Anno della fede 11 ottobre 2012 - 24 novembre 2013

Bacheca, condivisione, solidarietà...

Moderatori:Giammarco De Vincentis, Don Armando Maria

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Messaggio da Redazione » gio gen 17, 2013 11:04 am

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Nell'Anno della Fede, credenti di tutto il mondo, in particolare giovani, potranno unirsi quotidianamente grazie a Telepace e WebTV su Internet, in un momento di preghiera che avrà il Vaticano come centro. Ogni giorno la preghiera sarà guidata da gruppi, comunità, associazioni o movimenti di tutto il mondo. Attraverso Internet, le persone collegate potranno condividere le intenzioni di preghiera. Sarà un appuntamento quotidiano mondiale di preghiera recitando i misteri del Rosario: A Moment with Mary, per info clicca qui...
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miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 22, 2013 9:58 am


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«Quando san Pietro confessa che Gesù è "il Cristo, il Figlio del Dio vivente", Gesù gli dice: "Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli"» (Mt 16,17; Catechismo, 153).

L'itinerario della sequela giunge al momento di svolta presso Cesarea di Filippo, quando Gesù interroga i discepoli sulla sua identità. L'episodio è così importante che è riportato sempre verso la fine della missione galilaica di Gesù e l'inizio del suo viaggio verso Gerusalemme, tale è il ricordo vivo che deve aver lasciato nei discepoli. Si tratta della prima inchiesta su Gesù, a cui sono subentrate innumerevoli altre inchieste nella storia umana. Anzitutto chi è Gesù per la folla o per coloro che ne hanno sentito parlare? Ma l'inchiesta giunge al momento cruciale quando la domanda interpella i discepoli: «Voi chi dite che io sia?» (Matteo 16,15). Le due fasi dell'inchiesta vanno ben distinte: con la prima Gesù è definito per sentito dire o per eredità religiosa e culturale, mentre con la seconda subentra l'interpellanza personale. Un filantropo, un maestro di sapienza, un profeta, un trascinatore di popoli, un taumaturgo, un filosofo itinerante: sono le risposte più comuni delle inchieste su Gesù. Ma la risposta di Pietro è la più appropriata poiché nasce dalla grazia della rivelazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Gesù è non soltanto il Messia, ma presenta caratteri che conducono verso il Dio vivente o l'Emmanuele, il Dio con noi. Egli continua a restare con noi dove due o più sono uniti nel suo nome (Matteo 18,20) e rimarrà per sempre con noi, sino alla fine dei tempi (Matteo 28,20). Cesarea di Filippo è la tappa obbligata per la sequela di Gesù, perché si passa dal sentito dire della sua identità alla confessione di fede nel suo essere più di un messia fra i tanti. «Chi è Gesù per me?». Così Madre Teresa di Calcutta ha affrontato la domanda di Cesarea di Filippo e l'ha attualizzata nella sua stupenda Regola: «…L'affamato che deve essere nutrito, l'assetato che deve essere appagato, il nudo che deve essere vestito, il senzatetto che deve essere accolto, il malato che deve essere guarito, il solo che deve essere amato, l'indesiderato che deve essere voluto, il lebbroso che deve essere accolto…».

  • Trasfigurazione, per sempre con Dio
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«In tale contesto si colloca l'episodio misterioso della Trasfigurazione di Gesù (cf Mt 17,1-8 par.; 2Pt 1,16-18) su un alto monte, davanti a tre testimoni da lui scelti: Pietro, Giacomo e Giovanni» (Catechismo, 554).

La Trasfigurazione, a cui partecipano i tre discepoli scelti, si realizza tra l'epilogo della missione in Galilea e l'inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Da una parte l'evento si collega al Battesimo, poiché interviene la stessa voce che lo riconosce come il Figlio amato del compiacimento divino, dall'altra anticipa l'ora nona del Golgota, dove finalmente Gesù sarà riconosciuto come Figlio di Dio. La Trasfigurazione è evento trinitario: del Padre che chiede agli uomini di ascoltare il Figlio, dello Spirito simbolizzato dalla nube e del Figlio amato (san Tommaso). Mentre con il Battesimo Gesù s'immerge nell'umanità che redime dal peccato, con la Trasfigurazione innalza la nostra umanità verso la meta dell'essere per sempre con Dio. Nella Trasfigurazione è anticipato il mistero della morte e risurrezione di Gesù e la trasfigurazione del nostro corpo, quando il Salvatore nostro Gesù Cristo «trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso» (Filippesi 3,20-21). Per questo nella tradizione orientale la Trasfigurazione è non soltanto di Gesù, ma della Sacra Scrittura, rappresentata da Mosè e da Elia, e dei discepoli che sono rapiti verso la bellezza della Trinità (P. Evdokimov). Commenta bene sant'Ambrogio: «Non con i passi del corpo, ma con le tue azioni elevate sali questa montagna. Segui Cristo, in modo che tu stesso possa divenire un monte». La Trasfigurazione è l'evento sublime che congiunge l'estetica all'estasi, poiché si è rapiti verso la bellezza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Per questo Pietro riconosce che «è bello per noi stare qui». Con tutte le teorie sull'estetica contemporanea, spesso arenate nell'edonismo e nel soggettivismo – per cui è bello ciò che piace – la Trasfigurazione veicola il denominatore comune che dovrebbe valere per chiunque: la bellezza si riconosce anzitutto dalla capacità di rapire o di «trasumanare» l'animo umano (Dante Alighieri).

  • Sulla strada per Gerusalemme
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«Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, [Gesù] si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51; Catechismo, 557).

Nel vangelo di Luca il grande viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme occupa ben dieci capitoli: dal nono al diciannovesimo. Durante l'itinerario sono scarse le annotazioni geografiche e cronologiche, mentre il racconto si sviluppa sul rapporto tra Gesù e i discepoli nella via della sequela. Più che un viaggio fisico, quello che descrive Luca è il pellegrinaggio interiore della fede che giunge alla meta con l'ingresso di Gesù nel tempio di Gerusalemme. Il viaggio è cadenzato da diversi insegnamenti di Gesù sul discepolato: la fiducia nella provvidenza, la misericordia di Dio per i peccatori, la perseveranza nella preghiera e le relazioni con i beni materiali, piccoli o grandi che siano. Salire verso Gerusalemme significa progredire nella sequela di Gesù fino alla condivisione della sua morte e risurrezione. Il pellegrinaggio accomuna diverse religioni e si differenzia da un comune viaggio turistico per il movimento non esteriore, bensì interiore che produce. Ogni pellegrinaggio propone mete intermedie e finali da raggiungere. Sperimentare la precarietà della condizione umana, essere costretti a portare con sé l'essenziale, affrontare gli ostacoli che ogni viaggio riserva: sono le caratteristiche dominanti del pellegrinaggio. La fede, come la vita umana, è un viaggio che può assumere caratteristiche diverse. Per questo il genere del viaggio ha da sempre affascinato storici, romanzieri ed asceti: da Senofonte con l'Anabasi a Strabone con la Geografia, alla pellegrina Egeria, a Dante Alighieri, sino ai contemporanei A.B. Yehoshua con Ritorno dall'India e a T. Terzani. Mentre nel viaggio verso Gerusalemme Gesù apre la cordata per essere seguito dai discepoli, dopo la risurrezione si pone accanto a ogni viandante per condividere il viaggio della fede. Circondati da un gran numero di testimoni, anche noi corriamo perseveranti verso la meta, tenendo lo sguardo su Gesù, «autore e perfezionatore della fede» (Ebrei 12,1-2).

  • Shemah, il Signore è l'unico Dio
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«A Israele, suo eletto, Dio si è rivelato come l'Unico: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze"» (Dt 6,4-5; Catechismo, 201).

Gesù è non soltanto un predicatore e un guaritore instancabile, ma anzitutto un profondo uomo di preghiera. Il suo modo di pregare ha affascinato i discepoli che, a un certo punto, gli chiedono d'insegnar loro a pregare. Ma prima d'insegnare la preghiera del Padre nostro, Gesù ha confermato lo Shemah (Marco 12,28-31), la preghiera di ogni ebreo credente, in cui il Signore è riconosciuto come l'unico Dio da amare con ogni fibra del proprio essere e in qualsiasi situazione della vita. La professione di fede nell'unico Dio accomuna le tre grandi religioni monoteistiche, ma è declinata in modo diverso. Per Gesù e i suoi discepoli l'unicità di Dio comprende l'unicità della Padre, del Figlio e dello Spirito, senza trasformarsi mai in una trimurti indiana, né in una trilogia gnostica. Purtroppo spesso si sostiene che la Trinità sia un'invenzione del cristianesimo in ambiente ellenistico, mentre s'ignora che Gesù e le prime comunità cristiane hanno invocato Dio chiamandolo Padre, con la potenza dello Spirito. Sorprendente è non l'uso del termine «Trinità», bensì che le prime invocazioni trinitarie non siano state considerate in conflitto con il monoteismo giudaico in cui sono sorte le comunità cristiane e a cui restano ancorate. Prima di formulare il dogma trinitario, i cristiani hanno sperimentato l'azione trinitaria soprattutto nella preghiera e nelle loro comunità. La preghiera che inizia con abba, Padre e le differenze tra i carismi dello Spirito, i ministeri del Signore Gesù e le attuazioni di Dio Padre (1Corinzi 12,4-7) sono i luoghi più tangibili in cui le prime comunità hanno confessato l'unicità di Dio e il mistero dell'agire trinitario. L'augurio finale di 2Corinzi è una delle più antiche professioni trinitarie del Nuovo Testamento (metà anni 50 d.C.) poiché Paolo augura ai destinatari «la grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito» (2Corinzi 13,13). L'unicità di Dio dello Shemah perviene alla sua rivelazione piena nell'agire Trinitario.

  • «Abbà, Padre». Ecco l'inaudito
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«Chiamando Dio con il nome di "Padre", il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d'amore per tutti i suoi figli» (Catechismo, 239).

Prima di Gesù, per esprimere la relazione amorevole e di elezione nei confronti del suo popolo il Dio d'Israele era invocato come "Padre". Contro alcuni luoghi comuni è bene precisare che la paternità di Dio è testimoniata nella letteratura di Qumran, negli scritti di Filone Alessandrino e nella preghiera sinagogale giudaica. L'amore paterno e materno di Dio è reso visibile in quello dei genitori per i propri figli (Isaia 49,15). Tuttavia, Gesù non si è limitato a usare una metafora, bensì ha sostenuto, sino al prezzo del suo sangue, di essere Figlio di Dio sin dall'eternità. Ed è questa "pretesa" che lo induce a insegnare la preghiera introducendola con l'invocazione «Padre, sia santificato il tuo nome» (Luca 11,2). Nella parabola del Padre misericordioso, impropriamente nota come "del figliol prodigo" (Luca 15,11-32), la paternità di Dio assume dimensioni inconcepibili per qualsiasi paternità umana. Quale padre è alla ricerca del figlio perduto e lo reintegra nella dignità originaria senza verificare la consistenza reale o fittizia del suo pentimento? Chi è capace di organizzare una festa così dispendiosa sino a suscitare l'invidia dell'altro figlio, rimasto in casa da sempre? Nell'ora del Getsemani Gesù ha invocato Dio chiamandolo «Abbà, Padre» (Marco 14,36), che però non corrisponde a "papà" (in greco "pappas"), né è detto soltanto dai bambini verso i genitori, ma equivale a "padre" ("patér") ed è espresso anche dall'adulto verso il proprio genitore. Di quest'inaudita paternità i credenti partecipano per mezzo dello Spirito che grida in loro (Galati 4,6) e di questi che gridano in Lui «Abbà, Padre» (Romani 8,15). Subentra così la relazione adottiva con la paternità di Dio che non è inferiore a quella di Gesù, ma condivide gli stessi doni della libertà, della figliolanza e dell'eredità divina. La figliolanza eterna di Gesù diventa filiazione divina per i credenti che nel tempo sono rigenerati dallo Spirito del Figlio.

  • La preghiera del Padre Nostro
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«Egli ha differenziato la sua filiazione da quella dei suoi discepoli non dicendo mai "Padre nostro" tranne che per comandar loro: "Voi dunque pregate così: Padre nostro" (Mt 6,9); e ha sottolineato tale distinzione: "Padre mio e Padre vostro" (Gv 20,17)» (Catechismo, 443).

Il Padre nostro è la preghiera cristiana più completa: parte dalla santificazione del nome di Dio e giunge alla richiesta di essere liberati dal male o dal maligno. Nella prima parte lo sguardo dell'orante è rivolto all'azione di Dio: Egli stesso santifichi il Suo nome, realizzi il Suo regno e compia la Sua volontà. Nella seconda parte l'attenzione si concentra sulle prime necessità del discepolo: il pane quotidiano, la remissione dei debiti e l'esclusione della tentazione. Nello sfondo del Padre nostro c'è il Qaddish o la preghiera della santificazione di Dio, utilizzata nelle assemblee sinagogali per le feste giudaiche più importanti: «Sia magnificato e santificato il suo grande nome, nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà; venga il suo regno durante la nostra vita e ai nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d'Israele, fra breve e nel tempo prossimo». Altrettanto importante è il retroterra di alcune delle Diciotto Benedizioni utilizzate nelle sinagoghe palestinesi e della diaspora in epoca imperiale. Così recita la quarta Benedizione: «Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo peccato, assolvici, o nostro Re, perché sei un Dio buono e che perdona». Alle preghiere giudaiche menzionate il Padre nostro apporta di proprio l'identità dei due interlocutori principali. Poiché è invocato come Padre, a Dio spetta il compito di soccorrere i figli in qualsiasi loro necessità. Per questo non è Lui a indurre in tentazione, bensì a non far entrare nella tentazione intentata da satana. E quando si attraversa la tentazione dell'incostanza nella fede – che è la più ardua – al Padre è chiesto di liberare i figli dal maligno. Dall'altra parte chi si rivolge al Padre non è semplicemente il credente, né il cristiano in generale, bensì il discepolo che consegna la propria esistenza nelle mani di Dio. La preghiera della fede è il Padre nostro, ma di una fede capace di trasformarsi in sequela, altrimenti rischia di essere rivolta al nulla ed è destinata a restare nulla (E. Hemingway).
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 16 al 22 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer gen 23, 2013 2:39 pm


  • L'Anno della fede. “Io credo in Dio”
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Cari fratelli e sorelle,
in quest’Anno della fede, vorrei iniziare oggi a riflettere con voi sul Credo, cioè sulla solenne professione di fede che accompagna la nostra vita di credenti. Il Credo comincia così: “Io credo in Dio”. E’ un’affermazione fondamentale, apparentemente semplice nella sua essenzialità, ma che apre all’infinito mondo del rapporto con il Signore e con il suo mistero. Credere in Dio implica adesione a Lui, accoglienza della sua Parola e obbedienza gioiosa alla sua rivelazione. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, «la fede è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela» (n. 166). Poter dire di credere in Dio è dunque insieme un dono – Dio si rivela, va incontro a noi – e un impegno, è grazia divina e responsabilità umana, in un’esperienza di dialogo con Dio che, per amore, «parla agli uomini come ad amici» (Dei Verbum, 2), parla a noi affinché, nella fede e con la fede, possiamo entrare in comunione con Lui.

Dove possiamo ascoltare Dio e la sua parola? Fondamentale è la Sacra Scrittura, in cui la Parola di Dio si fa udibile per noi e alimenta la nostra vita di “amici” di Dio. Tutta la Bibbia racconta il rivelarsi di Dio all’umanità; tutta la Bibbia parla di fede e ci insegna la fede narrando una storia in cui Dio porta avanti il suo progetto di redenzione e si fa vicino a noi uomini, attraverso tante luminose figure di persone che credono in Lui e a Lui si affidano, fino alla pienezza della rivelazione nel Signore Gesù.

Molto bello, a questo riguardo, è il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, che abbiamo appena sentito. Qui si parla della fede e si mettono in luce le grandi figure bibliche che l’hanno vissuta, diventando modello per tutti i credenti. Dice il testo nel primo versetto: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Gli occhi della fede sono dunque capaci di vedere l’invisibile e il cuore del credente può sperare oltre ogni speranza, proprio come Abramo, di cui Paolo dice nella Lettera ai Romani che «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (4,18).

Ed è proprio su Abramo, che vorrei soffermarmi e soffermare la nostra attenzione, perché è lui la prima grande figura di riferimento per parlare di fede in Dio: Abramo il grande patriarca, modello esemplare, padre di tutti i credenti (cfr Rm 4,11-12). La Lettera agli Ebrei lo presenta così: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (11,8-10).

L’autore della Lettera agli Ebrei fa qui riferimento alla chiamata di Abramo, narrata nel Libro della Genesi, il primo libro della Bibbia. Che cosa chiede Dio a questo patriarca? Gli chiede di partire abbandonando la propria terra per andare verso il paese che gli mostrerà, «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Come avremmo risposto noi a un invito simile? Si tratta, infatti, di una partenza al buio, senza sapere dove Dio lo condurrà; è un cammino che chiede un’obbedienza e una fiducia radicali, a cui solo la fede consente di accedere. Ma il buio dell’ignoto – dove Abramo deve andare – è rischiarato dalla luce di una promessa; Dio aggiunge al comando una parola rassicurante che apre davanti ad Abramo un futuro di vita in pienezza: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome… e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2.3).

La benedizione, nella Sacra Scrittura, è collegata primariamente al dono della vita che viene da Dio e si manifesta innanzitutto nella fecondità, in una vita che si moltiplica, passando di generazione in generazione. E alla benedizione è collegata anche l’esperienza del possesso di una terra, di un luogo stabile in cui vivere e crescere in libertà e sicurezza, temendo Dio e costruendo una società di uomini fedeli all’Alleanza, «regno di sacerdoti e nazione santa» (cfr. Es 19,6).

Perciò Abramo, nel progetto divino, è destinato a diventare «padre di una moltitudine di popoli» (Gen 17,5; cfr Rm 4,17-18) e ad entrare in una nuova terra dove abitare. Eppure Sara, sua moglie, è sterile, non può avere figli; e il paese verso cui Dio lo conduce è lontano dalla sua terra d’origine, è già abitato da altre popolazioni, e non gli apparterrà mai veramente. Il narratore biblico lo sottolinea, pur con molta discrezione: quando Abramo giunge nel luogo della promessa di Dio: «nel paese si trovavano allora i Cananei» (Gen 12,6). La terra che Dio dona ad Abramo non gli appartiene, egli è uno straniero e tale resterà sempre, con tutto ciò che questo comporta: non avere mire di possesso, sentire sempre la propria povertà, vedere tutto come dono. Questa è anche la condizione spirituale di chi accetta di seguire il Signore, di chi decide di partire accogliendo la sua chiamata, sotto il segno della sua invisibile ma potente benedizione. E Abramo, “padre dei credenti”, accetta questa chiamata, nella fede. Scrive san Paolo nella Lettera ai Romani: «Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento»(Rm 4,18-21).

La fede conduce Abramo a percorrere un cammino paradossale. Egli sarà benedetto ma senza i segni visibili della benedizione: riceve la promessa di diventare grande popolo, ma con una vita segnata dalla sterilità della moglie Sara; viene condotto in una nuova patria ma vi dovrà vivere come straniero; e l’unico possesso della terra che gli sarà consentito sarà quello di un pezzo di terreno per seppellirvi Sara (cfr Gen 23,1-20). Abramo è benedetto perché, nella fede, sa discernere la benedizione divina andando al di là delle apparenze, confidando nella presenza di Dio anche quando le sue vie gli appaiono misteriose.

Che cosa significa questo per noi? Quando affermiamo: “Io credo in Dio”, diciamo come Abramo: “Mi fido di Te; mi affido a Te, Signore”, ma non come a Qualcuno a cui ricorrere solo nei momenti di difficoltà o a cui dedicare qualche momento della giornata o della settimana. Dire “Io credo in Dio” significa fondare su di Lui la mia vita, lasciare che la sua Parola la orienti ogni giorno, nelle scelte concrete, senza paura di perdere qualcosa di me stesso. Quando, nel Rito del Battesimo, per tre volte viene richiesto: “Credete?” in Dio, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo, la santa Chiesa Cattolica e le altre verità di fede, la triplice risposta è al singolare: “Credo”, perché è la mia esistenza personale che deve ricevere una svolta con il dono della fede, è la mia esistenza che deve cambiare, convertirsi. Ogni volta che partecipiamo ad un Battesimo dovremmo chiederci come viviamo quotidianamente il grande dono della fede.

Abramo, il credente, ci insegna la fede; e, da straniero sulla terra, ci indica la vera patria. La fede ci rende pellegrini sulla terra, inseriti nel mondo e nella storia, ma in cammino verso la patria celeste. Credere in Dio ci rende dunque portatori di valori che spesso non coincidono con la moda e l’opinione del momento, ci chiede di adottare criteri e assumere comportamenti che non appartengono al comune modo di pensare. Il cristiano non deve avere timore di andare “controcorrente” per vivere la propria fede, resistendo alla tentazione di “uniformarsi”. In tante nostre società Dio è diventato il “grande assente” e al suo posto vi sono molti idoli, diversissimi idoli e soprattutto il possesso e l’”io” autonomo. E anche i notevoli e positivi progressi della scienza e della tecnica hanno indotto nell’uomo un’illusione di onnipotenza e di autosufficienza, e un crescente egocentrismo ha creato non pochi squilibri all’interno dei rapporti interpersonali e dei comportamenti sociali.

Eppure, la sete di Dio (cfr. Sal 63,2) non si è estinta e il messaggio evangelico continua a risuonare attraverso le parole e le opere di tanti uomini e donne di fede. Abramo, il padre dei credenti, continua ad essere padre di molti figli che accettano di camminare sulle sue orme e si mettono in cammino, in obbedienza alla vocazione divina, confidando nella presenza benevola del Signore e accogliendo la sua benedizione per farsi benedizione per tutti. È il mondo benedetto della fede a cui tutti siamo chiamati, per camminare senza paura seguendo il Signore Gesù Cristo. Ed è un cammino talvolta difficile, che conosce anche la prova e la morte, ma che apre alla vita, in una trasformazione radicale della realtà che solo gli occhi della fede sono in grado di vedere e gustare in pienezza.

Affermare “Io credo in Dio” ci spinge, allora, a partire, ad uscire continuamente da noi stessi, proprio come Abramo, per portare nella realtà quotidiana in cui viviamo la certezza che ci viene dalla fede: la certezza, cioè, della presenza di Dio nella storia, anche oggi; una presenza che porta vita e salvezza, e ci apre ad un futuro con Lui per una pienezza di vita che non conoscerà mai tramonto.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 23 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 28, 2013 9:34 am


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«Infatti "nessuno può dire: 'Gesù è Signore' se non sotto l'azione dello Spirito Santo" (1Cor 12,3)» (Catechismo, 152).

