Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Bacheca, condivisione, solidarietà...

Moderatori:Giammarco De Vincentis, Don Armando Maria

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:
Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 14, 2010 1:46 pm


  • Una cura reciproca tra sacerdoti e laici
[/size]

Agli occhi del mondo essere cristiani è ritenuto appena come l'appartenenza a una certa associazione religiosa, piuttosto estesa, caratterizzata innanzitutto da un rigoroso sistema morale, che mortificherebbe le più originarie aspirazioni dell'uomo e, a causa dei numerosi obblighi e rinunce che comporta, lo escluderebbe dalla pienezza della vita, tanto nella dimensione privata e personale quanto, ancor più, in quella sociale e pubblica. Ma se questa fosse la reale consistenza della nostra identità, ovviamente, non varrebbe la pena essere qui oggi, né tanto meno vantarsi di questo nome, come invece facciamo.

Ben altra è la nostra identità. Essere cristiano, infatti, prima che un determinato atteggiamento morale, significa essere di Cristo e in Cristo: significa cioè essere, in virtù del dono sacramentale, in relazione autentica e permanente con la Persona del Signore Gesù. La nostra identità, e la fedeltà che ne deriva, non si definisce, né si modella o perfeziona nella relazione con Lui, ma consiste nell'essenza di tale relazione: il battezzato, colui che è immerso nel mistero di Cristo, consiste di Cristo fino al vertice dell'espressione paolina: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Lettera ai Galati, 2, 20).

Da questa identità, che è definitivamente donata, per mezzo del battesimo, sgorga, come acqua dalla sorgente, il nostro libero agire alla sequela del Signore, il nuovo e perfetto culto ch'Egli ha istituito, e ciò, almeno nel suo aspetto essenziale, cioè di dono, indipendentemente dal nostro prenderne coscienza, accoglierlo e interiorizzarlo. Sono due, quindi, gli elementi che entrano in gioco nel sacerdozio comune, in questo nuovo modo di relazionarsi con sé che Dio ha istituito nel mistero della redenzione: l'identità sacramentale donata nel battesimo, che è opera di Dio che ci precede, e la libertà creaturale di immedesimarsi con questa nuova identità.

Quindi l'essere cristiani riguarda non solo determinate azioni, quali quelle cultuali, e nemmeno soltanto le scelte di particolare importanza per la nostra vita, ma il nostro stesso vivere, ogni circostanza nella quale ci troviamo a vivere: la gratitudine per essere destati al mattino a vivere un nuovo giorno fino al saper fare un giusto esame di coscienza al termine della giornata, chiedendo perdono per gli eventuali peccati ed errori e ringraziando per i tanti doni ricevuti.

Il recupero e l'approfondimento della "spiritualità del quotidiano" fa emergere come totalmente superata, oltre che profondamente illegittima, qualunque concezione che, come avvenuto nei decenni passati, tenda a contrapporre, all'interno dell'unico corpo che è la Chiesa, il laicato e la gerarchia. Non a caso, nel nuovo codice di diritto canonico, entrambi sono contenuti nell'unico libro sul popolo di Dio. Sono tutti, laici e chierici insieme, unico popolo di Dio; anche i chierici sono, a Dio piacendo, Christifideles, cioè fedeli di Gesù Cristo, fedeli credenti in Gesù Cristo, e dunque appartenenti all'unico popolo dei salvati.

In quest'ottica è superata ogni contrapposizione artificiale, nell'unica Chiesa, tra clero e laicato e il punto di partenza teologicamente più significativo è sempre l'unità di questo popolo, chiamato a testimoniare il Risorto nel mondo, ad animare le realtà terrene e a essere una autentica "comunione guidata", nella quale i due termini "comunione" e "guidata" sono coessenziali e domandano un continuo riconoscimento reciproco.

Se non ci fosse la realtà comunionale, che è data gratuitamente da Cristo, in forza del comune battesimo, non sarebbe concepibile la docile sequela della gerarchia, nella quale riconoscere Cristo stesso, Buon Pastore, che ama, protegge, sostiene, difende e guida la sua Chiesa. Allo stesso modo, se non ci fosse una "guida", verrebbe meno l'idea stessa, oltre che la realtà, della comunione, la quale, per sua natura, domanda di essere ordinata, visibile, e perciò riconoscibile, soprattutto, in quell'universale "punto di comunione" che è il Romano Pontefice.

L'unico sommo sacerdote, nel cristianesimo, è lo stesso Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, il quale offre al Padre l'unico culto realmente espiatorio e redentivo, e rende partecipi - questo sì - del proprio ministero, cioè servizio, i sacerdoti di ogni tempo, che Egli stesso chiama al ministero.

Potremmo dire che nel sacerdozio neotestamentario l'elemento prevalente è la non auto-attribuibilità di tale ministero, ma la coscienza, permanente, che sempre ha attraversato la vita della Chiesa, che a un tale compito, che implica la configurazione ontologico-sacramentale allo stesso Cristo sacerdote, si è chiamati, indipendentemente dalle proprie qualità, dai propri meriti, e, talvolta, soprattutto all'inizio del discernimento vocazionale, anche indipendentemente dalla propria volontà.

Questo elemento, troppo spesso dimenticato, determina una grande libertà, sia da parte del sacerdote, sia da parte del fedele laico, nel riconoscimento del valore istituzionale del sacerdozio ministeriale. Tale sguardo oggettivo, fondato sulla fede soprannaturale, permette di superare sia le presunzioni clericali sia le pretese laicali, sia gli inutili pauperismi e vittimismi clericali sia i protagonismi laicali.

Uno dei fenomeni, peraltro noto, degli anni successivi alla chiusura del concilio ecumenico Vaticano II è stato la secolarizzazione diffusa persino nella Chiesa e che ha toccato anche non pochi sacerdoti. A tale secolarizzazione del clero, paradossalmente, ha fatto eco un'inspiegabile clericalizzazione del laicato, che ha pensato di poter ridurre la propria vocazione a quei compiti di collaborazione o di supplenza, propria o impropria, degli uffici più essenzialmente ecclesiastici, invece che veleggiare, con il vento dello Spirito in poppa, negli ampi mari del mondo, testimoniando Cristo in ogni realtà.
Entrambi i fenomeni sono di preoccupante gravità. La secolarizzazione del clero dimostra una perdita, almeno di coscienza, della grandezza e della profondità della propria identità, del fatto di essere alter Christus, di agire in Persona Christi Capitis, di essere e rappresentare Cristo stesso che continua, attraverso i suoi sacerdoti, l'opera della salvezza. La clericalizzazione del laicato, d'altro canto, rappresenta un reale impoverimento dell'ampio respiro missionario a cui sacramentalmente il battesimo abilita e, paradossalmente, ma realmente, è frutto di un'errata interpretazione di quanto il Vaticano II intendeva indicare con la giusta promozione del laicato e l'ormai nota actuosa participatio.

Poste tali premesse, il primo atteggiamento richiesto a tutti i Christifideles, nei riguardi del corretto rapporto e della conseguente giusta collaborazione tra laici e chierici, è quello della fede. Una fede che riconosca, umilmente e realmente, la comune vocazione alla santità e la dignità creaturale e cristiana, che l'opera della salvezza ha prodotto; una fede che riconosca la libertà e la conseguente indisponibilità del divino volere, il quale costituisce sacerdoti e pastori indipendentemente dalla volontà e dalla approvazione del popolo.

Insieme a una tale fede nel sacerdozio ministeriale, un'altra forma di collaborazione dei laici al ministero dei sacerdoti è quella che potremmo definire la "custodia nella comunione". Sono persuaso infatti che non sia soltanto il pastore a custodire il gregge, ma sia anche, seppur non in modo istituzionale, il gregge a custodire il pastore, soprattutto attraverso la propria santità e docilità e domandando al pastore ciò che il pastore può e deve garantire al gregge. In una comunità parrocchiale, per esempio, non è solo il parroco a custodire, presiedere e guidare la comunità, ma è la comunità stessa, con le sue famiglie e i suoi giovani, i suoi anziani e i suoi malati, con la tradizione di fede e di pietà che la anima, con la storia di sacerdoti santi che la attraversa, a custodire la vita, l'ordine, la disciplina, la regola di preghiera e dunque il ministero stesso del sacerdote. Analogo esempio si potrebbe fare per un'associazione nei confronti del proprio assistente ecclesiastico o per una comunità diocesana nei confronti del proprio vescovo: se questi ne è il primo padre e custode, non di meno tutta la comunità diocesana, a partire dai presbiteri fino a tutti i fedeli laici, sono chiamati a "custodire nella comunione" il proprio pastore e tale custodia è il primo reale modo di autentica collaborazione.

Fedeltà dei fedeli laici deriva anche dalla fedeltà dei sacri ministri e genera una sana cooperazione nella santità che, più efficacemente che attraverso un "fare", trova la sua più compiuta attuazione in quell'indispensabile e quotidiana orazione, che sempre deve accompagnare la vita dei sacerdoti. Se nelle circostanze attuali, dobbiamo con rammarico riconoscerlo, il senso del sacro è venuto progressivamente meno, e, con esso, l'attenzione alla preghiera e la fedeltà a essa, come cristiani non possiamo conformarci alla mentalità di questo secolo, ma dobbiamo riscoprire che la prima e più fondamentale energia di collaborazione, efficace più di ogni altro umano mezzo, è proprio la reciproca custodia nella preghiera. Difficilmente una comunità abituata a pregare costantemente per il proprio sacerdote, lo vedrà smarrirsi, poiché lo stesso esercizio orante fungerà da profondo richiamo per il ministro. Crediamo noi realmente nella forza di questa preghiera? Crediamo davvero che con la nostra preghiera, l'offerta della nostra vita, i nostri sacrifici, le nostre penitenze volontariamente scelte o accettate, possiamo fattivamente ed efficacemente collaborare al ministero dei sacerdoti? All'apostolato dei vescovi? Allo stesso supremo ministero del Successore di Pietro, il Vescovo di Roma? Senza questo primato della preghiera, vissuto nella reciproca comunione e in un ampio respiro di fede autentica, non si danno ambiti di fedeltà né di collaborazione che possano avere una qualche efficacia.
  • Mauro Piacenza
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 14, 2010 1:50 pm


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1998
[/size]

Carissimi Fratelli nel sacerdozio!

Con la mente ed il cuore rivolti al Grande Giubileo, celebrazione solenne del bimillenario della nascita di Cristo ed inizio del terzo millennio cristiano, desidero invocare con voi lo Spirito del Signore, al quale è particolarmente dedicata la seconda tappa dell'itinerario spirituale di immediata preparazione all'Anno Santo del Duemila.

Docili alle sue amorevoli ispirazioni, ci disponiamo a vivere con intensa partecipazione questo tempo favorevole, implorando dal Datore dei doni le grazie necessarie per discernere i segni della salvezza e rispondere con piena fedeltà alla chiamata di Dio.

Un intimo legame unisce il nostro sacerdozio allo Spirito Santo ed alla sua missione. Nel giorno dell'Ordinazione presbiterale, in virtù di una singolare effusione del Paraclito, il Risorto ha rinnovato in ciascuno di noi quanto operò nei suoi discepoli la sera di Pasqua, e ci ha costituiti continuatori della sua missione nel mondo (cfr Gv 20,21-23). Questo dono dello Spirito, con la sua misteriosa potenza santificatrice, è fonte e radice dello speciale compito di evangelizzazione e di santificazione a noi affidato.

Il Giovedì Santo, giorno nel quale commemoriamo la Cena del Signore, pone davanti ai nostri occhi Gesù, Servo « obbediente fino alla morte » (Fil 2,8), che istituisce l'Eucaristia e l'Ordine sacro quali segni singolari del suo amore. Egli ci lascia questo straordinario testamento d'amore, perché si perpetui in ogni tempo e dappertutto il mistero del suo Corpo e del suo Sangue e gli uomini possano accostarsi alla sorgente inesauribile della grazia. Esiste forse per noi sacerdoti un momento più opportuno e suggestivo di questo per contemplare l'opera dello Spirito Santo in noi e per implorare i suoi doni al fine di conformarci sempre più a Cristo, Sacerdote della Nuova Alleanza?

1. Lo Spirito Santo creatore e santificatore

Veni Creator Spiritus,
Mentes tuorum visita,
Imple superna gratia,
Quae tu creasti pectora.

Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti,
riempi della tua grazia
i cuori che hai creato.

Questo antico canto liturgico richiama alla mente di ogni sacerdote il giorno della sua Ordinazione, rievocando i propositi di piena disponibilità all'azione dello Spirito Santo, formulati in così singolare circostanza. Gli ricorda, altresì, la speciale assistenza del Paraclito ed i tanti momenti di grazia, di gioia e di intimità, che il Signore gli ha dato di gustare nel corso della sua vita.

La Chiesa, che nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano proclama la sua fede nello Spirito Santo Signore e Datore di vita, pone bene in chiara luce il ruolo che Egli svolge accompagnando le vicende umane e, in modo particolare, quelle dei discepoli del Signore in cammino verso la salvezza.

Egli è lo Spirito creatore, che la Scrittura presenta all'inizio della storia umana, mentre « aleggiava sulle acque » (Gn 1,2) e, agli esordi della redenzione, quale artefice dell'Incarnazione del Verbo di Dio (cfr Mt 1,20; Lc 1,35).

Consustanziale al Padre e al Figlio, Egli è, « nell'assoluto mistero di Dio uno e trino, la Persona-amore, il dono increato, che è fonte eterna di ogni elargizione proveniente da Dio nell'ordine della creazione, il principio diretto e, in certo senso, il soggetto dell'autocomunicazione di Dio nell'ordine della grazia. Di questa elargizione, di questa divina autocomunicazione il mistero dell'Incarnazione costituisce il culmine » (Dominum et vivificantem, 50).

Lo Spirito Santo orienta la vita terrena di Gesù verso il Padre. Grazie al suo misterioso intervento, il Figlio di Dio viene concepito nel seno di Maria Vergine (cfr Lc 1,35) e si fa uomo. È ancora lo Spirito che, scendendo su Gesù in forma di colomba, lo manifesta come Figlio del Padre nel battesimo al Giordano (cfr Lc 3,21-22) e, subito dopo, lo spinge nel deserto (cfr Lc 4,1). Dopo la vittoria sulle tentazioni, Gesù inizia la sua missione « con la potenza dello Spirito Santo » (Lc 4,14): in Lui, trasalisce di gioia e benedice il Padre per il suo provvido disegno (cfr Lc 10,21); con Lui scaccia i demoni (cfr Mt 12,28; Lc 11,20). Nell'ora drammatica della croce offre se stesso « con uno Spirito eterno » (Eb 9,14), per mezzo del quale è poi risuscitato (cfr Rm 8,11) e « costituito Figlio di Dio con potenza » (Rm 1,4).

La sera di Pasqua, agli Apostoli riuniti nel Cenacolo Gesù risorto dice: « Ricevete lo Spirito Santo » (Gv 20,22) e, dopo averne promesso una successiva effusione, affida loro la salvezza dei fratelli, inviandoli per le strade del mondo: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,19-20).

La presenza di Cristo nella Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi èresa viva ed efficace nell'animo dei credenti dall'opera del Consolatore (cfr Gv 14,26). Anche per la nostra epoca lo Spirito è « l'agente principale della nuova evangelizzazione [...] costruisce il Regno di Dio nel corso della storia e prepara la sua piena manifestazione in Gesù Cristo, animando gli uomini nell'intimo e facendo germogliare all'interno del vissuto umano i semi della salvezza definitiva che avverrà alla fine dei tempi » (Tertio millennio adveniente, 45).

2. Eucaristia e Ordine, frutti dello Spirito

Qui diceris Paraclitus,
Altissimi donum Dei,
Fons vivus, ignis, caritas
Et spiritalis unctio.

O dolce Consolatore,
dono del Padre altissimo,
acqua viva, fuoco, amore,
santo crisma dell'anima.

Con queste parole la Chiesa invoca lo Spirito Santo quale spiritalis unctio, crisma dell'anima. Per mezzo dell'unzione dello Spirito nel grembo immacolato di Maria, il Padre ha consacrato sommo ed eterno Sacerdote della Nuova Alleanza Cristo, il quale ha voluto condividere il suo sacerdozio con noi, chiamandoci ad essere suo prolungamento nella storia per la salvezza dei fratelli.

Nel Giovedì Santo, Feria quinta in Cena Domini, noi sacerdoti siamo invitati a rendere grazie con tutta la comunità dei credenti per il dono dell'Eucaristia e ad acquisire rinnovata consapevolezza della grazia della nostra speciale vocazione. Siamo, altresì, spinti ad affidarci con cuore giovane e disponibilità piena all'azione dello Spirito, lasciandoci da Lui conformare ogni giorno a Cristo sacerdote.

Il Vangelo di Giovanni con termini ricchi di tenerezza e di mistero riferisce il racconto di quel primo Giovedì Santo, nel quale il Signore, a mensa con i discepoli nel Cenacolo, « dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13,1). Sino alla fine! Sino all'istituzione dell'Eucaristia, anticipazione del Venerdì Santo, del sacrificio della croce e dell'intero mistero pasquale. Durante l'Ultima Cena, Cristo prende il pane fra le mani e pronuncia le prime parole della consacrazione: « Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi ». Subito dopo, proclama sul calice colmo di vino le successive parole della consacrazione: « Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati », ed aggiunge: « Fate questo in memoria di me ». Si compie così, nel Cenacolo, in modo incruento il Sacrificio della Nuova Alleanza, che sarà realizzato nel sangue il giorno successivo, quando Cristo dirà sulla croce: « Consummatum est » — « Tutto è compiuto! » (Gv 19,30).

Questo Sacrificio, offerto una volta per tutte sul Calvario, è affidato agli Apostoli, in virtù dello Spirito Santo, come il Santissimo Sacramento della Chiesa. Per impetrare il misterioso intervento dello Spirito, la Chiesa prima delle parole della consacrazione implora: « Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri » (Preghiera Eucaristica III). Senza la potenza del divino Spirito, come potrebbero, infatti, labbra umane far sì che il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue del Signore, sino alla fine del mondo? È soltanto grazie alla potenza dello Spirito divino che la Chiesa può incessantemente confessare il grande mistero della fede: « Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta! ».

Eucaristia e Ordine sono frutti del medesimo Spirito: « Come nella Santa Messa Egli è l'artefice della transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, così nel sacramento dell'Ordine Egli è l'artefice della consacrazione sacerdotale o episcopale » (Dono e mistero, p. 53).

3. I doni dello Spirito Santo

Tu septiformis munere
Digitus paternae dexterae
Tu rite promissum Patris,
Sermone ditans guttura.

Dito della mano di Dio,
promesso dal Salvatore,
irradia i tuoi sette doni,
suscita in noi la parola.

Come non riservare una particolare riflessione ai doni dello Spirito Santo, che la tradizione della Chiesa, sulla scia delle fonti bibliche e patristiche, indica come sacro Settenario? Questa dottrina ha avuto un'attenta considerazione da parte della teologia scolastica, che ne ha ampiamente illustrato il significato e le caratteristiche.

« Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! » (Gal 4,6). « Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio [...] Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8,14.16). Le parole dell'apostolo Paolo ci ricordano che dono fondamentale dello Spirito è la grazia santificante (gratia gratum faciens), insieme alla quale si ricevono le virtù teologali: fede, speranza e carità, e tutte le virtù infuse (virtutes infusae), che abilitano ad agire sotto l'influsso dello stesso Spirito. Nell'anima, illuminata dalla grazia celeste, tale corredo soprannaturale è completato dai doni dello Spirito Santo. A differenza dei carismi, che sono concessi per l'altrui utilità, questi doni sono offerti a tutti, perché ordinati alla santificazione ed al perfezionamento della persona.

