme, ancora una volta, questo mistero sublime. Gesù prese il pane e lo diede ai suoi discepoli dicendo: « Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo... ». E dopo prese nelle sue mani il calice colmo di vino, lo benedisse, lo diede ai suoi discepoli dicendo: « Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la Nuova ed Eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati ». E aggiunse: « Fate questo in memoria di me ».

Come potrebbero, queste parole meravigliose, non essere il cuore pulsante di ogni vita sacerdotale? Ripetiamole ogni volta come se fosse la prima! Facciamo in modo che non siano mai dette per abitudine. Esse esprimono l'attualizzazione più piena del nostro sacerdozio.

4. Celebrando il Sacrificio di Cristo, siamo costantemente consapevoli delle parole che leggiamo nella Lettera agli Ebrei: « Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, [...] entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente? Per questo Egli è mediatore di una nuova alleanza » (Eb 9, 11-15).

Le invocazioni delle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima si ricollegano, in qualche modo, a queste parole o ad altre della stessa Lettera:

Iesu,
Pontifex ex hominibus assumpte,
... pro hominibus constitute,
Pontifex confessionis nostrae,
... amplioris prae Moysi gloriae,
Pontifex tabernaculi veri,
Pontifex futurorum bonorum,
... sancte, innocens et impollute,
Pontifex fidelis et misericors,
... Dei et animarum zelo succense,
Pontifex in aeternum perfecte,
Pontifex qui ( ...) caelos penetrasti ...

Mentre ripetiamo queste invocazioni, noi vediamo con gli occhi della fede ciò di cui parla la Lettera agli Ebrei: Cristo che mediante il proprio sangue entra nell'eterno santuario. Come Sacerdote consacrato in eterno dal Padre Spiritu Sancto et virtute, ora « si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli » (Eb 1, 3). E da lì intercede per noi come Mediatore - semper vivens ad interpellandum pro nobis -, per tracciarci il cammino di una vita nuova, eterna: Pontifex qui nobis viam novam initiasti. Egli ci ama ed ha versato il suo sangue per lavare i nostri peccati: Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo. Ha dato se stesso per noi: tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam.

Cristo introduce nell'eterno santuario il sacrificio di se stesso, che è il prezzo della nostra redenzione. L'offerta, cioè la vittima, è inseparabile dal sacerdote. Mi hanno aiutato a meglio comprendere tutto questo proprio le Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima, recitate nel Seminario. Ritorno costantemente a questa lezione fondamentale.

5. Oggi è il Giovedì Santo. Tutta la Chiesa si raduna spiritualmente nel Cenacolo, là dove si riunirono gli Apostoli insieme a Cristo per l'Ultima Cena. Rileggiamo nel Vangelo di Giovanni le parole pronunciate da Cristo nel discorso di addio. Tra le tante ricchezze di questo testo, vorrei soffermarmi sulla seguente frase rivolta da Gesù agli Apostoli: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi » (Gv 15, 13-15).

« Amici »: così Gesù chiamò gli Apostoli. Così vuole chiamare anche noi, che, grazie al sacramento dell'Ordine, siamo partecipi del suo Sacerdozio. Ascoltiamo queste parole con grande emozione e umiltà. Esse contengono la verità. Prima di tutto la verità sull'amicizia, ma anche una verità su noi stessi che partecipiamo del sacerdozio di Cristo, come ministri dell'Eucaristia. Poteva Gesù esprimerci la sua amicizia in modo più eloquente che permettendoci, quali sacerdoti della Nuova Alleanza, di operare in suo nome, in persona Christi Capitis? Proprio questo avviene in tutto il nostro servizio sacerdotale, quando amministriamo i sacramenti e specialmente quando celebriamo l'Eucaristia. Ripetiamo le parole che Egli pronunciò sopra il pane e il vino e, mediante il nostro ministero, si opera la stessa consacrazione da Lui operata. Vi può essere un'espressione dell'amicizia più completa di questa? Essa si pone al centro stesso del nostro ministero sacerdotale.

Cristo dice: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga » (Gv 15, 16). Al termine della presente Lettera, vi offro queste parole come un augurio. Nel giorno commemorativo dell'istituzione del sacramento del sacerdozio ci facciamo a vicenda l'augurio, cari Fratelli, di poter andare e portare frutto, come gli Apostoli, e che il nostro frutto rimanga.

Maria, Madre di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, con la sua assidua protezione sorregga i passi del nostro ministero, soprattutto quando la strada si fa ardua e la fatica pesa maggiormente. La Vergine fedele interceda per noi presso il Figlio suo, affinché non ci venga mai meno il coraggio di renderGli testimonianza nei diversi campi del nostro apostolato, collaborando con Lui, perché il mondo abbia la vita e l'abbia in abbondanza (cfr. Gv 10, 10).

Nel nome di Cristo, con profondo affetto tutti vi benedico.
  • Dal Vaticano, il 16 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 1997, diciannovesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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