Nel I secolo d.C. era diffuso il fenomeno del profetismo non soltanto in Palestina, ma in tutta l'area del Mediterraneo. I santuari dedicati alla divinazione o agli oracoli che prevedevano il futuro erano fra i più frequentati: da Delfi, a Samotracia e a Cuma. Tra lo spirito divino inteso come potenza vitale, proprio dell'Antico Testamento, e lo spirito divinatorio degli oracoli sibillini, il Nuovo Testamento attesta una diversa visione dello Spirito Santo. Egli permette di confessare Gesù come il Signore. Dunque non uno Spirito indefinito o mantico, né sciamano, bensì lo Spirito del Figlio o del Dio vivente. Lo Spirito è rappresentato come nube, colomba, fuoco, vento gagliardo, respiro, soffio leggero e dito di Dio. In quanto caparra, è dato in anticipo da Chi stipula un compromesso, è elargizione per sostenere un'opera pubblica e promessa a cui non si può venir meno. Svolge il ruolo del consolatore, dell'avvocato difensore e soccorre nella debolezza. Si trova all'origine della maternità di Maria, della missione di Gesù e della Chiesa nel mondo. Trasforma la Scrittura in Parola di Dio, il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo, la Chiesa in corpo mistico di Cristo e i credenti in testimoni intrepidi della Risurrezione. Dona ai credenti la libertà, la franchezza della testimonianza, il frutto dell'amore e i carismi per l'utilità personale e comune. Procede dal Padre, mediante il Figlio, secondo la tradizione ortodossa, o dal Padre e dal Figlio, secondo quella cattolica. Per secoli le due tradizioni sono entrate in conflitto sul paradigma migliore; da alcuni anni è stata sottoscritta l'integrazione dei due paradigmi in un fecondo dialogo ecumenico. Fiamma d'amor viva, dedicata allo Spirito, è una delle liriche di san Giovanni della Croce che più ha influenzato la poesia spagnola contemporanea: «O fiamma d'amor viva, / che soavemente ferisci / della mia anima nel più profondo centro! / Poiché non sei più schiva, / ormai finisci, se vuoi; / rompi la tela di questo dolce incontro!».

  • Quel pane spezzato per il mondo
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«La libera offerta che Gesù fa di se stesso ha la sua più alta espressione nella Cena consumata con i Dodici Apostoli (Cf Mt 26,20) nella "notte in cui veniva tradito"» (1Cor 11,23; Catechismo, 610).

La Passione di Gesù inizia con l'ultima cena durante la quale, identificandosi con il pane e il vino che diventano il suo corpo e il suo sangue, istituisce l'eucaristia. Sin dalle prime ore della Chiesa, le parole di Gesù durante la cena sono state trasmesse fra le comunità cristiane per caratterizzare le loro assemblee. Il criterio dell'attestazione molteplice convalida la storicità dell'istituzione, poiché oltre a essere riportata nei vangeli sinottici (Marco 14,22-25; Matteo 26,26-29; Luca 22,15-20) è menzionata in 1Corinzi 11,23-26, vale a dire nella fonte scritta più antica pervenuta. La lettera paolina risale alla metà degli anni 50 d.C. e, con la formula della tradizione, Paolo ricorda di aver trasmesso alle sue comunità ciò che a sua volta ha ricevuto nel periodo iniziale della sua adesione al movimento cristiano (36-40 d.C.). Tra le fonti più antiche sulle parole di Gesù durante la cena, merita di essere menzionata la Didaché 9,1-4: «Ti ringraziamo o Padre nostro per la santa vite di David tuo servo che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo Figlio. A te la gloria nei secoli. Per il pane spezzato: Ti ringraziamo, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo Figlio. A te la gloria nei secoli. Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra nel tuo regno poiché tua è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei secoli». Le parole di Gesù durante la cena danno senso alla sua morte in croce, nell'orizzonte del dono totale di sé. Egli consegna se stesso "per voi" e "per molti", senza escludere alcuno, al punto che "uno è morto per tutti e tutti sono morti" (2Corinzi 5,14). Nella frazione del pane, la Chiesa si raduna e si riconosce per essere, a sua volta, pane spezzato per il mondo. Annota bene sant'Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni: «I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo» (26,13).

  • Gesù, il servizio e la comunione
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«Accogliendo nel suo cuore umano l'amore del Padre per gli uomini, Gesù "li amò sino alla fine"» (Gv 13,1; Catechismo 609).

L'istituzione eucaristica, riportata nei vangeli sinottici, è sostituita dal gesto della lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni. Poiché l'evangelista redige il suo vangelo verso la fine del I secolo, non avverte più la necessità di riportare le parole di Gesù durante la cena. Così preferisce indugiare sulla lavanda dei piedi. E come per le parole dell'istituzione, la lavanda è compiuta tra gli annunci del tradimento di Giuda e di Pietro. Spesso ci si è chiesto perché, nonostante la richiesta di ripetere il suo stesso gesto, la lavanda non sia diventata sacramento. In realtà per la sua collocazione e il suo significato la lavanda non è gesto preparatorio della cena, bensì è l'eucaristia in azione. La lavanda come l'eucaristia è caratterizzata dal servizio e dalla comunione, o meglio dal servizio in vista della comunione. Non soltanto gesto di servizio o di umiliazione, bensì di un servizio finalizzato alla comunione. Le due peculiarità dell'amore cristiano sono veicolate dalla lavanda: servire per fare comunione. Senza la tensione verso la comunione, il servizio si trasforma in autoesaltazione. E senza il servizio, la comunione non è capace di perseverare. Sino alla fine Gesù ha amato i suoi, ossia sino alla pienezza e al termine della sua passione. Giovanni ha già dedicato il capitolo sesto del suo vangelo al discorso eucaristico e, affinché l'eucaristia non fosse intesa come sacramento individualistico, ha approfondito il gesto della lavanda dei piedi. Così l'eucaristia non è vista come sacramento misterico, bensì come dono di comunione che passa per il servizio degli altri: «Se dovessi scegliere una reliquia della Tua passione prenderei proprio quel catino di acqua sporca. Girerei il mondo con quel recipiente e ad ogni piede cingermi dell'asciugatoio e curvarmi giù in basso non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere i nemici dagli amici e lavare i piedi del vagabondo, dell'ateo, del drogato, del carcerato, dell'omicida, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non prego mai, in silenzio. Finché tutti abbiano capito nel mio, il Tuo amore» (M. Delbrêl).

  • Non solo Messia ma Figlio di Dio
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«Gesù stesso perdonando sulla croce (Cf Lc 23,34) e Pietro sul suo esempio, hanno riconosciuto l'"ignoranza" (At 3,17) degli Ebrei di Gerusalemme ed anche dei loro capi» (Catechismo, 597).

Il processo religioso nei confronti di Gesù, consumato nel Sinedrio di Gerusalemme, s'incentra sulla sua identità. Il sommo sacerdote gli chiede se realmente sia il Figlio del Benedetto (Marco 14,61). La risposta affermativa di Gesù scatena la reazione dei presenti che lo accusano di bestemmia. Come può dirsi Figlio di Dio un uomo che spesso ha trasgredito la Legge divina e il sabato? Alcuni storici del cristianesimo delle origini sostengono che Gesù non si sia mai dichiarato «Figlio di Dio», né «Figlio dell'Uomo». L'ultimo titolo richiama la visione apocalittica di Daniele 7 che sembra alludere a un uomo di origine divina. Ma il criterio di storicità fondato sulla ragione sufficiente o di plausibilità dimostra che senza tale "pretesa" è insostenibile il processo contro Gesù. Nel I secolo d.C. c'erano molti predicatori con pretese messianiche, ma non furono crocifissi, a dimostrazione che non è plausibile sostenere che Gesù abbia rivendicato soltanto la sua messianicità per essere condannato alla crocifissione. Contro l'ipotesi di quanti attribuiscono i titoli «Figlio di Dio» e «Figlio dell'uomo» soltanto alla Chiesa primitiva o alla redazione degli evangelisti, sarebbe utile soffermarsi su come studiosi di origine ebraica interpretano i vangeli. Nonostante alcune forzature, nel suo recente saggio "Il Vangelo ebraico" Daniel Boyarin torna sulla questione. L'autorevole studioso del Talmud riconosce che se Gesù non avesse sostenuto di essere Figlio di Dio «ci troveremmo in difficoltà nell'interpretare la reazione estremamente ostile nei confronti di Gesù da parte dei leader ebraici contro quanto da lui affermato». Un conto è abbandonare definitivamente l'infamante accusa di deicidio verso gli ebrei – ed è quanto mai giusto – un altro è misconoscere che Gesù si sia presentato come «Figlio di Dio» e che tale identità non abbia causato reazioni positive in chi gli ha creduto e negative in chi lo ha processato.

  • Il dramma di Ponzio Pilato
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«Sono anche minacce politiche quelle che i sommi sacerdoti esercitano su Pilato perché egli condanni a morte Gesù» (Catechismo, 596).

Prefetto della Giudea tra il 26 e il 36 d.C. sotto l'imperatore Tiberio, Ponzio Pilato svolge un ruolo determinante durante il processo politico e la condanna a morte di Gesù. Per attestazione molteplice, il governatore è rapportato a Gesù nei Vangeli, negli Atti degli apostoli 3,13-14; 27,13-28; in 1Timoteo 6,13, da Flavio Giuseppe nel Testimonium Flavianum delle Antichità Giudaiche 18,63-64 e da Tacito negli Annali 15,44. Anche se con alcune glosse, così scrive il Testimonium: «Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei Greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato». Ogni evangelista ritrae un aspetto diverso della sua personalità e circa la sua responsabilità per la crocifissione di Gesù: un diplomatico, un debole o, al contrario, uno che ha cercato di scagionarlo, ma alla fine è stato costretto a cedere di fronte alle pressioni delle autorità religiose. L'evangelista che più approfondisce il rapporto tra Gesù e Pilato è Giovanni. Due sono le domande capitali poste da Pilato durante il processo: «Che cos'è la verità» (Giovanni 18,38) e «Da dove vieni?» (Giovanni 19,9). Ai due interrogativi Gesù non risponde, poiché Pilato avrebbe dovuto chiedergli non "che cos'è", bensì "chi è la verità": la verità gli è davanti in carne e ossa! E contro tutte le evidenze Gesù non viene soltanto da Nazareth, bensì dall'Alto: il suo regno non è di questo mondo. In Il maestro e Margherita, Bulgakov rappresenta in modo geniale il dramma di Pilato; lo ritrae in preda a un'insonnia bimillenaria: «Vuole andare lungo quel sentiero e chiacchierare con l'arrestato Ha-Nozri poiché, racconta, non gli disse tutto allora, tanto tempo fa, il quattordici del mese primaverile di Nisan».

  • Gesù è risorto e vive per sempre
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«Fin dalle origini, la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti» (Cf Rm 10,9; 1Cor 15,3-5; Catechismo 186).

Una delle formule di fede più antiche della Chiesa è riportata in 1Corinzi che, in ordine cronologico, è il secondo scritto del Nuovo Testamento (dopo 1Tessalonicesi): «Vi ho trasmesso infatti anzitutto ciò che ho ricevuto: Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto al terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e ai Dodici» (1Corinzi 15,3-5). La lettera è inviata da Paolo intorno alla prima metà degli anni 50 d.C., ma nell'introduzione del frammento ricorda che ha già trasmesso quanto, a sua volta, ha ricevuto. Risaliamo così alla sua prima evangelizzazione dei Corinzi tra il 50 e il 52 e, a ritroso, verso il periodo della prima fase dell'adesione di Paolo al movimento cristiano (tra il 36 d.C. e la fine degli anni 40). Quello che è definito il kérygma più antico della fede cristiana è scandito dagli eventi finali della vita di Gesù. Fra questi l'accento è posto su «morì per i nostri peccati» e su «è risorto», poiché per entrambi gli eventi è richiamato il rapporto con le Scritture, ossia con quelle che nel I secolo corrispondono all'Antico Testamento. Così le Scritture d'Israele sono chiamate in causa per confermare gli eventi finali della vita terrena di Gesù. Il brano che più di tutti illumina il kérygma più antico è dedicato al Servo Sofferente di cui parla Isaia 53,8-11 nel Quarto Carme: «Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi… Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce». La morte di Gesù non è vista come evento fatale, bensì come via per la quale gli uomini sono liberati dal peccato. E la risurrezione continua a sostenere la fede dei discepoli perché Gesù non soltanto risuscitò, ma è risorto e vive per sempre. Senza la morte e la risurrezione di Gesù il cristianesimo si riduce a gnosi o a ideologia. Questo era e resta lo zoccolo irriducibile della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 23 al 29 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 31, 2013 6:10 pm


  • L'Anno della fede. Io credo in Dio: il Padre onnipotente
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Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di mercoledì scorso ci siamo soffermati sulle parole iniziali del Credo: "Io credo in Dio". Ma la professione di fede specifica questa affermazione: Dio è il Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Vorrei dunque riflettere ora con voi sulla prima, fondamentale definizione di Dio che il Credo ci presenta: Egli è Padre. Non è sempre facile oggi parlare di paternità. Soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, le preoccupazioni e spesso la fatica di far quadrare i bilanci familiari, l'invasione distraente dei mass media all'interno del vivere quotidiano sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia.

Ma la rivelazione biblica aiuta a superare queste difficoltà parlandoci di un Dio che ci mostra che cosa significhi veramente essere "padre"; ed è soprattutto il Vangelo che ci rivela questo volto di Dio come Padre che ama fino al dono del proprio Figlio per la salvezza dell'umanità. Il riferimento alla figura paterna aiuta dunque a comprendere qualcosa dell'amore di Dio che però rimane infinitamente più grande, più fedele, più totale di quello di qualsiasi uomo. «Chi di voi, – dice Gesù per mostrare ai discepoli il volto del Padre – al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono» (Mt 7,9-11; cfr Lc 11,11-13). Dio ci è Padre perché ci ha benedetti e scelti prima della creazione del mondo (cfr Ef 1,3-6), ci ha resi realmente suoi figli in Gesù (cfr 1Gv 3,1). E, come Padre, Dio accompagna con amore la nostra esistenza, donandoci la sua Parola, il suo insegnamento, la sua grazia, il suo Spirito.

Egli - come rivela Gesù - è il Padre che nutre gli uccelli del cielo senza che essi debbano seminare e mietere, e riveste di colori meravigliosi i fiori dei campi, con vesti più belle di quelle del re Salomone (cfr Mt 6,26-32; Lc 12,24-28); e noi – aggiunge Gesù - valiamo ben più dei fiori e degli uccelli del cielo! E se Egli è così buono da far «sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e … piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), potremo sempre, senza paura e con totale fiducia, affidarci al suo perdono di Padre quando sbagliamo strada. Dio è un Padre buono che accoglie e abbraccia il figlio perduto e pentito (cfr Lc 15,11ss), dona gratuitamente a coloro che chiedono (cfr Mt 18,19; Mc 11,24; Gv 16,23) e offre il pane del cielo e l'acqua viva che fa vivere in eterno (cfr Gv 6,32.51.58). Perciò l'orante del Salmo 27, circondato dai nemici, assediato da malvagi e calunniatori, mentre cerca aiuto dal Signore e lo invoca, può dare la sua testimonianza piena di fede affermando: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (v. 10). Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli, un Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità. «Perché il suo amore è per sempre», come continua a ripetere in modo litanico, ad ogni versetto, il Salmo 136 ripercorrendo la storia della salvezza. L'amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è amore che dona fino all'estremo, fino a sacrificio del Figlio. La fede ci dona questa certezza, che diventa una roccia sicura nella costruzione della nostra vita: noi possiamo affrontare tutti i momenti di difficoltà e di pericolo, l'esperienza del buio della crisi e del tempo del dolore, sorretti dalla fiducia che Dio non ci lascia soli ed è sempre vicino, per salvarci e portarci alla vita eterna.

È nel Signore Gesù che si mostra in pienezza il volto benevolo del Padre che è nei cieli. È conoscendo Lui che possiamo conoscere anche il Padre (cfr Gv 8,19; 14,7), è vedendo Lui che possiamo vedere il Padre, perché Egli è nel Padre e il Padre è in Lui (cfr Gv 14,9.11). Egli è «immagine del Dio invisibile» come lo definisce l'inno della Lettera ai Colossesi, «primogenito di tutta la creazione… primogenito di quelli che risorgono dai morti», «per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati» e la riconciliazione di tutte le cose, «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cfr Col 1,13-20). La fede in Dio Padre chiede di credere nel Figlio, sotto l'azione dello Spirito, riconoscendo nella Croce che salva lo svelarsi definitivo dell'amore divino. Dio ci è Padre dandoci il suo Figlio; Dio ci è Padre perdonando il nostro peccato e portandoci alla gioia della vita risorta; Dio ci è Padre donandoci lo Spirito che ci rende figli e ci permette di chiamarlo, in verità, «Abbà, Padre» (cfr Rm 8,15). Perciò Gesù, insegnandoci a pregare, ci invita a dire "Padre nostro" (Mt 6,9-13; cfr Lc 11,2-4).

La paternità di Dio, allora, è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14). É proprio la nostra piccolezza, la nostra debole natura umana, la nostra fragilità che diventa appello alla misericordia del Signore perché manifesti la sua grandezza e tenerezza di Padre aiutandoci, perdonandoci e salvandoci. E Dio risponde al nostro appello, inviando il suo Figlio, che muore e risorge per noi; entra nella nostra fragilità e opera ciò che da solo l'uomo non avrebbe mai potuto operare: prende su di Sé il peccato del mondo, come agnello innocente, e ci riapre la strada verso la comunione con Dio, ci rende veri figli di Dio. È lì, nel Mistero pasquale, che si rivela in tutta la sua luminosità il volto definitivo del Padre. Ed è lì, sulla Croce gloriosa, che avviene la manifestazione piena della grandezza di Dio come "Padre onnipotente".

Ma potremmo chiederci: come è possibile pensare a un Dio onnipotente guardando alla Croce di Cristo? A questo potere del male, che arriva fino al punto di uccidere il Figlio di Dio? Noi vorremmo certamente un'onnipotenza divina secondo i nostri schemi mentali e i nostri desideri: un Dio "onnipotente" che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, cambi il corso degli eventi e annulli il dolore. Così, oggi diversi teologi dicono che Dio non può essere onnipotente altrimenti non potrebbe esserci così tanta sofferenza, tanto male nel mondo. In realtà, davanti al male e alla sofferenza, per molti, per noi, diventa problematico, difficile, credere in un Dio Padre e crederlo onnipotente; alcuni cercano rifugio in idoli, cedendo alla tentazione di trovare risposta in una presunta onnipotenza "magica" e nelle sue illusorie promesse.

Ma la fede in Dio onnipotente ci spinge a percorrere sentieri ben differenti: imparare a conoscere che il pensiero di Dio è diverso dal nostro, che le vie di Dio sono diverse dalle nostre (cfr Is 55,8) e anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere della nostra libertà. Così Egli ama e rispetta la risposta libera di amore alla sua chiamata. Come Padre, Dio desidera che noi diventiamo suoi figli e viviamo come tali nel suo Figlio, in comunione, in piena familiarità con Lui. La sua onnipotenza non si esprime nella violenza, non si esprime nella distruzione di ogni potere avverso come noi desideriamo, ma si esprime nell'amore, nella misericordia, nel perdono, nell'accettare la nostra libertà e nell'instancabile appello alla conversione del cuore, in un atteggiamento solo apparentemente debole – Dio sembra debole, se pensiamo a Gesù Cristo che prega, che si fa uccidere. Un atteggiamento apparentemente debole, fatto di pazienza, di mitezza e di amore, dimostra che questo è il vero modo di essere potente! Questa è la potenza di Dio! E questa potenza vincerà! Il saggio del Libro della Sapienza così si rivolge a Dio: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. Tu infatti ami tutte le cose che esistono… Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita» (11,23-24a.26).

Solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell'amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli. Dio aspetta la nostra conversione. L'amore onnipotente di Dio non conosce limiti, tanto che «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). L'onnipotenza dell'amore non è quella del potere del mondo, ma è quella del dono totale, e Gesù, il Figlio di Dio, rivela al mondo la vera onnipotenza del Padre dando la vita per noi peccatori. Ecco la vera, autentica e perfetta potenza divina: rispondere al male non con il male ma con il bene, agli insulti con il perdono, all'odio omicida con l'amore che fa vivere. Allora il male è davvero vinto, perché lavato dall'amore di Dio; allora la morte è definitivamente sconfitta perché trasformata in dono della vita. Dio Padre risuscita il Figlio: la morte, la grande nemica (cfr 1 Cor 15,26), è inghiottita e privata del suo veleno (cfr 1 Cor 15,54-55), e noi, liberati dal peccato, possiamo accedere alla nostra realtà di figli di Dio.

Quindi, quando diciamo "Io credo in Dio Padre onnipotente", noi esprimiamo la nostra fede nella potenza dell'amore di Dio che nel suo Figlio morto e risorto sconfigge l'odio, il male, il peccato e ci apre alla vita eterna, quella dei figli che desiderano essere per sempre nella "Casa del Padre". Dire «Io credo in Dio Padre onnipotente», nella sua potenza, nel suo modo di essere Padre, è sempre un atto di fede, di conversione, di trasformazione del nostro pensiero, di tutto il nostro affetto, di tutto il nostro modo di vivere. Cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di sostenere la nostra fede, di aiutarci a trovare veramente la fede e di darci la forza di annunciare Cristo crocifisso e risorto e di testimoniarlo nell'amore a Dio e al prossimo. E Dio ci conceda di accogliere il dono della nostra filiazione, per vivere in pienezza le realtà del Credo, nell'abbandono fiducioso all'amore del Padre e alla sua misericordiosa onnipotenza che è la vera onnipotenza e salva.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 30 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 04, 2013 10:32 am


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«Mediante la sua obbedienza di amore al Padre "fino alla morte di croce" (Fil 2,8), Gesù compie la missione espiatrice (Cf Is 53,10) del Servo sofferente che giustifica molti addossandosi la loro iniquità» (Cf Is 53,11; Rm 5,19; Catechismo 623).

Oltre a quello di 1Cor 15,3-5, un ulteriore frammento antico della fede cristiana è riportato in Fil 2,6-11: il cosiddetto inno cristologico dedicato all'umiltà e all'obbedienza di Cristo. L'elogio di Cristo si compone di due parti: il percorso umiliante di Cristo Gesù fino alla morte e l'esaltazione compiuta dal Padre che gli conferisce il Suo stesso nome, Signore. Da tempo la ricerca storico-esegetica è giunta a un dato senza ritorno sul canto per Cristo: non è stato composto da Paolo ma, come il frammento di 1Cor 15,3-5, appartiene alle comunità cristiane sorte nei primi decenni dalla morte di Gesù. L'andamento naturale dell'inno è interrotto dalla specificazione «morte però di croce», che rettifica l'accenno alla morte di Gesù. L'aggiunta sembra di Paolo e della sua theologia crucis. Mentre nel Pro Rabirio 4,16 Cicerone aveva sostenuto con enfasi che la croce sia esclusa non soltanto dal corpo, ma anche dal pensiero, dagli occhi e dagli orecchi del cittadino romano, i primi cristiani scelgono la croce di Cristo come fonte e ragione della loro stessa esistenza. La crocifissione era la pena riservata per gli schiavi e Cristo ha scelto volontariamente di assumere la forma o la condizione dello schiavo fino alla morte di croce. Per secoli i cristiani continuano a «cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo (carmenque Christo) come a un dio», secondo quanto scrive Plinio il Giovane a Traiano nella prima decade del II secolo d.C., a proposito delle associazioni cultuali in Bitinia. Il canto più paradossale e distintivo dell'essere cristiano è il carmen Christo di Filippesi 2,6-11: passa per la voce granitica dei martiri e giunge a quella entusiasmante delle giornate mondiali della Gioventù. Stat crux dum volvitur orbis: la croce di Cristo è il centro gravitazionale intorno al quale tutto il mondo gira.

  • Una morte reale: fu sepolto
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«La permanenza di Cristo nella tomba costituisce il legame reale tra lo stato di passibilità di Cristo prima della Pasqua e il suo stato attuale glorioso di risorto» (Catechismo 625).