I loro nomi sono noti. Li menziona il profeta Isaia delineando la figura del futuro Messia: « Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore » (11, 2-3). Il numero dei doni sarà poi portato a sette dalla versione dei Settanta e dalla Volgata, che aggiungono la pietà, eliminando dal testo isaiano la ripetizione del timore del Signore.

Già sant'Ireneo ricorda il Settenario ed aggiunge: « Il Signore diede lo stesso Spirito alla Chiesa [...] mandando sulla terra il Consolatore » (Adv. haereses III, 17, 3). San Gregorio Magno, per parte sua, illustra la dinamica soprannaturale introdotta nell'anima dallo Spirito, elencando i doni nell'ordine inverso: « Mediante il timore ci eleviamo infatti alla pietà, dalla pietà alla scienza, dalla scienza otteniamo la forza, dalla forza il consiglio, con il consiglio progrediamo verso l'intelligenza e con l'intelligenza verso la sapienza e così, per la grazia settiforme dello Spirito, ci è aperto al termine delle ascensioni, l'ingresso alla vita celeste » (Hom. in Hezech., II, 7, 7).

I doni dello Spirito Santo — commenta il Catechismo della Chiesa Cattolica —, essendo una particolare sensibilizzazione dell'anima umana e delle sue facoltà all'azione del Paraclito, « completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono docili i fedeli ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine » (n. 1831). La vita morale dei cristiani è, cioè, sorretta da tali « disposizioni permanenti che rendono l'uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo » (ibid., n. 1830). Con essi viene portato a maturità l'organismo soprannaturale che, mediante la grazia, si costituisce in ogni uomo. I doni, infatti, si adattano mirabilmente alle nostre disposizioni spirituali, perfezionandole ed aprendole in modo particolare all'azione di Dio stesso.

4. Influsso sull'uomo dei doni dello Spirito

Accende lumen sensibus
Infunde amorem cordibus;
Infirma nostri corporis
Virtute firmans perpeti.

Sii luce all'intelletto
fiamma ardente nel cuore;
sana le nostre ferite
col balsamo del tuo amore.

Mediante lo Spirito, Dio si fa intimo alla persona e penetra sempre di più nel mondo umano: « Dio uno e trino, che in se stesso "esiste" come trascendente realtà di dono interpersonale, comunicandosi nello Spirito Santo come dono all'uomo, trasforma il mondo umano dal di dentro, dall'interno dei cuori e delle coscienze » (Dominum et vivificantem, 59).

Nella grande tradizione scolastica questa verità conduce a privilegiare l'azione dello Spirito nella vicenda umana ed a porre in evidenza l'iniziativa salvifica di Dio nella vita morale: pur non annullando la nostra personalità, né privandoci della libertà, Egli ci salva al di là delle nostre aspettative e dei nostri progetti. I doni dello Spirito Santo rientrano in tale logica, essendo « perfezioni dell'uomo che lo dispongono a seguire prontamente la mozione divina » (S. Tommaso, Summa Theologiae I-II, q. 68, a. 2).

Con i sette doni è data al credente la possibilità di un rapporto personale ed intimo col Padre, nella libertà che è propria dei figli di Dio. È quanto sottolinea san Tommaso, rilevando come lo Spirito Santo ci induca ad agire non per forza ma per amore: « I figli di Dio — egli afferma — sono mossi dallo Spirito Santo liberamente, per amore, non servilmente, per timore » (Contra gentiles, IV, 22). Lo Spirito rende gli atti del cristiano deiformi, cioè in sintonia con il modo di pensare, di amare e di agire divino, così che il credente diventa segno riconoscibile della Santissima Trinità nel mondo. Sostenuto dall'amicizia del Paraclito, dalla luce del Verbo, dall'amore del Padre, egli può audacemente proporsi di imitare la perfezione divina (cfr Mt 5,48).

Lo Spirito agisce secondo un duplice ambito d'intervento, come ricordava il mio venerato predecessore, il Servo di Dio Paolo VI: « Il primo campo è quello delle singole anime [...] è il nostro io: in questa cella profonda e a noi stessi misteriosa della nostra esistenza, entra il soffio dello Spirito Santo; si diffonde nell'anima con quel primo e sommo carisma che chiamiamo grazia, che è come una vita nuova, e subito la abilita ad atti che superano la sua efficienza naturale ». Il secondo campo « in cui si effonde la virtù della Pentecoste » è il « corpo visibile della Chiesa [...] Certamente "Spiritus ubi vult spirat" (Gv 3,8); ma, nell'economia stabilita da Cristo, lo Spirito percorre il canale del ministero apostolico ». È in virtù di questo ministero che ai sacerdoti è data la potestà di trasmettere lo Spirito ai fedeli « nell'annuncio autorizzato e autorevole della Parola di Dio, nella guida del Popolo cristiano e nella distribuzione dei sacramenti (cfr 1 Cor 4,1), fonti appunto della grazia, cioè dell'azione santificante del Paraclito » (Omelia per la Pentecoste, 25 maggio 1969).

5. I doni dello Spirito nella vita del sacerdote

Hostem repellas longius,
Pacemque dones protinus:
Ductore sic te praevio
Vitemus omne noxium

Difendici dal nemico,
reca in dono la pace,
la tua guida invincibile
ci preservi dal male.

Lo Spirito Santo ristabilisce nel cuore umano la piena armonia con Dio e, assicurandogli la vittoria sul Maligno, lo apre alle dimensioni universali dell'amore divino. In questo modo Egli fa passare l'uomo dall'amore di se stesso all'amore della Trinità, introducendolo all'esperienza della libertà interiore e della pace, ed avviandolo a fare della propria vita un dono. Con il sacro Settenario lo Spirito guida così il battezzato verso la piena configurazione a Cristo e la totale sintonizzazione con le prospettive del Regno di Dio.

Se questa è la strada su cui lo Spirito sospinge dolcemente ogni battezzato, una speciale attenzione Egli non manca di riservare a coloro che sono stati insigniti dell'Ordine sacro, in vista di un conveniente adempimento del loro impegnativo ministero. Così, con il dono della sapienza, lo Spirito conduce il sacerdote a valutare ogni cosa alla luce del Vangelo, aiutandolo a leggere nelle proprie vicende ed in quelle della Chiesa il misterioso ed amorevole disegno del Padre; con l'intelletto, favorisce in lui una più profonda penetrazione della verità rivelata, spingendolo a proclamare con convinzione e forza il lieto annuncio della salvezza; con il consiglio, lo Spirito illumina il ministro di Cristo perché sappia orientare il proprio agire secondo le vedute della Provvidenza, senza farsi condizionare dai giudizi del mondo; con il dono della fortezza lo sostiene tra le difficoltà del ministero, infondendogli la necessaria « parresia » nell'annuncio del Vangelo (cfr At 4,29.31); col dono della scienza, lo dispone a comprendere e ad accettare l'intreccio talvolta misterioso delle cause seconde con la Causa prima nelle vicende del cosmo; con il dono della pietà, ravviva in lui il rapporto di intima comunione con Dio e di fiducioso abbandono alla sua provvidenza; infine, con il timore di Dio, ultimo nella gerarchia dei doni, lo Spirito consolida nel sacerdote la coscienza della propria fragilità umana e dell'indispensabile ruolo della grazia divina, giacché « né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma è Dio che fa crescere » (1 Cor 3,7).

6. Lo Spirito introduce nella vita trinitaria

Per te sciamus da Patrem,
Noscamus atque Filium,
Teque utriusque Spiritum
Credamus omni tempore.

Luce d'eterna sapienza,
svelaci il grande mistero
di Dio Padre e del Figlio
uniti in un solo Amore.

Com'è suggestivo immaginare queste parole sulle labbra del sacerdote che, insieme con i fedeli affidati alle sue cure pastorali, cammina incontro al suo Signore! Egli sospira di giungere con loro alla vera conoscenza del Padre e del Figlio e di passare così dall'esperienza « per speculum in aenigmate » (1 Cor 13,12) dell'opera del Paraclito nella storia, alla contemplazione « facie ad faciem » (ibid.) della vivente e palpitante Realtà trinitaria. Egli è ben consapevole di affrontare « su delle piccole barche una lunga traversata » e di muoversi verso il cielo « servendosi di piccole ali » (Gregorio Nazianzeno, Poemi teologici, 1); ma sa anche di poter contare su Colui che ha avuto il compito di insegnare ai discepoli ogni cosa (cfr Gv 14,26).

Avendo imparato a leggere i segni dell'amore di Dio nella sua storia personale, il sacerdote, man mano che si avvicina l'ora dell'incontro supremo con il Signore, rende sempre più pressante ed intensa la sua preghiera nel desiderio di adeguarsi con fede matura alla volontà del Padre, del Figlio e dello Spirito.

Il Paraclito, « scala della nostra ascesa a Dio » (Ireneo, Adv. haereses, III, 24, 1), lo attira al Padre, mettendogli nel cuore il desiderio ardente di vedere il suo volto. Gli fa conoscere tutto ciò che riguarda il Figlio, attirandolo a Lui con nostalgia crescente. Lo illumina sul mistero della sua stessa Persona, portandolo a percepirne la presenza nel proprio cuore e nella storia.

Così, tra le gioie e gli affanni, le sofferenze e le speranze del ministero, il sacerdote impara a confidare nella vittoria finale dell'amore grazie all'indefettibile azione del Paraclito che, nonostante i limiti degli uomini e delle istituzioni, conduce la Chiesa a vivere in pienezza il mistero dell'unità e della verità. Egli sa, di conseguenza, di potersi affidare alla potenza della Parola di Dio, che supera ogni umana parola, ed alla forza della grazia, che vince i peccati e le insufficienze degli uomini. Questo lo rende forte, nonostante l'umana fragilità, nel momento della prova e pronto a tornare col cuore al Cenacolo, dove, perseverando nella preghiera con Maria e con i fratelli, può ritrovare l'entusiasmo necessario per riprendere la fatica del servizio apostolico.

7. Prostrati alla presenza dello Spirito

Deo Patri sit gloria,
Et Filio, qui a mortuis
Surrexit, ac Paraclito,
In saeculorum saecula.
Amen.

A Dio Padre sia gloria,
al Figlio che è risorto
e allo Spirito Paraclito,
per i secoli in eterno.
Amen.

Mentre oggi, Giovedì Santo, meditiamo sulla nascita del nostro Sacerdozio, torna alla mente di ciascuno di noi il momento liturgico altamente suggestivo della prostrazione sul pavimento, il giorno della nostra Ordinazione presbiterale. Quel gesto di profonda umiltà e di ubbidiente apertura è stato quanto mai opportuno per predisporre il nostro animo alla sacramentale imposizione delle mani, mediante la quale lo Spirito Santo è entrato in noi per compiere la sua opera. Dopo esserci alzati da terra, ci siamo inginocchiati davanti al Vescovo per essere ordinati presbiteri ed abbiamo ricevuto poi da lui l'unzione delle mani per la celebrazione del santo Sacrificio, mentre l'assemblea cantava: « acqua viva, fuoco, amore, santo crisma dell'anima ».

Questi gesti simbolici, che indicano la presenza e l'azione dello Spirito Santo, ci invitano a tornare ogni giorno a tale esperienza per consolidare in noi i suoi doni. È importante, infatti, che Egli continui ad operare in noi e che noi camminiamo sotto la sua influenza, ma, più ancora, che sia Lui stesso ad agire per nostro mezzo. Quando la tentazione si fa insidiosa e le forze umane vengono meno, allora è il momento di invocare più ardentemente lo Spirito, perché venga in aiuto alla nostra debolezza e ci consenta di essere prudenti e forti come vuole Dio. È necessario mantenere il cuore costantemente aperto a questa azione che eleva e nobilita le forze dell'uomo e conferisce quella profondità spirituale che introduce alla conoscenza ed all'amore dell'ineffabile mistero di Dio.

Carissimi Fratelli nel sacerdozio! La solenne invocazione dello Spirito Santo e il suggestivo gesto di umiltà compiuto durante l'Ordinazione sacerdotale hanno fatto echeggiare anche nella nostra vita il fiat dell'Annunciazione. Nel silenzio di Nazareth, Maria si rende per sempre disponibile alla volontà del Signore e, per opera dello Spirito Santo, concepisce il Cristo, salvezza del mondo. Tale iniziale obbedienza percorre tutta la sua esistenza terrena e raggiunge il culmine ai piedi della Croce.

Il sacerdote è chiamato a commisurare costantemente il suo fiat a quello di Maria, lasciandosi come Lei condurre dallo Spirito. La Vergine lo sosterrà nelle sue scelte di povertà evangelica e lo renderà disponibile all'ascolto umile e sincero dei fratelli, per cogliere nei loro drammi e nelle loro aspirazioni i « gemiti dello Spirito » (cfr Rm 8,26); lo renderà capace di servirli con illuminata discrezione, per educarli ai valori evangelici; lo renderà intento a cercare con sollecitudine « le cose di lassù » (Col 3,1), per essere testimone convincente del primato di Dio.

La Vergine lo aiuterà ad accogliere il dono della castità come espressione di un amore più grande, che lo Spirito suscita in vista della generazione alla vita divina di una moltitudine di fratelli. Ella lo condurrà sulle vie dell'obbedienza evangelica, perché si lasci guidare dal Paraclito, oltre i propri progetti, verso la totale adesione ai pensieri di Dio.

Accompagnato da Maria, il sacerdote saprà rinnovare ogni giorno la sua consacrazione fino a quando, sotto la guida dello stesso Spirito invocato con fiducia nell'itinerario umano e sacerdotale, entrerà nell'oceano di luce della Trinità.

Invoco su tutti voi, per intercessione di Maria, Madre dei sacerdoti, una speciale effusione dello Spirito d'amore.

Vieni Spirito Santo! Vieni a rendere fecondo il nostro servizio a Dio e ai fratelli!

Con rinnovato affetto e auspicando ogni divina consolazione per il vostro ministero, di gran cuore imparto a tutti voi una speciale Benedizione Apostolica.
  • Dal Vaticano, il 25 marzo, Solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1998, ventesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 21, 2010 10:37 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1999
[/size]

«Abbà, Padre!»

Carissimi Fratelli nel sacerdozio, il mio appuntamento con voi per il Giovedì santo, in quest'anno che precede e prepara immediatamente il Grande Giubileo del Duemila, avviene nel segno di questa invocazione nella quale risuona, a giudizio degli esegeti, la ipsissima vox Iesu. E un'invocazione in cui è racchiuso l'insondabile mistero del Verbo incarnato, inviato dal Padre nel mondo per la salvezza dell'umanità.

La missione del Figlio di Dio raggiunge il suo compimento quando Egli, offrendo se stesso, realizza la nostra adozione filiale e, col dono dello Spirito Santo, rende possibile ad ogni essere umano la partecipazione alla stessa comunione trinitaria. Nel mistero pasquale Dio Padre, per mezzo del Figlio nello Spirito Paraclito, s'è chinato su ogni uomo, offrendogli la possibilità della redenzione dal peccato e della liberazione dalla morte.

1. Durante la Celebrazione eucaristica, concludiamo la colletta con le parole: « Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli ». Vive e regna con te, Padre! Si può dire che questa conclusione abbia un carattere ascendente: attraverso Cristo, nello Spirito Santo, verso il Padre. Tale è anche lo schema teologico sotteso all'impostazione del triennio 1997-1999: dapprima l'anno del Figlio, poi l'anno dello Spirito Santo ed ora l'anno del Padre.

Questo movimento ascendente si radica, per così dire, in quello discendente, descritto dall'apostolo Paolo nella Lettera ai Galati. E un brano che abbiamo meditato con particolare intensità nella liturgia del periodo di Natale: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli » (Gal 4, 4-5).

Troviamo qui espresso il movimento discendente: Dio Padre manda il Figlio per renderci, in Lui, figli suoi adottivi. Nel mistero pasquale Gesù realizza il disegno del Padre donando la vita per noi. Il Padre manda allora lo Spirito del Figlio per illuminarci sullo straordinario privilegio: « E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio » (Gal 4, 6-7).

Come non rilevare la singolarità di quanto scrive l'Apostolo? Egli afferma che è proprio lo Spirito a gridare: Abbà, Padre! In realtà, il testimone storico della paternità di Dio è stato il Figlio di Dio nel mistero dell'incarnazione e della redenzione: è stato Lui che ci ha insegnato a rivolgerci a Dio chiamandolo « Padre ». Egli stesso lo invocava « Padre mio », e a noi ha insegnato a pregarlo col nome dolcissimo di « Padre nostro ». San Paolo tuttavia ci dice che l'insegnamento del Figlio deve in un certo senso essere reso vivo nell'anima di chi lo ascolta dall'interiore ammaestramento dello Spirito Santo. Soltanto per opera sua, infatti, siamo capaci di adorare Dio in verità invocandolo « Abbà, Padre ».

2. Vi scrivo queste parole, cari Fratelli nel sacerdozio, nella prospettiva del Giovedì santo, pensandovi raccolti intorno ai vostri Vescovi per la Messa crismale. Mi sta molto a cuore che, nella comunione dei vostri presbitèri, vi sentiate uniti a tutta la Chiesa, che sta vivendo l'anno del Padre, un anno che preannuncia la fine del ventesimo secolo e, insieme, del secondo millennio cristiano.

Come non rendere grazie a Dio, in questa prospettiva, al pensiero delle schiere di sacerdoti che, in questo ampio arco di tempo, hanno speso la loro esistenza al servizio del Vangelo, giungendo talvolta fino al supremo sacrificio della vita? Mentre, nello spirito del prossimo Giubileo, confessiamo i limiti e le mancanze delle passate generazioni cristiane, e quindi anche dei sacerdoti in esse presenti, riconosciamo con gioia che, nell'inestimabile servizio reso dalla Chiesa al cammino dell'umanità, una parte assai rilevante è dovuta al lavoro umile e fedele di tanti ministri di Cristo che, nel corso del millennio, hanno operato quali generosi artefici della civiltà dell'amore.

Le grandi dimensioni del tempo! Se è sempre un allontanarsi dall'inizio, a ben pensarci il tempo è simultaneamente un ritorno all'inizio. E questo è di fondamentale importanza: se, infatti, il tempo fosse soltanto un allontanarsi dall'inizio e non fosse chiaro il suo orientamento finale — il recupero appunto dell'inizio — tutta la nostra esistenza nel tempo sarebbe priva di una definitiva direzione. Risulterebbe priva di senso.

Cristo, « l'Alfa e l'Omega [...] Colui che è, che era e che viene » (Ap 1, 8), ha conferito direzione e senso all'umano passaggio nel tempo. Egli ha detto di se stesso: « Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo, e vado al Padre » (Gv 16, 28). E così il nostro passare è pervaso dall'evento di Cristo. E con Lui che passiamo, andando nella stessa direzione che ha preso Lui: verso il Padre.

Ciò diventa ancor più evidente durante il Triduum Sacrum, i giorni santi per eccellenza durante i quali partecipiamo, nel mistero, al ritorno di Cristo al Padre attraverso la sua passione, morte e risurrezione. La fede ci assicura, infatti, che questo passaggio di Cristo verso il Padre, cioè la sua Pasqua, non è un evento che riguarda solo Lui. Anche noi siamo chiamati a prendervi parte. La sua Pasqua è la nostra Pasqua.