Indugiamo sul secondo momento della più antica formula di fede, riportata in 1Cor 15,3-5: «Fu sepolto» (v. 4). L'annotazione è lapidaria perché intende esprimere la condizione reale e non apparente della morte di Gesù. I dati sulla sepoltura di Gesù sono riportati in tutti i vangeli, con un'attestazione molteplice propria dei criteri di storicità. Giuseppe di Arimatea compra un lenzuolo, depone Gesù dalla croce, lo avvolge e lo depone in un sepolcro scavato nella roccia. Quindi fa rotolare una pietra all'entrata del sepolcro per evitare qualsiasi manomissione del corpo (Marco 15,46; cf. anche Matteo 28,1-8; Luca 24,1-10; Giovanni 20,1-10). La testimonianza sulla sepoltura di Gesù è riportata anche nel primo discorso di Pietro, dopo la Pentecoste. Gesù «non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione. Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi ne siamo testimoni» (Atti 2,31). Se bisogna riconoscere che il sepolcro vuoto non dimostra, in modo diretto, la storicità della risurrezione, soltanto chi è veramente risorto può diventare oggetto della testimonianza più antica della fede. In altri termini, Pietro e i primi testimoni avrebbero potuto parlare della risurrezione di Gesù se il suo corpo fosse stato trafugato o nascosto altrove? E quanti ascoltavano le prime confessioni cristiane come avrebbero potuto credere a una testimonianza che prima o poi sarebbe risultata falsa? Le prime reazioni degli ascoltatori furono non «dove lo avete nascosto?» oppure «andiamo a cercarlo?», bensì «che cosa dobbiamo fare?» (Atti 2,37) di fronte a una testimonianza così cristallina come quella di Pietro. Sono gli interrogativi inquietanti che le più antiche testimonianze di fede consegnano agli storici. Tra la morte e risurrezione di Gesù c'è il sepolcro che dice nel contempo il realismo dell'una e dell'altra. Tuttavia, non si ricorra al trafugamento del corpo di Gesù dal sepolcro: è una impostura che aveva già previsto Matteo 28,15 e che si è diffusa fino a oggi!

  • È veramente risorto. E apparso
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«La fede nella Risurrezione ha per oggetto un avvenimento storicamente attestato dai discepoli che hanno realmente incontrato il Risorto, ed insieme misteriosamente trascendente in quanto entrata dell'umanità di Cristo nella gloria di Dio" (Catechismo, 656).

La confessione della fede di 1Corinzi 15,3-5 su cui ci stiamo attardando è un scrigno prezioso affidato alla Chiesa. Siamo al terzo momento in cui dall'alba del cristianesimo la risurrezione è testimoniata dai discepoli. Probabilmente Paolo sceglie quest'antica confessione di fede perché pone l'accento proprio sulla risurrezione di Gesù che sviluppa in tutto il capitolo, dedicato alla partecipazione della sua risurrezione. Di fatto mentre gli altri verbi che descrivono gli eventi finali della vita di Gesù sono al passato, quello per la risurrezione è al passato con ripercussioni e conseguenze per il presente dei credenti. Possiamo rendere il verbo egégerthe con "è risorto" e continua a vivere nella nuova condizione che Dio gli ha donato. Altrettanto pregnante è l'uso del passivo: non è Gesù il soggetto della sua risurrezione, bensì Dio che lo ha strappato dal potere dalla morte. Conseguenze principali della risurrezione di Gesù sono le prime apparizioni su cui ci soffermeremo. Qui ci preme sottolineare che non sono le apparizioni a causare la fede nella sua risurrezione, bensì il contrario: la sua risurrezione permette a Gesù di rendersi vivo e vero fra i suoi discepoli. Pertanto la fede nella risurrezione produce quella nelle apparizioni, altrimenti si rischia di considerare la risurrezione come l'apparizione di un fantasma, creato dalla suggestione degli amici. Anticipiamo un momento la riflessione sull'apparizione del Risorto a Cefa o Simon Pietro. Dopo l'incontro con il Risorto, i due discepoli di Emmaus tornano a Gerusalemme dove incontrano gli Undici e gli altri credenti. Finalmente i dubbi e le riluttanze naturali della fede si dileguano per lasciare il posto alla certezza: «Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Luca 24,34). Se Gesù non è risorto ha ben donde Paolo nel dichiarare che è inutile la nostra fede e saremmo da commiserare più di tutti gli uomini (cf. 1Corinzi 15,17-19).

  • Le donne, le prime a cui apparve
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«Dapprima è il caso delle pie donne (cf Lc 24,3; Lc 24,22-23) poi di Pietro (cf Lc 24,12)» (Catechismo 640).

Il più antico credo di 1Cor 15,3-5 menziona le apparizioni del risorto a Cefa e ai Dodici. Quindi si prosegue con la menzione di cinquecento fratelli, di Giacomo, di tutti gli apostoli e, infine, di Paolo. Spontanea è la domanda che abbiamo posto nel titolo quest'oggi: e le donne? Sperando che qualcuno non ricorra all'argomento tratto dal silenzio, che è debole, per sostenere che Gesù non apparve alle donne dopo la risurrezione, nell'elenco delle apparizioni non sono citate le donne per una ragione ben più profonda. Purtroppo in ambiente giudaico le donne e i bambini non potevano rendere testimonianza degna di credibilità. Per questo gli apostoli non danno alcun credito alla testimonianza delle donne, liquidata senza molti complimenti come una forma di vaneggiamento (cf. Luca 24,23). Acquisito il dato fondamentale sul silenzio delle donne in 1Corinzi 15, emerge un interrogativo ancora più inquietante: perché le donne sono le prime testimoni della risurrezione di Gesù? Per di più fra loro ci sono donne che in passato non avevano goduto di buona reputazione, come Maria Maddalena. Se le apparizioni del Risorto fossero state inventate, certamente non sarebbero state affidate alle donne. Per quanto riguarda la menzione di Cefa, riportata in 1Corinzi 15,3-5, in quanto primo destinatario della risurrezione si riannoda alla sua responsabilità per la fede degli altri discepoli. Durante la cena di addio, Gesù gli anticipa che satana sta cercando i discepoli per vagliarli come il grano, ma prega per Simone affinché la sua fede non venga mai meno; e una volta convertito egli confermi i fratelli (Luca 22,31-32). Dopo tutti i partiti che creano disordini e contese a Corinto tra chi si appella a Cefa, chi a Paolo e chi ad Apollo (cf. 1Corinzi 1,12), con grande favore Paolo avrebbe escluso Cefa dal primo posto delle apparizioni. Se fossero state inventate, le prime apparizioni del Risorto alle donne e a Cefa sarebbero state raccontate in modo migliore!

  • Emmaus, l'incontro con il Risorto
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«Lungi dal presentarci una comunità presa da una esaltazione mistica, i Vangeli ci presentano i discepoli smarriti (avevano il "volto triste": Lc 24,17) e spaventati (Cf Gv 20,19) perché non hanno creduto alle pie donne…» (Catechismo, 643).

L'apparizione del Risorto ai due discepoli di Emmaus è un'opera d'arte narrativa capace d'interpellare chiunque si soffermi sul racconto di Luca 24,13-35. Come Gesù continua a essere presente fra i discepoli? E quali sono i segni più tangibili della sua presenza nella Chiesa? Sono i due principali interrogativi che attraversano il racconto lucano. Non a caso nell'intera narrazione è menzionato per nome soltanto Clèopa, mentre l'altro discepolo resta anonimo. Così l'evangelista coinvolge il lettore e gli chiede di diventare lector in fabula. Il lettore trova il suo posto non all'inizio, né dopo, bensì dentro il racconto. L'intreccio narrativo o fabula lo interroga sino a coinvolgerlo. Se resta fuori, il lettore non riuscirà a comprendere ciò che si verifica nel viaggio da Gerusalemme a Emmaus. Soltanto se si lascia coinvolgere in fabula, il lettore scopre che Gesù è veramente risorto, gli si pone accanto per illuminare di sensi nuovi la sua vita e la storia della salvezza, spezza con lui il pane quando giunge la sera e infiamma il suo cuore deluso per una sequela fallita. L'inizio disperato dei due discepoli è contrastato dalla conclusione quando decidono di tornare, senza indugio, a Gerusalemme per raccontare la loro esperienza del Risorto. L'episodio contiene una delle preghiere più semplici e vere dei credenti: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Ripeterla di fronte alla Cena di Emmaus di Caravaggio in una delle due versioni – quella della Pinacoteca di Brera a Milano o quella della National Gallery a Londra – è una delle esperienze estatiche più intense. Ognuno è lector in fabula nel viaggio verso Emmaus e il Risorto si ferma a conversare con noi per l'intera parabola della nostra giornata. Il ruolo del lector in fabula si esaurisce solo quando è capace, a sua volta, di narrare l'incontro con il Risorto.

  • Tommaso e la ricerca della fede
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«Nell'incontro con Gesù risorto, diventa espressione di adorazione: "Mio Signore e mio Dio!"» (Gv 20,28; Catechismo, 448).

Proverbiale è diventato attribuire a Tommaso apostolo il ruolo dell'incredulo: non si è fidato degli altri discepoli che hanno visto il Risorto mentre egli era assente. Per questo chiede un'apparizione personale che rischiari la sua incredulità. In realtà Tommaso non è il discepolo incredulo – anche perché tutti i discepoli si sono rivelati tali di fronte allo scandalo della croce di Cristo – bensì è il discepolo che cerca la via migliore per credere. Tommaso cerca la via quando, in occasione della risurrezione di Lazzaro, dice agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Giovanni 11,6). Purtroppo smarrisce la via durante la passione quando interroga Gesù: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» (Giovanni 14,5). Di fatto, non comprende che Gesù stesso è «la via, la verità, e la vita». Finalmente, durante la seconda apparizione agli apostoli, Tommaso trova la via o meglio è messo dal Risorto sulla via della fede che lo porta a confessare con stupore: «Mio Signore e mio Dio» (Giovanni 20,28). Tutto il vangelo di Giovanni è un intrecciarsi di vie trovate, perse e ritrovate. La via migliore è quella non di chi ha visto con gli occhi materiali per diventare testimone del Risorto, bensì quella di chi riceve il dono di credere con gli occhi del cuore o della mente.
Senza aver intrapreso studi esegetici, con la sua vivida e realistica raffigurazione dell'incontro tra il Risorto e l'apostolo, Caravaggio intuisce che Tommaso è l'uomo della ricerca per la via migliore della fede: quella che, attraversando la piaga del costato del Risorto, giunge alla crocifissione. La risurrezione non svuota, né cancella i segni della crocifissione di Gesù, ma li porta indelebili sino alla fine della storia. Con tutte le differenze tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, che è opportuno conservare, è bene ricordare che il Risorto non è una persona diversa, bensì è lo stesso Gesù in condizioni diverse.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 30 gennaio al 5 febbraio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 06, 2013 2:41 pm


  • L'Anno della fede. Io credo in Dio: il Creatore del cielo e della terra, il Creatore dell'essere umano
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Cari fratelli e sorelle,

il Credo, che inizia qualificando Dio come “Padre Onnipotente”, come abbiamo meditato la settimana scorsa, aggiunge poi che Egli è il “Creatore del cielo e della terra”, e riprende così l’affermazione con cui inizia la Bibbia. Nel primo versetto della Sacra Scrittura, infatti, si legge: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1): è Dio l’origine di tutte le cose e nella bellezza della creazione si dispiega la sua onnipotenza di Padre che ama.

Dio si manifesta come Padre nella creazione, in quanto origine della vita, e, nel creare, mostra la sua onnipotenza. Le immagini usate dalla Sacra Scrittura al riguardo sono molto suggestive (cfr Is 40,12; 45,18; 48,13; Sal 104,2.5; 135,7; Pr 8, 27-29; Gb 38–39). Egli, come un Padre buono e potente, si prende cura di ciò che ha creato con un amore e una fedeltà che non vengono mai meno, dicono ripetutamente i salmi (cfr Sal 57,11; 108,5; 36,6). Così, la creazione diventa luogo in cui conoscere e riconoscere l’onnipotenza del Signore e la sua bontà, e diventa appello alla fede di noi credenti perché proclamiamo Dio come Creatore. «Per fede, - scrive l’autore della Lettera agli Ebrei - noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile» (11,3). La fede implica dunque di saper riconoscere l’invisibile individuandone la traccia nel mondo visibile. Il credente può leggere il grande libro della natura e intenderne il linguaggio (cfr Sal 19,2-5); ma è necessaria la Parola di rivelazione, che suscita la fede, perché l’uomo possa giungere alla piena consapevolezza della realtà di Dio come Creatore e Padre. È nel libro della Sacra Scrittura che l’intelligenza umana può trovare, alla luce della fede, la chiave di interpretazione per comprendere il mondo. In particolare, occupa un posto speciale il primo capitolo della Genesi, con la solenne presentazione dell’opera creatrice divina che si dispiega lungo sette giorni: in sei giorni Dio porta a compimento la creazione e il settimo giorno, il sabato, cessa da ogni attività e si riposa. Giorno della libertà per tutti, giorno della comunione con Dio. E così, con questa immagine, il libro della Genesi ci indica che il primo pensiero di Dio era trovare un amore che risponda al suo amore. Il secondo pensiero è poi creare un mondo materiale dove collocare questo amore, queste creature che in libertà gli rispondono. Tale struttura, quindi, fa sì che il testo sia scandito da alcune ripetizioni significative. Per sei volte, ad esempio, viene ripetuta la frase: «Dio vide che era cosa buona» (vv. 4.10.12.18.21.25), per concludere, la settima volta, dopo la creazione dell’uomo: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (v. 31). Tutto ciò che Dio crea è bello e buono, intriso di sapienza e di amore; l’azione creatrice di Dio porta ordine, immette armonia, dona bellezza. Nel racconto della Genesi poi emerge che il Signore crea con la sua parola: per dieci volte si legge nel testo l’espressione «Dio disse» (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29). E' la parola, il Logos di Dio che è l'origine della realtà del mondo e dicendo: “Dio disse”, fu così, sottolinea la potenza efficace della Parola divina. Così canta il Salmista: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera…, perché egli parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto» (33,6.9). La vita sorge, il mondo esiste, perché tutto obbedisce alla Parola divina.

Ma la nostra domanda oggi è: nell’epoca della scienza e della tecnica, ha ancora senso parlare di creazione? Come dobbiamo comprendere le narrazioni della Genesi? La Bibbia non vuole essere un manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose. La verità fondamentale che i racconti della Genesi ci svelano è che il mondo non è un insieme di forze tra loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che continua a sorreggere l’universo. C’è un disegno sul mondo che nasce da questa Ragione, dallo Spirito creatore. Credere che alla base di tutto ci sia questo, illumina ogni aspetto dell’esistenza e dà il coraggio di affrontare con fiducia e con speranza l’avventura della vita. Quindi, la scrittura ci dice che l'origine dell'essere, del mondo, la nostra origine non è l'irrazionale e la necessità, ma la ragione e l'amore e la libertà. Da questo l'alternativa: o priorità dell'irrazionale, della necessità, o priorità della ragione, della libertà, dell'amore. Noi crediamo in questa ultima posizione.

Ma vorrei dire una parola anche su quello che è il vertice dell’intera creazione: l’uomo e la donna, l’essere umano, l’unico “capace di conoscere e di amare il suo Creatore” (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Il Salmista guardando i cieli si chiede: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (8,4-5). L’essere umano, creato con amore da Dio, è ben piccola cosa davanti all’immensità dell’universo; a volte, guardando affascinati le enormi distese del firmamento, anche noi abbiamo percepito la nostra limitatezza. L’essere umano è abitato da questo paradosso: la nostra piccolezza e la nostra caducità convivono con la grandezza di ciò che l’amore eterno di Dio ha voluto per lui.

I racconti della creazione nel Libro della Genesi ci introducono anche in questo misterioso ambito, aiutandoci a conoscere il progetto di Dio sull’uomo. Anzitutto affermano che Dio formò l’uomo con la polvere della terra (cfr Gen 2,7). Questo significa che non siamo Dio, non ci siamo fatti da soli, siamo terra; ma significa anche che veniamo dalla terra buona, per opera del Creatore buono. A questo si aggiunge un’altra realtà fondamentale: tutti gli esseri umani sono polvere, al di là delle distinzioni operate dalla cultura e dalla storia, al di là di ogni differenza sociale; siamo un’unica umanità plasmata con l’unica terra di Dio. Vi è poi un secondo elemento: l’essere umano ha origine perché Dio soffia l’alito di vita nel corpo modellato dalla terra (cfr Gen 2,7). L’essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27). Tutti allora portiamo in noi l’alito vitale di Dio e ogni vita umana – ci dice la Bibbia – sta sotto la particolare protezione di Dio. Questa è la ragione più profonda dell’inviolabilità della dignità umana contro ogni tentazione di valutare la persona secondo criteri utilitaristici e di potere. L’essere ad immagine e somiglianza di Dio indica poi che l’uomo non è chiuso in se stesso, ma ha un riferimento essenziale in Dio.

Nei primi capitoli del Libro della Genesi troviamo due immagini significative: il giardino con l’albero della conoscenza del bene e del male e il serpente (cfr 2,15-17; 3,1-5). Il giardino ci dice che la realtà in cui Dio ha posto l’essere umano non è una foresta selvaggia, ma luogo che protegge, nutre e sostiene; e l’uomo deve riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del Creatore, segno della sua volontà salvifica, dono da coltivare e custodire, da far crescere e sviluppare nel rispetto, nell’armonia, seguendone i ritmi e la logica, secondo il disegno di Dio (cfr Gen 2,8-15). Poi, il serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità, che affascinavano Israele e costituivano una costante tentazione di abbandonare la misteriosa alleanza con Dio. Alla luce di questo, la Sacra Scrittura presenta la tentazione che subiscono Adamo ed Eva come il nocciolo della tentazione e del peccato. Che cosa dice infatti il serpente? Non nega Dio, ma insinua una domanda subdola: «È vero che Dio ha detto “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). In questo modo il serpente suscita il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà e delle cose più belle e preziose della vita. La tentazione diventa quella di costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità; la dipendenza dall’amore creatore di Dio è vista come un peso di cui liberarsi. Questo è sempre il nocciolo della tentazione. Ma quando si falsa il rapporto con Dio, con una menzogna, mettendosi al suo posto, tutti gli altri rapporti vengono alterati. Allora l’altro diventa un rivale, una minaccia: Adamo, dopo aver ceduto alla tentazione, accusa immediatamente Eva (cfr Gen 3,12); i due si nascondono dalla vista di quel Dio con cui conversavano in amicizia (cfr 3,8-10); il mondo non è più il giardino in cui vivere con armonia, ma un luogo da sfruttare e nel quale si celano insidie (cfr 3,14-19); l’invidia e l’odio verso l’altro entrano nel cuore dell’uomo: esemplare è Caino che uccide il proprio fratello Abele (cfr 4,3-9). Andando contro il suo Creatore, in realtà l’uomo va contro se stesso, rinnega la sua origine e dunque la sua verità; e il male entra nel mondo, con la sua penosa catena di dolore e di morte. E così quanto Dio aveva creato era buono, anzi, molto buono, dopo questa libera decisione dell'uomo per la menzogna contro la verità, il male entra nel mondo.

Dei racconti della creazione, vorrei evidenziare un ultimo insegnamento: il peccato genera peccato e tutti i peccati della storia sono legati tra di loro. Questo aspetto ci spinge a parlare di quello che è chiamato il “peccato originale”. Qual è il significato di questa realtà, difficile da comprendere? Vorrei dare soltanto qualche elemento. Anzitutto dobbiamo considerare che nessun uomo è chiuso in se stesso, nessuno può vivere solo di sé e per sé; noi riceviamo la vita dall’altro e non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. L’essere umano è relazione: io sono me stesso solo nel tu e attraverso il tu, nella relazione dell’amore con il Tu di Dio e il tu degli altri. Ebbene, il peccato è turbare o distruggere la relazione con Dio, questa la sua essenza: distruggere la relazione con Dio, la relazione fondamentale, mettersi al posto di Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che con il primo peccato l’uomo “ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione creaturale e conseguentemente contro il proprio bene” (n. 398). Turbata la relazione fondamentale, sono compromessi o distrutti anche gli altri poli della relazione, il peccato rovina le relazioni, così rovina tutto, perché noi siamo relazione. Ora, se la struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra in un mondo segnato da questo turbamento delle relazioni, entra in un mondo turbato dal peccato, da cui viene segnato personalmente; il peccato iniziale intacca e ferisce la natura umana (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 404-406). E l’uomo da solo, uno solo non può uscire da questa situazione, non può redimersi da solo; solamente il Creatore stesso può ripristinare le giuste relazioni. Solo se Colui dal quale ci siamo allontanati viene a noi e ci tende la mano con amore, le giuste relazioni possono essere riannodate. Questo avviene in Gesù Cristo, che compie esattamente il percorso inverso di quello di Adamo, come descrive l’inno nel secondo capitolo della Lettera di San Paolo ai Filippesi (2,5-11): mentre Adamo non riconosce il suo essere creatura e vuole porsi al posto di Dio, Gesù, il Figlio di Dio, è in una relazione filiale perfetta con il Padre, si abbassa, diventa il servo, percorre la via dell’amore umiliandosi fino alla morte di croce, per rimettere in ordine le relazioni con Dio. La Croce di Cristo diventa così il nuovo albero della vita.

Cari fratelli e sorelle, vivere di fede vuol dire riconoscere la grandezza di Dio e accettare la nostra piccolezza, la nostra condizione di creature lasciando che il Signore la ricolmi del suo amore e così cresca la nostra vera grandezza. Il male, con il suo carico di dolore e di sofferenza, è un mistero che viene illuminato dalla luce della fede, che ci dà la certezza di poterne essere liberati: la certezza che è bene essere un uomo.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 6 febbraio
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 13, 2013 9:03 am


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«Gesù, "il Buon Pastore" (Gv 10,11) ha confermato questo incarico dopo la Risurrezione: "Pasci le mie pecorelle"» ( Gv 21,15-17; Catechismo 553).

L'antica professione di fede «apparve a Cefa» (cf. 1Corinzi 15,5) è approfondita nell'apparizione del Risorto raccontata in Giovanni 21, dove Pietro svolge il ruolo principale. Il capitolo 21 di Giovanni è stato definito, a buon diritto, gli Atti degli apostoli del Quarto Vangelo (H. Conzelmann) poiché, con una ricchezza simbolica incomparabile, racconta i primi passi degli apostoli dopo la risurrezione. Nella prima parte si svolge la pesca miracolosa che culmina con il pasto consumato insieme al Risorto; nella seconda subentra l'intenso dialogo sull'incarico affidato dal Risorto a Pietro di pascere le pecorelle del Signore. Come al solito, Pietro è ritratto con il suo entusiasmo iniziale nel rapporto con Gesù: è il primo a gettarsi in acqua e a raggiungere la riva per incontrare il Risorto. E ancora una volta Gesù non gli rimprovera l'entusiasmo incostante, bensì gli fa credito sulla sua disponibilità a servirlo nonostante il tradimento. Per tre volte lo ha rinnegato e per tre volte gli è richiesto il grado del suo amore per il Signore. La triplice domanda del Risorto non è se Pietro lo ama più degli altri, per cui da questo deriva il ministero di pascere la sua Chiesa. Piuttosto il triplice interrogativo riguarda il rapporto che Pietro ha con Gesù e con gli altri discepoli: se ama il Risorto più di quanto ami gli altri compagni con cui è tornato a pescare dopo la risurrezione, come se la vita con il Maestro fosse ormai acqua passata. Il primato nella Chiesa passa, inevitabilmente, per il primato dell'amore di e per Cristo, altrimenti diventa un primato inconsistente. Per questo dall'amore per Cristo perviene alla cura per le pecore affidate a Pietro. Ma affinché quello di Pietro diventi finalmente un amore fedele, ha bisogno di procedere con i fianchi cinti: come quelli di Gesù all'inizio della passione, per lavare i piedi dei discepoli; e di Pietro che si cinge i fianchi per raggiungere il Signore dopo la pesca miracolosa. Il martirio di Pietro sarà quello di chi sarà vestito da altri per essere condotto dove non vorrà per amore di Cristo.

  • Paolo, da apostata ad apostolo
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«In un modo del tutto eccezionale e unico egli si mostrerà a Paolo "come a un aborto" (1Cor 15,8) in un'ultima apparizione che costituirà apostolo Paolo stesso» (Cf 1Cor 9,1; Gal 1,16; Catechismo, 659).

Le apparizioni del Risorto a coloro che lo hanno conosciuto in vita potrebbero essere considerate di parte, anche se come abbiamo cercato di chiarire non lo sono affatto. Quanto però sconcerta è l'apparizione a Paolo, il fariseo, sulla strada di Damasco. Su quest'apparizione si sono scatenate le ipotesi più disparate: frutto di un frustrato, di uno schizofrenico, di un insoddisfatto della sua appartenenza al Giudaismo e di un visionario. Quando non si hanno motivazioni sostenibili, si è soliti screditare l'apparizione del Risorto a Paolo pur di creare un quadro storico verosimile. Non è certo questo il modo di ricostruire la storia del cristianesimo delle origini. Che a Paolo non si adattino le turbe segnalate lo dimostra l'estrema lucidità con cui descrive il passaggio dal Giudaismo farisaico alla Chiesa di Dio. Prima dell'incontro con il Risorto, era ben contento e zelante della sua religione: sopravanzava i suoi connazionali nell'osservanza della Legge. E proprio a motivo di tanto zelo aveva cominciato a perseguitare le Chiese della Giudea (cf. Galati 1,13-14.22; Filippesi 3,5-6). L'incontro, o meglio lo scontro sulla strada di Damasco gli sconvolge l'esistenza. Dalla cronologia della sua vita l'evento è ben databile: tra il 35 e il 37 d.C., vale a dire circa 15 anni prima della sua missione verso l'occidente (47-49 d.C.). Senza voler ricorrere agli Atti degli apostoli, che per ben tre volte riportano l'apparizione sulla via di Damasco (cf. Atti 9; 22; 26), l'episodio è raccontato da Paolo stesso come «rivelazione» e «vocazione» (cf. Gal 1,15-16). Se non fosse stato ghermito dal Risorto, Paolo non avrebbe mai creduto che un Messia crocifisso fosse risorto. E aveva ottime ragioni per perseguitare e cercare di distruggere la Chiesa di Dio. Come un apostata diventi un apostolo è l'interrogativo su cui chi è prevenuto non riesce a farsene una ragione sufficiente in base alle fonti pervenute.

  • Pietro e Paolo, un solo cristianesimo
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«Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere» (Catechismo, 166).

Uno dei motivi più ricorrenti del Catechismo è il binomio tra la dimensione personale e quella condivisa della fede: «Io credo» ha il bisogno naturale di coniugarsi con «noi crediamo». Proseguiamo con il contesto della prima confessione di fede nel Nuovo Testamento. Dopo aver richiamato gli eventi finali della vita di Gesù, così Paolo chiude la prima parte di 1Corinzi 15,11: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto». Il credo nella morte per i nostri peccati, nella risurrezione e nelle apparizioni di Cristo accomuna tutti i credenti in lui, a cui vanno aggiunti quanto meno la frequentazione della Scrittura, la condivisione del corpo eucaristico e il battesimo. Precisiamo subito che la condivisione della fede non dovrebbe occultare tutte le tensioni e le divisioni createsi nel movimento cristiano delle origini: ad esempio tra Paolo, Cefa, Giacomo e Apollo. E a Paolo non manca certo il coraggio per denunciarle. Ma che tali incidenti, come quello di Antiochia in Siria, causato dalla comunione di mensa fra cristiani provenienti dal Giudaismo e quelli di origine gentile (cf. Galati 2,11-14), siano da intendere come espressioni di cristianesimi diversi, a nostro modesto parere risponde semplicemente ad un anacronismo storico. Il cristianesimo di Pietro contro quello di Paolo riesuma a una ricostruzione storica infondata, di origine ottocentesca, che negli ambienti luterani è stata rivista da tempo. Ma capita spesso che in ambito storico si ripresentino vecchi cliché con il carisma della novità. Che il cristianesimo delle origini non sia monolitico, né centralizzato è un conto; che sin dagli inizi ci siano diversi cristianesimi è un altro! Proiettare sulle origini del cristianesimo la situazione contemporanea sembra più una forma di giustificazione che una lettura serena delle fonti.

  • In un puro ed eterno presente
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«L'Ascensione di Cristo segna l'entrata definitiva dell'umanità di Gesù nel dominio celeste di Dio da dove ritornerà, (Cf At 1,11) ma che nel frattempo lo cela agli occhi degli uomini» (Cf Col 3,3; Catechismo 665).

Secondo i vangeli, la parabola umana di Gesù culmina non con la morte, né con la risurrezione, bensì con la sua ascensione alla destra del Padre. Il motivo dell'ascensione è diffuso nella pietà e nella letteratura giudaica antica. Gli apocrifi raccontano dell'ascensione di Enoch, di Mosé, di Elia e di Isaia. L'evento è riservato a uomini degni di essere accolti nei cieli per la loro condotta esemplare. Su questo sfondo religioso, Luca racconta l'ascensione di Gesù a conclusione del suo vangelo e nell'introduzione degli Atti degli apostoli, ma con due prospettive diverse. In Luca 24,50-53 l'ascensione è narrata per chiudere la vita terrena di Gesù; in Atti 1,6-11 è ribadita per consegnare ai discepoli il programma della loro missione nel mondo. Così l'ascensione funge da ponte tra la vita di Gesù e quella della Chiesa. Tuttavia l'evento non esprime soltanto il riconoscimento per i meriti realizzati in vita da Gesù, ma sposta l'attenzione sulla sua nuova identità: il Signore. Contemplare Gesù come Kýrios, seduto alla destra del Padre, è il contenuto centrale dell'ascensione. Gesù è il Signore non quando i discepoli restano a guardare il cielo, bensì quando con la potenza dello Spirito diventano suoi coraggiosi testimoni sino agli estremi confini del mondo. Per questo, mentre qualsiasi separazione dalle persone che si amano produce tristezza e a volte disperazione, l'ascensione di Gesù trasmette ai suoi discepoli una grande gioia che nessuna tribolazione o sofferenza può adombrare. Contemplare l'ascensione o la Signoria di Gesù Cristo con la vita, sino all'effusione del sangue, è il programma che Luca trasmette ai cristiani del suo e del nostro tempo. Nel classico della spiritualità che è Il Signore, così Romano Guardini commenta l'ascensione: «Egli è entrato nella eternità, nella più schietta realtà, in un puro eterno presente».

  • Legge e primavera dello Spirito
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«Il giorno di Pentecoste (al termine delle sette settimane pasquali), la Pasqua di Cristo si compie nell'effusione dello Spirito Santo, che è manifestato, donato e comunicato come Persona divina» (Catechismo, 731).

Dopo la Pasqua il primo dono per i discepoli è lo Spirito Santo che li trasforma in testimoni del Risorto. Secondo la narrazione degli Atti degli apostoli 2,1-13 la prima Pentecoste si realizza a compimento dei cinquanta giorno dalla risurrezione di Gesù. Alla Pasqua giudaica che celebra il passaggio dalla schiavitù alla libertà si aggiunge quella cristiana del transito dalla morte alla vita. E alla Pentecoste giudaica che fa memoria del dono della Legge al Sinai si sovrappone il dono dello Spirito, la nuova legge. I simboli del vento impetuoso e delle fiamme di fuoco esprimono l'azione vivificante dello Spirito. Così gli apostoli di Gesù, trasformati dallo Spirito, formano la Chiesa. Non c'è prima la Chiesa e quindi il dono dello Spirito, bensì lo Spirito che crea e guida la Chiesa. Dall'azione dello Spirito la Chiesa nasce senza divisioni, ma unita dalla sola fede nel Signore Risorto. Nello stesso tempo, è una Chiesa in cui l'unità si apre all'accoglienza delle diversità delle lingue e delle etnie. La Pentecoste capovolge la condizione verificatasi in occasione della torre di Babele (cf. Genesi 11,1-9), quando la prometeica pretesa umana di raggiungere Dio crea l'effetto contrario della confusione delle lingue. Finalmente l'unica lingua dello Spirito, che è l'amore di Dio effuso nei cuori dei credenti, crea l'unità nella diversità dei linguaggi e dei popoli che formano la Chiesa. Protagonista indiscusso nelle prime ore della Chiesa è lo Spirito che traccia i percorsi imprevisti della sua missione. La Pentecoste non è evento isolato, ma si ripete ogniqualvolta si verificano situazioni di svolta nella vita della Chiesa e dei credenti. La Chiesa del nostro tempo ha vissuto, in prima persona, la primavera dello Spirito che è stato il Concilio Vaticano II. Dallo Spirito la Chiesa nasce unita e variegata: unita dalla sua presenza e variegata nella sua missione.

  • La franchezza della testimonianza
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«Solo dopo la Risurrezione, la sua regalità messianica potrà essere proclamata da Pietro davanti al popolo di Dio: "…Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!" (At 2,36)» (Catechismo, 440).

La Pentecoste trasforma i discepoli in audaci testimoni del Risorto sino all'effusione del sangue. Il primo discorso dopo la Pentecoste è di Pietro, ma si tratta di un uomo del tutto rinnovato e diverso da quello che ha seguito Gesù durante la vita pubblica. Non più l'apostolo coraggioso a parole e pauroso nei fatti, bensì il testimone, capace di confessare la propria fede davanti all'intera casa d'Israele. Il contenuto essenziale della sua fede riguarda quel Gesù che è stato crocifisso dagli uomini, ma che Dio costituisce Signore e Cristo con la risurrezione. Gesù è non soltanto il Messia, ma il Signore dei credenti, il kýrios che continua a vivere nella e mediante la loro esistenza. La testimonianza di Pietro si caratterizza per la parrhesìa o la franchezza con cui è detta la verità che non si può tacere. Non si tratta di una virtù conquistata da Pietro con l'ascesi, bensì del primo dono dello Spirito che lo pone in condizione di testimoniare la Signoria di Cristo: «Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è la libertà» (cf. 2Corinzi 3,17). La franchezza nasce dalla libertà interiore e relazionale perché lo Spirito conduce alla Verità tutta intera che è Gesù. E non lascia più spazi a tentennamenti, né a forme di paura, ma è rivolta sia agli amici, sia ai nemici. Tuttavia la franchezza ha bisogno della carità per non rivelarsi millanteria, né diventare autoreferenziale. Ai destinatari della sua prima lettera, Pietro raccomanda, da una parte, di rendere ragione della propria speranza di fronte a chiunque e, dall'altra, che questo avvenga con mitezza, rispetto e con una coscienza retta (cf. 1Pietro 3,15-16). La franchezza donata dallo Spirito si riconosce non dal clamore che produce, ma dalla disponibilità a rimetterci di persona, altrimenti è meglio tacere.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 6 al 12 febbraio 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 18, 2013 9:36 am


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«È così che "il sangue dei martiri è seme di cristiani"» (Tertulliano, Apologeticus, 50; Catechismo, 852).

Il primo martire della fede è Stefano, uno dei diaconi scelti dagli apostoli per assistere le vedove nella Chiesa. Il suo articolato discorso che precede la sua lapidazione (cf. Atti 7,2-53) è incentrato sui segni e i luoghi della Gloria di Dio. La storia della salvezza è un manifestarsi della Gloria o della presenza di Dio, che però non abita in luoghi costruiti da mani d'uomo, ma in mezzo al suo popolo. Il suo non è un discorso contro il tempio e i luoghi di culto, bensì contro qualsiasi forma di religiosità che tenda a costringere Dio in uno spazio. E, durante il martirio, a Stefano è concesso di contemplare la Gloria in Gesù Cristo, il Signore, seduto alla destra del Padre. Perché il sangue dei martiri è seme di cristiani? Perché hanno dato la vita per una giusta causa? O perché restano nella memoria delle generazioni future? Senza negare tali motivazioni – che peraltro valgono per tutti i martiri della fede e non soltanto per i cristiani – in occasione del martirio di Stefano l'evangelista Luca adduce la ragione ultima: la loro vita è imitazione originale e irripetibile della passione di Cristo. Per questo le parole finali di Stefano sono quelle di Gesù sulla croce: «Signore, non imputare loro questo peccato» (Atti 7,20; Luca 23,34). Purtroppo, quello dell'imitazione di Cristo è un percorso compromesso nella spiritualità cristiana, perché abbiamo confuso l'imitazione con la riproduzione di una copia con scarso valore rispetto all'originale e l'abbiamo relegata nell'ambito della morale o della volontà. In realtà è l'intimità o l'assimilazione a chi si ama che crea l'esigenza di riprodurre la sua vita nella propria. I martiri completano nella loro carne quel che manca alla passione di Cristo non rispetto al suo sacrificio che è perfetto, bensì a favore del suo corpo che è la Chiesa (Colossesi 1,24). Questa è la sola ragione per cui il sangue dei martiri è seme, come sostiene Tertulliano, e frumento macinato di Dio (Ignazio di Antiochia).

  • Convocati da Qualcun altro
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«Definendosi "Chiesa", la prima comunità di coloro che credevano in Cristo si riconosce erede di quell'assemblea. In essa, Dio "convoca" il suo Popolo da tutti i confini della terra» (Catechismo, 751).

Quando utilizziamo il termine «Chiesa», il linguaggio quotidiano ci porta a pensare a uno spazio e a un luogo ben definiti, caratterizzati da un significato cultuale. In realtà il termine proviene dal sostantivo ekklesía e dal verbo kaléin da cui derivano anche i termini «chiamare» ed «elezione». E con questa accezione è utilizzato nell'Antico Testamento e nella letteratura greca antica: la ekklesía, prima di essere un luogo religioso, è un'assemblea di persone che però non si raduna per convocazione popolare, ma per chiamata o elezione dall'alto. La Chiesa di Dio o del Signore che è il suo popolo eletto prosegue nella Chiesa nata dalla morte e risurrezione di Cristo e mediante il dono dello Spirito. Contro qualsiasi prospettiva sostitutiva, nel numero che abbiamo citato il Catechismo evidenzia molto bene che la Chiesa non prende il posto della Sinagoga, bensì eredita i doni e la chiamata dell'alleanza mai revocata. La profonda crisi della fede o della fiducia nella Chiesa emerge anzitutto dal letale fraintendimento per cui questa si chiama da se stessa, è convocata da quanti ne governano le sorti e si autoproduce senza alcun apporto esterno. Lo slogan: «Noi siamo Chiesa», rivendicato da più parti, esprime in modo tangibile questo fraintendimento, che alla fine è abuso di potere. Invece si è Chiesa se si è chiamati da Qualcun altro a radunarsi in assemblea. Da questo originario fraintendimento ne scaturisce un altro che produce conseguenze altrettanto nefaste: che la Chiesa di Dio sia concepibile senza le singole chiese locali o, per inverso, che risulti dalla loro semplice somma. Il Nuovo Testamento ignora queste separazioni, ma la Chiesa di Dio è la stessa che si raduna in casa del singolo credente. La Chiesa che si raduna in casa di credenti come Priscilla e Aquila, Giunia e Andronico e di ogni coppia cristiana è la stessa e l'unica Chiesa di Dio.

  • Bisogna diventare come bambini
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«"Diventare come i bambini" in rapporto a Dio è la condizione per entrare nel Regno (Cf Mt 18,3-4); per questo ci si deve abbassare, (Cf Mt 23,12) si deve diventare piccoli» (Catechismo 526).

Il Gesù dei vangeli è sorprendente per il suo modo essenziale e semplice di agire e di parlare. Mentre per definire la Chiesa noi siamo obbligati a costruire trattati di teologia, Gesù prende un bambino, lo colloca in mezzo ai suoi discepoli e chiede loro di diventare come i bambini per entrare nel regno dei cieli. Tuttavia, contro facili fraintendimenti è bene chiarire che Gesù non sceglie i bambini per la loro purezza o innocenza, ma per lo scarso peso sociale e politico che hanno nella società del suo tempo. Con la stessa chiarezza così Gesù definisce la Chiesa in occasione del discorso che le dedica: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo 18,20). Il nome di Gesù è Emmanuele, che significa «Dio con noi»; e la sua Chiesa è fatta di persone che si radunano, o meglio sono chiamate per elezione a raccogliersi nel suo nome. Quello di Matteo 18 è un discorso programmatico di perenne attualità, valido per la Chiesa di tutti i tempi e di qualsiasi spazio. La Chiesa è composta anzitutto di «piccoli» che nel Signore pongono la loro fiducia e sono destinati a diventare «fratelli e sorelle» fra loro. Due parabole sono affidate alla Chiesa affinché sia radunata nel nome del Signore: quella del buon pastore e quella del padrone misericordioso (impropriamente definita come «del servo spietato»). La prima parabola sottolinea che quando un piccolo, accolto nella Chiesa, si smarrisce bisogna cercarlo in tutti i modi per ricondurlo a casa. La seconda parabola evidenzia in quale modo la misericordia, con cui Dio condona il debito al primo servo, deve diventare condizione necessaria affinché si agisca in modo analogo tra fratelli. Il volto del Padre risplende in quello della Chiesa, quando è riservato sempre lo spazio per i piccoli e il perdono è elargito non sino a sette, bensì fino a settanta volte sette.

  • Il corpo e le membra di Cristo
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«Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l'unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del Corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo» (Catechismo, 789).

L'Antico Testamento trasmette immagini e simboli ricchi di significato sulla Chiesa: è la Sposa del Signore, la vigna del padrone, il gregge del pastore, il campo del contadino, la tenda della sua dimora e il tempio della sua santità. Tuttavia, la metafora che progressivamente s'impone sulla Chiesa nel Nuovo Testamento è quella del corpo e delle membra. Per la prima volta la metafora è introdotta da Paolo in 1Corinzi 12,14-26, ossia quando è costretto a fronteggiare situazioni di arrivismo tra accentratori ed emarginati nella Chiesa di Corinto. Prima di lui, già Platone nella Repubblica, Aristotele nella Politica e Dionigi di Alicarnasso nelle Antichità Romane avevano paragonato lo stato al corpo composto di membra diverse. Fra i romani si era diffuso l'apologo di Menenio Agrippa sul corpo e le membra, rivolto alla plebe che si era rifugiata sull'Aventino per non subire più gli abusi dei patrizi. Con grande originalità Paolo trasferisce la metafora del corpo alle relazioni tra la Chiesa e Cristo. Anzitutto, non parte dalla diversità per giungere all'unità, ma il contrario: è l'unione a Cristo per la fede che si trova all'origine del suo corpo che è la Chiesa. Quando punto di partenza è l'unicità della fede in Cristo, non si temono le diversità dei carismi, dei ministeri e delle attuazioni. Inoltre, particolare attenzione è riservata alle membra più deboli che esprimono il modo paradossale di agire di Dio, che sceglie i deboli nel mondo per confondere i forti. E il corpo eucaristico di Cristo forma e consolida il suo corpo mistico che è la Chiesa, giacché Ecclesia de Eucharistia (Giovanni Paolo II). In tali peculiarità, la Chiesa si differenzia da qualsiasi altra associazione religiosa, dalla repubblica e dallo stato. In questione non è semplicemente quale tipo di relazione sia migliore, bensì la natura diversa della Chiesa rispetto allo stato.

  • La Chiesa, Sposa di Cristo
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«L'unità di Cristo e della Chiesa, Capo e membra del Corpo, implica anche la distinzione dei due in una relazione personale. Questo aspetto spesso viene espresso con l'immagine dello Sposo e della Sposa» (Catechismo, 796).

Bisogna partire dall'Antico Testamento per approfondire la relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa. Sulla propria pelle il profeta Osea, sposando una donna infedele, ha sperimentato il dramma dell'amore tradito di Dio per il suo popolo. Isaia racconta di Dio che per un breve istante ha abbandonato la sua sposa, ma ha deciso di raccoglierla con immenso amore (Isaia 55). Ezechiele racconta con estremo realismo la storia simbolica dell'amore giovanile e combattuto tra Dio e Israele (cf. Ezechiele 16). E il Cantico dei Cantici non ha bisogno di essere spiritualizzato perché l'amore fra gli sposi è già simbolo dell'amore tra Dio e il suo popolo.
Con analoga intensità il linguaggio sponsale prosegue nel Nuovo Testamento. Nel vangelo di Giovanni, il Battista si serve della metafora sponsale per chiarire la sua funzione di amico dello sposo che prepara le nozze e gioisce per la relazione tra Cristo e la Chiesa (cf. Giovanni 3,29). Paolo nutre la gelosia divina del genitore che ha dato in sposa la Chiesa di Corinto come vergine casta per l'unico sposo che è Cristo (2Corinzi 11,2). Nel tempo dello Spirito, agli sposi cristiani è chiesto di amarsi vicendevolmente seguendo il modello dell'amore di Cristo per la Chiesa (cf. Efesini 5). Nella coppia s'invera e si rispecchia il mistero dell'amore di Cristo e della Chiesa. Tuttavia il termine «mistero» allude non a quanto risulta incomprensibile per la ragione umana, bensì al disegno originario della creazione, per cui l'uomo e la donna lasciano i propri genitori per formare una carne sola. Tutta la Sacra Scrittura è, nella sua essenza, la storia dell'amore di Dio per il suo popolo: inizia con l'amore tra l'uomo e la donna e si chiude con quello tra la Sposa e l'Agnello (cf. Apocalisse 21). Per questo la Chiesa è Sponsa Verbi: sposa di Cristo, la Parola eterna e fedele di Dio.

  • Unità non vuol dire uniformità
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«Fin dal principio, questa Chiesa "una" si presenta tuttavia con una grande diversità, che proviene sia dalla varietà dei doni di Dio sia dalla molteplicità delle persone che li ricevono» (Catechismo, 814).

L'inno più bello che sia stato composto sull'unità si trova nella Lettera agli Efesini. Il testo paolino parte dall'unicità dello Spirito e approda nella confessione dell'unico Dio e Padre di tutti. Fra queste polarità si transita per l'unità del corpo, della speranza fondata sulla propria vocazione, del Signore (Gesù Cristo), della fede e del battesimo (Efesini 4,4-5). A prima vista sembra che, per dimenticanza, dall'elenco sull'unità manchi l'amore. In realtà è menzionato subito dopo, perché è il solo capace di congiungere l'unità alla diversità nella Chiesa. Soltanto l'amore permette a ognuno di crescere nella vita interiore per giungere alla piena maturità di Cristo. L'unità della Chiesa non va confusa con l'uniformità che tende a livellare le differenze, sino ad abolirle, ma nasce dall'unicità che, in modo naturale, si apre alla diversità dei carismi e dei ministeri. Per inverso, neanche la diversità andrebbe fraintesa con le divisioni per cui ognuno può dire di non aver bisogno dell'altro. Il simbolo più eloquente dell'unità nella Chiesa è quello della tunica indivisa ai piedi della croce di Cristo. L'evangelista Giovanni precisa che quella tunica è senza cuciture perché è tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo (cf. Giovanni 19,23). In uno dei periodi storici più critici della Chiesa, che vede il fenomeno dei lapsi (letteralmente, «scivolati» o «caduti»), coloro che abiurano dalla fede per non incorrere nel martirio, san Cipriano di Cartagine compone lo splendido testo del De Catholicae Ecclesiae Unitate. In esso richiama il simbolo della tunica indivisa e commenta: «Non può possedere la veste di Cristo, colui che divide e separa la Chiesa di Cristo» (nr. 6). Credere nell'unità della Chiesa non è un miraggio, ma un'utopia che bisogna sempre cercare, perché così è nata la Chiesa dal fianco trafitto di Cristo e così sarà chiamata a congiungersi in una sola carne con il suo Sposo.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 13 al 19 febbraio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 26, 2013 8:20 am


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«"Ogni cosa era fra loro comune" (At 4,32). "Il cristiano veramente tale nulla possiede di così strettamente suo che non lo debba ritenere in comune con gli altri, pronto quindi a sollevare la miseria dei fratelli più poveri"» (Catechismo Romano, 1, 10, 27; Catechismo, 952).