Così dunque, insieme con Cristo, camminiamo verso il Padre. Lo facciamo attraverso il mistero pasquale, rivivendo quelle ore cruciali durante le quali, morente sulla croce, Egli esclamò: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15, 34), ed aggiunse poi: « Tutto è compiuto! » (Gv 19, 30), « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23, 46). Queste espressioni evangeliche sono familiari ad ogni cristiano e, in modo particolare, ad ogni sacerdote. Esse rendono testimonianza al nostro vivere e al nostro morire. Al termine di ogni giornata, ripetiamo nella Liturgia delle Ore: « In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum », per prepararci al grande mistero del passaggio, della pasqua esistenziale, quando Cristo, in virtù della sua morte e della sua risurrezione, ci accoglierà con sé per consegnarci al Padre celeste.

3. « Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (Mt 11, 25-27). Sì, solo il Figlio conosce il Padre. Lui, che « è nel seno del Padre » — come scrive san Giovanni nel suo Vangelo (1, 18) — ha avvicinato a noi questo Padre, ci ha parlato di Lui, ci ha rivelato il suo volto, il suo cuore. Durante l'Ultima Cena, alla richiesta dell'apostolo Filippo: « Mostraci il Padre » (Gv 14, 8), Cristo risponde: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? [...] Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? » (Gv 14, 9-10). Con queste parole Gesù rende testimonianza al mistero trinitario della sua eterna generazione come Figlio dal Padre, al mistero che costituisce il segreto più profondo della sua Personalità divina.

Il Vangelo è una continua rivelazione del Padre. Quando, all'età di dodici anni, Gesù viene ritrovato da Giuseppe e Maria tra i dottori nel Tempio, alle parole della Madre: « Figlio, perché ci hai fatto così? » (Lc 2, 48), risponde richiamandosi al Padre: « Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » (Lc 2, 49). Appena dodicenne, Egli ha già la lucida consapevolezza del significato della propria vita, del senso della sua missione, tutta dedicata dalla prima fino all'ultima ora « alle cose del Padre ». Essa raggiunge il suo culmine sul Calvario, col sacrificio della Croce, accettato da Cristo in spirito di obbedienza e di filiale dedizione: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! [...] Sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 39.42). E il Padre, a sua volta, accoglie il sacrificio del Figlio, poiché ha tanto amato il mondo da dare il suo Unigenito, affinché l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna (cfr Gv 3, 16). Sì, soltanto il Figlio conosce il Padre e perciò solo Lui ce lo può rivelare.

4. « Per ipsum, et cum ipso, et in ipso... ». « Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli ».

Spiritualmente uniti e visibilmente raccolti nelle chiese cattedrali in questo giorno singolare, rendiamo grazie a Dio per il dono del sacerdozio. Rendiamo grazie per il dono dell'Eucaristia, che come presbiteri celebriamo. La dossologia con cui si conclude il Canone riveste un'importanza fondamentale in ogni celebrazione eucaristica. Essa esprime in un certo senso il coronamento del Mysterium fidei, del nucleo centrale del sacrificio eucaristico, che si attua nel momento in cui, con la potenza dello Spirito Santo, operiamo la conversione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo, così come fece Lui stesso per la prima volta nel Cenacolo. Quando la grande preghiera eucaristica raggiunge il suo culmine, la Chiesa, proprio allora, nella persona del ministro ordinato, rivolge al Padre queste parole: « Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente nell'unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria ». Sacrificium laudis!

5. Dopo che l'assemblea con solenne acclamazione ha risposto « Amen », il celebrante intona il « Padre nostro », la preghiera del Signore. Il succedersi di questi momenti è molto significativo. Il Vangelo racconta degli Apostoli che, colpiti dal raccoglimento del Maestro nel suo colloquio col Padre, gli chiesero: « Signore, insegnaci a pregare » (Lc 11, 1). Egli, allora, per la prima volta pronunciò le parole che sarebbero poi divenute la principale e più frequente preghiera della Chiesa e di tutti i cristiani: il « Padre nostro ». Quando nel corso della Celebrazione eucaristica facciamo nostre, come assemblea liturgica, tali parole, esse acquistano una particolare eloquenza. E come se in quel momento noi confessassimo che Cristo ci ha insegnato definitivamente e pienamente la sua preghiera al Padre quando l'ha commentata con il sacrificio della Croce.

E nell'ambito del sacrificio eucaristico che il « Padre nostro », recitato dalla Chiesa, esprime tutto il suo significato. Ciascuna delle invocazioni, che in esso sono contenute, acquista una speciale luce di verità. Sulla croce il nome del Padre è « santificato » in massimo grado e il suo Regno è irrevocabilmente realizzato; nel « consummatum est » la sua volontà ottiene definitivo compimento. E non è forse vero che la domanda « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo... », trova la sua piena conferma nelle parole del Crocifisso: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23, 34)? La richiesta, poi, del pane quotidiano diventa più che mai eloquente nella Comunione eucaristica quando, sotto le specie del « pane spezzato », riceviamo il Corpo di Cristo. E la supplica « Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male », non raggiunge forse la sua massima efficacia nel momento in cui la Chiesa offre al Padre il prezzo supremo della redenzione e della liberazione dal male?

6. Nell'Eucaristia il sacerdote s'accosta personalmente all'inesauribile mistero di Cristo e della sua preghiera al Padre. Egli può immergersi quotidianamente in questo mistero di redenzione e di grazia celebrando la santa Messa, che conserva senso e valore anche quando, per giusto motivo, è offerta senza la partecipazione del popolo, ma sempre, comunque, per il popolo e per il mondo intero. Proprio per questo suo indissolubile legame con il sacerdozio di Cristo, il presbitero è il maestro della preghiera e i fedeli possono legittimamente rivolgere a lui la stessa domanda fatta un giorno dai discepoli a Gesù: « Insegnaci a pregare ».

La liturgia eucaristica è per eccellenza scuola di preghiera cristiana per la comunità. Dalla Messa si dipartono, quasi a raggiera, molteplici vie di una sana pedagogia dello spirito. Fra queste vie emerge l'adorazione del Santissimo Sacramento, che è naturale prolungamento della celebrazione. I fedeli, grazie ad essa, possono fare una peculiare esperienza del « rimanere » nell'amore di Cristo (cfr Gv 15, 9), entrando sempre più profondamente nella sua relazione filiale col Padre.

E proprio in questa prospettiva che esorto ogni sacerdote ad adempiere con fiducia e coraggio il suo compito di guida della comunità all'autentica preghiera cristiana. E un compito al quale non gli è lecito abdicare, anche se le difficoltà derivanti dalla mentalità secolarizzata glielo possono rendere talvolta assai faticoso.

Il forte impulso missionario che la Provvidenza, soprattutto mediante il Concilio Vaticano II, ha impresso alla Chiesa nei nostri tempi, interpella in modo particolare i ministri ordinati, chiamandoli anzitutto a conversione: convertirsi per convertire, o, detto altrimenti, vivere intensamente l'esperienza di figli di Dio, perché ogni battezzato riscopra la dignità e la gioia di appartenere al Padre celeste.

7. Nel giorno del Giovedì santo, rinnoveremo, carissimi Fratelli, le promesse sacerdotali. Con ciò desideriamo che Cristo, in un certo senso, ci abbracci nuovamente con il suo santo sacerdozio, con il suo sacrificio, con la sua agonia nel Getsemani e la morte sul Golgota, e con la sua gloriosa risurrezione. Ricalcando, per così dire, le orme di Cristo in tutti questi eventi di salvezza, noi scopriamo il suo profondissimo aprirsi al Padre. Ed è per questo che, in ogni Eucaristia, si rinnova in qualche modo la richiesta dell'apostolo Filippo nel cenacolo: « Signore, mostraci il Padre », ed ogni volta Cristo, nel Mysterium fidei, sembra rispondere così: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto? [...] Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? » (Gv 14, 9-10).

In questo Giovedì santo, cari sacerdoti del mondo intero, memori dell'unzione crismale ricevuta nel giorno dell'Ordinazione, proclameremo concordi con sentimento di rinnovata riconoscenza:

Per ipsum, et cum ipso, et in ipso,
est tibi Deo Patri omnipotenti,
in unitate Spiritus Sancti,
omnis honor et gloria
per omnia saecula saeculorum. Amen!
  • Dal Vaticano, il 14 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell'anno 1999, ventunesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

ALICE
Messaggi:9872
Iscritto il:ven feb 19, 2010 12:26 pm
[phpBB Debug] PHP Warning: in file [ROOT]/vendor/twig/twig/lib/Twig/Extension/Core.php on line 1266: count(): Parameter must be an array or an object that implements Countable

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO

Messaggio da ALICE » ven mag 21, 2010 1:00 pm

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO
I. Dono dello Spirito e fedeltà nell'accoglierlo
Padre che ci doni lo Spirito,

Tu non rifiuti mai lo Spirito Santo a coloro che te lo chiedono,

Perché tu sei il primo a desiderare che lo riceviamo. Concedici dunque questo dono che riassume e contiene tutti gli altri,

Questo dono nel quale racchiudi tutti i segreti del tuo amore, tutta la generosità dei tuoi benefici,

Questo dono che è il dono stesso del tuo cuore paterno, nel quale tu ti offri a noi,

Questo dono che ci comunica la tua vita intima per farne vivere anche noi,

Questo dono destinato a dilatare il nostro cuore fino alle dimensioni universali del tuo,

Questo dono capace di trasformarci da cima a fondo, di guarirci dalle nostre debolezze e di divinizzarci,

Questo dono della tua energia onnipotente, indispensabile per adempiere la missione che ci affidi,

Questo dono della tua felicità, nel fervore dell'amore, poiché con lo spirito viene a noi anche il dono della gioia e la gioia del dono.

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 27, 2010 9:20 am


  • Munus regendi
[/size]

Cari fratelli e sorelle,

L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.

Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità? Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.

La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, “curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati” (Presbyterorum Ordinis, 6). Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: “Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore” (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).

Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.

Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo “pastorale” quasi in opposizione al concetto di “gerarchico”, così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di “comunione”. E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola “gerarchia”, che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato. Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà “gerarchia”, l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà “gerarchia”. L’opinione comune è che “gerarchia” sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola. Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe “sacro dominio”, ma il vero significato non è questo, è “sacra origine”, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la “gerarchia”, non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio. E anche il Papa - punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa - non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella “regula fidei”, nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.

Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).

Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore. Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.

Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: “figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi” (Gal 4,19).

Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio. Grazie!
  • Benedetto XVI, Udienza Generale di mercoledì 26 maggio 2010
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 27, 2010 9:28 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 2000
[/size]

Carissimi Fratelli nel sacerdozio!

1. Gesù, « dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1). Rileggo con viva commozione qui a Gerusalemme, nel luogo che secondo la tradizione ospitò Gesù e i Dodici per la Cena pasquale e l'istituzione dell'Eucaristia, le parole con cui l'evangelista Giovanni introduce la narrazione dell'Ultima Cena.

Rendo lode al Signore che, nell'Anno Giubilare dell'incarnazione del Figlio suo, mi ha concesso di mettermi sulle orme terrene di Cristo, seguendo le strade da lui percorse tra la nascita a Betlemme e la morte sul Golgota. Ieri ho sostato a Betlemme nella grotta della Natività. Nei giorni prossimi toccherò diversi luoghi della vita e del ministero del Salvatore, dalla casa dell'Annunciazione, al Monte delle Beatitudini, all'Orto degli Ulivi. Domenica, infine, sarò al Golgota e al Santo Sepolcro.

Oggi, questa visita al Cenacolo mi offre l'occasione per gettare uno sguardo d'insieme sul mistero della Redenzione. Fu qui che egli ci fece il dono incommensurabile dell'Eucaristia. Qui nacque anche il nostro sacerdozio.

Una lettera dal Cenacolo

2. E proprio da questo luogo mi piace indirizzarvi la lettera, con la quale da oltre vent'anni vi raggiungo nel Giovedì santo, giorno dell'Eucaristia e « nostro » giorno per eccellenza.

Sì, vi scrivo dal Cenacolo, ripensando a quanto si svolse tra queste mura in quella sera carica di mistero. Agli occhi dello spirito mi si presenta Gesù, mi si presentano gli Apostoli seduti a mensa con lui. Mi soffermo, in particolare, su Pietro: mi pare di vederlo mentre, insieme con gli altri discepoli, osserva stupito i gesti del Signore, ne ascolta commosso le parole, si apre, pur con il peso della sua fragilità, al mistero che lì si annuncia e tra poco si compirà. Sono le ore in cui si combatte la grande battaglia tra l'amore che si dona senza riserve e il mysterium iniquitatis che si chiude nella sua ostilità. Il tradimento di Giuda si propone quasi come emblema del peccato dell'umanità. « Era notte », annota l'evangelista Giovanni (13, 30): l'ora delle tenebre, ora di distacco e di infinita tristezza. Ma nelle parole accorate di Cristo, già balenano le luci dell'aurora: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (Gv 16, 22-23).

3. Dobbiamo rimeditare sempre di nuovo il mistero di quella notte. Dobbiamo tornare spesso con lo spirito a questo Cenacolo, dove specialmente noi sacerdoti possiamo sentirci, in certo senso, « di casa ». Di noi si potrebbe dire, rispetto al Cenacolo, quello che il Salmista dice dei popoli rispetto a Gerusalemme: « Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato » (Sal 87 [86], 6).

Da quest'Aula santa mi viene spontaneo immaginarvi nelle più diverse parti del mondo, con i vostri mille volti, più giovani o più avanti negli anni, nei vostri differenti stati d'animo: per tanti, grazie a Dio, di gioia e di entusiasmo, per altri forse di dolore, forse di stanchezza, forse di smarrimento. In tutti vengo ad onorare quell'immagine del Cristo che avete ricevuto con la consacrazione, quel « carattere » che connota in modo indelebile ciascuno di voi. Esso è segno dell'amore di predilezione, dal quale è raggiunto ogni sacerdote e sul quale egli può sempre contare, per andare avanti con gioia, o ricominciare con nuovo entusiasmo, nella prospettiva di una fedeltà sempre più grande.

Nati dall'amore

4. « Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine ». Com'è noto, a differenza degli altri Vangeli, quello di Giovanni non si sofferma a narrare l'istituzione dell'Eucaristia, già evocata da Gesù nell'ampio discorso presso Cafarnao (cfr Gv 6, 26-65), ma indugia sul gesto della lavanda dei piedi. Questa iniziativa di Gesù che sconcerta Pietro, prima di essere un esempio di umiltà proposto alla nostra imitazione, è rivelazione della radicalità della condiscendenza di Dio verso di noi. In Cristo, infatti, è Dio che ha « spogliato se stesso », e ha assunto la « forma di servo » fino all'estrema umiliazione della Croce (cfr Fil 2, 7), per aprire all'umanità l'accesso all'intimità della vita divina: i grandi discorsi che, nel Vangelo di Giovanni, seguono il gesto della lavanda dei piedi e quasi ne sono il commento, si configurano come una introduzione al mistero della comunione trinitaria, alla quale il Padre ci chiama inserendoci in Cristo col dono dello Spirito.

Questa comunione va vissuta secondo la logica del comandamento nuovo: « Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13, 34). Non a caso la preghiera sacerdotale corona questa « mistagogia » mostrando Cristo nella sua unità col Padre, pronto a ritornare a lui attraverso il sacrificio di sé, e di null'altro desideroso che della partecipazione ai discepoli della sua unità col Padre: « Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola » (Gv 17, 21).

5. A partire da quel nucleo di discepoli che ascoltarono queste parole, è tutta la Chiesa che si è formata, estendendosi nel tempo e nello spazio come « un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » (S. Cipriano, De Orat. Dom., 23). L'unità profonda di questo nuovo popolo non esclude la presenza, al suo interno, di compiti diversi e complementari. Così, a quei primi apostoli sono legati a titolo speciale coloro che sono stati posti a rinnovare in persona Christi il gesto che Gesù compì nell'Ultima Cena, istituendo il sacrificio eucaristico, « fonte e apice di tutta la vita cristiana » (Lumen gentium, 11). Il carattere sacramentale che li distingue, in virtù dell'Ordine ricevuto, fa sì che la loro presenza e il loro ministero siano unici, necessari e insostituibili.

Sono passati quasi 2000 anni da quel momento. Quanti sacerdoti hanno ripetuto quel gesto! Spesso sono stati discepoli esemplari, santi, martiri. Come dimenticare, in quest'Anno Giubilare, i tanti sacerdoti che hanno testimoniato con la loro vita Cristo fino all'effusione del sangue? Il loro martirio accompagna l'intera storia della Chiesa, e segna anche il secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, caratterizzato da diversi regimi dittatoriali ed ostili alla Chiesa. Desidero, dal Cenacolo, dire grazie al Signore per il loro coraggio. Guardiamo ad essi per imparare a seguirli sulle orme del Buon Pastore che « offre la vita per le pecore » (Gv 10, 11).

Un tesoro in vasi di creta

6. E vero: nella storia del sacerdozio, non meno che in quella dell'intero popolo di Dio, s'avverte anche la presenza oscura del peccato. Tante volte l'umana fragilità dei ministri ha offuscato in loro il volto di Cristo. E come stupirsene, proprio qui, nel Cenacolo? Qui non solo si consumò il tradimento di Giuda, ma lo stesso Pietro dovette fare i conti con la sua debolezza, ricevendo l'amara profezia del rinnegamento. Scegliendo uomini come i Dodici, Cristo certo non si illudeva: fu in questa debolezza umana che pose il sigillo sacramentale della sua presenza. La ragione ce la indica Paolo: « Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi » (2 Cor 4, 7).

Per questo, nonostante tutte le fragilità dei suoi sacerdoti, il popolo di Dio ha continuato a credere alla forza di Cristo operante attraverso il loro ministero. Come non ricordare la splendida testimonianza del poverello di Assisi a questo riguardo? Egli, che per umiltà non volle essere sacerdote, lasciò nel suo Testamento l'espressione della sua fede nel mistero di Cristo presente nei sacerdoti, dichiarandosi pronto a ricorrere ad essi persino se lo avessero perseguitato, senza tener conto del loro peccato. « E faccio questo — spiegava — perché, dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri » (Fonti Francescane, n. 113).

7. Da questo luogo in cui Cristo ha pronunciato le parole sacre dell'istituzione eucaristica vi invito, cari sacerdoti, a riscoprire il « dono » e il « mistero » che abbiamo ricevuto. Per coglierlo alla radice, dobbiamo riflettere sul sacerdozio di Cristo. Ad esso, certo, tutto il popolo di Dio partecipa in forza del Battesimo. Ma il Concilio Vaticano II ci ricorda che, oltre a questa partecipazione comune a tutti i battezzati, ce n'è un'altra specifica, ministeriale, che è diversa per essenza dalla prima, anche se ad essa intimamente ordinata (cfr Lumen gentium, 10).

Al sacerdozio di Cristo ci avviciniamo in un'ottica particolare nel contesto del Giubileo dell'Incarnazione. Esso ci invita a contemplare in Cristo l'intima connessione che esiste tra il suo sacerdozio e il mistero della sua persona. Il sacerdozio di Cristo non è « accidentale », non è un compito che egli avrebbe potuto anche non assumere, ma è inscritto nella sua identità di Figlio incarnato, di Uomo-Dio. Tutto, ormai, nei rapporti tra l'umanità e Dio, passa per Cristo: « Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me » (Gv 14, 6). Per questo Cristo è sacerdote di un sacerdozio eterno ed universale, di cui quello della prima Alleanza era figura e preparazione (cfr Eb 9, 9). Egli lo esercita in pienezza da quando si è assiso come sommo sacerdote « alla destra del trono della maestà nei cieli » (Eb 8, 1). Da allora è cambiato lo statuto stesso del sacerdozio nell'umanità: non c'è più che un unico sacerdozio, quello di Cristo, che può essere diversamente partecipato ed esercitato.