La comunione dei beni ha caratterizzato diverse forme di vita ideale: «Tutto è in comune fra gli amici», recita un proverbio popolare riportato dal commediografo greco Menandro. Nel tracciare uno dei primi sommari sulla Chiesa, Luca pone in modo particolare l'accento sulla condivisione dei beni fra i primi cristiani. La moltitudine dei credenti ha un cuor solo e in un'anima sola e nessuno considera sua proprietà quello che gli appartiene (cf. Atti 4,32). La comunione nasce dalla testimonianza condivisa della fede nel Signore Risorto e approda nell'esigenza di colmare i bisogni di ciascuno, soprattutto per i più poveri. Tuttavia, tale condivisione non è dettata da alcuna obbligazione esterna, né da un livellamento sociale di tipo paritario, bensì dalla spontaneità e dalla libertà che scaturisce dalla compartecipazione della fede. E, tratto ancora più sorprendente, la condivisione dei beni non si realizza al di fuori, bensì nella città. A Qumran e presso correnti ascetiche religiose e filosofiche del tempo, la comunione dei beni era proposta e vissuta in contesti separati dai centri urbani, mentre fra i primi cristiani si realizza nelle città evangelizzate. Spesso si guarda ai cosiddetti sommari sulla Chiesa negli Atti degli apostoli con nostalgia o come a cimeli del passato che non torneranno più. In realtà la condivisione della fede porta naturalmente a quella della carità e dei beni materiali. Per questo si tratta di sommari reali e ideali nello stesso tempo. Ideale è che tutti mettono in comune i loro beni, reale è che non mancano quanti, come Anania e Saffìra, decidono di conservare per sé alcune riserve (cf. Atti 5,1-11). Problematico non è il reale della vita nella Chiesa, bensì la disponibilità a conservare l'ideale contro tutti gli abusi e gli ostacoli che incontra.

  • I credenti, «santi» per elezione
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«La Chiesa, unita a Cristo, da lui è santificata; per mezzo di lui e in lui diventa anche santificante» (Catechismo, 824).

Nel linguaggio comune i termini «santo» e «santità» hanno assunto un'accezione alquanto restrittiva. Santo è considerato chi compie opere buone o è capace di realizzare miracoli. In realtà, prima di esprimere una dimensione etica o morale, la santità veicola il carattere identitario di coloro che sono definiti «santi». Per questo, prima che ad Antiochia di Siria fossero chiamati «cristiani» (Atti 11,26), i credenti in Gesù Cristo sono definiti «santi». Nelle sue lettere, Paolo si rivolge a tutti i membri delle sue comunità chiamandoli «santi» (cf. 1Corinzi 1,2). Il linguaggio della santità affonda le sue radici nell'Antico Testamento, dove peraltro si trova il «codice di santità» (Levitico 17-26), così denominato per la formula: «Siate santi perché Io sono santo», che spesso vi ricorre. Uno degli episodi più significativi sulla santità si verifica in occasione della vocazione d'Isaia, quando il profeta contempla il Signore e ascolta il Trisàghion: «Santo, santo, santo il Signore…» (Isaia 6,3). La stessa invocazione si ripete in una delle prime visioni dell'Apocalisse, quando i quattro esseri viventi confessano la santità di Dio, Colui che era, è e viene (Apocalisse 4,8). Il retroterra giudaico dischiude il significato più proprio della fede nella santità della Chiesa. Santi sono quanti, eletti dal Signore, partecipano del suo amore. Prima di diventare santi nelle scelte e nelle azioni, si è santi per elezione e per partecipazione. Chiamati sin dall'eternità ad essere santi e immacolati nell'amore, i credenti fanno parte del corpo di Cristo che è la Chiesa. Per la Chiesa, sua sposa, Cristo ha dato se stesso e l'ha resa santa, purificandola con il lavacro dell'acqua battesimale e con la Parola (cf. Efesini 5,26). Nell'elezione alla santità e alla santificazione si trova la fondamentale differenza tra il sacro e il santo: sacro è qualsiasi realtà trascendente che diventa santa quando si è trasformati dalla grazia elettiva di Dio.

  • Santa, anche se è imperfetta
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«"La Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen Gentium, 48). Nei suoi membri, la santità perfetta deve ancora essere raggiunta» (Catechismo, 825).

A volte si creano luoghi comuni che creano strani equivoci e strumentalizzazioni. Uno dei fraintendimenti più diffusi del nostro tempo riguarda la fede nella santità della Chiesa, spesso abbinata alla sua condizione di peccatrice. Le espressioni "santa e peccatrice" e "casta meretrix" sono divenute di dominio pubblico, soprattutto quando si tende a delegittimare la mediazione santificatrice della Chiesa. In realtà, l'espressione paradossale "casta meretrix" è di Sant'Ambrogio, ma è utilizzata con tutt'altro tenore da quello che ci stiamo abituando a conferirle. Così scrive nel suo Commento al Vangelo di Luca: «Meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per l'attrattiva dell'affetto, ma senza la sconcezza del peccato» (3,17-23). Il paradosso non intende sostenere che la Chiesa è nello stesso tempo santa e peccatrice, bensì che è santa per la sua identità e accoglie chiunque, pur non essendo peccatrice. Che la Chiesa abbia deciso di chiedere perdono per le colpe passate dei suoi figli è azione profetica di enorme portata evangelica, ma che la sua santità sia controbilanciata dal suo peccato è uno degli equivoci più infausti. Se non fosse lei la città santa adorna per il suo Sposo, da chi altro riceveremmo la santità della Parola, dell'eucaristia e dei sacramenti? Come potrebbe essere strumento di riconciliazione se continuasse a restare peccatrice? La santità della Chiesa non è un titolo che le è conferito in base alla condotta dei suoi membri, bensì è un dono permanente che le è donato dal suo unico Sposo al quale è promessa come vergine casta (2Corinzi 11,2). Garante della santità della Chiesa è Maria, la Madre di Gesù e della Chiesa venerata, tra l'altro, come panaghía o "tutta santa". La santità di Maria non si trova al di fuori, ma nella Chiesa; e qualsiasi culto mariano autentico è tale se conduce alla fede nella santità della Chiesa.

  • Dov'è Cristo, là è la Chiesa cattolica
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«La parola "cattolica" significa "universale" nel senso di "secondo la totalità" o "secondo l'integralità"» (Catechismo, 830).

Fra le quattro note della Chiesa che stiamo approfondendo forse quella più antica e che ha suscitato immediate reazioni fra gli storici pagani del II e del III secolo d.C. – da Plinio il Giovane a Tacito – è "cattolica". Sin dalle origini la Chiesa non si è limitata ai cristiani di origine giudaica, ma ha compreso, senza riserve, quelli di origine gentile. La Chiesa ha accolto i nobili (in verità non molti nei primi decenni), ma anche i poveri e gli schiavi; ha dato spazio agli uomini e alle donne, abolendo a livello della fede qualsiasi barriera religiosa. La cattolicità della Chiesa nasce dall'universalità della salvezza, giacché Cristo è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un solo popolo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo (Efesini 2,14). Per questa sua caratteristica il cristianesimo delle origini fu considerato più una superstizione che una religione. Cattolica nella sua origine, lo è anche per la sua missione nel mondo. A riguardo, il mandato missionario che chiude il vangelo di Matteo è perentorio: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 26,19). Dunque una cattolicità che non nasce per strategia di populismo, in modo da creare uno spazio dove c'entrano tutti, bensì fondata sull'universalità della salvezza e della missione della Chiesa. Per questo condizione per entrare nella Chiesa è il battesimo, ma visto non come semplice rito d'ingresso, bensì come sacramento della fede che unisce ciascuno a Cristo per formare il suo corpo. La storia insegna che quando le Chiese locali si chiudono alla dimensione missionaria, che è il cuore della loro cattolicità, sono fatalmente destinate all'estinzione, mentre quando sanno accogliere tutti nel nome di Gesù attraversano i secoli e sono capaci di generare altre Chiese. Scrive bene Sant'Ignazio di Antiochia nella Lettera agli Smirnesi 8,2: «Là dove è Cristo Gesù, lì è la Chiesa cattolica».

  • Apostoli: carisma non istituzione
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«Tutta la Chiesa è apostolica in quanto rimane in comunione di fede e di vita con la sua origine attraverso i successori di san Pietro e degli Apostoli» (Catechismo, 863).

Con il tempo i termini "apostolo" e "apostolato" hanno assunto accezioni abbastanza restrittive. Apostoli sono considerati i Dodici che hanno vissuto con Gesù e, dopo la Pasqua, hanno iniziato a diffondere il suo vangelo. In realtà, mentre tutti i Dodici sono apostoli, non tutti gli apostoli s'identificano con i Dodici, nel senso che apostolo è chiunque è inviato da qualcuno a qualcuno per una missione ben precisa. Non a caso in 2Corinzi 8,23 "apostoli" sono Tito e i fratelli anonimi, inviati per organizzare la raccolta in danaro destinata ai poveri della Chiesa di Gerusalemme. E in Romani 16,7 il titolo è attribuito ad Andronico e a sua moglie Giunia. Per questo, senza sminuire il titolo dell'apostolato, conferito ai Dodici, tutta la Chiesa è apostolica, giacché è inviata nel mondo per diffondere il vangelo e per fare discepoli. D'altro canto non c'è carisma conferito ad alcuno che non riveli, nello stesso tempo, una qualità della Chiesa. I Dodici e i Vescovi, loro successori, sono apostoli non per separarsi dalla Chiesa, bensì perché la loro natura apostolica esprima e rinvii all'apostolicità della Chiesa. La visione finale dell'Apocalisse, che dovrebbe valere non tanto per la fine della storia quanto per il tempo presente, raffigura la città santa che è la Chiesa con dodici basamenti, sui quali si trovano i dodici nomi dei Dodici apostoli dell'Agnello (cf. Apocalisse 21,14). Senza le connessioni tra l'apostolato della Chiesa e quello dei Dodici si cade facilmente nella separazione tra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale, come se l'una potesse prescindere dall'altra. Purtroppo dopo il Concilio Vaticano II si è spesso caduti in tale fraintendimento: che istituzione e carisma possano viaggiare ognuno per conto proprio. In realtà nessuna istituzione o ministero esiste se non conserva la sua dimensione carismatica o della grazia gratuita con cui è conferito dallo Spirito.

  • Nel battesimo, tutti «sacerdoti»
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«Entrando nel Popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo Popolo, la vocazione sacerdotale» (Catechismo, 784).

Una delle riscoperte ecclesiali più ricche e positive del Concilio Vaticano II e, in particolare della Lumen gentium, riguarda l'attribuzione della realtà sacerdotale non soltanto ad alcuni ministri nella Chiesa (il cosiddetto ministero ordinato dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi), ma ai laici che sono tali per la fede e il battesimo. D'altro canto già nella sua prima lettera, Pietro asserisce che i cristiani sono come pietre vive costruite per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo (1Pietro 2,5). Qualsiasi forma di sacerdozio esiste per compiere due dimensioni imprescindibili nella relazione fra Dio e gli esseri umani: realizzare la comunione attraverso la mediazione. Israele è popolo sacerdotale poiché la sua comunione con Dio si realizza attraverso la mediazione della classe sacerdotale dei leviti. Con Gesù Cristo restano le due dimensioni che abbiamo segnalato, ma sono realizzate in modo del tutto nuovo: non attraverso la separazione fra Dio e gli uomini, bensì mediante la sua assimilazione con gli uomini, fatta eccezione del peccato. Per questo la Lettera agli Ebrei svolge un ruolo ineludibile per approfondire le relazioni tra il sacerdozio di Cristo e quello dei cristiani. Quanto una volta per sempre Gesù ha realizzato nello stesso momento, mediante il sacrificio del suo corpo e del suo sangue, diventa sacramento nella vita della Chiesa. Così non esiste sacerdozio comune dei fedeli senza la mediazione ministeriale dei ministri ordinati; e non è concepibile un sacerdozio ministeriale se non in relazione con quello comune. Accomunati dal battesimo che rende tutti sacerdoti, la mediazione di alcuni rende sempre attuale la comunione sacerdotale. Dimenticare o sminuire una o l'altra dimensione del sacerdozio di Cristo e della Chiesa significa fraintendere e svalutare l'identità sacerdotale dei laici e dei presbiteri.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 20 al 26 febbraio 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 05, 2013 9:26 am


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«Il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo» (Catechismo, 785).

Nella Chiesa il profetismo ha suscitato sempre reazioni contrastanti. Da una parte è sostenuto da quanti cercano di guardare con ottimismo ai segni dei tempi, dall'altra è visto con sospetto da coloro conservano un senso pratico e concreto della vita. Per evitare i due eccessi, la Lumen gentium (12) e il Catechismo spostano opportunamente l'attenzione dalla dimensione isolata del profetismo a quella ecclesiale, partendo dall'identità profetica di Gesù e attribuendolo all'intero popolo di Dio. Profeta è non chi cerca d'indovinare il futuro prossimo o remoto, bensì chi, rivolgendosi agli uomini del suo tempo, cerca e trova le vie del Signore da percorrere. A volte il profeta sposta lo sguardo verso il futuro, ma sempre in funzione del presente e non il contrario. Per questo il libro profetico per eccellenza, l'Apocalisse, è rivolto alla Chiesa del suo tempo (fine I sec. d.C.) per incoraggiarla a perseverare nella fede di fronte alle persecuzioni imperiali. Carisma necessario è la profezia, ma ad alcune condizioni che non intendono limitarne gli ambiti, bensì valorizzarne l'incidenza. Primo soggetto della profezia è il destinatario del carisma: non si può essere profeti per gli altri se non lo si è anzitutto per se stessi. La profezia non svolge soltanto funzione contestataria, ma anche costruttiva, poiché serve per il bene personale e comune. Il profeta non obbedisce a esigenze di populismo o di mercato, ma alla Parola di Dio o al vangelo che lo sovrasta e gli è affidato. E ultimo, ma più importante del resto, ogni profezia rinvia allo Spirito, in quanto soggetto originario, e a Gesù Cristo il Signore come contenuto della fede. Per il resto la profezia non promette stati di successo umano, ma assicura una tranquillità interiore che nessuna tribolazione può turbare. Ai destinatari della seconda lettera, san Pietro raccomanda di volgere lo sguardo ai profeti che brillano come lampade in luoghi oscuri, così da intravedere l'aurora e riconoscere la stella del mattino (2Pietro 1,19).

  • La Chiesa, segno del regno di Dio
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«Il Popolo di Dio realizza la sua "dignità regale" vivendo conformemente a questa vocazione di servire con Cristo. Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce» (Catechismo, 786).

Quando, in occasione del processo, Pilato chiede a Gesù se fosse re, egli non nega ma presenta uno statuto diverso della sua regalità. Quello di Gesù è un regno che non è di questo mondo, non è composto di alcun esercito militare e non cerca alcun potere politico, ma proviene dall'alto e rende testimonianza alla verità (cf. Giovanni 18,36-37). In altri termini Gesù è re attraverso la via del servizio, fino alla morte di croce, e non per quella del potere materiale o politico. Lo statuto di questo regno del tutto anomalo prosegue nella Chiesa che è popolo regale poiché il suo re – che è Cristo – non ha abdicato dal regno che gli ha affidato il Padre. Del regno di Cristo la Chiesa è il segno più tangibile: lo rende visibile e lo manifesta. Tuttavia la Chiesa non s'identifica con il regno dei cieli, giacché la regalità di Dio o di Cristo la precede e l'attende. Piuttosto la Chiesa è manifestazione del regno quando continua a svolgere la funzione del buon pastore, alla ricerca della pecora smarrita, e quando è sacramento della riconciliazione, compiuta da Dio in Cristo, non fino a sette, bensì fino a settanta volte sette. In sintonia con Gesù, Paolo identifica il regno di Dio non in questioni di cibo o di bevanda, ossia non per via legale, bensì con la giustizia, la pace e la gioia nello Spirito Santo (Romani 14,17). La croce è, nel contempo, il confine smisurato e il luogo della regalità di Cristo e della Chiesa. Sulla croce Gesù Cristo attira tutti a sé e finalmente realizza l'unità degli uomini. Al di fuori e senza la croce di Cristo non è concepibile alcuna regalità della Chiesa. Tuttavia non la croce delle crociate, ma quella del Figlio divenuto schiavo che ha umiliato se stesso fino alla morte, morte però di croce (Filippesi 2,8). Per questo, come ben precisa la Lumen gentium (3 e 5), la Chiesa è inizio, germe e mistero del regno del Risorto.

  • I carismi, sulle orme della Trinità
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«Straordinari o semplici e umili, i carismi sono grazie dello Spirito Santo che, direttamente o indirettamente, hanno un'utilità ecclesiale, ordinati come sono all'edificazione della Chiesa, al bene degli uomini e alle necessità del mondo» (Catechismo, 799).

La bimillenaria storia della Chiesa ci ha progressivamente allontanati dalla freschezza e dalla semplicità dei suoi anni giovanili. Per grazia, lo Spirito e la Parola di Dio sono capaci di ringiovanire l'eterna bellezza della Chiesa. Nei primi millenni per parlare della Trinità è stato necessario ricorrere al linguaggio della Natura (una sola) e delle processioni fra le Persone (tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo). Nel nostro tempo si è fatta viva l'urgenza di tornare al Nuovo Testamento per riscoprire che la Chiesa è l'icona e il luogo privilegiato della Trinità dove sono valorizzati i carismi, i ministeri e le attuazioni: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1Corinzi 12,4-7). Dall'unico Spirito scaturiscono i carismi o i doni della grazia che distribuisce a chi, come e quando vuole. Negli innumerevoli carismi, elargiti nella storia bimillenaria della Chiesa, lo Spirito ha dimostrato una creatività inaudita. A loro volta i carismi si trasformano in ministeri quando si realizzano sul modello di Cristo che è venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la vita per la salvezza degli uomini. Nessun ministero, neanche quello del governo, dovrebbe assumere le vesti del potere, ma sempre quelle del servizio. Infine i ministeri diventano attività quando sono espressione dell'azione creatrice di Dio Padre nella vita della Chiesa. Una Chiesa tutta ministeriale, dove i ministeri sono conferiti non per concessioni, né per emergenze, bensì per diritto: il diritto della Signoria della Trinità sulla Chiesa. Contemplare il volto trinitario dei carismi, dei ministeri e delle attività è la via privilegiata della bellezza secolare della Chiesa. La bellezza che nasce dal servizio gratuito e non dal vuoto della forma o dell'apparenza.

  • La via sublime dell'amore
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«La carità è l'anima della santità alla quale tutti sono chiamati: essa "dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine"» (Lumen gentium, 48; Catechismo, 826).

Credere nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica non è altro che credere nell'amore! E se non fosse l'amore la via privilegiata per la quale transitano tutti i carismi e i ministeri nella Chiesa, qualsiasi altra proprietà della Chiesa si riduce a un riconoscimento asettico che non induce a considerarla come realtà viva e propria a cui si appartiene e in cui si esiste. Quando Paolo compone uno dei testi più sublimi delle sue lettere – il cosiddetto inno all'amore – è costretto ad affrontare una delle piaghe antiche e nuove della Chiesa: l'arrivismo o il carrierismo che induce alcuni credenti a monopolizzare la vita della Chiesa, lasciando ai margini quanti non hanno molti carismi da esibire. L'elogio di 1Corinzi 12,31-13,13 non presenta l'amore come uno dei carismi fra i tanti, né come una delle virtù, bensì come la via sublime sulla quale dovrebbero transitare tutti i carismi nella Chiesa. Nel suo stupendo commento, Tommaso d'Aquino distingue tre parti sull'amore in 1Corinzi 13: quanto a necessità, quanto a utilità e quanto a permanenza. Quanto a necessità, l'amore è necessario più di qualsiasi carisma, compreso il martirio e la povertà. Quanto a utilità, l'amore presenta virtù di altissimo valore come il perdono e la pazienza incondizionata. E quanto a permanenza, l'amore trascende i limiti della vita terrena e conduce dove si contempla Dio faccia a faccia. Per questo tutti i carismi, i ministeri, la fede e la speranza valgono nel tempo che ci rimane, ma soltanto l'amore lo trascende. Quando la piccola Teresa del Bambino Gesù, nella sua lotta interiore, scopre che nella Chiesa lei è chiamata a essere l'amore, comprende che tutto il resto è inutile, se non è in funzione dell'amore. Prima di assumere o di conferire qualsiasi ministero nella Chiesa bisogna sostare quanto più a lungo possibile su ogni parola dell'arte d'amare che è 1Corinzi 13, altrimenti si creano aberrazioni non al di fuori, ma nella Chiesa.

  • Saremo giudicati sull'amore
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«Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, come un organismo visibile» (Lumen gentium, 8; Catechismo, 771).

Il primo a parlare delle tre virtù teologali è san Paolo quando, all'inizio di 1Tessalonicesi, elogia i destinatari per la loro fede operosa, la fatica della loro carità e la perseveranza della loro speranza (1Tessalonicesi 1,3). La vita cristiana comincia con la fede, cresce con l'amore e culmina con la speranza. Per questo si è come in una battaglia da affrontare con la corazza della fede e della carità e con l'elmo della speranza (1Tessalonicesi 5,8). Quando poi scrive 1Corinzi, preferisce elogiare la carità o l'amore, ponendola al di sopra della fede e della speranza (1Corinzi 13,1-13). Questa volta, la sequenza procede dalla fede, alla speranza e all'amore. Il cambiamento dell'ordine si deve al fatto che soltanto l'amore è capace di valicare le soglie della vita terrena e di contemplare colui dal quale si è amati o conosciuti: Gesù Cristo. Tuttavia nello stesso elogio sull'amore, a proposito delle sue virtù, Paolo evidenzia che, quando è autentico, l'amore tutto crede e tutto spera. Per questo le tre virtù teologali non andrebbero mai considerate in concorrenza o a prescindere l'una dall'altra, bensì in costante sintonia. Nell'anno della fede, la teologia di Paolo si erge imperiosa per l'assioma sola gratia o sola fide. Soltanto con la grazia o soltanto mediante la fede si è gratuitamente giustificati da Dio in Cristo, senza alcun concorso né opera umana. Tuttavia, per lo stesso Paolo ciò che più conta nella distinzione tra Giudeo e Gentile non sono la circoncisione né l'incirconcisione, bensì la fede operante nell'amore (cf. Galati 5,6). Essere giustificati per la fede non significa che basti la fede per essere giudicati alla fine della propria esistenza, ma che si sarà giudicati comunque sull'amore. In definitiva chi possiede una virtù ha anche le altre, mentre chi manca dell'una è, gioco forza, carente anche delle altre.

  • Senza le opere, la fede è morta
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«Il pieno diritto di giudicare definitivamente le opere e i cuori degli uomini appartiene a lui in quanto Redentore del mondo» (Catechismo, 679).

Per secoli la Lettera di Giacomo è stata vista in contrasto con la Lettera ai Romani. Nota è la presa di posizione con cui Martin Lutero considera Romani «il vangelo più puro, di cui il cristiano dovrebbe nutrirsi ogni giorno, come il pane quotidiano dell'anima», mentre non esita a definire la lettera di Giacomo come di paglia, senza alcuna consistenza per la fede. Finalmente gli studiosi contemporanei del Nuovo Testamento guardano alla lettera di Giacomo con minori pregiudizi; e non mancano ottimi commentari di origine protestante che cercano di rispettarne le proprietà e la ricchezza contenutistica. Uno degli esiti più importanti dell'attuale ricerca riguarda il contesto diverso che induce Paolo a sostenere che si è giustificati soltanto per la fede, e Giacomo ad affermare che la fede senza le opere è morta. Il primo si riferisce al livello della salvezza iniziale o al primo momento della giustificazione, quando soltanto la grazia della fede è l'unica condizione per essere giustificati. Sull'altro versante, Giacomo sposta l'attenzione sulla fase successiva della permanenza e delle relazioni con il prossimo nella comunità cristiana. Non a caso il capitolo secondo della Lettera, in cui Giacomo tratta delle relazioni tra fede e opere, comincia con l'esempio di chi, pur essendo nudo e affamato, non è soccorso da chi presume di avere la fede. In questa prospettiva, da una parte Paolo sottoscriverebbe appieno l'affermazione che considera la fede senza le opere come un corpo senza lo spirito, e quindi morta; e dall'altra Giacomo non dimenticherebbe che l'inizio della vita cristiana resta sempre della fede e non delle opere umane. Al di là delle situazioni polemiche fronteggiate da Paolo e da Giacomo, resta il denominatore comune per cui, giustificati per la fede, si è esortati a rendere operosa la propria fede (cf. Galati 5,6) e alla fine della vita si sarà giudicati per le opere (cf. Romani 2,6).
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 27 febbraio al 5 marzo 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 12, 2013 8:59 am


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«Contro ogni speranza umana, Dio promette ad Abramo una discendenza, come frutto della fede e della potenza dello Spirito Santo» (Cf Gen 18,1-15; 706 Lc 1,26-38; Lc 1,54-55; Gv 1,12-13; Rm 4,16-21; Catechismo 706).

Il mito di Pandora racconta che quando il suo vaso fu aperto per diffondere ogni genere di male nel mondo, nel fondo rimase soltanto elpis, la speranza. Sono trascorsi duemila anni dall'inizio della fede cristiana, ma la concezione rassegnata e striata di pessimismo sulla speranza rimane ancora fra molti credenti in Cristo. L'illusione delusa del «sabato del villaggio» accompagna la nostra visione della speranza. Nutriamo sempre una certa diffidenza sulla speranza poiché il timore di essere delusi nelle attese è vivo più del suo desiderio. Del tutto diversa è la speranza che scaturisce dalla Parola di Dio e che riscontra il suo modello esemplare in Abramo. Se, come sostiene san Paolo, Abramo è nostro padre nella fede, lo è anche della speranza. Non è fortuito che, trattando della giustificazione accreditata ad Abramo a causa della sua fede incrollabile in Dio, Paolo approdi alla speranza. Abramo credette restando saldo nella speranza contro ogni speranza, così da diventare padre di molti popoli (cf. Romani 4,18). La speranza riceve dalla fede un fondamento sicuro; e soltanto una fede capace di attraversare la prova approda nella speranza. La prova non è quella dell'invisibile con gli occhi del corpo, ma del visibile con quelli della mente. Per questo non ciò che vediamo è oggetto della speranza, bensì quanto non vediamo, ma continuiamo a credere. La prova dell'amore è quella che nasce dalla fede e approda nella speranza, poiché senza cadere in forme di fideismo, l'amore tutto crede e, senza lasciarsi irretire nell'illusione, l'amore tutto spera. Qui sta la fondamentale differenza tra la speranza di origine greco-romana e quella di origine ebraico-cristiana: la prima è fondata sul desiderio, mentre la seconda si radica nella fede. Poiché i credenti in Cristo sono stati salvati mediante la sua morte e risurrezione, sono in grado di testimoniare un'incrollabile speranza (cf. Romani 8,24).

  • I sacramenti e il mistero
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«L'opera salvifica della sua umanità santa e santificante è il sacramento della salvezza che si manifesta e agisce nei sacramenti della Chiesa (che le Chiese d'Oriente chiamano anche "i santi Misteri")» (Catechismo, 774).

Uno dei termini più usati nel Catechismo è "mistero": ricorre a proposito dell'identità di Gesù, della natura della Chiesa e dei i sacramenti. Tuttavia nel comune modo di pensare "mistero" è uno dei termini più soggetti ad ambiguità poiché spesso s'identifica con il fatalistico e l'arcano. Tutto ciò che nella vita umana non si può comprendere, ma accade è ritenuto mistero; e tutto ciò che accade a prescindere dalla nostra volontà è destino. Coscienti delle ambiguità del linguaggio, i primi cristiani hanno utilizzato il termine mistero, ma lo hanno evangelizzato conducendolo verso la mistagogia, ossia in funzione della catechesi dei sacramenti. In tal modo i "divini misteri" (1Corinzi 4,1) non sono rapportati alla divinazione e alla magia, bensì al disegno di Dio che si rivela nella storia della salvezza, sino al suo compimento finale in Cristo. Un disegno in continua rivelazione perché incentrato sulla volontà di Dio è il modo con cui la Sacra Scrittura parla del Suo mistero. I sacramenti della vita cristiana – dal battesimo all'unzione degli infermi – non sono prodotti magici a disposizione di chi li richiede, bensì segni visibili (lumen) dell'invisibile (numen) disegno di Dio che in essi si manifesta e ci raggiunge. Il numinoso o l'imperscrutabile ha bisogno del luminoso per manifestarsi e il luminoso richiede il numinoso per non essere ridotto a oggetto da possedere. Originario sacramento dell'incontro con Dio resta Gesù Cristo, la Parola venuta dal silenzio, che amando la sua Chiesa veicola il grande mistero di Dio. Fin quando non si snida la cognizione del mistero dalla magia e dal destino per trapiantarla nel disegno della volontà di Dio in Cristo non si è in condizioni di riconoscere l'importanza dei sacramenti. Allora si può affermare con Sant'Agostino che in ogni sacramento «non c'è altro Mistero di Dio, se non Cristo» (Lettera 187).

  • Evangelizzare il battesimo
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«Dalla Chiesa riceviamo la fede e la vita nuova in Cristo mediante il Battesimo» (Catechismo, 168).

Nonostante siano trascorsi duemila anni, qualcosa delle religioni misteriche ci resta dentro, soprattutto quando abbiamo a che fare con i sacramenti. Proprie delle religioni misteriche antiche sono l'appropriazione umana del divino, l'individualistica relazione con la divinità e la cognizione magica del mistero. Sono queste le forme di religiosità che Paolo incontra a Corinto e nelle città più sviluppate dell'Impero. Per questo dopo la sua prima evangelizzazione, le sue comunità concepiscono il battesimo e l'eucaristia come beni a disposizione di ognuno, secondo l'interesse personale, senza alcuna relazione con l'unità della Chiesa e con la carità per i più bisognosi. Nascono così le fazioni nella Chiesa, dove ogni partito cerca di prevalere sull'altro e il battesimo raccomandato da un gruppo è considerato migliore dell'altro. Bisogna riconoscere che mentre il mondo si evolve in modo vertiginoso, alcune sfere dell'umano restano sempre le stesse e, in alcuni casi, sono destinate a regredire, come quella religiosa. Con la forza polemica che lo caratterizza, Paolo si scaglia contro le divisioni generate da una visione misterica del battesimo e ricorda che si è battezzati soltanto nel nome di Gesù Cristo perché lui solo è morto ed è risorto per noi (cf. 1 Corinzi 1,13). La sua gratitudine dovrebbe diventare nostra quando, per correggere forme di religiosità misteriche, ringraziamo il Signore per averci inviati non a battezzare, ma a evangelizzare (cf. 1Cor 1,17). Sia ben chiaro! In questione non è l'inestimabile valore del battesimo, che unisce in modo vitale a Gesù Cristo, bensì il modo con cui è accolto e vissuto dai destinatari. Se non è evangelizzato, con tutta la grazia del Signore alla quale si ha da sempre riconoscere il primato, il battesimo continua a essere inteso come un semplice rito magico di origine misterica. Evangelizzare il battesimo significa anzitutto essere uniti a Cristo, mediante la fede (intesa come grazia), per formare in lui un solo corpo.

  • La liberazione dal peccato
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«Il Battesimo è il primo e principale sacramento per il perdono dei peccati perché ci unisce a Cristo» (Catechismo, 977).

In quanto tale, il battesimo non è una novità cristiana: era già utilizzato come rito di purificazione presso la comunità di Qumran e per la conversione da Giovanni Battista. Nuovo però è il modo con cui dovrebbe essere inteso da quanti credono in Cristo: rimettere il peccato per unire in modo definitivo a Cristo. Se con il suo battesimo Gesù si è immerso nella nostra umanità, con il nostro battesimo siamo immersi nella sua divinità: la sua figliolanza divina diventa nostra e siamo chiamati a essere santi e immacolati nell'amore. Con Cristo la liberazione dal peccato originale non è parziale ma definitiva perché, se per mezzo di Adamo il peccato è entrato nel mondo e mediante il peccato la morte, quanto più per mezzo di Gesù Cristo si è tutti gratuitamente giustificati per grazia. Spesso il peccato di Adamo è ridotto a una favola per bambini, mentre s'ignora che esprime una delle tensioni più profonde della vita umana: qual è il rapporto tra il peccato che ereditiamo e quello personale che ci carica di responsabilità? Tra la responsabilità individuale, per cui ognuno è Adamo a se stesso (2Baruc), e la fatalità che ci ricorda il senso del limite ereditato da Adamo (4Esdra), il battesimo esprime la novità dell'essere nuove creature in Cristo. L'unione a Cristo con il battesimo passa per la via obbligata della liberazione dal peccato e approda a una condivisione progressiva della sua morte e risurrezione. Non c'è peccato che non crei divisioni personali e relazionali, per cui è illusorio sostenere che il peccato ci renda più umani. Al contrario il peccato – da quello originale a quello personale – divide e crea separazioni letali nella vita di ognuno. Per questo l'unione a Cristo, mediante il battesimo, è senza riserve: «Questo è il grandioso mistero della grazia divina verso i peccatori: che con un mirabile scambio i nostri peccati non sono più nostri ma di Cristo, e la giustizia di Cristo non è più di Cristo ma nostra» (Martin Lutero a commento di 2Corinzi 5,21).

  • Il Battesimo ci unisce a Cristo
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«Con il Battesimo, il cristiano è sacramentalmente assimilato a Gesù, il quale con il suo battesimo anticipa la sua morte e la sua Risurrezione» (Catechismo, 537).

Il battesimo cristiano non si limita a liberare dal peccato di Adamo, che accomuna tutti i mortali, ma assimila ognuno alla morte e risurrezione di Cristo, rendendolo creatura nuova. Con l'ardire che lo caratterizza, di fronte a questa novità assoluta del battesimo cristiano, Paolo diventa creativo nei contenuti e nel linguaggio. Anzitutto per i contenuti, il battesimo non è un semplice rito d'ingresso, paragonabile alla circoncisione o a qualsiasi altra condizione per entrare in una religione, bensì è espressione di una relazione vitale con la morte e risurrezione di Cristo. Quanti hanno aderito a Cristo mediante il battesimo sono stati con-crocifissi, con-sepolti e con-unificati alla sua morte per con-risorgere in futuro con lui. L'intera vita cristiana inizia con l'essere con-crocifissi insieme a Cristo e si chiude con l'essere con-risorti attraverso la morte. Originale nei contenuti, il battesimo cristiano crea novità anche nel linguaggio. In Romani 6,3-4 Paolo conia alcuni verbi che non sono stati mai utilizzati prima, nel greco antico e del suo tempo: con-crocifiggere, con-seppellire, con-unire e con-risorgere. Spesso il battesimo è visto come uno dei sacramenti che lascia il posto agli altri sacramenti della vita cristiana. In realtà non è soltanto il primo, ma anche l'ultimo dei sacramenti poiché culmina con la partecipazione alla risurrezione di Cristo. La vita nuova iniziata con la partecipazione della morte di Cristo raggiunge il suo compimento nella condivisione della sua risurrezione. Per questo il battesimo non è soltanto la porta dei sacramenti; ne è anche l'uscita: è la soglia che bisogna attraversare all'inizio e alla fine della propria esistenza. La vita cristiana è, nella sua essenza battesimale, perché si decide sulla relazione personale con Cristo. Tra la porta d'ingresso e di uscita, che è il battesimo, accade il mistero eucaristico verso cui conduce e da cui fluisce la vita dei credenti. Ridurre il battesimo a una consuetudine o a una formalità da adempiere per ragioni familiari significa banalizzarlo sino a ignorarne il valore.

  • La Penitenza che va riscoperta
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«È per mezzo del sacramento della Penitenza che il battezzato può essere riconciliato con Dio e con la Chiesa: I Padri hanno giustamente chiamato la Penitenza "un battesimo laborioso"» (Catechismo, 980).

Non c'è dubbio che è il sacramento più in crisi, al punto che, in occasione dell'ultimo sinodo dei Vescovi, alcuni padri hanno proposto di considerarlo come sacramento della nuova evangelizzazione. Stiamo parlando del sacramento della riconciliazione, altrimenti noto come della "confessione" o della "penitenza". Fra le motivazioni più reiterate per la crisi irreversibile che attraversa il sacramento della riconciliazione è addotta la latitanza del senso del peccato. Si ripete spesso che l'uomo del nostro tempo non ha più la cognizione del peccato. Tuttavia bisognerebbe chiedersi se ci sia stato mai un tempo in cui sia più o meno sviluppata la coscienza del peccato. Certo neanche Davide aveva cognizione del peccato quando fece uccidere Uria l'Ittita per usurpargli la moglie (cfr. 2Samuele 11). Lo stesso si verifica quando Pietro butta le reti in mare ed è costretto a riconoscersi peccatore quando si trova di fronte al prodigio di una pesca miracolosa. Soltanto allora può dichiarare: "Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore" (Luca 5,8). Il senso del peccato non nasce dalla morale, né tanto meno dalla Legge, bensì soltanto dalla Parola di Dio che, più di una spada a doppio taglio, penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito per discernere i sentimenti e i pensieri del cuore (cfr. Ebrei 4,12). Sentirsi cercati e amati da Dio, come Adamo, è la condizione imprescindibile perché la coscienza del peccato sorga e cresca nel cuore umano, altrimenti ognuno si crea un codice arbitrario del peccato e della colpa. Per questo più si avanza nel rapporto con Cristo più si sviluppa la cognizione del male e del peccato. La vita battesimale prosegue in quella della riconciliazione dove protagonista indiscusso non è il credente che confessa il proprio peccato, bensì Dio che ha riconciliato il mondo in Cristo è ci ha affidato il "ministero della riconciliazione".
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 6 al 12 marzo 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 19, 2013 8:59 am


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«La Chiesa è il luogo in cui l'umanità deve ritrovare l'unità e la salvezza. È il "mondo riconciliato"» (Sant'Agostino, Sermoni 96,7,9; Catechismo 845).

Nel linguaggio della comunicazione si verificano spesso strani fenomeni: che termini religiosi siano trasferiti in ambito profano e che, per inverso, non si riesca a esprimere i contenuti più pregnanti della fede con termini accessibili. A queste traversie è destinato il linguaggio della riconciliazione: utilizzato negli scritti del Nuovo Testamento per esprimere la novità assoluta della riconciliazione compiuta da Dio in Cristo (cf. Romani 5,1-11), scarseggia quando si tratta del sacramento della riconciliazione. Lo stesso linguaggio della riconciliazione poi abbonda nel vocabolario giuridico delle assicurazioni in casi d'incidenti stradali. I confessionali si svuotano in Chiesa e si riempiono in televisione e nei social network. Novità assoluta della vita cristiana è non la penitenza, né la confessione, bensì la riconciliazione che comprende penitenza e confessione. Prima della morte e risurrezione di Cristo non si era mai visto un Dio che per iniziativa propria riconciliasse il mondo con se stesso. Piuttosto su chi peccava pesava la responsabilità di chiedere perdono e di ottenere, mediante un percorso di espiazione, la riconciliazione divina. Al contrario nel momento decisivo della salvezza, Dio stesso ha riconciliato il mondo per mezzo della morte e risurrezione del suo Figlio. Non c'è nulla di più paradossale: che il destinatario del danno diventi il soggetto della riconciliazione, mentre il colpevole ne diventi il beneficiario. La novità è così sconcertante che si è cercato di attutirla considerandola come acquisita per cui ogni peccato sarebbe già stato perdonato o, per inverso, che il riconoscimento della colpa preceda la riconciliazione. Fra queste limitazioni si trova l'urgenza del lasciarsi riconciliare con Dio. Se la Chiesa non è il luogo privilegiato della riconciliazione si cercheranno sistemi alternativi per confessare in pubblico i propri peccati e confondere il senso del peccato con un banale incidente di percorso.

  • Lo scandalo eucaristico
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«Per mezzo dello Spirito e della sua azione nei sacramenti, soprattutto l'Eucaristia, Cristo, morto e risorto, costituisce la comunità dei credenti come suo Corpo» (Catechismo, 805).

Più volte ci siamo già soffermati sull'eucaristia istituita da Gesù, ma non abbiamo approfondito il suo rapporto con quanti sono convocati per formare il corpo di Cristo che è la Chiesa. In occasione di 1Corinzi Paolo ha l'opportunità di affrontare la questione sulla celebrazione eucaristica in una Chiesa divisa, come quella di Corinto. E come per il battesimo, l'eucaristia è considerata un rito misterico, a disposizione di ognuno e senza ricadute sulla vita comunitaria. Segnata dall'individualismo, da una visione magica e dall'appropriazione del divino, a Corinto i ricchi celebrano sazi la cena del Signore, mentre i poveri vi giungono in condizione d'indigenza. In questo clima di egoismo Paolo ricorda in 1Corinzi 11,23-25 le parole di Gesù sull'istituzione eucaristica e denuncia che chiunque celebra l'eucaristia in una comunità divisa mangia e beve la propria condanna. Per assopire l'impatto della violenza con cui Paolo reagisce alla situazione abbiamo rapportato la dignità e l'indegnità eucaristica a un breve esame di coscienza individuale cosicché riusciamo a trovare tutti gli alibi per partecipare alla cena del Signore. In realtà oggetto dell'esame personale non è tanto l'io, quanto il noi di una Chiesa lacerata da divisioni che continua a celebrare la cena del Signore come se non riguardasse l'altro. Il miglior commento alla pagina paolina è di Giovanni Crisostomo: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità… A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d'oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l'altare». Attendersi gli uni gli altri è condizione imprescindibile per celebrare l'eucaristia altrimenti, come denuncia Paolo, è meglio starsene a casa propria.

  • Credere per restare con Cristo
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«Credere nella risurrezione dei morti è stato un elemento essenziale della fede cristiana fin dalle sue origini "La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali"» (Tertulliano; Catechismo, 991)

La fede nella risurrezione non è esclusiva dei cristiani: apparteneva già al Giudaismo del I secolo d. C. ed era sostenuta soprattutto dai farisei. I libri dei Maccabei testimoniano la speranza incrollabile dei martiri ebrei di fronte alle richieste imperiali di rinnegare la fede: «Bello è morire a causa degli uomini per attendere da Dio l'adempimento delle speranze di essere di nuovo risuscitati da lui» (2 Maccabei 7,29). Anche le religioni misteriche, in particolare quelle rapportate al culto di Iside e di Osiride, proponevano una fede nella risurrezione intesa come risuscitamento e riappropriazione della vita terrena. Del tutto nuova è la fede nella risurrezione intesa come incontro finale con Gesù Cristo il Signore. L'idea risalta già nello scritto più antico del Nuovo Testamento, che è 1Tessalonicesi (50-51 d.C.). Di fronte ad alcuni decessi di fratelli, verificatisi dopo la prima evangelizzazione di Paolo, i Tessalonicesi cadono nello sgomento come quelli che non hanno speranza. Allora Paolo scrive la lettera per incoraggiarli a tenere ferma la loro speranza nell'incontro finale con Cristo. Il Signore verrà come un ladro nella notte e i credenti sono chiamati ad andargli incontro con una vigilanza operosa. In questo contesto utilizza una metafora ricca di simbolicità: andare incontro al Signore che viene è come dare il benvenuto solenne all'imperatore che visita le sue province. La stessa immagine è utilizzata da Gesù con la parabola delle vergini sagge e stolte, invitate ad andare in processione verso l'incontro dello Sposo che viene (cf. Matteo 25,1-13). Più che entrare in un luogo – come l'Ade o i campi eleusini – risorgere è per i cristiani incontrare e restare per sempre con il loro Signore. Evangelizzare la fine della vita è una delle sfide più ardue per i cristiani del nostro tempo: ne va di mezzo la credibilità della nostra speranza.

  • La vita cristiana è metamorfosi
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«Se è vero che Cristo ci risusciterà "nell'ultimo giorno", è anche vero che, per un certo aspetto, siamo già risuscitati con Cristo» (Catechismo, 1002).

Dopo aver segnalato la principale novità per la fede nella risurrezione, che è andare incontro a Cristo che viene, soffermiamoci sulla seconda novità rappresentata dall'inizio della risurrezione. Questa non inizia nel momento della morte fisica, bensì con l'evento originario del battesimo. Sepolti con Cristo, i credenti hanno già iniziato a condividere la sua risurrezione; e poiché sono risorti con lui sono esortati a cercare le realtà celesti, dove si trova Cristo assiso alla destra del Padre (cf. Colossesi 2,12; 3,1). In gioco non è una semplice metafora, né meno l'illusione di quanti hanno bisogno di credere nella risurrezione per non cadere in forme di frustrazione di fronte alla realtà del nulla, bensì quanto si realizza già nella vita battesimale. Lo Spirito compie in noi una metamorfosi non esteriore come quella dei culti misterici, esaltata da Ovidio e da F. Kafka nelle loro Metamorfosi, ma interiore e progressiva. Non ci si guarda allo specchio e, in un batter d'occhio, si vede un'altra persona, bensì di giorno in giorno si è trasformati nell'icona di Cristo con cui si è stati creati da Dio. La vita cristiana è una metamorfosi in atto tra l'uomo esteriore che si corrompe per la sua caducità e quello interiore che si trasforma di gloria in gloria. Soltanto chi ha uno sguardo che non si limita all'apparenza può contemplare il contrasto tra il peso leggero della tribolazione umana e quello sostanziale della trasformazione del nostro misero corpo. A questa trasformazione iniziata nel momento della fede in Cristo e con il battesimo sono destinati non soltanto i cristiani, ma tutti gli uomini poiché ognuno è creato a immagine e somiglianza di Cristo. Dio ci ha creati per questo e ha posto in noi la caparra o l'anticipo economico, a Sue spese, dello Spirito nei nostri cuori (cf. 2Corinzi 5,6). Qualsiasi azione dello Spirito nella vita cristiana, qualsiasi sua orma è garanzia della nostra risurrezione finale.

  • Restare per sempre con Cristo
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«Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. "Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno"» ( Fil 1,21; Catechismo, 1010).