Sacerdos et Hostia

8. Al tempo stesso, è stato portato a perfezione il senso del sacrificio, atto sacerdotale per eccellenza. Cristo, sul Golgota, ha fatto della sua stessa vita un'offerta di valore eterno, un'offerta « redentrice », che ha riaperto per sempre la strada della comunione con Dio interrotta dal peccato.

Getta luce su questo mistero la Lettera agli Ebrei, facendo risuonare sulle labbra di Cristo alcuni versi del Salmo 40: « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato [...] Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà » (Eb 10, 5.7; cfr Sal 40 [39], 7–9). Secondo l'Autore della Lettera, queste parole profetiche sono state pronunciate da Cristo nel momento del suo ingresso nel mondo. Esprimono il suo mistero e la sua missione. Cominciano a realizzarsi, dunque, fin dal momento dell'Incarnazione, anche se raggiungono il culmine nel sacrificio del Golgota. Da allora, ogni offerta del sacerdote non è che ripresentazione al Padre dell'unica offerta di Cristo, fatta una volta per sempre.

Sacerdos et Hostia! Sacerdote e Vittima. Questo aspetto sacrificale segna profondamente l'Eucaristia, ed è insieme dimensione costitutiva del sacerdozio di Cristo e, in conseguenza, del nostro sacerdozio. Rileggiamo in questa luce le parole che ogni giorno pronunciamo, e che risuonarono per la prima volta proprio qui nel Cenacolo: « Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi [...] Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati ».

Sono le parole testimoniate, con redazioni sostanzialmente convergenti, dagli Evangelisti e da Paolo. Esse furono pronunciate in questo luogo nella tarda sera del Giovedì santo. Dando agli Apostoli il suo Corpo da mangiare e il suo Sangue da bere, egli espresse la profonda verità del gesto che avrebbe di lì a poco compiuto sul Golgota. Nel Pane eucaristico c'è infatti lo stesso Corpo nato da Maria ed offerto sulla Croce:

Ave verum Corpus natum de Maria Virgine,
vere passum, immolatum in cruce pro homine.

9. Come non tornare sempre nuovamente a questo mistero, che racchiude tutta la vita della Chiesa? Questo Sacramento ha nutrito per duemila anni innumerevoli credenti. Da esso è scaturito un fiume di grazia. Quanti santi hanno trovato in esso non solo il pegno, ma quasi l'anticipazione del Paradiso!

Lasciamoci trasportare dallo slancio contemplativo, ricco di poesia e di teologia, con cui san Tommaso d'Aquino ha cantato il mistero nelle parole del Pange lingua. L'eco di quelle parole mi giunge qui oggi, nel Cenacolo, come voce di tante comunità cristiane sparse nel mondo, di tanti sacerdoti, persone di vita consacrata, semplici fedeli, che ogni giorno si fermano in adorazione del mistero eucaristico:

Verbum caro, panem verum verbo carnem efficit,
fitque sanguis Christi merum, et, si sensus deficit,
ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit.

Fate questo in memoria di me

10. Il mistero eucaristico, nel quale è annunciata e celebrata la morte e risurrezione di Cristo in attesa della sua venuta, è il cuore della vita ecclesiale. Per noi esso ha, poi, un significato tutto speciale: sta infatti al centro del nostro ministero. Quest'ultimo non si limita certo alla celebrazione eucaristica, implicando un servizio che va dall'annuncio della Parola, alla santificazione degli uomini attraverso i Sacramenti, alla guida del popolo di Dio nella comunione e nel servizio. Ma l'Eucaristia è il punto da cui tutto si irradia ed a cui tutto conduce. Il nostro sacerdozio è nato nel Cenacolo insieme con essa.

« Fate questo in memoria di me » (Lc 22, 19): le parole di Cristo, pur dirette a tutta la Chiesa, sono affidate come un compito specifico a coloro che continueranno il ministero dei primi Apostoli. E ad essi che Gesù consegna l'atto appena compiuto di trasformare il pane nel suo Corpo e il vino nel suo Sangue, l'atto in cui egli si esprime come Sacerdote e Vittima. Cristo vuole che d'ora in poi questo suo atto diventi sacramentalmente anche atto della Chiesa per le mani dei sacerdoti. Dicendo « fate questo » indica non soltanto l'atto, ma anche il soggetto chiamato ad agire, istituisce cioè il sacerdozio ministeriale, che diviene così uno fra gli elementi costitutivi della Chiesa stessa.

11. Tale atto dovrà essere compiuto « in sua memoria »: l'indicazione è importante. L'atto eucaristico celebrato dai sacerdoti renderà presente in ogni generazione cristiana, in ogni angolo della terra, l'opera compiuta da Cristo. Dovunque sarà celebrata l'Eucaristia, lì, in modo incruento, si renderà presente il sacrificio cruento del Calvario, lì sarà presente Cristo stesso, Redentore del mondo. « Fate questo in memoria di me ». Riascoltando queste parole qui, tra le mura del Cenacolo, è spontaneo provarsi ad immaginare i sentimenti di Cristo. Erano le ore drammatiche che precedevano la Passione. L'evangelista Giovanni evoca gli accenti accorati del Maestro che prepara gli Apostoli alla propria dipartita. Quanta tristezza nei loro occhi: « Perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore » (Gv 16, 6). Ma Gesù li rasserena: « Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi » (Gv 14, 18). Se il mistero della Pasqua lo sottrarrà al loro sguardo, egli sarà più che mai presente nella loro vita, e lo sarà « tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28, 20).

Memoriale attualizzante

12. La sua presenza avrà tante espressioni. Ma certamente la più alta sarà proprio quella eucaristica: non semplice ricordo, ma « memoriale » attualizzante; non richiamo simbolico al passato, ma presenza viva del Signore in mezzo ai suoi. Ne sarà per sempre garante lo Spirito Santo, continuamente effuso nella celebrazione eucaristica, perché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue di Cristo: è lo stesso Spirito che la sera di Pasqua, in questo Cenacolo, fu « alitato » sugli Apostoli (cfr Gv 20, 22), e che li trovò ancora qui, riuniti con Maria, nel giorno di Pentecoste. Allora li investì come vento gagliardo e fuoco (cfr At 2, 1-4), e li spinse ad andare in tutte le direzioni del mondo, per annunciare la Parola e raccogliere il popolo di Dio nella « frazione del pane » (cfr At 2, 42).

13. A duemila anni dalla nascita di Cristo, in quest'Anno Giubilare, dobbiamo in modo particolare ricordare e meditare la verità di quella che potremmo chiamare la sua « nascita eucaristica ». Il Cenacolo è appunto il luogo di questa « nascita ». Qui è cominciata per il mondo una presenza nuova di Cristo, una presenza che si produce ininterrottamente, dovunque è celebrata l'Eucaristia e un sacerdote presta a Cristo la sua voce, ripetendo le parole sante dell'istituzione.

Questa presenza eucaristica ha percorso i due millenni della storia della Chiesa e la accompagnerà fino alla fine dei tempi. E per noi una gioia e al tempo stesso fonte di responsabilità, l'essere così strettamente vincolati a questo mistero. Ne vogliamo oggi prendere coscienza con il cuore colmo di stupore e gratitudine, e con tali sentimenti entrare nel Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo.

La consegna del Cenacolo

14. Miei cari Fratelli sacerdoti, che il Giovedì santo vi riunite nelle cattedrali intorno ai vostri Pastori, come i presbiteri della Chiesa che è in Roma si riuniscono intorno al Successore di Pietro, vogliate accogliere questi pensieri, meditati nell'atmosfera suggestiva del Cenacolo! Sarebbe difficile trovare un luogo che possa ricordare meglio il mistero eucaristico e insieme il mistero del nostro sacerdozio.

Restiamo fedeli alla « consegna » del Cenacolo, al grande dono del Giovedì santo. Celebriamo sempre con fervore la Santa Eucaristia. Sostiamo di frequente e prolungatamente in adorazione davanti a Cristo eucaristico. Mettiamoci in qualche modo « alla scuola » dell'Eucaristia. Tanti sacerdoti nel corso dei secoli hanno trovato in essa il conforto promesso da Gesù la sera dell'Ultima Cena, il segreto per vincere la loro solitudine, il sostegno per sopportare le loro sofferenze, l'alimento per riprendere il cammino dopo ogni scoramento, l'energia interiore per confermare la propria scelta di fedeltà. La testimonianza che sapremo dare al popolo di Dio nella celebrazione eucaristica dipende molto da questo nostro rapporto personale con l'Eucaristia.

15. Riscopriamo il nostro sacerdozio alla luce dell'Eucaristia! Facciamo riscoprire questo tesoro alle nostre comunità nella celebrazione quotidiana della Santa Messa e, in particolare, in quella più solenne dell'assemblea domenicale. Cresca, grazie al vostro lavoro apostolico, l'amore a Cristo presente nell'Eucaristia. E un impegno che assume una rilevanza speciale in quest'Anno Giubilare. Il pensiero va al Congresso Eucaristico Internazionale, che si terrà a Roma dal 18 al 25 giugno prossimo, e avrà come tema Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, pane per la nuova vita. Esso rappresenterà un evento centrale del Grande Giubileo, che deve essere un « anno intensamente eucaristico » (Tertio millennio adveniente, 55). Il menzionato Congresso evidenzierà appunto l'intimo rapporto tra il mistero dell'incarnazione del Verbo e l'Eucaristia, sacramento della reale presenza di Cristo.

Vi invio dal Cenacolo l'abbraccio eucaristico. L'immagine di Cristo attorniato dai suoi nell'Ultima Cena dia a ciascuno di noi una vibrazione di fraternità e di comunione. Grandi pittori si sono cimentati nel delineare il volto di Cristo tra i suoi Apostoli nella scena dell'Ultima Cena: come dimenticare il capolavoro di Leonardo? Ma solo i santi, con l'intensità del loro amore, possono penetrare nella profondità di questo mistero, quasi poggiando come Giovanni il capo sul petto del Signore (cfr Gv 13, 25). Qui siamo infatti al vertice dell'amore: « dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine ».

16. Mi piace chiudere questa riflessione, che con affetto consegno al vostro cuore, con le parole di un'antica preghiera:

« Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la vita e la conoscenza
che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.
Come questo pane spezzato
era sparso qua e là sopra i colli
e raccolto divenne una sola cosa,
così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno
dai confini della terra [...]
Tu, Signore onnipotente,
hai creato l'universo, a gloria del tuo nome;
hai dato agli uomini il cibo
e la bevanda a loro conforto,
affinché ti rendano grazie;
ma a noi hai donato un cibo
e una bevanda spirituale
e la vita eterna per mezzo del tuo Figlio [...]
Gloria a Te nei secoli! »
(Didachè 9, 3-4; 10, 3-4).

Dal Cenacolo, carissimi Fratelli nel sacerdozio, tutti spiritualmente vi abbraccio e di gran cuore benedico.
  • Da Gerusalemme, il 23 marzo, giovedì della seconda settimana di Quaresima, dell’anno 2000, ventiduesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 04, 2010 8:14 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 2001
[/size]

Carissimi Fratelli nel sacerdozio!

1. Nel giorno in cui il Signore Gesù, fece alla Chiesa il dono dell'Eucaristia e con essa istituì il nostro sacerdozio, non so fare a meno di rivolgervi — com'è ormai tradizione — una parola che vuole essere di amicizia e, direi, di intimità, nel desiderio di condividere con voi il ringraziamento e la lode.

Lauda Sion, Salvatorem, lauda ducem et pastorem, in hymnis et canticis! Davvero grande è il mistero di cui siamo stati fatti ministri. Mistero di un amore senza limiti, giacché « dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1); mistero di unità che, dalle scaturigini della vita trinitaria, si riversa su di noi per farci « uno » nel dono dello Spirito (cfr Gv 17); mistero della divina diakonia che porta il Verbo fatto carne a lavare i piedi della sua creatura, indicando nel servizio la via maestra di ogni rapporto autentico tra gli uomini: « Come ho fatto io, così fate anche voi... » (cfr Gv 13, 15).

Di questo mistero grande, noi siamo stati fatti, a titolo speciale, testimoni e ministri.

2. Questo Giovedì Santo è il primo dopo il Grande Giubileo. L'esperienza che abbiamo fatto con le nostre comunità, nella speciale celebrazione della misericordia, a duemila anni dalla nascita di Gesù, diventa ora la spinta per un ulteriore cammino. Duc in altum! Il Signore ci invita a riprendere il largo, fidandoci della sua parola. Facciamo tesoro dell'esperienza giubilare e proseguiamo nell'impegno di testimonianza al Vangelo con l'entusiasmo che suscita in noi la contemplazione del volto di Cristo!

Come ho infatti sottolineato nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, occorre ripartire da Lui, per aprirci in Lui, coi gemiti « inesprimibili » dello Spirito (cfr Rm 8, 26), all'abbraccio del Padre: « Abbà, Padre! » (Gal 4, 6). Occorre ripartire da Lui per riscoprire la sorgente e la logica profonda della nostra fraternità: « Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13, 34).

3. Desidero oggi esprimere a ciascuno di voi il mio grazie per quanto avete fatto durante l'Anno giubilare, affinché il popolo affidato alle vostre cure avvertisse in modo più intenso la presenza salvatrice del Signore risorto. Penso anche, in questo momento, al lavoro che svolgete ogni giorno, lavoro spesso nascosto, che, pur non salendo alla ribalta delle cronache, fa avanzare il Regno di Dio nelle coscienze. Vi dico la mia ammirazione per questo ministero discreto, tenace, creativo, anche se rigato talora di quelle lacrime dell'anima che solo Dio vede e « raccoglie nel suo otre » (cfr Sal 56, 9). Ministero tanto più degno di stima quanto più provato dalle resistenze di un ambiente ampiamente secolarizzato, che espone l'azione del sacerdote all'insidia della stanchezza e dello scoramento. Voi lo sapete bene: questo impegno quotidiano è prezioso agli occhi di Dio.

Al tempo stesso, desidero farmi voce di Cristo, che ci chiama a sviluppare sempre di più il nostro rapporto con lui. « Ecco, sto alla porta e busso » (Ap 3, 20). Come annunciatori di Cristo, siamo innanzitutto invitati a vivere nella sua intimità: non si può dare agli altri ciò che noi stessi non abbiamo! C'è una sete di Cristo che, nonostante tante apparenze contrarie, affiora anche nella società contemporanea, emerge tra le incoerenze di nuove forme di spiritualità, si delinea persino quando, sui grandi nodi etici, la testimonianza della Chiesa diventa segno di contraddizione. Questa sete di Cristo — consapevole o meno — non può essere placata da parole vuote. Solo autentici testimoni possono irradiare credibilmente la parola che salva.

4. Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte ho detto che la vera eredità del Grande Giubileo è l'esperienza di un più intenso incontro con Cristo. Tra i tanti aspetti di questo incontro, mi piace oggi scegliere, per questa riflessione, quello della riconciliazione sacramentale: è un aspetto, peraltro, che è stato al centro dell'Anno giubilare, anche perché intimamente connesso col dono dell'indulgenza.

Sono certo che anche voi ne avete fatto esperienza nelle Chiese locali. Qui a Roma, quello del notevole afflusso di persone al Sacramento della misericordia, è stato certamente uno dei fenomeni più vistosi del Giubileo. Anche osservatori laici ne sono rimasti impressionati. I confessionali di San Pietro, come quelli delle altre Basiliche, sono stati come « assaliti » dai pellegrini, spesso obbligati a sostare in lunghe file, nella paziente attesa del proprio turno. Particolarmente significativo è stato poi l'interesse mostrato per questo Sacramento dai giovani nella splendida settimana del loro Giubileo.

5. Voi ben sapete che, negli scorsi decenni, questo Sacramento ha registrato, per più di un motivo, una certa crisi. Proprio per fronteggiarla, fu celebrato nel 1984 un Sinodo, le cui conclusioni confluirono nell'Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia.

Sarebbe ingenuo pensare che la sola intensificazione della pratica del Sacramento del perdono nell'Anno giubilare sia la riprova di una inversione di tendenza ormai acquisita. Si è trattato, tuttavia, di un segnale incoraggiante. Esso ci spinge a riconoscere che le esigenze profonde dell'animo umano, a cui dà risposta il disegno salvifico di Dio, non possono essere cancellate da crisi temporanee. Occorre raccogliere come un'indicazione dall'Alto questo segnale giubilare, e farne motivo di nuova audacia nel riproporre il senso e la pratica di questo Sacramento.

6. Ma non è tanto sulla problematica pastorale che voglio indugiare. Il Giovedì Santo, giornata speciale della nostra vocazione, ci chiama a riflettere soprattutto sul nostro « essere », e in particolare sul nostro cammino di santità. E' da questo che scaturisce, poi, anche lo slancio apostolico.

Ebbene, guardando a Cristo nell'ultima Cena, al suo farsi « pane spezzato » per noi, al suo chinarsi in umile servizio ai piedi degli Apostoli, come non provare, insieme con Pietro, lo stesso sentimento di indegnità dinanzi alla grandezza del dono ricevuto? « Non mi laverai mai i piedi! » (Gv 13, 8). Aveva torto, Pietro, a rifiutare il gesto di Cristo. Ma aveva ragione a sentirsene indegno. È importante, in questa giornata per eccellenza dell'amore, che noi sentiamo la grazia del sacerdozio come una sovrabbondanza di misericordia.

Misericordia è l'assoluta gratuità con cui Dio ci ha scelti: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi » (Gv 15, 16).

Misericordia è la condiscendenza con cui ci chiama ad operare come suoi rappresentanti, pur sapendoci peccatori.

Misericordia è il perdono che Egli mai ci rifiuta, come non lo rifiutò a Pietro dopo il rinnegamento. Vale anche per noi l'asserto secondo cui c'è « più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione » (Lc 15, 7).

7. Riscopriamo, dunque, la nostra vocazione come « mistero di misericordia ». Nel Vangelo troviamo che è proprio questo l'atteggiamento spirituale con cui Pietro riceve il suo speciale ministero. La sua vicenda è paradigmatica per tutti coloro che hanno ricevuto il compito apostolico, nei vari gradi del sacramento dell'Ordine.

Il pensiero va alla scena della pesca miracolosa quale è descritta nel Vangelo di Luca (5, 1-11). A Pietro Gesù chiede un atto di fiducia nella sua parola, invitandolo a prendere il largo per la pesca. Una richiesta umanamente sconcertante: come credergli, dopo una notte insonne e spossante, trascorsa a gettare le reti senza alcun risultato? Ma ritentare « sulla parola di Gesù » cambia tutto. I pesci accorrono in quantità tale da rompere le reti. La Parola svela la sua potenza. Ne nasce lo stupore, ma insieme il tremore e la trepidazione, come quando si è improvvisamente raggiunti da un intenso fascio di luce, che mette a nudo ogni proprio limite. Pietro esclama: « Signore, allontanati da me che sono un peccatore » (Lc 5, 8). Ma quasi non ha finito di pronunciare la sua confessione, che la misericordia del Maestro si fa per lui inizio di vita nuova: « Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini » (ivi, 5, 10). Il « peccatore » diventa ministro di misericordia. Da pescatore di pesci, a « pescatore di uomini »!

8. Mistero grande, carissimi Sacerdoti: Cristo non ha avuto paura di scegliere i suoi ministri tra i peccatori. Non è questa la nostra esperienza? Toccherà ancora a Pietro di prenderne più viva coscienza nel toccante dialogo con Gesù, dopo la risurrezione. Prima di conferirgli il mandato pastorale, il Maestro pone l'imbarazzante domanda: « Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? » (Gv 21, 15). L'interpellato è colui che qualche giorno prima lo ha rinnegato per ben tre volte. Si comprende bene il tono umile della sua risposta: « Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo » (ivi, v. 17). È sulla base di questo amore esperto della propria fragilità, un amore trepidamente quanto fiduciosamente confessato, che Pietro riceve il ministero: « Pasci i miei agnelli », « pasci le mie pecorelle » (ivi, vv. 15.16.17). Sarà sulla base di questo amore, corroborato dal fuoco della Pentecoste, che Pietro potrà adempiere al ministero ricevuto.