La fede nella risurrezione si misura dal desiderio di andare e restare per sempre con Cristo; è il criterio più solare che Paolo consegna alla Chiesa di Filippi e a ogni cristiano. Capita spesso di trovare la prima parte di Filippesi 1,21 sotto gli stemmi dell'araldica, dietro i ricordini della propria ordinazione o all'inizio del proprio ministero, mentre la seconda parte è quasi sempre omessa; ed è naturale! Come si può considerare il morire un guadagno e Gesù Cristo il proprio vivere? Prima di Paolo c'è stato chi di fronte alle sofferenze fisiche e morali ha desiderato la morte o chi, come Platone nel Fedone, sostenga che «chi abbia realmente trascorso tutta la sua vita nella filosofia, non teme quando è sul punto di morire». Spesso si ritiene, in modo approssimativo, che il mondo greco-romano antico ignorasse qualsiasi prospettiva escatologica o sulla vita oltre la morte. Basta sfogliare le Disputazioni Tuscolane di Cicerone e alcune lettere di Seneca a Lucilio per rendersi conto di quanto sia errato tale assunto: «C'è una conclusione migliore che scivolare verso la propria fine perché il fisico si dissolve naturalmente? (...) Alla morte mi affiderò per giudicare i miei progressi» (Lettere a Lucilio 26,4-5). L'inaudita novità cristiana non sta nella convinzione sulla vita oltre la morte, bensì nel considerare Cristo il proprio vivere e il morire un guadagno. Dalla prima dimensione dipende, in modo naturale, la seconda; e dalla seconda si verifica la sincerità della prima. A nessuno è chiesto di cercare la morte: la vita è e resta dono inestimabile di Dio. Tuttavia a ognuno è chiesto di crescere nel rapporto con Cristo sino alla fine della vita. Soltanto allora, da ultimo nemico, la morte diventa un guadagno. Andare incontro a Cristo è come sciogliere gli ormeggi della propria barca, spiegare le vele e prendere il largo per raggiungere il porto definitivo (cf. Fil 1,23; 2Timoteo 4,6).

  • Tutti atleti in gara per il Cielo
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«Nella morte, Dio chiama a sé l'uomo. Per questo il cristiano può provare nei riguardi della morte un desiderio simile a quello di san Paolo» (Catechismo, 1011).

Nel I secolo d.C. si celebravano spesso i giochi negli stadi. Durante il Principato romano ai giochi olimpici si aggiungevano quelli istmici (a Corinto) e in onore dell'imperatore nelle città più importanti dell'Impero. Si trattava di un'iniziativa non soltanto sportiva ma anche politica, poiché era l'occasione per affermare una potenza civica sull'altra. La dimensione politica risaltava in occasione dei sovvenzionamenti economici dei giochi olimpici e quando si trattava di proclamare i vincitori. Spettava all'imperatore e non ad altri chiamare per nome i vincitori e conferire la corona di sedano o d'alloro per la vittoria. Tale contesto illumina le metafore atletiche utilizzate da Paolo nelle sue lettere (1Corinzi 9,25-27; Filippesi 3,12-14). La sua non è una corsa fisica, bensì interiore: la mèta è Cristo, il suo unico Signore; la corona sono le comunità che evangelizzato; e impegna tutto se stesso per gareggiare nella corsa o nel pugilato. Tuttavia, mentre nelle gare olimpiche soltanto i vincitori sono chiamati per nome per essere premiati, nella vita cristiana si è tutti chiamati dal Signore per essere insigniti di una corona fatta non di piante, bensì delle persone che si sono conquistate per la causa dell'evangelo. Spesso ci si sofferma sulla chiamata alla vita, al ministero laicale e sacerdotale, che conservano il loro inestimabile valore, ma si dimentica la chiamata finale: quella che segna il passaggio alla vita oltre la morte. Per questa chiamata di lassù o superiore, in tutti i sensi, vale la pena spendere le proprie energie, gareggiare nello stadio della vita e attendere la corona della gloria. Questo tipo di gara non è di chi corre isolato, ma di un gruppo. Si tratta di una quattro per quattro o di una staffetta che vede il testimone della fede passare di mano in mano sino alla mèta. Se il testimone cade a terra si è squalificati, se lo si tiene saldo durante la corsa si è premiati per la fatica che si è condivisa sino al traguardo.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 13 al 19 marzo 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 26, 2013 3:35 pm


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«La visione cristiana della morte (Cf 1Ts 4,13-14) è espressa in modo impareggiabile nella liturgia della Chiesa: "Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel cielo"» (Messale Romano, Prefazio dei defunti, I; Catechismo, 1012).

La vita umana è un esodo permanente: come una tenda di pastori che bisogna piantare in diversi luoghi, senza mai illudersi di trasformarla in edificio stabile e irremovibile. Questo è uno dei motivi dominanti dell'antropologia biblica che fa dell'esodo la spina dorsale dell'Antico e del Nuovo Testamento. Per questo il nostro corpo non è costruito da mani d'uomo, bensì è tessuto dal Signore sin dal seno materno (cf. Salmo 139,13). Durante la sua vita pubblica, più volte Gesù definisce il suo corpo come tempio del Signore non costruito da mani d'uomo (cf. Marco 14,58). E gli fa eco Paolo che considera il corpo dei credenti come dimora non umana, bensì costruita dal Signore (cf. 2Corinzi 5,1-5). Verso tale dimora si è chiamati a entrare dal momento in cui si è animati dallo Spirito; e si raggiunge quando si varca la soglia della vita presente. Per abitudine si è soliti affermare che, con la fine della vita, «torniamo alla casa del Padre». In realtà soltanto il Figlio di Dio torna alla casa da cui proviene (cf. Giovanni 13,1), mentre i credenti raggiungono ed entrano, attraverso la soglia della morte, nella casa del Padre. Mentre Gesù proviene e torna nella sua dimora, noi siamo chiamati a entrare nella dimora stabile, preparata dal Signore. Pertanto dovremmo dire non che torniamo, bensì che entriamo nella casa del Padre preparata per tutti coloro che pongono in Cristo la loro speranza (cf. Giovanni 14,1-4). Quello dei cristiani non è un ritorno al passato, bensì un viaggio verso una dimora stabile che relativizza qualsiasi attendamento nella vita quotidiana. Imparare a contemplare l'unica dimora stabile, perché non fatta da mani umane, è uno dei tratti sapienziali più espressivi della fede cristiana: insegna a relativizzare l'accessorio e a guardare l'essenziale!

  • La carne cardine di salvezza
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«La "risurrezione della carne" significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell'anima immortale, ma che anche i nostri "corpi mortali" (Rm 8,11) riprenderanno vita» (Catechismo, 990).

Siamo abituati a considerare l'anima e la carne come parti del corpo, mentre la Sacra Scrittura le ritiene come modalità dell'essere. L'anima, la carne, la coscienza, lo spirito e il respiro alludono a tutta la persona umana posta in relazione con gli altri. Per questo si dovrebbe dire che si è carne e non si ha una carne, si è anima e non si possiede un'anima, si è corpo e non si ha un corpo. Così la risurrezione della carne riguarda tutta la persona umana colta nella sua fragilità, ma destinata a una trasformazione integrale. Gesù Cristo è non l'unico, bensì il primo o meglio la primizia della risurrezione: è il primo frutto che anticipa un'abbondante mietitura. Per restare nell'ambito della natura, in 1Corinzi 15,35-42 Paolo utilizza l'esempio del chicco di grano che marcisce nel cuore della terra per produrre prima lo stelo e, in seguito, la spiga. La fede nella risurrezione della carne testimonia non soltanto che l'uomo nella sua caducità è trasformato, bensì che la sua corruttibilità è la condizione necessaria perché si giunga all'incorruttibilità. Si è come la creta modellata ogni giorno dalle mani del vasaio nella sua bottega e destinata a contenere il tesoro inestimabile di Cristo o del vangelo (cf. 2Corinzi 4,7). Il segno o il sacramento più tangibile della risurrezione della carne è il mistero eucaristico. Durante ogni celebrazione il pane e il vino sono trasformati, sotto l'azione dello Spirito, nel corpo e nel sangue di Cristo. Come la definisce Ignazio d'Antiochia, l'eucaristia è il «farmaco d'immortalità», l'antidoto contro la morte: è la medicina che guarisce dalle ferite interiori e innesta la trasformazione di tutta la persona umana. Contro tendenze che cercano di strumentalizzare e svalutare l'uomo nella sua caducità, nella malattia e nella fragilità, resta vera la confessione di Tertulliano: «Caro cardo salutis» (La carne è il cardine della salvezza).

  • La morte, l'ultimo nemico
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«La morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, è pertanto "l'ultimo nemico" dell'uomo a dover essere vinto» (Catechismo, 1008).

La stupenda pagina di 1Corinzi 15 si conclude con il canto della vittoria sulla morte. Radicato sulla fede nella risurrezione di Cristo e dei credenti in lui, Paolo osa sfidare la morte per chiederle dove sia la sua vittoria, dove sia il suo pungiglione. Come si può cantare la vittoria sulla morte se qualsiasi decesso crea sconcerto nel cuore umano? Quando poi è in gioco la morte di un ragazzo, come il figlio della vedova di Nain (cf. Luca 7,11-17),o di un amico come Lazzaro, si rischia di tracollare (cf. Giovanni 11,1-44). Neanche Gesù è rimasto impassibile, ma ha pianto di fronte allo scandalo del morte. Lo scandalo della morte è percorribile soltanto con la fede nella risurrezione, poiché Gesù è la risurrezione e la vita e chiunque crede in lui non muore, ma vive in eterno. Per Paolo è questione non soltanto di morte, bensì di necrosi. Differente è la morte dalla necrosi: la prima dice l'esito finale della vita, la seconda che è in atto un processo inarrestabile di mortalità. Seneca ricorda a Lucilio che cotidie morimur: «Ogni giorno moriamo, ogni giorno infatti si riduce parte della nostra vita e anche quando cresciamo in realtà la vita decresce» (Epistole 24). Invece per i cristiani ogni giorno portiamo la necrosi di Gesù nel nostro corpo mortale, affinché anche la sua vita si manifesti nella nostra carne mortale (cf. 2Corinzi 4,9-11). Qui sta tutto il paradosso della fede nella risurrezione: che tutto si chiuda non con il bollettino medico della morte avvenuta, né con il nulla, bensì che la necrosi fisica di ogni nostra cellula lascia il posto alla vita del Risorto in noi. Nella dimensione in cui non si è più se stessi a vivere, né tanto meno a vivere per se stessi, ma Cristo vive in noi, si è in condizione di poter incrociare lo sguardo della morte e di poter cantare la vittoria sull'ultimo nemico. Allora si è come portati in trionfo al seguito a una vittoria militare (cf. 2Corinzi 2,15-16): quando il canto di chi è stato conquistato da Cristo è accompagnato dal profumo di Cristo.

  • Uomo e cosmo, un unico destino
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«Quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l'uomo» (Catechismo, 1046).

Nel contesto della speranza finale verso i cieli nuovi e la terra nuova, il Catechismo rivolge l'attenzione non soltanto ai credenti in Cristo, ma a ogni persona umana e al cosmo, in una sconfinata condivisione del creato. E in tale contesto è riportata una delle pagine più elevate della Sacra Scrittura: il capitolo ottavo della Lettera ai Romani e precisamente i versetti in cui Paolo ricorda che tutta la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio e nutre la speranza di essere definitivamente liberata dalla schiavitù della corruzione (cf. Romani 8,19-23). Un intercalarsi di gemiti esprime la condizione universale della corruzione: dai gemiti della creazione a quelli dei credenti sino a quelli dello Spirito che viene in aiuto della nostra debolezza. Tra la creazione che comprende la natura e coloro che non credono, i credenti e lo Spirito c'è un legame profondo che valica lo sguardo materiale e vincola l'uno all'altro, in un esodo comune verso la patria. Per questo la bellezza della fede è dell'umanità e del creato, che intravedono l'armonia del tutto e attendono la definitiva realizzazione della liberazione dal peccato e dalla morte. Gravosa è la responsabilità che pende sui credenti: non possono permettersi il lusso di vacillare nella fede, nonostante i gemiti naturali che in loro producono la sofferenza e la morte. Altrimenti l'ardente attesa della creazione si smorza e il suo gemito rimane inascoltato. Alla Chiesa sono affidati i gemiti dell'umanità che non crede, della creazione e del cosmo: ha il dovere di farsene sempre carico; e può farlo soltanto quando la sua debolezza si trasforma in forza mediante l'azione dello Spirito. Allora «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore« (Gaudium et spes 1).

  • Ogni lacrima sarà asciugata
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«Il cielo è il fine ultimo dell'uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva» (Catechismo, 1025).

Per parlare del paradiso, il Catechismo sceglie il luogo che più di tutti rinvia all'infinita presenza e potenza di Dio: il cielo. Con il cielo si chiude l'ultimo libro della Bibbia che è l'Apocalisse (cf. 21,1-27). Giovanni contempla un cielo e una terra nuovi che sostituiscono il cielo, la terra e il mare che possiamo osservare ogni giorno. E dal cielo si vede giungere, come una splendida donna, la Gerusalemme nuova. Lei viene da Dio ed è pronta come una sposa adorna per incontrare il suo sposo. Potente è la voce che ascolta Giovanni: proviene dal trono dell'agnello morto e risorto, sgozzato e ritto al centro della storia umana. E la voce annunzia che Dio asciugherà ogni lacrima dagli occhi: non vi saranno più lutti, lamenti, affanni perché le cose vecchie sono passate, mentre nascono di nuove. Quando uno è in Cristo è una creatura nuova, a tal punto che non c'è più spazio per le cose passate (cf. 2Corinzi 5,17). Entrarvi è come partecipare allo sposalizio migliore: dello Sposo che raggiunge la sua Sposa e di questa che è guidata dallo Spirito per andargli incontro. Tuttavia alle nozze non s'entra con un vestito qualsiasi, ma soltanto con l'abito nuziale (cf. Matteo 22,1-14), altrimenti si rischia di essere espulsi. Forse non ha tutti i torti Umberto Galimberti quando denuncia che con il trascorrere dei secoli il cristianesimo è diventato «la religione dal cielo vuoto». Quando il senso del sacro scompare e tutto si riduce al temporale o al politico, nel senso più proprio del termine, il rischio del cielo vuoto è sempre in agguato. Ma quando fra tutte le desacralizzazioni in atto si è in condizione di ascoltare il soffio dello Spirito, allora si comprende che bisogna rinascere non dal basso, ma dall'alto (cf. Giovanni 3,7). Difficile non è attraversare il cielo e tornare dichiarando di aver visto il vuoto, ma cercare le cose di lassù dov'è Cristo seduto alla destra di Dio (cf. Colossesi 3,1-2).

  • Liberi dalla scorie del peccato
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«Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio» (Catechismo, 1032).

Per fortuna si è lontani dal tempo in cui si credeva che ogni soldo che scende nella cassetta permette a un'anima del purgatorio di salire in paradiso. Siamo capaci di strumentalizzare qualsiasi realtà della fede, anche la più semplice. La fede nel purgatorio veicola una verità ben più profonda di un superficiale interscambio economico tra officio e beneficio. Piuttosto risponde al riconoscimento della propria povertà per essere liberati dalle scorie del peccato e restare per sempre con Cristo. Il purgatorio esprime il bisogno naturale di essere purificati in modo risolutivo dal peccato per entrare nella dimora definitiva.
Durante tale purificazione, c'è una solidarietà che accompagna il culto dei defunti, fatta di gesti che, per quanto possano sembrare banali, esprimono il senso del ricordo e della memoria. Con questa prospettiva, nel Secondo Libro dei Maccabei si racconta che Giuda maccabeo fece offrire sacrifici espiatori per i morti, affinché fossero assolti dal peccato (cf. 12,45). Il culto per i morti è antico quanto l'uomo e s'inscrive nella naturale esigenza di conservare il legame con coloro che dormono. Più che uno spazio, il Purgatorio è una condizione dell'uomo che nel viaggio verso l'incontro con Cristo non è solo, ma è accompagnato da quanti condividono il suo esodo. Una Chiesa in esodo è quella che ogni giorno si purifica per comparire come vergine casta per Cristo, il suo unico sposo (cf. 2Corinzi 11,2). Una volta liberata da una concezione commerciale, fondata sulla logica del do ut des, la celebrazione eucaristica è il momento più significativo per ricordare al Signore i propri familiari defunti. L'eucaristia è il memoriale del sacrificio di Cristo; e con lui c'è il ricordo di quanti sono in lui per la fede per essere con lui oltre la soglia della morte.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 20 al 26 marzo 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 02, 2013 9:37 am


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«Gesù parla ripetutamente della "Geenna", del "fuoco inestinguibile", che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo» (Catechismo 1034).

Per parlare dell'inferno, Gesù si è fermato a osservare la valle scavata dal fiume Hinnon a sud di Gerusalemme, che nei periodi di siccità diventa luogo per i rifiuti. Oggi parleremmo d'immondezzaio o di inceneritori più o meno ecologici. E dalla Geenna ha tratto spunti per raccontare alcune parabole che annunciano non soltanto l'esito positivo, ma anche quello infausto dell'esistenza umana. Inferno è non rendersi conto che davanti alla propria porta c'è un povero in attesa di essere soccorso, come Lazzaro; è giudicare senza misericordia l'altro; è serrare il proprio cuore alla riconciliazione con il prossimo; è seminare zizzania in un campo di grano; è non mettere a frutto i talenti ricevuti; è vendere la propria vita per il potere e per la propria gloria. Sapere che esiste l'inferno è conoscere un luogo dove non è possibile edificare, piantare, dove il fetore impedisce di respirare. In quel luogo Dio non entra poiché significherebbe che è connivente con il male, che il bene non è diverso dal male e che qualunque cosa facciamo Egli è dalla nostra parte. A forza di dire che l'inferno non esiste o che se esiste è vuoto, si è trasferito l'inferno nella vita di ogni giorno, quando si è sempre insoddisfatti del potere, della ricchezza e dei piaceri. Ma, al di sopra di tutto, inferno è non credere all'amore di Dio in Cristo poiché chi non crede in lui non ha bisogno di essere condannato, ma si è già condannato e chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce (cf. Giovanni 3,18-20). Gesù non ha parlato della Geenna come luogo di perdizione per spaventare i suoi ascoltatori, ma perché non ci s'illudesse che la misericordia di Dio possa prescindere dall'accoglienza del suo amore e dall'amore per il prossimo. Non c'è nulla dell'inferno che sia una sorpresa, ma tutto è anticipato nell'ostinato rifiuto dell'amore di Dio.

  • Un giudizio senza ricorso
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«Il Giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena» (Catechismo, 1039).

Nelle città più importanti dell'Impero romano c'era sempre una sedia per il tribunale, dove il giudice sedeva, partecipava ai dibattiti giudiziari ed emetteva la sentenza finale di un processo. Ci riferiamo al cosiddetto bema, rinvenuto in diversi siti archeologici antichi. Secondo la narrazione degli Atti degli apostoli Paolo fu condotto di fronte al bema di Gallione, proconsole dell'Acaia (cf. At 18,12) tra il 51 e il 52 d.C. Allo stesso bema, fatto in genere di pietra, allude Paolo, quando precisa che ognuno dovrà comparire di fronte al tribunale di Dio (cf. Romani 14,10) o di Cristo (cf. 2Corinzi 5,10) e dovrà rendere conto per le azioni compiute in vita. Al bema allude anche Gesù che racconta la parabola del giudizio finale quando verrà il figlio dell'uomo e siederà sul trono della sua gloria (cf. Matteo 25,31-46). Sconfinata e inescusabile è la parabola del giudizio finale. Sconfinata perché non riguarda soltanto i credenti, ma anche gli atei, non si limita soltanto a coloro che hanno conosciuto, ma anche a quanti non hanno mai sentito parlare di Gesù. La più inescusabile delle parabole di Gesù perché non lascia spazio e tempo per alcuna forma di appello in giudizio: la sentenza non può essere contestata. Da una parte si trovano quanti hanno soccorso i bisognosi, dall'altra coloro che non hanno colmato le povertà del prossimo. Entrambi gli schieramenti sono meravigliati dal modo con cui giudica il Figlio dell'uomo perché emette la sentenza senza l'alibi più naturale: essere riconosciuto o ignorato nel volto dei poveri. Questa è l'unica sorpresa che bisogna attendersi alla fine della vita: che il povero abbia il volto di Cristo per essere servito, anche senza essere riconosciuto. Spesso si arzigogola inutilmente su quale sarà l'esito finale della propria esistenza. La parabola del giudizio finale è cristallina, solare e non ha bisogno di difficili interpretazioni.

  • Amen, il «sì» che vuol dire fedeltà
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«Gesù Cristo stesso è l'"Amen" (Ap 3,14). Egli è l'"Amen" definitivo dell'amore del Padre per noi; assume e porta alla sua pienezza il nostro "Amen" al Padre» (Catechismo, 1065).

La lettera inviata all'angelo della Chiesa di Laodicea, menzionata dal Catechismo, così prosegue: «Il testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio». Il termine amen significa «certamente», «veramente» ed è diffuso nelle lingue semitiche: dall'ebraico all'aramaico. In molti casi corrisponde al semplice «sì» ed esprime l'assenso a una precedente richiesta. Nella sua vita Gesù pronuncia spesso questa parola quando introduce, con autorità, i suoi discorsi: «In verità, in verità vi dico…». Gesù si è dimostrato fedele nei confronti del Padre e misericordioso verso gli uomini: non è venuto mai meno alla sua fedeltà. Ed è per questa obbedienza fedele sino alla morte, e alla morte di croce (cf. Filippesi 2,8), che è diventato Sommo ed eterno Sacerdote: misericordioso con gli uomini e fedele al Padre (cf. Ebrei 2,17). In lui s'incontrano la fedeltà di Dio e la fiducia degli uomini; anzi egli è il sì fedele di Dio che interroga e chiede l'amen dei credenti (cf. 2Corinzi 1,20). In lui non c'è spazio per il no e tanto meno per qualsiasi tentennamento. La fede è non soltanto risposta, ma è anche fiducia, fedeltà poiché non è concepibile alcuna relazione con Dio che non coinvolga tutta la persona umana. Da una parte si trova la fedeltà di Dio a se stesso, che precede e trascende qualsiasi risposta umana; dall'altra è espressa la fiducia della Chiesa che nel tempo continua a pronunciare l'amen per rendere gloria a Dio. Dio non è fedele per dovere, né per sentito dire, bensì perché ha tanto amato il mondo da inviare il suo Figlio Unigenito affinché ciascuno abbia la vita per mezzo di lui. Il suo è un amore incondizionato. Tra la fiducia senza misura del Padre e l'amen della Chiesa c'è l'incrollabile fedeltà di Cristo. Per questo se manchiamo di fede lui continua a restare fedele poiché non può rinnegare se stesso (cf. 2Timoteo 2,13).

  • L'immagine nello specchio
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«Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede» (Agostino, Sermoni 58,11,13; Catechismo, 1064).