9. E non è dentro un'esperienza di misericordia che nasce anche la vocazione di Paolo? Nessuno come lui ha sentito la gratuità della scelta di Cristo. Il suo passato di accanito persecutore della Chiesa gli brucerà sempre nell'animo: « Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio » (1 Cor 15, 9). E tuttavia questa memoria, lungi dal deprimere il suo entusiasmo, gli metterà le ali. Quanto più si è stati avvolti dalla misericordia, tanto più si sente il bisogno di testimoniarla e di irradiarla. La « voce » che lo raggiunge sulla via di Damasco, lo porta al cuore del Vangelo, e glielo fa scoprire come amore misericordioso del Padre che in Cristo riconcilia a sé il mondo. Su questa base Paolo comprenderà anche il servizio apostolico come ministero di riconciliazione: « Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione » (2 Cor 5, 18-19).

10. Le testimonianze di Pietro e Paolo, carissimi Sacerdoti, contengono preziose indicazioni per noi. Esse ci invitano a vivere con senso di infinita gratitudine il dono del ministero: nulla noi abbiamo meritato, tutto è grazia! L'esperienza dei due Apostoli ci induce, al tempo stesso, ad abbandonarci alla misericordia di Dio, per consegnare a Lui con sincero pentimento le nostre fragilità, e riprendere con la sua grazia il nostro cammino di santità. Nella Novo millennio ineunte ho additato l'impegno di santità come il primo punto di una saggia « programmazione » pastorale. È impegno fondamentale di tutti i credenti, quanto più dunque deve esserlo per noi (cfr nn. 30-31)!

A questo scopo, è importante che riscopriamo il sacramento della Riconciliazione come strumento fondamentale della nostra santificazione. Avvicinarci a un fratello sacerdote, per chiedergli quell'assoluzione che tante volte noi stessi diamo ai nostri fedeli, ci fa vivere la grande e consolante verità di essere, prima ancora che ministri, membri di un unico popolo, un popolo di « salvati ». Quello che Agostino diceva del suo compito episcopale, vale anche per il servizio presbiterale: « Se mi spaventa l'essere per voi, mi consola l'essere con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano... Quello è il nome di un pericolo, questo di salvezza » (Discorsi, 340, 1). È bello poter confessare i nostri peccati, e sentire come un balsamo la parola che ci inonda di misericordia e ci rimette in cammino. Solo chi ha sentito la tenerezza dell'abbraccio del Padre, quale il Vangelo lo descrive nella parabola del figliol prodigo — « gli si gettò al collo e lo baciò » (Lc 15, 20) — può trasmettere agli altri lo stesso calore, quando da destinatario del perdono se ne fa ministro.

11. Chiediamo, dunque, a Cristo, in questa giornata santa, di aiutarci a riscoprire pienamente, per noi stessi, la bellezza di questo Sacramento. Non fu Gesù stesso ad aiutare Pietro in questa scoperta? « Se non ti laverò, non avrai parte con me » (Gv 13, 8). Certo, Gesù non si riferiva qui direttamente al sacramento della Riconciliazione, ma in qualche modo lo evocava, alludendo a quel processo di purificazione che la sua morte redentrice avrebbe avviato e l'economia sacramentale applicato ai singoli nel corso dei secoli.

Ricorriamo assiduamente, carissimi Sacerdoti, a questo Sacramento, perché il Signore possa purificare costantemente il nostro cuore rendendoci meno indegni dei misteri che celebriamo. Chiamati a rappresentare il volto del Buon Pastore, e dunque ad avere il cuore stesso di Cristo, dobbiamo più degli altri far nostra l'intensa invocazione del Salmista: « Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo » (Sal 51, 12). Il sacramento della Riconciliazione, irrinunciabile per ogni esistenza cristiana, si pone anche come sostegno, orientamento e medicina della vita sacerdotale.

12. Il sacerdote che fa pienamente l'esperienza gioiosa della riconciliazione sacramentale avverte poi del tutto naturale ripetere ai fratelli le parole di Paolo: « Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio » (2 Cor 5, 20).

Se la crisi del sacramento della Riconciliazione, a cui ho fatto poc'anzi riferimento, dipende da molteplici fattori — a partire dall'attenuazione del senso del peccato fino alla scarsa percezione dell'economia sacramentale con cui Dio ci salva — forse dobbiamo riconoscere che talvolta può aver giocato a sfavore del Sacramento anche un certo indebolimento del nostro entusiasmo o della nostra disponibilità nell'esercizio di questo esigente e delicato ministero.

Occorre invece più che mai farlo riscoprire al Popolo di Dio. Bisogna dire con fermezza e convinzione che è il sacramento della Penitenza la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei peccati gravi commessi dopo il Battesimo. Bisogna celebrare il Sacramento nel migliore dei modi, nelle forme liturgicamente previste, perché esso conservi la sua piena fisionomia di celebrazione della divina Misericordia.

13. A restituirci fiducia sulla possibilità di ripresa di questo Sacramento c'è non solo l'affiorare, pur tra tante contraddizioni, di una nuova urgenza di spiritualità in molti ambiti sociali, ma anche il vivo bisogno di incontro interpersonale, che si va affermando in molte persone quale reazione a una società anonima e massificante, che spesso condanna all'isolamento interiore anche quando coinvolge in un vortice di relazioni funzionali. Certamente, la confessione sacramentale non va confusa con una pratica di sostegno umano o di terapia psicologica. Non si deve tuttavia sottovalutare il fatto che, vissuto bene, il sacramento della Riconciliazione svolge sicuramente anche un ruolo « umanizzante », che ben si coniuga con il suo valore primario di riconciliazione con Dio e con la Chiesa.

È importante che, anche su questo versante, il ministro della riconciliazione svolga bene il suo compito. La sua capacità di accoglienza, di ascolto, di dialogo, la sua disponibilità mai smentita, sono elementi essenziali perché il ministero della riconciliazione possa manifestarsi in tutto il suo valore. L'annuncio fedele, mai reticente, delle esigenze radicali della parola di Dio deve sempre accompagnarsi a una grande comprensione e delicatezza, ad imitazione dello stile di Gesù verso i peccatori.

14. Occorre poi dare la necessaria importanza alla configurazione liturgica del Sacramento. Il Sacramento sta all'interno della logica di comunione che caratterizza la Chiesa. Il peccato stesso non si comprende fino in fondo, se lo si intende in modo solo « privatistico », dimenticando che esso tocca inevitabilmente l'intera comunità e ne fa abbassare il livello di santità. A maggior ragione esprime un mistero di solidarietà soprannaturale l'offerta del perdono, la cui logica sacramentale poggia sull'unione profonda che sussiste tra Cristo capo e le sue membra.

Far riscoprire questo aspetto « comunionale » del Sacramento, anche attraverso liturgie penitenziali comunitarie che si concludano con la confessione e l'assoluzione individuali, è di grande importanza, perché consente ai fedeli di percepire meglio la duplice dimensione della riconciliazione e li impegna maggiormente a vivere il proprio cammino penitenziale in tutta la sua ricchezza rigeneratrice.

15. Resta poi il fondamentale problema di una catechesi sul senso morale e sul peccato, che faccia prendere più chiara coscienza delle esigenze evangeliche nella loro radicalità. C'è purtroppo una tendenza minimalistica, che impedisce al Sacramento di portare tutti i frutti auspicabili. Per molti fedeli la percezione del peccato non è misurata sul Vangelo, ma sui « luoghi comuni », sulla « normalità » sociologica, che fa pensare di non essere particolarmente responsabili di cose che « fanno tutti », tanto più se sono civilmente legalizzate.

L'evangelizzazione del terzo millennio deve fare i conti con l'urgenza di una presentazione viva, completa, esigente del messaggio evangelico. Il cristianesimo a cui guardare non può ridursi ad un mediocre impegno di onestà secondo criteri sociologici, ma deve essere un vero tendere alla santità. Dobbiamo rileggere con nuovo entusiasmo il capitolo V° della Lumen gentium che tratta dell'universale vocazione alla santità. Essere cristiani, significa ricevere un « dono » di grazia santificante, che non può non tradursi in « impegno » di corrispondenza personale nella vita di ogni giorno. Non a caso ho cercato in questi anni di promuovere su più vasta scala il riconoscimento della santità, in tutti gli ambiti in cui essa si è manifestata, perché a tutti i cristiani possano essere offerti molteplici modelli di santità, e tutti ricordino di essere chiamati personalmente a quella meta.

16. Andiamo avanti, cari fratelli Sacerdoti, nella gioia del nostro ministero, sapendo di avere accanto a noi Colui che ci ha chiamati e che non ci abbandona. La certezza della sua presenza ci sostenga e ci consoli.

In occasione del Giovedì Santo sentiamo ancora più viva, questa sua presenza, ponendoci in commossa contemplazione dell'ora in cui Gesù, nel Cenacolo, ci diede se stesso nel segno del pane e del vino, anticipando sacramentalmente il sacrificio della Croce. L'anno scorso volli scrivere a voi proprio dal Cenacolo, in occasione della mia visita in Terra Santa. Come dimenticare quel momento emozionante? Lo rivivo oggi, non senza tristezza per la situazione così sofferta in cui continua a versare la terra di Cristo.

Il nostro appuntamento spirituale per il Giovedì Santo è ancora là, nel Cenacolo, mentre intorno ai Vescovi, nelle cattedrali di tutto il mondo, viviamo il mistero del Corpo e del Sangue di Cristo e facciamo grata memoria delle origini del nostro Sacerdozio.

Nella gioia del dono immenso che insieme abbiamo ricevuto, vi abbraccio tutti e vi benedico.
  • Dal Vaticano, il 25 marzo, Quarta domenica di Quaresima, dell'anno 2001, ventitreesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 10:44 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 2002
[/size]

Carissimi Sacerdoti!

1. Con animo commosso mi rivolgo a voi, com'è tradizione, per la giornata del Giovedì Santo, quasi assidendomi con voi a quella mensa del Cenacolo in cui il Signore Gesù celebrò con gli Apostoli la prima Eucaristia: un dono fatto a tutta la Chiesa, un dono che, pur sotto i veli sacramentali, lo rende presente «veramente, realmente, sostanzialmente» (Conc. Trid., DS 1651) in ogni Tabernacolo e a tutte le latitudini. Di fronte a questa presenza specialissima, da sempre la Chiesa si inchina in adorazione: «Adoro te devote, latens Deitas»; da sempre si lascia trasportare dalle spirituali elevazioni dei Santi e, come Sposa, si raccoglie in intima effusione di fede e di amore: «Ave, verum corpus natum de Maria Virgine».

Al dono di questa presenza specialissima, che lo ripropone nel supremo atto sacrificale e lo rende cibo per noi, Gesù legò, proprio nel Cenacolo, uno specifico compito degli Apostoli e dei loro successori. Da allora, essere apostolo di Cristo, come lo sono i Vescovi e i presbiteri che partecipano della loro missione, significa essere abilitati ad agire in persona Christi Capitis. Ciò avviene in modo sommo ogni volta che si celebra il convito sacrificale del corpo e del sangue del Signore. Allora il sacerdote quasi presta a Cristo il volto e la voce: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Che vocazione meravigliosa è la nostra, miei cari Fratelli sacerdoti! Davvero possiamo ripetere col Salmista: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore» (Sal 116, 12-13).

2. Nella gioiosa rimeditazione di questo dono, vorrei quest'anno intrattenermi con voi su un aspetto della nostra missione, sul quale già l'anno scorso, in questa circostanza, richiamai la vostra attenzione. Ritengo che esso meriti di essere ulteriormente approfondito. Mi riferisco alla missione che il Signore ci ha dato di rappresentarlo non solo nel Sacrificio eucaristico, ma anche nel sacramento della Riconciliazione.

Tra i due Sacramenti c'è un'intima connessione. L'Eucaristia, culmine dell'economia sacramentale, ne è anche la sorgente: tutti i Sacramenti in certo senso scaturiscono da essa e portano ad essa. Ciò vale in modo speciale per il Sacramento deputato a «mediare» il perdono di Dio, che accoglie nuovamente tra le sue braccia il peccatore pentito. È vero, infatti, che in quanto ripresentazione del Sacrificio di Cristo, l'Eucaristia ha anche il compito di sottrarci al peccato. Ci ricorda, a tal proposito, il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L'Eucaristia non può unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai peccati commessi e preservarci da quelli futuri» (n. 1393). Tuttavia, nell'economia di grazia scelta da Cristo, questa sua energia purificatrice, mentre opera direttamente la purificazione dai peccati veniali, la persegue solo indirettamente per quelli mortali, che pregiudicano in modo radicale il rapporto del fedele con Dio e la sua comunione con la Chiesa. «L'Eucaristia – ci dice ancora il Catechismo – non è ordinata al perdono dei peccati mortali. Questo è proprio del sacramento della Riconciliazione. Il proprio dell'Eucaristia è invece di essere il sacramento di coloro che sono nella piena comunione con la Chiesa» (n. 1395).

Ribadendo questa verità, la Chiesa non vuole certo sottovalutare il ruolo dell'Eucaristia. Suo intento è di coglierne il significato in relazione all'intera economia sacramentale, così come essa è stata disegnata dalla sapienza salvifica di Dio. È questa, del resto, la linea perentoriamente indicata dall'Apostolo, quando ai Corinzi scriveva: «Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 11, 27-29). Sta nel solco di questa ammonizione paolina il principio secondo cui «chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione» (CCC, n. 1385).

3. Nel ricordare questa verità, sento il desiderio, miei cari Fratelli nel sacerdozio, di invitarvi caldamente, come ho già fatto lo scorso anno, a riscoprire personalmente e a far riscoprire la bellezza del sacramento della Riconciliazione. Esso per diversi motivi soffre da alcuni decenni di una certa crisi, alla quale più di una volta mi sono riferito, volendo che su di essa riflettesse perfino un Sinodo di Vescovi, le cui indicazioni ho poi raccolto nell'Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia. D'altra parte, non posso non ricordare con intima gioia i segnali positivi che, specialmente nell'Anno giubilare, hanno mostrato come questo Sacramento, adeguatamente presentato e celebrato, possa essere riscoperto largamente anche dai giovani. Una tale riscoperta è sicuramente favorita dall'esigenza di comunicazione personale, oggi resa sempre più difficile dai ritmi frenetici della società tecnologica, ma proprio per questo sentita sempre di più come un bisogno vitale. Certo, a questo bisogno si può venire incontro in vari modi. Ma come non riconoscere che il sacramento della Riconciliazione, pur non confondendosi con le varie terapie di tipo psicologico, offre quasi per sovrabbondanza una risposta significativa anche a questa esigenza? Lo fa mettendo il penitente in rapporto con il cuore misericordioso di Dio attraverso il volto amico di un fratello.

Sì, davvero grande è la sapienza di Dio, che, con l'istituzione di questo Sacramento, ha provveduto anche a un bisogno profondo e ineliminabile del cuore umano. Di questa sapienza dobbiamo essere amorevoli e illuminati interpreti attraverso il contatto personale, che siamo chiamati a stabilire con tanti fratelli e sorelle nella celebrazione della Penitenza. A tal proposito, desidero ribadire che la celebrazione personale è la forma ordinaria di amministrazione di questo Sacramento, e solo in «casi di grave necessità», è legittimo ricorrere alla forma comunitaria con confessione e assoluzione collettiva. Sono ben note le condizioni richieste per tale genere di assoluzione, ricordando comunque che mai si è esonerati dalla successiva confessione individuale dei peccati gravi, che i fedeli devono impegnarsi a fare perché sia valida l'assoluzione (cfr CCC, n.1483).

4. Riscopriamo con gioia e fiducia questo Sacramento. Viviamolo innanzitutto per noi stessi, come un'esigenza profonda e una grazia sempre nuovamente attesa, per ridare vigore e slancio al nostro cammino di santità e al nostro ministero.

Al tempo stesso, sforziamoci di essere autentici ministri della misericordia. Sappiamo infatti che in questo Sacramento, come in tutti gli altri, mentre testimoniamo una grazia che viene dall'alto ed opera per virtù propria, siamo anche chiamati ad essere strumenti attivi di essa. In altri termini – e ciò ci riempie di responsabilità – Dio conta anche su di noi, sulla nostra disponibilità e fedeltà, per operare i suoi prodigi nei cuori. Nella celebrazione di questo Sacramento, forse ancor più che in altri, è importante che i fedeli facciano una esperienza viva del volto di Cristo Buon Pastore.

Consentitemi, perciò, di intrattenermi con voi su questo tema, quasi affacciandomi nei luoghi in cui ogni giorno – nelle Cattedrali, nelle Parrocchie, nei Santuari o altrove – vi fate carico dell'amministrazione di questo Sacramento. Tornano alla mente le pagine evangeliche che più direttamente ci presentano il volto misericordioso di Dio. Come non andare col pensiero al toccante incontro del figliol prodigo col Padre misericordioso? O all'immagine della pecorella smarrita e ritrovata, che il Pastore si pone sulle spalle tutto gioioso? L'abbraccio del Padre, la gioia del Buon Pastore, devono essere testimoniati da ciascuno di noi, carissimi Confratelli, nel momento in cui siamo richiesti di farci, per un penitente, ministri del perdono.

Per mettere tuttavia meglio a fuoco alcune dimensioni specifiche di questo specialissimo colloquio di salvezza che è la confessione sacramentale, vorrei oggi assumere come «icona biblica» l'incontro di Gesù con Zaccheo (cfr Lc 19, 1-10). Mi pare infatti che quanto avviene tra Gesù e il «capo dei pubblicani» di Gerico somigli per vari aspetti ad una celebrazione del Sacramento della misericordia. Seguendo questo racconto breve, ma così intenso, vogliamo quasi scrutare, negli atteggiamenti e nella voce di Cristo, tutte quelle sfumature di sapienza umana e soprannaturale che anche noi dobbiamo cercare di esprimere, perché il Sacramento sia vissuto nel migliore dei modi.

5. Il racconto, come sappiamo, presenta l'incontro tra Gesù e Zaccheo quasi come un fatto casuale. Gesù entra in Gerico e l'attraversa accompagnato dalla folla (cfr Lc 19,3). Zaccheo sembra mosso, nel suo arrampicarsi sul sicomoro, quasi solo da curiosità. A volte gli incontri di Dio con l'uomo hanno proprio l'apparenza della casualità. Ma nulla è «casuale» sul versante di Dio. Collocati come siamo nelle realtà pastorali più diverse, ci può talvolta scoraggiare o demotivare il fatto che, alla vita sacramentale, tanti cristiani non solo non prestino la debita attenzione, ma spesso, quando si accostano ai Sacramenti, lo facciano in modo superficiale. Chi ha esperienza di confessioni, di come ci si accosta a questo Sacramento nella vita abituale, può rimanere talvolta sconcertato di fronte al fatto che alcuni fedeli arrivano a confessarsi senza neppure sapere bene che cosa vogliono. Per alcuni di loro la scelta di andare a confessarsi può essere dettata solo dal bisogno di essere ascoltati. Per altri, dall'esigenza di avere un consiglio. Per altri ancora, dalla necessità psicologica di liberarsi dall'oppressione dei «sensi di colpa». Per molti, c'è il bisogno autentico di ristabilire un rapporto con Dio, ma si confessano senza prendere sufficiente coscienza degli impegni che ne derivano, e magari facendo un esame di coscienza molto riduttivo, per mancanza di formazione sulle implicazioni di una vita morale ispirata al Vangelo. Quale confessore non ha fatto questa esperienza?

Ebbene, è proprio il caso di Zaccheo. Tutto è stupefacente in ciò che gli succede. Se non ci fosse stata, ad un certo punto, la «sorpresa» dello sguardo di Cristo, egli sarebbe forse rimasto muto spettatore del suo passaggio tra le strade di Gerico. Gesù sarebbe passato accanto, non dentro la sua vita. Egli stesso non sospettava che la curiosità, che lo aveva mosso ad un gesto così singolare, era già frutto di una misericordia che lo precedeva, lo attraeva, e presto lo avrebbe cambiato nell'intimo del cuore.

Miei carissimi Sacerdoti, pensando a tanti nostri penitenti rileggiamo quella stupenda indicazione di Luca sull'atteggiamento di Cristo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» (Lc 19,5).

Ogni nostro incontro con un fedele che ci chiede di confessarsi, anche se in modo un po' superficiale, perché non adeguatamente motivato e preparato, può essere sempre, per la grazia sorprendente di Dio, quel «luogo» vicino al sicomoro in cui Cristo levò gli occhi verso Zaccheo. Quanto gli occhi di Cristo abbiano penetrato l'animo del pubblicano di Gerico è per noi impossibile misurarlo. Sappiamo però che sono, quelli, gli stessi occhi che fissano ciascuno dei nostri penitenti. Noi, nel sacramento della Riconciliazione, siamo strumenti di un incontro soprannaturale con leggi proprie, che dobbiamo soltanto rispettare e assecondare. Dovette essere, per Zaccheo, un'esperienza sconvolgente sentirsi chiamare per nome. Quel nome era, da tanti suoi compaesani, caricato di disprezzo. Ora egli lo sentiva pronunciare con un accento di tenerezza, che esprimeva non solo fiducia, ma familiarità, e quasi urgenza di un'amicizia. Sì, Gesù parla a Zaccheo come un amico di vecchia data, forse dimenticato, ma che non per questo ha rinunciato alla sua fedeltà, ed entra perciò, con la dolce pressione dell'affetto, nella vita e nella casa dell'amico ritrovato: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).

6. Colpisce, nel racconto di Luca, il tono del linguaggio: tutto è così personalizzato, così delicato, così affettuoso! Non si tratta solo di toccanti tratti di umanità. C'è, dentro questo testo, un'urgenza intrinseca, che Gesù esprime come rivelatore definitivo della misericordia di Dio. Egli dice: «devo fermarmi a casa tua», o, per tradurre ancora più letteralmente: «è necessario per me fermarmi a casa tua» (Lc 19, 5). Seguendo la misteriosa mappa delle strade a lui indicate dal Padre, Gesù ha trovato sul suo cammino anche Zaccheo. Presso di lui Egli sosta come per un incontro previsto fin dall'inizio. La casa di questo peccatore sta per diventare, a dispetto di tante mormorazioni dell'umana meschinità, un luogo di rivelazione, lo scenario di un miracolo della misericordia. Certo, questo non avverrà, se Zaccheo non scioglierà il suo cuore dai lacci dell'egoismo e dai nodi dell'ingiustizia perpetrata con la frode. Ma la misericordia gli è già arrivata come offerta gratuita e sovrabbondante. La misericordia lo ha preceduto!

Questo è ciò che avviene in ogni incontro sacramentale. Non dobbiamo pensare che sia il peccatore, con il suo autonomo cammino di conversione, a guadagnarsi la misericordia. Al contrario, è la misericordia a spingerlo sulla strada della conversione. L'uomo, da se stesso, non è capace di nulla. E non merita nulla. La confessione, prima di essere un cammino dell'uomo verso Dio, è un approdo di Dio nella casa dell'uomo.

Potremo dunque trovarci, in ogni confessione, di fronte alle più diverse tipologie di persone. Di una cosa dovremo essere convinti: prima del nostro invito, e prima ancora delle nostre parole sacramentali, i fratelli che chiedono il nostro ministero sono già avvolti da una misericordia che li lavora dal di dentro. Voglia il cielo che anche attraverso le nostre parole e il nostro animo di pastori, sempre attenti a ciascuna persona, capaci di intuirne i problemi e di accompagnarne con delicatezza il cammino, trasmettendole fiducia nella bontà di Dio, riusciamo a farci collaboratori della misericordia che accoglie e dell'amore che salva.

7. «Devo fermarmi a casa tua». Cerchiamo di penetrare ancora più profondamente in queste parole. Sono una proclamazione. Prima di indicare una scelta compiuta da Cristo, esse proclamano la volontà del Padre. Gesù si presenta come uno che ha un preciso mandato. Egli stesso ha una «legge» da osservare: la volontà del Padre, che Egli compie con amore tale, da farne il suo «cibo» (cfr Gv 4, 34). Le parole con cui Gesù si rivolge a Zaccheo non sono soltanto un modo di stabilire un rapporto, ma l'annuncio di un progetto disegnato da Dio.

L'incontro si compie nell'orizzonte della Parola di Dio, che fa tutt'uno con la Parola e il Volto di Cristo. È questo anche l'inizio necessario di ogni autentico incontro per la celebrazione della Penitenza. Guai se tutto si riducesse a espedienti comunicativi umani! L'attenzione alle leggi della comunicazione umana può essere utile, e non deve essere trascurata, ma tutto dev'essere fondato sulla Parola di Dio. Per questo il rito del Sacramento prevede anche che al penitente si proclami questa Parola.

È un particolare da non sottovalutare, anche se di non facile attuazione. I confessori fanno esperienza continua di quanto sia difficile illustrare le esigenze di questa Parola a chi non la conosce che superficialmente. Certo, il momento in cui si celebra il Sacramento non è quello più adatto per sopperire a questa lacuna. Occorre che ad essa si provveda, con sapienza pastorale, nella precedente fase di preparazione, offrendo quelle indicazioni fondamentali che permettano a ciascuno di misurarsi con la verità del Vangelo. In ogni caso il confessore non mancherà di valersi dell'incontro sacramentale per tentare di portare il penitente a intravvedere in qualche modo la condiscendenza misericordiosa di Dio, che a lui tende la sua mano non per colpirlo ma per salvarlo.

Del resto, come nascondersi le difficoltà oggettive che la cultura dominante nel nostro tempo crea a questo riguardo? Anche cristiani maturi sono da essa non di rado ostacolati nel loro impegno di sintonia con i comandamenti di Dio e con orientamenti esplicitati, sulla base dei comandamenti, dal magistero della Chiesa. È il caso di tanti problemi di etica sessuale e familiare, di bioetica, di morale professionale e sociale, ma è anche il caso di problemi riguardanti i doveri connessi con la pratica religiosa e con la partecipazione alla vita ecclesiale. Si richiede per questo un lavoro catechetico che non è possibile addossare al confessore nel momento dell'amministrazione del Sacramento. Sarà bene cercare di farne piuttosto un tema di approfondimento in preparazione alla confessione. A tale scopo, celebrazioni penitenziali, preparate in modo comunitario e concluse poi con la confessione individuale, possono essere di grande aiuto.

Per ben delineare tutto questo, l'«icona biblica» di Zaccheo offre ancora un'indicazione importante. Nel Sacramento, prima che con «i comandamenti di Dio», ci si incontra, in Gesù, con «il Dio dei comandamenti». A Zaccheo Gesù presenta se stesso: «Mi devo fermare a casa tua». È lui il dono per Zaccheo, ed è insieme lui la «legge di Dio» per Zaccheo. Quando si incontra Gesù come un dono, allora anche l'aspetto più esigente della legge acquista la «levità» propria della grazia, secondo quella dinamica soprannaturale che faceva dire a Paolo: «Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge» (Gal 5,18). Ogni celebrazione della penitenza dovrebbe suscitare nell'animo del penitente lo stesso sussulto di gioia che le parole di Cristo provocarono in Zaccheo, il quale «in fretta scese e lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,6).

8. La precedenza e la sovrabbondanza della misericordia non devono, peraltro, far dimenticare che essa è solo il presupposto della salvezza, che giunge a compimento nella misura in cui trova risposta da parte dell'essere umano. Il perdono concesso nel sacramento della Riconciliazione, infatti, non è un atto esterno, una sorta di «sanatoria» giuridica, ma un vero e proprio incontro del penitente con Dio, che ristabilisce il rapporto di amicizia infranto dal peccato. La «verità» di questo rapporto esige che l'uomo accolga l'abbraccio misericordioso di Dio, superando ogni resistenza dovuta al peccato.

È quello che avviene in Zaccheo. Sentendosi trattato da «figlio», egli comincia a pensare e a comportarsi come un figlio, e lo dimostra riscoprendo i fratelli. Sotto lo sguardo amorevole di Cristo, il suo cuore si apre all'amore del prossimo. Da un atteggiamento di chiusura, che lo aveva portato ad arricchirsi senza darsi cura della sofferenza altrui, passa a un atteggiamento di condivisione, che si esprime in una vera e propria «divisione» del suo patrimonio: la «metà dei beni» ai poveri. L'ingiustizia, perpetrata a danno dei fratelli con la frode, è riparata con una restituzione quadruplicata: «Se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). È solo a questo punto che l'amore di Dio raggiunge il suo scopo, e la salvezza si compie: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9).

Questo cammino della salvezza, espresso in modo così chiaro nell'episodio di Zaccheo, deve offrirci, carissimi Sacerdoti, l'orientamento per svolgere con sapiente equilibrio pastorale il nostro difficile compito nel ministero delle confessioni. Da sempre esso risente delle opposte spinte di due eccessi: il rigorismo e il lassismo. Il primo non tiene conto della prima parte dell'episodio di Zaccheo: la misericordia preveniente, che spinge alla conversione e valorizza anche i più piccoli progressi nell'amore, perché il Padre vuole fare l'impossibile per salvare il figlio perduto. «Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10). Il secondo eccesso, il lassismo, non tiene conto del fatto che la salvezza piena, quella non solo offerta ma ricevuta, quella che veramente sana e risolleva, implica una vera conversione alle esigenze dell'amore di Dio. Se Zaccheo avesse accolto il Signore in casa sua senza giungere a un atteggiamento di apertura all'amore, alla riparazione del male compiuto, a un proposito fermo di vita nuova, non avrebbe ricevuto nell'intimo il perdono che il Signore, con tanta premura, gli aveva offerto.

Occorre essere sempre attenti a mantenere il giusto equilibrio per non incorrere in nessuno di questi due estremi. Il rigorismo schiaccia e allontana. Il lassismo diseduca ed illude. Il ministro del perdono, incarnando per il penitente il volto del Buon Pastore, deve in eguale misura esprimere la misericordia preveniente e il perdono sanante e pacificante. È in base a questi principi che il sacerdote è deputato a discernere, nel dialogo con il penitente, se egli sia pronto per l'assoluzione sacramentale. Certamente, la delicatezza dell'incontro con le anime, in un momento così intimo e spesso sofferto, impone tanta discrezione. Se non appare diversamente, il sacerdote deve supporre che, confessando i peccati, il penitente abbia di essi un dolore autentico con il relativo proposito di emendarsi. Tale supposizione sarà ulteriormente fondata, se la pastorale della riconciliazione sacramentale saprà approntare opportuni sussidi, assicurando momenti di preparazione al Sacramento che aiutino ciascuno a maturare in sé una sufficiente consapevolezza di ciò che viene a chiedere. È chiaro tuttavia che, dove apparisse con evidenza il contrario, il confessore ha il dovere di dire al penitente che non è ancora pronto per l'assoluzione. Se questa venisse data a chi dichiara esplicitamente di non volersi emendare, il rito si ridurrebbe a pura illusione, avrebbe anzi il sapore di un atto quasi magico, capace forse di suscitare un'apparenza di pace, ma certo non la pace profonda della coscienza, garantita dall'abbraccio di Dio.

9. Alla luce di quanto detto, appare anche meglio perché l'incontro personale tra il confessore e il penitente sia la forma ordinaria della riconciliazione sacramentale, mentre la modalità dell'assoluzione collettiva abbia carattere eccezionale. Com'è noto, la prassi della Chiesa è arrivata gradualmente alla celebrazione privata della penitenza, dopo secoli in cui aveva dominato la formula della penitenza pubblica. Questo sviluppo non solo non ha cambiato la sostanza del Sacramento – e non poteva essere diversamente! – ma ne ha anche approfondito l'espressione e l'efficacia. Ciò si è verificato non senza assistenza dello Spirito, che anche in questo ha svolto il compito di portare la Chiesa «alla verità tutta intera» (Gv16, 13).

In effetti, la forma ordinaria della Riconciliazione non soltanto esprime bene la verità della misericordia divina e del perdono che ne scaturisce, ma illumina la stessa verità dell'uomo in uno dei suoi aspetti fondamentali: l'originalità di ciascuna persona, che pur vivendo in un tessuto relazionale e comunitario, mai si lascia appiattire nelle condizioni di una massa informe. Questo spiega l'eco profonda che suscita nell'animo il sentirsi chiamare per nome. Sapersi conosciuti ed accolti in ciò che siamo, nelle nostre qualità più personali, ci fa sentire veramente vivi. La stessa pastorale dovrebbe tenere in maggiore considerazione questo aspetto per equilibrare in modo sapiente i momenti assembleari in cui è sottolineata la comunione ecclesiale e quelli dell'attenzione alle esigenze della singola persona. Le persone aspettano, in genere, di essere riconosciute e seguite, e proprio attraverso questa vicinanza sentono più forte l'amore di Dio.

In questa prospettiva, il sacramento della Riconciliazione si presenta come uno dei percorsi privilegiati di questa pedagogia della persona. Qui il Buon Pastore, attraverso il volto e la voce del sacerdote, si fa vicino a ciascuno, per aprire con lui un dialogo personale fatto di ascolto, di consiglio, di conforto, di perdono. L'amore di Dio è tale che, senza togliere agli altri, sa concentrarsi su ciascuno. Chi riceve l'assoluzione sacramentale deve poter sentire il calore di questa personale sollecitudine. Deve sperimentare l'intensità dell'abbraccio paterno offerto al figliol prodigo: «Gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 20). Deve poter ascoltare quella voce calda di amicizia che raggiunse il pubblicano Zaccheo chiamandolo per nome a vita nuova (cfr Lc 19,5).

10. Di qui anche la necessità di un'adeguata preparazione del confessore alla celebrazione di questo Sacramento. Esso deve svolgersi in modo da far rifulgere, anche nelle forme esterne della celebrazione, la sua dignità di atto liturgico, secondo le norme indicate dal rito della Penitenza. Ciò non esclude la possibilità di adattamenti pastorali dettati dalle circostanze, là dove venissero suggeriti da vere esigenze del cammino del penitente, alla luce del classico principio che riconosce la suprema lex della Chiesa nella salus animarum. Lasciamoci per questo guidare dalla sapienza dei Santi. Procediamo con coraggio anche nella proposta della confessione ai giovani. Stiamo in mezzo a loro, sapendoci fare accanto a loro amici e padri, confidenti e confessori. Essi hanno bisogno di trovare in noi l'uno e l'altro ruolo, l'una e l'altra dimensione.

Facciamoci poi scrupolo di tenere veramente aggiornata la nostra formazione teologica, soprattutto in considerazione delle nuove sfide etiche, restando sempre ancorati al discernimento del magistero della Chiesa. Succede a volte, su nodi etici di attualità, che i fedeli escano dalla confessione con idee piuttosto confuse, anche perché non trovano nei confessori la stessa linea di giudizio. In realtà, quanti svolgono in nome di Dio e della Chiesa questo delicatissimo ministero hanno il preciso dovere di non coltivare, ed ancor più di non manifestare in sede sacramentale, valutazioni personali non rispondenti a ciò che la Chiesa insegna e proclama. Non si può scambiare con amore il venir meno alla verità per un malinteso senso di comprensione. Non ci è dato di operare riduzioni a nostro arbitrio, pur con le migliori intenzioni. È nostro compito essere testimoni di Dio, facendoci interpreti di una misericordia che salva anche manifestandosi come giudizio sul peccato dell'uomo. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

11. Carissimi Sacerdoti! Vogliate sentirmi particolarmente vicino a voi, mentre vi raccogliete intorno ai vostri Vescovi, in questo Giovedì Santo dell'anno 2002. Abbiamo tutti vissuto un rinnovato slancio ecclesiale all'alba del nuovo millennio, all'insegna del «ripartire da Cristo» (cfr Novo millennio ineunte, 29 ss.). Era desiderio di tutti che ciò coincidesse con un nuovo tempo di fraternità e di pace per l'intera umanità. Abbiamo visto invece scorrere nuovo sangue. Siamo stati ancora testimoni di guerre. Sentiamo con angoscia la tragedia della divisione e dell'odio che devastano i rapporti tra i popoli.

In questo momento, inoltre, in quanto sacerdoti, noi siamo personalmente scossi nel profondo dai peccati di alcuni nostri fratelli che hanno tradito la grazia ricevuta con l'Ordinazione, cedendo anche alle peggiori manifestazioni del mysterium iniquitatis che opera nel mondo. Sorgono così scandali gravi, con la conseguenza di gettare una pesante ombra di sospetto su tutti gli altri benemeriti sacerdoti, che svolgono il loro ministero con onestà e coerenza, e talora con eroica carità. Mentre la Chiesa esprime la propria sollecitudine per le vittime e si sforza di rispondere secondo verità e giustizia ad ogni penosa situazione, noi tutti – coscienti dell'umana debolezza, ma fidando nella potenza sanatrice della grazia divina – siamo chiamati ad abbracciare il «mysterium Crucis» e ad impegnarci ulteriormente nella ricerca della santità. Dobbiamo pregare perché Dio, nella sua provvidenza, susciti nei cuori un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo che stanno alla base del ministero sacerdotale.

È proprio la fede in Cristo che ci dà forza per guardare con fiducia al futuro. Sappiamo, infatti, che il male sta, da sempre, nel cuore dell'uomo, e solo quando l'uomo, raggiunto da Cristo, si lascia «conquistare» da Lui, diventa capace di irradiare intorno a sé pace e amore. Come ministri dell'Eucaristia e della Riconciliazione sacramentale, noi abbiamo a titolo specialissimo il compito di diffondere nel mondo speranza, bontà, pace.

Io vi auguro di vivere nella pace del cuore, in profonda comunione tra voi, con il Vescovo e con le vostre comunità, questo giorno santissimo in cui ricordiamo, con l'istituzione dell'Eucaristia, la nostra «nascita» sacerdotale. Con le parole rivolte da Cristo agli Apostoli nel Cenacolo dopo la Risurrezione, e invocando la Vergine Maria, Regina Apostolorum e Regina pacis, vi stringo tutti in un fraterno abbraccio: Pace, pace a tutti e a ciascuno di voi. Buona Pasqua!
  • Dal Vaticano, il 17 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 2002, ventiquattresimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 10:46 am


  • Gesù Sacerdote
[/size]

Cari fratelli e sorelle!

Il sacerdozio del Nuovo Testamento è strettamente legato all'Eucaristia. Per questo oggi, nella solennità del Corpus Domini e quasi al termine dell'Anno Sacerdotale, siamo invitati a meditare sul rapporto tra l'Eucaristia e il Sacerdozio di Cristo. In questa direzione ci orientano anche la prima lettura e il salmo responsoriale, che presentano la figura di Melchisedek. Il breve passo del Libro della Genesi (cfr 14,18-20) afferma che Melchisedek, re di Salem, era "sacerdote del Dio altissimo", e per questo "offrì pane e vino" e "benedisse Abram", reduce da una vittoria in battaglia; Abramo stesso diede a lui la decima di ogni cosa. Il salmo, a sua volta, contiene nell'ultima strofa un'espressione solenne, un giuramento di Dio stesso, che dichiara al Re Messia: "Tu sei sacerdote per sempre / al modo di Melchisedek" (Sal 110,4); così il Messia viene proclamato non solo Re, ma anche Sacerdote. Da questo passo prende spunto l'autore della Lettera agli Ebrei per la sua ampia e articolata esposizione. E noi lo abbiamo riecheggiato nel ritornello: "Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore": quasi una professione di fede, che acquista un particolare significato nella festa odierna. È la gioia della comunità, la gioia della Chiesa intera, che, contemplando e adorando il Santissimo Sacramento, riconosce in esso la presenza reale e permanente di Gesù sommo ed eterno Sacerdote.

La seconda lettura e il Vangelo portano invece l'attenzione sul mistero eucaristico. Dalla Prima Lettera ai Corinzi (cfr 11,23-26) è tratto il brano fondamentale in cui san Paolo richiama a quella comunità il significato e il valore della "Cena del Signore", che l'Apostolo aveva trasmesso e insegnato, ma che rischiavano di perdersi. Il Vangelo invece è il racconto del miracolo dei pani e dei pesci, nella redazione di san Luca: un segno attestato da tutti gli Evangelisti e che preannuncia il dono che Cristo farà di se stesso, per donare all'umanità la vita eterna. Entrambi questi testi mettono in risalto la preghiera di Cristo, nell'atto dello spezzare il pane. Naturalmente c'è una netta differenza tra i due momenti: quando divide i pani e i pesci per le folle, Gesù ringrazia il Padre celeste per la sua provvidenza, confidando che Egli non farà mancare il cibo per tutta quella gente. Nell'Ultima Cena, invece, Gesù trasforma il pane e il vino nel proprio Corpo e Sangue, affinché i discepoli possano nutrirsi di Lui e vivere in comunione intima e reale con Lui.

La prima cosa che occorre sempre ricordare è che Gesù non era un sacerdote secondo la tradizione giudaica. La sua non era una famiglia sacerdotale. Non apparteneva alla discendenza di Aronne, bensì a quella di Giuda, e quindi legalmente gli era preclusa la via del sacerdozio. La persona e l'attività di Gesù di Nazaret non si collocano nella scia dei sacerdoti antichi, ma piuttosto in quella dei profeti. E in questa linea, Gesù prese le distanze da una concezione rituale della religione, criticando l'impostazione che dava valore ai precetti umani legati alla purità rituale piuttosto che all'osservanza dei comandamenti di Dio, cioè all'amore per Dio e per il prossimo, che, come dice il Signore, "vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici" (Mc 12,33). Persino all'interno del Tempio di Gerusalemme, luogo sacro per eccellenza, Gesù compie un gesto squisitamente profetico, quando scaccia i cambiavalute e i venditori di animali, tutte cose che servivano per l'offerta dei sacrifici tradizionali. Dunque, Gesù non viene riconosciuto come un Messia sacerdotale, ma profetico e regale. Anche la sua morte, che noi cristiani giustamente chiamiamo "sacrificio", non aveva nulla dei sacrifici antichi, anzi, era tutto l'opposto: l'esecuzione di una condanna a morte, per crocifissione, la più infamante, avvenuta fuori dalle mura di Gerusalemme.

Allora, in che senso Gesù è sacerdote? Ce lo dice proprio l'Eucaristia. Possiamo ripartire da quelle semplici parole che descrivono Melchisedek: "offrì pane e vino" (Gen 14,18). È ciò che ha fatto Gesù nell'ultima Cena: ha offerto pane e vino, e in quel gesto ha riassunto tutto se stesso e tutta la propria missione. In quell'atto, nella preghiera che lo precede e nelle parole che l'accompagnano c'è tutto il senso del mistero di Cristo, così come lo esprime la Lettera agli Ebrei in un passo decisivo, che è necessario riportare: "Nei giorni della sua vita terrena – scrive l'autore riferendosi a Gesù – egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek" (5,8-10). In questo testo, che chiaramente allude all'agonia spirituale del Getsemani, la passione di Cristo è presentata come una preghiera e come un'offerta. Gesù affronta la sua "ora", che lo conduce alla morte di croce, immerso in una profonda preghiera, che consiste nell'unione della sua propria volontà con quella del Padre. Questa duplice ed unica volontà è una volontà d'amore. Vissuta in questa preghiera, la tragica prova che Gesù affronta viene trasformata in offerta, in sacrificio vivente.

Dice la Lettera agli Ebrei che Gesù "venne esaudito". In che senso? Nel senso che Dio Padre lo ha liberato dalla morte e lo ha risuscitato. È stato esaudito proprio per il suo pieno abbandono alla volontà del Padre: il disegno d'amore di Dio ha potuto compiersi perfettamente in Gesù, che, avendo obbedito fino all'estremo della morte in croce, è diventato "causa di salvezza" per tutti coloro che obbediscono a Lui. È diventato cioè sommo Sacerdote per avere Egli stesso preso su di sé tutto il peccato del mondo, come "Agnello di Dio". È il Padre che gli conferisce questo sacerdozio nel momento stesso in cui Gesù attraversa il passaggio della sua morte e risurrezione. Non è un sacerdozio secondo l'ordinamento della legge mosaica (cfr Lv 8-9), ma "secondo l'ordine di Melchisedek", secondo un ordine profetico, dipendente soltanto dalla sua singolare relazione con Dio.

Ritorniamo all'espressione della Lettera agli Ebrei che dice: "Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza da ciò che patì". Il sacerdozio di Cristo comporta la sofferenza. Gesù ha veramente sofferto, e lo ha fatto per noi. Egli era il Figlio e non aveva bisogno di imparare l'obbedienza, ma noi sì, ne avevamo e ne abbiamo sempre bisogno. Perciò il Figlio ha assunto la nostra umanità e per noi si è lasciato "educare" nel crogiuolo della sofferenza, si è lasciato trasformare da essa, come il chicco di grano che per portare frutto deve morire nella terra. Attraverso questo processo Gesù è stato "reso perfetto", in greco teleiotheis. Dobbiamo fermarci su questo termine, perché è molto significativo. Esso indica il compimento di un cammino, cioè proprio il cammino di educazione e trasformazione del Figlio di Dio mediante la sofferenza, mediante la passione dolorosa. È grazie a questa trasformazione che Gesù Cristo è diventato "sommo sacerdote" e può salvare tutti coloro che si affidano a Lui. Il termine teleiotheis, tradotto giustamente con "reso perfetto", appartiene ad una radice verbale che, nella versione greca del Pentateuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia, viene sempre usata per indicare la consacrazione degli antichi sacerdoti. Questa scoperta è assai preziosa, perché ci dice che la passione è stata per Gesù come una consacrazione sacerdotale. Egli non era sacerdote secondo la Legge, ma lo è diventato in maniera esistenziale nella sua Pasqua di passione, morte e risurrezione: ha offerto se stesso in espiazione e il Padre, esaltandolo al di sopra di ogni creatura, lo ha costituito Mediatore universale di salvezza.

Ritorniamo, nella nostra meditazione, all'Eucaristia, che tra poco sarà al centro della nostra assemblea liturgica. In essa Gesù ha anticipato il suo Sacrificio, un Sacrificio non rituale, ma personale. Nell'Ultima Cena Egli agisce mosso da quello "spirito eterno" con il quale si offrirà poi sulla Croce (cfr Eb 9,14). Ringraziando e benedicendo, Gesù trasforma il pane e il vino. È l'amore divino che trasforma: l'amore con cui Gesù accetta in anticipo di dare tutto se stesso per noi. Questo amore non è altro che lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio, che consacra il pane e il vino e muta la loro sostanza nel Corpo e nel Sangue del Signore, rendendo presente nel Sacramento lo stesso Sacrificio che si compie poi in modo cruento sulla Croce. Possiamo dunque concludere che Cristo è sacerdote vero ed efficace perché era pieno della forza dello Spirito Santo, era colmo di tutta la pienezza dell'amore di Dio, e questo proprio "nella notte in cui fu tradito", proprio nell'"ora delle tenebre" (cfr Lc 22,53). È questa forza divina, la stessa che realizzò l'Incarnazione del Verbo, a trasformare l'estrema violenza e l'estrema ingiustizia in atto supremo d'amore e di giustizia. Questa è l'opera del sacerdozio di Cristo, che la Chiesa ha ereditato e prolunga nella storia, nella duplice forma del sacerdozio comune dei battezzati e di quello ordinato dei ministri, per trasformare il mondo con l'amore di Dio. Tutti, sacerdoti e fedeli, ci nutriamo della stessa Eucaristia, tutti ci prostriamo ad adorarLa, perché in essa è presente il nostro Maestro e Signore, è presente il vero Corpo di Gesù, Vittima e Sacerdote, salvezza del mondo. Venite, esultiamo con canti di gioia! Venite, adoriamo! Amen.
  • Benedetto XVI, 3 giugno 2010
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 10:48 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 2004
[/size]

Carissimi Sacerdoti!

1. È con gioia ed affetto che vi scrivo, in occasione del Giovedì Santo, seguendo una tradizione iniziata con la mia prima Pasqua da Vescovo di Roma, venticinque anni or sono. Quest'appuntamento epistolare, che riveste una speciale dimensione di fraternità per la comune partecipazione al Sacerdozio di Cristo, si colloca nel contesto liturgico di questo giorno santo, caratterizzato da due significativi riti: la Messa del Crisma al mattino, e quella in Cena Domini alla sera.

Vi penso dapprima riuniti nelle Cattedrali delle vostre Diocesi, attorno ai rispettivi Ordinari, per rinnovare le promesse sacerdotali. Questo rito, tanto eloquente, si svolge prima della benedizione degli Oli santi, segnatamente del Crisma, e ben si inserisce in tale Celebrazione, che evidenzia l'immagine della Chiesa, popolo sacerdotale santificato dai Sacramenti e inviato a diffondere nel mondo il buon profumo di Cristo Salvatore (cfr 2Cor 2,14-16).

Sul far della sera, vi vedo entrare nel Cenacolo per iniziare il Triduo pasquale. È proprio in quella «sala al piano superiore» (Lc 22,12) che Gesù ci invita a ritornare ogni Giovedì Santo, ed è là che più mi è caro incontrarmi con voi, amati Fratelli nel Sacerdozio. Nell'Ultima Cena siamo nati come sacerdoti: ecco perché è bello e doveroso ritrovarci nel Cenacolo, condividendo la memoria, colma di riconoscenza, dell'alta missione che ci accomuna.

2. Siamo nati dall'Eucaristia. Quanto affermiamo della Chiesa intera, che cioè «de Eucharistia vivit», come ho voluto ribadire nella recente Enciclica, possiamo ben dirlo del Sacerdozio ministeriale: esso trae origine, vive, opera e porta frutto «de Eucharistia» (cfr Conc. Trid. Sess. XXII, can.2: DSc 1752). «Non esiste Eucaristia senza Sacerdozio, come non esiste Sacerdozio senza Eucaristia» (Dono e mistero. Nel 50o del mio sacerdozio, Città del Vaticano 1996, p.89).

Il ministero ordinato, che mai può ridursi al solo aspetto funzionale, perché si pone sul piano dell'«essere», abilita il presbitero ad agire in persona Christi e culmina nel momento in cui egli consacra il pane e il vino, ripetendo i gesti e le parole di Gesù nell'Ultima Cena.

Dinanzi a questa straordinaria realtà rimaniamo attoniti e sbalorditi: tanta è l'umiltà condiscendente con cui Dio ha voluto così legarsi all'uomo! Se sostiamo commossi davanti al Presepe contemplando l'incarnazione del Verbo, che cosa provare di fronte all'altare dove, per le povere mani del sacerdote, Cristo rende presente nel tempo il suo Sacrificio? Non ci resta che piegare le ginocchia e in silenzio adorare questo sommo mistero della fede.

3. «Mysterium fidei», proclama il sacerdote dopo la consacrazione. Mistero della fede è l'Eucaristia, ma, per riflesso, mistero della fede è anche il Sacerdozio stesso (cfr Dono e mistero, cit., pp.89s.). Il medesimo mistero di santificazione e d'amore, opera dello Spirito Santo, per il quale il pane e il vino diventano il Corpo e il Sangue di Cristo, agisce nella persona del ministro al momento dell'Ordinazione sacerdotale. Esiste, pertanto, una specifica reciprocità tra l'Eucaristia e il Sacerdozio, reciprocità che risale al Cenacolo: si tratta di due Sacramenti nati insieme, le cui sorti sono indissolubilmente legate fino alla fine del mondo.

Tocchiamo qui quella che ho chiamato l'«apostolicità dell'Eucaristia» (cfr Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia, 26-33). Il Sacramento eucaristico —come quello della Riconciliazione— è stato da Cristo affidato agli Apostoli e tramandato da essi e dai loro successori di generazione in generazione. All'inizio della vita pubblica, il Messia chiamò i Dodici, li costituì perché «stessero con lui» e per inviarli in missione (cfr Mc 3,14-15). Nell'Ultima Cena lo «stare con» Gesù raggiunse per gli Apostoli il culmine. Celebrando la Cena pasquale e istituendo l'Eucaristia, il divino Maestro diede compimento alla loro vocazione. Dicendo: «Fate questo in memoria di me», pose il sigillo eucaristico sulla loro missione e, unendoli a sé nella comunione sacramentale, li incaricò di perpetuare quel gesto santissimo.

Mentre pronunciava quelle parole: «Fate questo...», il suo pensiero si estendeva ai successori degli Apostoli, a coloro che avrebbero dovuto prolungarne la missione, distribuendo il Cibo della vita fino agli estremi confini della terra. E così, in un certo senso, nel Cenacolo siamo stati chiamati anche noi personalmente, ad uno ad uno, «con affetto di predilezione» (Prefazio della Messa Crismale), cari Fratelli nel Sacerdozio, per ricevere dalle mani sante e venerabili del Signore il Pane eucaristico, da spezzare in sostentamento del Popolo di Dio, pellegrinante sulle strade del tempo verso la Patria.

4. L'Eucaristia, come il Sacerdozio, è un dono di Dio, «che supera radicalmente il potere dell'assemblea» e che questa «riceve attraverso la successione episcopale risalente agli Apostoli» (Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia, 29). Insegna il Concilio Vaticano II che «il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito ... compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo» (Cost. Lumen gentium, 10). L'assemblea dei fedeli, una nella fede e nello Spirito e arricchita di molteplici doni, pur costituendo il luogo in cui Cristo «è presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 7), non è in grado da sola né di «fare» l'Eucaristia né di «darsi» il ministro ordinato.

Ben a ragione, pertanto, il popolo cristiano, mentre da una parte ringrazia Iddio per il dono dell'Eucaristia e del Sacerdozio, dall'altra non cessa di pregare perché mai manchino sacerdoti nella Chiesa. Non è mai sufficiente il numero dei presbiteri per far fronte alle crescenti esigenze dell'evangelizzazione e della cura pastorale dei fedeli. In alcune parti del mondo la loro scarsità si avverte oggi con maggiore urgenza, perché si assottiglia la schiera dei sacerdoti, senza che ci sia un sufficiente ricambio generazionale. Altrove, grazie a Dio, si assiste ad una promettente primavera vocazionale. Va inoltre aumentando nel Popolo di Dio la consapevolezza di dover pregare e operare attivamente per le vocazioni al Sacerdozio e alla Vita consacrata.

5. Sì, le vocazioni sono un dono di Dio da implorare incessantemente. Accogliendo l'invito di Gesù, occorre anzitutto pregare il Padrone della messe perché mandi operai nella sua messe (cfr Mt 9,38). È la preghiera, avvalorata dall'offerta silenziosa della sofferenza, il primo e più efficace mezzo della pastorale vocazionale. Pregare è mantenere fisso lo sguardo su Cristo, fiduciosi che da Lui stesso, unico Sommo Sacerdote, e dalla sua divina oblazione, scaturiscono in abbondanza, per l'azione dello Spirito Santo, i germi di vocazione necessari in ogni tempo alla vita e alla missione della Chiesa.

Sostiamo nel Cenacolo contemplando il Redentore che nell'Ultima Cena istituì l'Eucaristia e il Sacerdozio. In quella notte santa Egli ha chiamato per nome ogni singolo sacerdote di tutti i tempi. Il suo sguardo si è rivolto a ciascuno, sguardo amorevole e preveniente, come quello che si posò su Simone e Andrea, su Giacomo e Giovanni, su Natanaele, quando stava sotto il fico, su Matteo, seduto al banco delle imposte. Gesù ha chiamato noi e, per molteplici strade, continua a chiamare tanti altri ad essere suoi ministri.

Dal Cenacolo Cristo non si stanca di cercare e di chiamare: sta qui l'origine e la perenne sorgente dell'autentica pastorale delle vocazioni sacerdotali. Di essa, Fratelli, sentiamoci i primi responsabili, pronti ad aiutare quanti Egli intende associare al suo Sacerdozio, perché rispondano generosamente al suo invito.

Prima, però, e più di ogni altra iniziativa vocazionale, è indispensabile la nostra fedeltà personale. Conta, infatti, la nostra adesione a Cristo, l'amore che nutriamo per l'Eucaristia, il fervore con cui la celebriamo, la devozione con cui l'adoriamo, lo zelo con cui la dispensiamo ai fratelli, specialmente ai malati. Gesù Sommo Sacerdote continua a invitare personalmente operai per la sua vigna, ma ha voluto aver bisogno fin dagli inizi della nostra attiva cooperazione. Sacerdoti innamorati dell'Eucaristia sono in grado di comunicare a ragazzi e giovani lo «stupore eucaristico», che ho inteso ridestare con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia (cfr n.6). Sono in genere proprio loro ad attirarli in tal modo sulla via del Sacerdozio, come potrebbe utilmente dimostrare la storia della nostra vocazione.

6. Proprio in questa luce, cari Fratelli sacerdoti, privilegiate, accanto ad altre iniziative, la cura dei ministranti, che costituiscono come un «vivaio» di vocazioni sacerdotali. Il gruppo di ministranti, ben seguito da voi all'interno della comunità parrocchiale, può percorrere un valido cammino di crescita cristiana, quasi formando una sorta di pre-seminario. Educate la parrocchia, famiglia di famiglie, a vedere nei ministranti i suoi figli, come «virgulti intorno alla mensa» di Cristo, Pane di vita (cfr Sal 128 [127], 3).

Avvalendovi della collaborazione delle famiglie più sensibili e dei catechisti, seguite con premurosa sollecitudine il gruppo dei ministranti perché, attraverso il servizio all'altare, ciascuno di essi impari ad amare sempre più il Signore Gesù, lo riconosca realmente presente nell'Eucaristia, gusti la bellezza della liturgia. Tutte le iniziative per i ministranti organizzate a livello diocesano o di zone pastorali vanno promosse e incoraggiate, sempre tenendo conto delle diverse fasce di età. Negli anni di ministero episcopale a Cracovia ho potuto rilevare quanto proficuo sia dedicarsi alla loro formazione umana, spirituale e liturgica. Quando fanciulli e adolescenti svolgono il servizio all'altare con gioia ed entusiasmo, offrono ai loro coetanei un'eloquente testimonianza dell'importanza e della bellezza dell'Eucaristia. Grazie alla spiccata sensibilità immaginativa, che contraddistingue la loro età, e con le spiegazioni e l'esempio dei sacerdoti e dei compagni più grandi, anche i più piccoli possono crescere nella fede e appassionarsi alle realtà spirituali.

Ed infine, non dimenticate che i primi «apostoli» di Gesù Sommo Sacerdote siete voi: la vostra testimonianza conta più di qualunque altro mezzo e sussidio. Nella regolarità delle celebrazioni domenicali e feriali, i ministranti incontrano voi, nelle vostre mani vedono «farsi» l'Eucaristia, sul vostro volto leggono il riflesso del Mistero, nel vostro cuore intuiscono la chiamata di un amore più grande. Siate per loro padri, maestri e testimoni di pietà eucaristica e di santità di vita!

7.Carissimi Fratelli sacerdoti, la vostra peculiare missione nella Chiesa esige che siate «amici» di Cristo, contemplandone assiduamente il volto e ponendovi docilmente alla scuola di Maria Santissima. Pregate incessantemente, come esorta l'Apostolo (cfr 1Ts 5,17), ed invitate i fedeli a pregare per le vocazioni, per la perseveranza dei chiamati alla vita sacerdotale e per la santificazione di tutti i sacerdoti. Aiutate le vostre comunità ad amare sempre più il singolare «dono e mistero» che è il Sacerdozio ministeriale.

Nel clima orante del Giovedì Santo mi tornano alla mente alcune invocazioni delle Litanie di Gesù Cristo Sacerdote e Vittima (cfr Dono e mistero, pp.113-116), che da tantissimi anni ormai recito con grande beneficio dell'animo:

Iesu, Sacerdos et Victima,
Iesu, Sacerdos qui in novissima Cena formam sacrificii perennis instituisti,
Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte,
Iesu, Pontifex pro hominibus constitute,
Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam, miserere nobis!
Ut pastores secundum cor tuum populo tuo providere digneris,
ut in messem tuam operarios fideles mittere digneris,
ut fideles mysteriorum tuorum dispensatores multiplicare digneris,
Te rogamus, audi nos!

8. Affido ciascuno di voi e il vostro quotidiano ministero alla Madre dei Sacerdoti. Nella recita del Rosario, il quinto mistero della luce ci conduce a contemplare con gli occhi di Maria il dono dell'Eucaristia, a stupirci per l'amore «sino alla fine» (Gv 13,1) che Gesù ha manifestato nel Cenacolo e per l'umiltà della sua presenza in ogni Tabernacolo. Vi ottenga la Vergine Santa di non abituarvi mai al Mistero posto nelle vostre mani. Ringraziando senza sosta il Signore per lo straordinario dono del suo Corpo e del suo Sangue, potrete perseverare fedelmente nel vostro ministero sacerdotale.

E Tu, Madre di Cristo Sommo Sacerdote, ottieni sempre alla Chiesa numerose e sante vocazioni, fedeli e generosi ministri dell'altare.

Cari Fratelli sacerdoti, auguro a voi e alle vostre Comunità una santa Pasqua, mentre di cuore tutti vi benedico.
  • Dal Vaticano, il 28 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 2004, ventiseiesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 10:51 am


  • Lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II
    ai Sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 2005
[/size]

Carissimi sacerdoti!

1. Particolarmente gradito, nell'Anno dell'Eucaristia, mi torna l'annuale appuntamento spirituale in occasione del Giovedì Santo, il giorno dell'amore di Cristo spinto «fino all'estremo» (cfr Gv 13,1), il giorno dell'Eucaristia, il giorno del nostro sacerdozio.

Il mio pensiero viene a voi, sacerdoti, mentre trascorro un periodo di cura e di riabilitazione in ospedale, ammalato tra gli ammalati, unendo nell'Eucaristia la mia sofferenza a quella di Cristo. In questo spirito voglio riflettere con voi su qualche aspetto della nostra spiritualità sacerdotale.

Lo farò lasciandomi guidare dalle parole dell'istituzione eucaristica, quelle che ogni giorno pronunciamo in persona Christi, per rendere presente sui nostri altari il sacrificio compiuto una volta per tutte sul Calvario. Da queste parole emergono indicazioni luminose di spiritualità sacerdotale: se tutta la Chiesa vive dell'Eucaristia, l'esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una «forma eucaristica». Le parole dell'istituzione dell'Eucaristia devono perciò essere per noi non soltanto una formula consacratoria, ma una «formula di vita».

Un'esistenza profondamente «grata»

2. «Tibi gratias agens benedixit...». In ogni Santa Messa ricordiamo e riviviamo il primo sentimento espresso da Gesù nell'atto di spezzare il pane: quello del rendimento di grazie. La riconoscenza è l'atteggiamento che sta alla base del nome stesso di «Eucaristia». Dentro quest'espressione di gratitudine confluisce tutta la spiritualità biblica della lode per i mirabilia Dei. Dio ci ama, ci precede con la sua Provvidenza, ci accompagna con continui interventi di salvezza.

Nell'Eucaristia Gesù ringrazia il Padre con noi e per noi. Come potrebbe questo rendimento di grazie di Gesù non plasmare la vita del sacerdote? Egli sa di dover coltivare un animo costantemente grato per i tanti doni ricevuti nel corso della sua esistenza: in particolare, per il dono della fede, della quale è diventato annunciatore, e per quello del sacerdozio, che lo consacra interamente al servizio del Regno di Dio. Abbiamo le nostre croci – e certo non siamo i soli ad averne! – ma i doni ricevuti sono così grandi che non possiamo non cantare dal profondo del cuore il nostro Magnificat.

Un'esistenza «donata»

3. «Accipite et manducate... Accipite et bibite...». L'auto-donazione di Cristo, che ha la sua scaturigine nella vita trinitaria del Dio-Amore, raggiunge la sua espressione più alta nel sacrificio della Croce, di cui l'Ultima Cena è l'anticipazione sacramentale. Non è possibile ripetere le parole della consacrazione senza sentirsi coinvolti in questo movimento spirituale. In certo senso, è anche di sé che il sacerdote deve imparare a dire, con verità e generosità: «prendete e mangiate». La sua vita, infatti, ha senso se egli sa farsi dono, mettendosi a disposizione della comunità e a servizio di chiunque sia nel bisogno.

Questo, appunto, Gesù si aspettava dai suoi Apostoli, come l'evangelista Giovanni sottolinea raccontando della lavanda dei piedi. Questo anche il Popolo di Dio si attende dal sacerdote. A ben riflettere, l'obbedienza a cui egli si è impegnato nel giorno dell'Ordinazione, e la cui promessa è invitato a ribadire nella Messa crismale, prende luce da questo rapporto con l'Eucaristia. Obbedendo per amore, rinunciando magari a legittimi spazi di libertà quando si tratta di aderire all'autorevole discernimento dei Vescovi, il sacerdote attua nella propria carne quel «prendete e mangiate» con cui Cristo, nell'Ultima Cena, affidò se stesso alla Chiesa.

Un'esistenza «salvata» per salvare

4. «Hoc est enim corpus meum quod pro vobis tradetur». Il corpo e il sangue di Cristo sono dati per la salvezza dell'uomo, di tutto l'uomo e di tutti gli uomini. E' una salvezza integrale e al tempo stesso universale, perché non c'è uomo che, a meno di un libero atto di rifiuto, sia escluso dalla potenza salvifica del sangue di Cristo: «qui pro vobis et pro multis effundetur». Si tratta di un sacrificio offerto per «molti», come recita il testo biblico (Mc 14,24; Mt 26,28; cfr Is 53, 11-12) con una tipica espressione semitica che, mentre indica la moltitudine raggiunta dalla salvezza operata dall'unico Cristo, implica al tempo stesso la totalità degli esseri umani ai quali essa è offerta: è sangue «versato per voi e per tutti», come in alcune traduzioni legittimamente si esplicita. La carne di Cristo è infatti data «per la vita del mondo» (Gv 6,51; cfr 1 Gv 2,2).

Ripetendo nel silenzio raccolto dell'assemblea liturgica le parole venerande di Cristo, noi sacerdoti diveniamo annunciatori privilegiati di questo mistero di salvezza. Ma come esserlo efficacemente, senza sentirci noi stessi salvati? Noi per primi siamo raggiunti nell'intimo dalla grazia che, sollevandoci dalle nostre fragilità, ci fa gridare «Abba, Padre» con la confidenza propria dei figli (cfr Gal 4,6; Rm 8,15). E questo ci impegna a progredire nel cammino di perfezione. La santità, infatti, è l'espressione piena della salvezza. Solo vivendo da salvati, diveniamo annunciatori credibili della salvezza. D'altra parte, prendere ogni volta coscienza della volontà di Cristo di offrire a tutti la salvezza non può non ravvivare nel nostro animo l'ardore missionario, spronando ciascuno di noi a farsi «tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Un'esistenza «memore»

5. «Hoc facite in meam commemorationem». Queste parole di Gesù ci sono state conservate, oltre che da Luca (22,19), anche da Paolo (1 Cor 11,24). Il contesto nel quale sono state pronunciate – è bene tenerlo presente – è quello della cena pasquale, che per gli ebrei era appunto un «memoriale» (zikkarôn, in ebraico). In quella circostanza gli israeliti rivivevano innanzitutto l'Esodo, ma con esso anche gli altri eventi importanti della loro storia: la vocazione di Abramo, il sacrificio di Isacco, l'alleanza del Sinai, i tanti interventi di Dio in difesa del suo popolo. Anche per i cristiani l'Eucaristia è «memoriale», ma lo è in una misura unica: non ricorda soltanto, ma attualizza sacramentalmente la morte e la risurrezione del Signore.

Vorrei inoltre sottolineare che Gesù ha detto: «Fate questo in memoria di me». L'Eucaristia dunque non ricorda semplicemente un fatto: ricorda Lui! Per il sacerdote ripetere ogni giorno, in persona Christi, le parole del «memoriale» costituisce un invito a sviluppare una «spiritualità della memoria». In un tempo in cui i rapidi cambiamenti culturali e sociali allentano il senso della tradizione ed espongono specialmente le nuove generazioni al rischio di smarrire il rapporto con le proprie radici, il sacerdote è chiamato ad essere, nella comunità a lui affidata, l'uomo del ricordo fedele di Cristo e di tutto il suo mistero: la sua prefigurazione nell'Antico Testamento, la sua attuazione nel Nuovo, il suo progressivo approfondimento, sotto la guida dello Spirito, secondo l'esplicita promessa: «Egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).

Un'esistenza «consacrata»

6. «Mysterium fidei!». Con questa esclamazione il sacerdote esprime, dopo ogni consacrazione del pane e del vino, lo stupore sempre rinnovato per lo straordinario prodigio che si è compiuto tra le sue mani. E' un prodigio che solo gli occhi della fede possono percepire. Gli elementi naturali non perdono le loro esterne caratteristiche, giacché le «specie» restano quelle del pane e del vino; ma la loro «sostanza», per la potenza della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo, si converte nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Sull'altare è così presente «veramente, realmente, sostanzialmente» il Cristo morto e risorto nell'interezza della sua umanità e divinità. Realtà eminentemente sacra, dunque! Per questo la Chiesa circonda di tanta riverenza questo Mistero, e attentamente vigila perché siano osservate le norme liturgiche poste a tutela della santità di così grande Sacramento.

Noi sacerdoti siamo i celebranti, ma anche i custodi di questo sacrosanto Mistero. Dal nostro rapporto con l'Eucaristia trae il suo senso più esigente anche la condizione «sacra» della nostra vita. Essa deve trasparire da tutto il nostro modo di essere, ma innanzitutto dal modo stesso di celebrare. Mettiamoci per questo alla scuola dei Santi! L'Anno dell'Eucaristia ci invita a riscoprire i Santi che hanno testimoniato con particolare vigore la devozione all'Eucaristia (cfr Mane nobiscum Domine, 31). Tanti sacerdoti beatificati e canonizzati hanno dato, in questo, una testimonianza esemplare, suscitando fervore nei fedeli presenti alle loro Messe. Tanti si sono distinti per la prolungata adorazione eucaristica. Stare davanti a Gesù Eucaristia, approfittare, in certo senso, delle nostre «solitudini» per riempirle di questa Presenza, significa dare alla nostra consacrazione tutto il calore dell'intimità con Cristo, da cui prende gioia e senso la nostra vita.

Un'esistenza protesa verso Cristo

7. «Mortem tuam annuntiamus, Domine, et tuam resurrectionem confitemur, donec venias». Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, la memoria di Cristo nel suo mistero pasquale si fa desiderio dell'incontro pieno e definitivo con Lui. Noi viviamo nell'attesa della sua venuta! Nella spiritualità sacerdotale questa tensione deve essere vissuta nella forma propria della carità pastorale, che ci impegna a vivere in mezzo al Popolo di Dio, per orientarne il cammino ed alimentarne la speranza. E' un compito, questo, che richiede dal sacerdote un atteggiamento interiore simile a quello che l'apostolo Paolo viveva in se stesso: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta...» (Fil 3,13- 14). Il sacerdote è uno che, nonostante il passare degli anni, continua ad irradiare giovinezza, quasi «contagiando» di essa le persone che incontra sul suo cammino. Il suo segreto sta nella «passione» che egli vive per Cristo. San Paolo diceva: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).

Soprattutto nel contesto della nuova evangelizzazione, ai sacerdoti la gente ha diritto di rivolgersi con la speranza di «vedere» in loro Cristo (cfr Gv 12,21). Ne sentono il bisogno in particolare i giovani, che Cristo continua a chiamare a sé per farseli amici e per proporre ad alcuni di loro la donazione totale alla causa del Regno. Non mancheranno certo le vocazioni, se si eleverà il tono della nostra vita sacerdotale, se saremo più santi, più gioiosi, più appassionati nell'esercizio del nostro ministero. Un sacerdote «conquistato» da Cristo (cfr Fil 3,12) più facilmente «conquista» altri alla decisione di correre la stessa avventura.

Un'esistenza «eucaristica» alla scuola di Maria

8. Il rapporto della Vergine Santa con l'Eucaristia è molto stretto, come ho ricordato nell'Enciclica Ecclesia de Eucharistia (cfr nn. 53-58). Pur nella sobrietà del linguaggio liturgico, ogni Preghiera eucaristica lo sottolinea. Così nel Canone romano diciamo: «In comunione con tutta la Chiesa, ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo». Nelle altre Preghiere eucaristiche, poi, la venerazione si fa implorazione, come, ad esempio, nell'Anafora seconda: «Donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la Beata Maria, Vergine e Madre di Dio».

Insistendo, in questi anni, specie nella Novo millennio ineunte (cfr nn. 23 ss.) e nella Rosarium Virginis Mariae (cfr nn. 9 ss.), sulla contemplazione del volto di Cristo, ho additato Maria come la grande maestra. Nell'Enciclica sull'Eucaristia l'ho poi presentata come «Donna eucaristica» (cfr n. 53). Chi più di Maria può farci gustare la grandezza del mistero eucaristico? Nessuno come Lei può insegnarci con quale fervore si debbano celebrare i santi Misteri e ci si debba intrattenere in compagnia del suo Figlio nascosto sotto i veli eucaristici. La imploro, dunque, per tutti voi, Le affido specialmente i più anziani, gli ammalati, quanti si trovano in difficoltà. In questa Pasqua dell'Anno dell'Eucaristia mi piace riecheggiare per ciascuno di voi la dolce e rassicurante parola di Gesù: «Ecco tua Madre» (Gv 19,27).

Con questi sentimenti, di cuore tutti vi benedico, augurandovi un'intensa gioia pasquale.
  • Dal Policlinico Gemelli in Roma, il 13 marzo, Quinta domenica di Quaresima, dell'anno 2005, ventisettesimo di Pontificato
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Avatar utente
miriam bolfissimo
Messaggi:17747
Iscritto il:dom mag 22, 2005 2:27 pm
Contatta:

Anno Sacerdotale 19 giugno 2009 - 11 giugno 2010

Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 10:54 am


  • Messaggio dei Vescovi italiani ai sacerdoti che operano in Italia
[/size]

Carissimi,
noi Vescovi, riuniti in Assemblea Generale, abbiamo avvertito il forte desiderio di scrivervi mentre l’Anno Sacerdotale si avvia alla conclusione. Il nostro primo pensiero è sempre per voi, e lo è stato ancora di più in questi mesi. Incalzati da accuse generalizzate, che hanno prodotto amarezza e dolore e gettato il sospetto su tutti, abbiamo pregato e invitato a pregare per voi. Non sono mancate occasioni di ascolto e di dialogo per condividere la grazia e la benedizione del ministero ordinato. Ora, tutti insieme vogliamo esprimervi la nostra cordiale stima e vicinanza, ispirata dalla comune responsabilità ecclesiale.

La nostra vuole essere, anzitutto, una parola di gratitudine. La gloria di Dio risplende nella vostra vita consumata nella fedeltà al Signore e all’uomo, perché siete pazienti nelle tribolazioni, perseveranti nella prova, animati da carità, fede e speranza. Noi siamo fieri di voi! Il bene che offrite alle nostre comunità nell’esercizio ordinario del ministero è incalcolabile e, insieme ai fedeli, noi ve ne siamo grati. La vostra consolazione non dipenda dai risultati pastorali, ma attinga alla presenza amica dello Spirito Paraclito e alla partecipazione al calice del Signore, dal cui amore siamo stati conquistati.

È anche una parola con cui ci invitiamo a vicenda a perseverare nel cammino di conversione e di penitenza. La vocazione alla santità ci spinge a non rassegnarci alle fragilità e al peccato. Essa è un appello accorato di Gesù e un imperativo per tutti: venite a me!... rimanete in me!... seguitemi! Questa irresistibile sollecitazione ci commuove e ci spinge ad andare avanti, ci aiuta a non adagiarci sulle comodità, a non lasciarci distogliere dall’essenziale, a non rassegnarci a ciò che è solo abituale nel ministero.

La Chiesa ci affida il Vangelo che illumina i nostri passi, corregge le nostre derive, ispira i pensieri e i sentimenti del cuore e sostiene il desiderio di bene presente nell’animo di ciascuno. Accogliamo con gioia la sua parola di speranza e di verità, desiderosi di lasciarci educare da lui. Davanti a noi sta una promessa: «Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). La chiamata che ci ha afferrato e plasmato ci aiuterà a superare anche le tribolazioni di questo tempo, corrispondendo con rinnovato slancio al mandato che ci è stato affidato.

È, infine, una parola di incoraggiamento. Quando il Signore ha inviato i discepoli in missione ha detto loro: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Non ci ha promesso una vita facile, ma una presenza che non verrà mai meno. Senza di lui siamo nulla e non possiamo fare niente; dimorando in lui i nostri frutti saranno abbondanti e duraturi. La sua compagnia non ci mette al sicuro dagli attacchi del maligno né ci rende impeccabili, ma ci assicura che il male non avrà mai l’ultima parola, perché chi si fa carico del proprio peccato può sempre rialzarsi e riprendere il cammino. Vi sostenga la comunione del presbiterio, la nostra paternità, la certezza della presenza del Signore Risorto che rende possibile attraversare ogni prova.

Gratitudine, conversione, incoraggiamento: questo vi diciamo per essere ancora più uniti nel condividere l’impegno e la gioia del ministero a servizio delle nostre Chiese e del Paese.

Ci protegga la Vergine Maria. Ci benedica Dio che dona senza misura la consolazione di sperimentarlo vivo nella fede.
  • I Vescovi delle Chiese che sono in Italia, 28 maggio 2010
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

Rispondi
[phpBB Debug] PHP Warning: in file [ROOT]/vendor/twig/twig/lib/Twig/Extension/Core.php on line 1266: count(): Parameter must be an array or an object that implements Countable

Torna a “LA COMUNITA' DEGLI INNAMORATI DELLA MADONNA E DEL CUORE DI GESU'”

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 52 ospiti