Nel Nuovo Testamento si parla raramente dello specchio. Fra i rari casi c'è quello di 1 Corinzi 13,12-13, quando Paolo ricorda che ora vediamo come in uno specchio, ma alla fine della nostra vita vedremo faccia a faccia il Signore, come egli è realmente. A sua volta il simbolo è la tessera dell'ospitalità: la metà di una tessera di creta che si conserva fin quando non ci s'incontra di nuovo tra amici che si separano. Il Simbolo della fede che attraversa il Catechismo è come uno specchio nel quale il volto dell'uomo si riflette. L'immagine o l'icona di Dio che si riflette nello specchio è di Cristo; ed è in questa immagine che veniamo trasformati di gloria in gloria (cf. 2 Corinzi 4,18). Tuttavia questo specchio ci è dato non per alimentare forme di narcisismo della fede, bensì affinché si passi dall'ascolto alla pratica della Parola di Dio. Con il pragmatismo che lo caratterizza, l'Apostolo Giacomo pone in guardia da una fede autoreferenziale (cf. Giacomo 1,23), di chi si contempla nello specchio per interrogare chi sia il o la più bella di tutto il creato. Guardare il Simbolo della fede come uno specchio è trovare un punto di riferimento di fronte al quale ognuno valuta se stesso e si riconosce, con realismo, nel volto che si riflette. Ogni mattino ci si guarda allo specchio, e ci s'interroga sul proprio aspetto: se buono, accettabile o pessimo. Il Simbolo della fede non appartiene soltanto ad alcuni momenti della vita umana: al battesimo o in occasione degli altri sacramenti. Piuttosto è lo specchio che accompagna ogni giorno i credenti e li aiuta a valutare se stessi sino alla fine della loro esistenza, quando finalmente non sarà necessario più alcuno specchio e s'incontrerà Colui che conserva l'altra metà del Simbolo. Fin quando siamo in vita abbiamo bisogno del Simbolo, che è lo specchio della fede, altrimenti ognuno si riflette nello specchio di una fontana, e rischia di annegare.

  • Il testamento della fede
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«So a chi ho creduto» (2Tm 1,12; Catechismo, 149).

Il nostro percorso con il Catechismo giunge a conclusione e, mentre ringrazio di cuore per l'attenzione rivolta alla nostra rubrica, vale la pena terminare con la lapidaria dichiarazione di Paolo a Timoteo. La Seconda Lettera a Timoteo è il testamento spirituale di Paolo, affidata al collaboratore che gli è stato più fedele. In prossimità del processo, quando sta per essere versato in libagione o per essere martirizzato a causa del vangelo, Paolo ripercorre la sua esistenza, la valuta con essenzialità. Da una parte si trova di fronte al fallimento nelle sue comunità sparse ormai nelle città più importanti dell'Impero; dall'altra rimane il suo rapporto incrollabile con il Signore. Mentre ricorda che tutti lo hanno abbandonato, durante il processo rivolge la sua attenzione al destinatario della sua fede: Gesù Cristo, il suo Signore. La fede è non tanto convinzione o persuasione, dettata dal ragionamento, ma è anzitutto fiducia, fedeltà e affidamento. Essa non si misura dal successo, né dagli esiti positivi che possono esserci o mancare, bensì dalla convinzione che vale la pena spendere la propria vita per una giusta causa. E la convinzione di Paolo si fonda sulla certezza che il suo Signore custodirà sino alla fine il deposito della fede che gli ha affidato. "Custodire" è il verbo che pone in moto e accompagna sino alla fine il cammino della fede. Per questo da una parte il Risorto custodisce la vita di Paolo, dall'altra Paolo consegna a Timoteo il deposito della fede; e Timoteo custodirà, mediante lo Spirito Santo, il bene prezioso che gli è affidato. Custodire è più che conservare poiché si può anche conservare un bene senza tenerlo in giusta considerazione, mentre quando lo si custodisce si è coinvolti nella vigilanza e nella speranza di poterlo tenere in vita. Di fronte alla domanda se quando il Figlio dell'uomo tornerà troverà la fede sulla terra (cf. Luca 18,8), la Chiesa risponde con i testimoni che hanno conservato la fede sino a custodirla e a consegnarla di mano in mano.

  • La fede è un incontro fiducioso
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«Nella liturgia, la Chiesa celebra principalmente il mistero pasquale per mezzo del quale Cristo ha compiuto l'opera della nostra salvezza» (Catechismo, 1067).

La fede non può restare a livello di sola adesione intellettuale. Il sì fiducioso alle formulazioni dogmatiche tende necessariamente a diventare incontro, grazie meravigliato, dialogo fiducioso, con il Cristo: «All'inizio dell'essere cristiano – scrive Benedetto XVI – non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). La liturgia cristiana è il "luogo" privilegiato di questo incontro: pur rispondendo al bisogno umano di rendere culto a Dio, è prima di tutto concretizzazione del "chinarsi" misericordioso di Dio verso l'uomo. Si struttura perciò intorno all'evento culminante di questo "chinarsi" di Dio: la morte e risurrezione del Cristo. Le celebrazioni liturgiche non solo ricordano, ma rendono presente e operante il mistero pasquale. Attraverso i segni, ci fanno crescere nella fede e ci aprono sempre più al donarsi totale del Cristo fino alla morte in croce, al suo risorgere, che segna la sconfitta del potere di morte del peccato, al suo precederci nella gloria del Padre, al suo donarci lo Spirito come luce e forza di cammino. La partecipazione alla liturgia non può essere ridotta a una "formalità" o a un "dovere" da assolvere: è gioia di incontro. Nella liturgia, scrive ancora il Papa, «sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore» (Deus caritas est, 17). Strutturandosi intorno al mistero pasquale, la liturgia tende proprio a non farci perdere di vista che il nostro Dio è amore che vuole la pienezza e la felicità dell'uomo, non già idolo invidioso o limitante la nostra libertà: incontrarlo è sperimentare possibilità sempre nuove di speranza che danno senso e fiducia alla vita.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 27 marzo al 2 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer apr 03, 2013 2:04 pm


  • L'Anno della Fede. La Morte e la Risurrezione di Gesù sono il cuore della nostra speranza
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno,

oggi riprendiamo le Catechesi dell’Anno della fede. Nel Credo ripetiamo questa espressione: «Il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture». E’ proprio l’evento che stiamo celebrando: la Risurrezione di Gesù, centro del messaggio cristiano, risuonato fin dagli inizi e trasmesso perché giunga fino a noi. San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «A voi… ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto; cioè che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Questa breve confessione di fede annuncia proprio il Mistero Pasquale, con le prime apparizioni del Risorto a Pietro e ai Dodici: la Morte e la Risurrezione di Gesù sono proprio il cuore della nostra speranza. Senza questa fede nella morte e nella risurrezione di Gesù la nostra speranza sarà debole, ma non sarà neppure speranza, e proprio la morte e la risurrezione di Gesù sono il cuore della nostra speranza. L’Apostolo afferma: «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (v. 17). Purtroppo, spesso si è cercato di oscurare la fede nella Risurrezione di Gesù, e anche fra gli stessi credenti si sono insinuati dubbi. Un po’ quella fede “all’acqua di rose”, come diciamo noi; non è la fede forte. E questo per superficialità, a volte per indifferenza, occupati da mille cose che si ritengono più importanti della fede, oppure per una visione solo orizzontale della vita. Ma è proprio la Risurrezione che ci apre alla speranza più grande, perché apre la nostra vita e la vita del mondo al futuro eterno di Dio, alla felicità piena, alla certezza che il male, il peccato, la morte possono essere vinti. E questo porta a vivere con più fiducia le realtà quotidiane, affrontarle con coraggio e con impegno. La Risurrezione di Cristo illumina con una luce nuova queste realtà quotidiane. La Risurrezione di Cristo è la nostra forza!

Ma come ci è stata trasmessa la verità di fede della Risurrezione di Cristo? Ci sono due tipi di testimonianze nel Nuovo Testamento: alcune sono nella forma di professione di fede, cioè di formule sintetiche che indicano il centro della fede; altre invece sono nella forma di racconto dell’evento della Risurrezione e dei fatti legati ad esso. La prima: la forma della professione di fede, ad esempio, è quella che abbiamo appena ascoltato, oppure quella della Lettera ai Romani in cui san Paolo scrive: «Se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è il Signore!”, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10,9). Fin dai primi passi della Chiesa è ben salda e chiara la fede nel Mistero di Morte e Risurrezione di Gesù. Oggi, però, vorrei soffermarmi sulla seconda, sulle testimonianze nella forma di racconto, che troviamo nei Vangeli. Anzitutto notiamo che le prime testimoni di questo evento furono le donne. All’alba, esse si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, e trovano il primo segno: la tomba vuota (cfr Mc 16,1). Segue poi l’incontro con un Messaggero di Dio che annuncia: Gesù di Nazaret, il Crocifisso, non è qui, è risorto (cfr vv. 5-6). Le donne sono spinte dall’amore e sanno accogliere questo annuncio con fede: credono, e subito lo trasmettono, non lo tengono per sé, lo trasmettono. La gioia di sapere che Gesù è vivo, la speranza che riempie il cuore, non si possono contenere. Questo dovrebbe avvenire anche nella nostra vita. Sentiamo la gioia di essere cristiani! Noi crediamo in un Risorto che ha vinto il male e la morte! Abbiamo il coraggio di “uscire” per portare questa gioia e questa luce in tutti i luoghi della nostra vita! La Risurrezione di Cristo è la nostra più grande certezza; è il tesoro più prezioso! Come non condividere con gli altri questo tesoro, questa certezza? Non è soltanto per noi, è per trasmetterla, per darla agli altri, condividerla con gli altri. E' proprio la nostra testimonianza.

Un altro elemento. Nelle professioni di fede del Nuovo Testamento, come testimoni della Risurrezione vengono ricordati solamente uomini, gli Apostoli, ma non le donne. Questo perché, secondo la Legge giudaica di quel tempo, le donne e i bambini non potevano rendere una testimonianza affidabile, credibile. Nei Vangeli, invece, le donne hanno un ruolo primario, fondamentale. Qui possiamo cogliere un elemento a favore della storicità della Risurrezione: se fosse un fatto inventato, nel contesto di quel tempo non sarebbe stato legato alla testimonianza delle donne. Gli evangelisti invece narrano semplicemente ciò che è avvenuto: sono le donne le prime testimoni. Questo dice che Dio non sceglie secondo i criteri umani: i primi testimoni della nascita di Gesù sono i pastori, gente semplice e umile; le prime testimoni della Risurrezione sono le donne. E questo è bello. E questo è un po’ la missione delle donne: delle mamme, delle donne! Dare testimonianza ai figli, ai nipotini, che Gesù è vivo, è il vivente, è risorto. Mamme e donne, avanti con questa testimonianza! Per Dio conta il cuore, quanto siamo aperti a Lui, se siamo come i bambini che si fidano. Ma questo ci fa riflettere anche su come le donne, nella Chiesa e nel cammino di fede, abbiano avuto e abbiano anche oggi un ruolo particolare nell’aprire le porte al Signore, nel seguirlo e nel comunicare il suo Volto, perché lo sguardo di fede ha sempre bisogno dello sguardo semplice e profondo dell’amore. Gli Apostoli e i discepoli fanno più fatica a credere. Le donne no. Pietro corre al sepolcro, ma si ferma alla tomba vuota; Tommaso deve toccare con le sue mani le ferite del corpo di Gesù. Anche nel nostro cammino di fede è importante sapere e sentire che Dio ci ama, non aver paura di amarlo: la fede si professa con la bocca e con il cuore, con la parola e con l’amore.

Dopo le apparizioni alle donne, ne seguono altre: Gesù si rende presente in modo nuovo: è il Crocifisso, ma il suo corpo è glorioso; non è tornato alla vita terrena, bensì in una condizione nuova. All’inizio non lo riconoscono, e solo attraverso le sue parole e i suoi gesti gli occhi si aprono: l’incontro con il Risorto trasforma, dà una nuova forza alla fede, un fondamento incrollabile. Anche per noi ci sono tanti segni in cui il Risorto si fa riconoscere: la Sacra Scrittura, l’Eucaristia, gli altri Sacramenti, la carità, quei gesti di amore che portano un raggio del Risorto. Lasciamoci illuminare dalla Risurrezione di Cristo, lasciamoci trasformare dalla sua forza, perché anche attraverso di noi nel mondo i segni di morte lascino il posto ai segni di vita. Ho visto che ci sono tanti giovani nella piazza. Eccoli! A voi dico: portate avanti questa certezza: il Signore è vivo e cammina a fianco a noi nella vita. Questa è la vostra missione! Portate avanti questa speranza. Siate ancorati a questa speranza: questa àncora che è nel cielo; tenete forte la corda, siate ancorati e portate avanti la speranza. Voi, testimoni di Gesù, portate avanti la testimonianza che Gesù è vivo e questo ci darà speranza, darà speranza a questo mondo un po’ invecchiato per le guerre, per il male, per il peccato. Avanti giovani!
  • papa Francesco, mercoledì 3 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 09, 2013 3:42 pm


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«Questo Mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo (Catechismo, 1068)».

Il mistero del Cristo è il mistero dell'amore di Dio, che si dona senza riserve e apre alla speranza. «La fede – scrive Benedetto XVI – ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore!». Questa certezza «dell'amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce – in fondo l'unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (Deus caritas est, 39). Dio è sempre il primo ad amare: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Ed è un amore che non si è lascia bloccare nemmeno dal rifiuto più radicale dell'uomo: quello che sfocia nella croce del Cristo. Nella liturgia, soprattutto nell'eucaristia, viene nuovamente ricordato e reso presente questo amore. La partecipazione ad essa è autentica se ci porta ad accoglierlo con gratitudine gioiosa. Non ci fa dimenticare certo i nostri limiti e le nostre carenze, ma ci fa sperimentare che, amandoci per primo, Dio ci rende degni del suo amore e «cooperatori» del Vangelo per i fratelli (cf Ef 1,3-6). Il brano del Catechismo, citato all'inizio, lo sottolinea riportando un passo molto denso della Sacrosanctum Concilium: la liturgia «contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa» (n. 5). La responsabilità del credente scaturisce ed è resa possibile dall'anticipo di Dio. È sempre una con-responsabilità: con Dio e con gli altri fratelli. Va perciò attuata con fiducia, anche quando le situazioni si fanno più complesse e difficili, ripetendo con Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5).

  • Convocati dallo Spirito Santo
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«Il termine "liturgia" significa originalmente "opera pubblica", "servizio da parte del popolo e in favore del popolo". Nella tradizione cristiana vuole significare che il popolo di Dio partecipa all'"opera di Dio". Attraverso la liturgia Cristo, nostro Redentore e Sommo Sacerdote, continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l'opera della nostra Redenzione» (Catechismo 1069).

La dimensione comunitaria della salvezza cristiana fa ancora fatica ad essere percepita e vissuta da parte di tanti credenti. Sono ancora forti gli influssi di visioni e di stili di vita improntati all'individualismo. Il monito di Benedetto XVI resta di forte attualità: «La vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all'essere nell'unione esistenziale con un "popolo" e può realizzarsi per ogni singolo solo all'interno di questo "noi". Essa presuppone, appunto, l'esodo dalla prigionia del proprio "io"» (Spe Salvi, 14). È in questa prospettiva che il Vaticano II ha approfondito il mistero della Chiesa: «In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cf At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (Lumen gentium, 9). La liturgia può essere compresa solo in questa prospettiva. Non è mai un fatto "privato", pur toccando in profondità le singole persone: è sempre espressione e costruzione della "convocazione" operata incessantemente dallo Spirito che ci rende Chiesa. La liturgia non va vista solo come il "luogo" in cui i singoli fedeli ricevono la grazia. Questo è vero, ma è altrettanto vero che essa è anche espressione della convocazione e della responsabilità di tutti per il Vangelo: la liturgia è «esercizio dell'ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale» (Sacrosanctum Concilium, 7).

  • Liturgia, nessuno resti passivo
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«Opera di Cristo, la liturgia è anche un'azione della sua Chiesa. Essa realizza e manifesta la Chiesa come segno visibile della comunione di Dio e degli uomini per mezzo di Cristo. Impegna i fedeli nella vita nuova della comunità» (Catechismo, 1071).

Per i cristiani il sì della fede non è solo esperienza gioiosa dell'anticipo di amore da parte di Dio Amore, ma è anche scoprirsi chiamati a diventare segno fattivo di questo stesso amore per gli altri. Il battesimo li rende «cooperatori per il Vangelo», come scriveva Paolo ai Filippesi: «Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (Fil 1,3-6). Il Vaticano II può perciò parlare di analogia tra l'umanità assunta dal Verbo e la Chiesa nei riguardi dello Spirito: «Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo» (Lumen gentium, 8). Nella liturgia la Chiesa esprime in maniera privilegiata questa sua fondamentale dimensione sacramentale. Convocati per la celebrazione, nessuno deve restare passivo: ognuno, secondo le proprie specifiche competenze e ruolo, deve parteciparvi «consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (Sacrosanctum Concilium, 7). Sarà così possibile esprimere il reciproco diventare per l'altro possibilità dell'incontro con Dio. Per questo è però necessario che la liturgia non venga separata dalla vita, ma venga vissuta come suo culmine e fonte: preceduta «dalla evangelizzazione, dalla fede e dalla conversione», porterà «i suoi frutti nella vita dei fedeli: la vita nuova secondo lo Spirito, l'impegno nella missione della Chiesa ed il servizio della sua unità» (Catechismo, 1072).

  • Pregare sempre, senza stancarsi
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«La liturgia è partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo della liturgia, l'uomo interiore è radicato e fondato nel "grande amore con il quale il Padre ci ha amati" (Ef 2,4) nel suo Figlio diletto. Ciò che viene vissuto e interiorizzato da ogni preghiera, "in ogni tempo, nello Spirito" (Ef 6,18) è la stessa "meraviglia di Dio"» (Catechismo, 1073).

La partecipazione alla liturgia non esaurisce la preghiera dei credenti. Secondo la parola del loro Maestro, infatti, essi devono «pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Come lui nell'orto degli ulivi, occorre pregare soprattutto quando la vita pone dinanzi a scelte difficili: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). La liturgia va considerata come il fulcro di questo incessante pregare: ne è l'espressione più alta e al tempo stesso la fonte e il modello. Se è un errore privilegiare le forme popolari di preghiera, è parimenti un errore limitarsi solo alla celebrazione liturgica. Dalla liturgia la preghiera attinge soprattutto la necessità che venga sempre vissuta come partecipazione all'incessante intercedere del Cristo per noi: un pregare nel suo nome, come egli stesso raccomandava ai discepoli: «Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò» (Gv 14, 13-14). Dalla liturgia occorre attingere la maniera in cui articolare la nostra preghiera quotidiana. Il chiedere fiducioso è certamente una dimensione importante, forse quella che affiora più spontaneamente. La liturgia però ci ricorda che essa va accompagnata da altre dimensioni, parimenti importanti: la lode ammirata, il grazie gioioso per quanto ci è stato già donato, il riconoscimento sincero del bisogno di perdono per le nostre chiusure e i nostri rifiuti. Soprattutto la liturgia insegna a vivere la preghiera come apertura e accoglienza grata dell'azione dello Spirito che continua a chinarsi sulla nostra piccolezza per operare «cose grandi», come in Maria (cf Lc 1,48-49).

  • Le parole e i gesti della liturgia
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«La liturgia è "il luogo privilegiato della catechesi del popolo di Dio» (Catechismo, 1074).

È un'affermazione che il Catechismo motiva partendo dalla fondamentale affermazione della Sacrosanctum Concilium: «La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (10). Viene ulteriormente confermata con le parole di Giovanni Paolo II in Catechesi tradendae: la catechesi è «intrinsecamente collegata con tutta l'azione liturgica e sacramentale, perché è nei sacramenti, e soprattutto nell'Eucaristia, che Gesù Cristo agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini» (23). Tra le diverse forme di analfabetismo, che oggi caratterizzano numerosi credenti, quello liturgico è tra di più diffusi. È sufficiente, ad esempio, partecipare a una eucaristia domenicale per vedere subito quanto sia forte l'ignoranza del significato dei gesti liturgici, anche più semplici come quelli che sono propri dei fedeli nei diversi momenti della celebrazione. La gestualità liturgica condivisa non è una semplice formalità da rispettare: è condividere un significato, testimoniarlo, approfondirlo insieme. Si pensi ad esempio al rispetto, alla prontezza ad accoglierlo e a trasformarlo in cammino di vita che vengono ricordati dall'ascolto in piedi della Parola del Signore. Occorre un impegno specifico della catechesi che porti alla comprensione dei segni e dei gesti della liturgia. La sua necessità è oggi ancora più forte, perché sono forti nella nostra cultura le tendenze a inflazionare o banalizzare anche gesti umanamente più carichi di significato, come quelli affettivi. La liturgia però è anche in se stessa catechesi: le parole, i segni, i gesti invitano a penetrare sempre più profondamente nel mistero pasquale. In quanto mistagogia, «mira a introdurre nel mistero di Cristo» procedendo «dal visibile all'invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai "sacramenti" ai "misteri"» (Catechismo, 1075). È questo un patrimonio prezioso che l'Oriente cristiano ha particolarmente custodito e di cui dovremmo tornare ad arricchirci maggiormente, lasciandoci guidare dalla bellezza come porta sul mistero.

  • Sacramenti, l'incontro con Dio
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«Con l'effusione dello Spirito nel giorno di Pentecoste prende il via "un tempo nuovo nella dispensazione del Mistero: il tempo della Chiesa, nel quale Cristo manifesta, rende presente e comunica la sua opera di salvezza per mezzo della liturgia della sua Chiesa". Si realizza "ciò che la tradizione comune dell'Oriente e dell'Occidente chiama l'economia sacramentale", che "consiste nella comunicazione (o dispensazione) dei frutti del mistero pasquale di Cristo nella celebrazione della Liturgia sacramentale della Chiesa"» (Catechismo, 1076).

Spesso oggi si fa fatica a comprendere e soprattutto ad accogliere e vivere i sacramenti. Pesano ancora presentazioni del passato che insistevano sui sacramenti come doveri, a cominciare dall'eucaristia domenicale, senza impegnarsi a porne adeguatamente in luce il significato. Per altri le difficoltà derivano dai ritardi della catechesi o dalla qualità delle celebrazioni alle quali hanno partecipato, oppure dal desiderio di un rapporto diretto, senza mediazioni, con Dio. I sacramenti non sono qualcosa che la Chiesa ha "inventato" e "imposto". Sono un dono che Dio ha progettato per noi, continuando e attualizzando il dono supremo del Figlio che si è fatto uno di noi e per noi ha sacrificato tutto se stesso sulla croce. Solo alla luce dell'incarnazione e della morte-risurrezione del Cristo è possibile arrivare a penetrare il mistero di amore che si fa esperienza per noi nei sacramenti. Nelle celebrazioni sacramentali si rinnova l'esperienza viva che Giovanni sottolinea nella sua prima lettera: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1-3). Nei sacramenti continua la chenosi misericordiosa di Dio, che mette da parte la sua gloria per farsi incontrare da noi come amore che non vuole altro che la nostra pienezza e la nostra felicità. Il nostro grazie non può che essere incessante e gioioso.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 3 al 9 aprile 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 15, 2013 10:09 am


  • L'Anno della Fede. La portata salvifica della Risurrezione
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Cari fratelli e sorelle, buon giorno!

Nella scorsa Catechesi ci siamo soffermati sull'evento della Risurrezione di Gesù, in cui le donne hanno avuto un ruolo particolare. Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell'abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova. San Pietro lo esprime sinteticamente all'inizio della sua Prima Lettera, come abbiamo ascoltato: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un'eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1,3-4).

L'Apostolo ci dice che con la Risurrezione di Gesù qualcosa di assolutamente nuovo avviene: siamo liberati dalla schiavitù del peccato e diventiamo figli di Dio, siamo generati cioè ad una vita nuova. Quando si realizza questo per noi? Nel Sacramento del Battesimo. In antico, esso si riceveva normalmente per immersione. Colui che doveva essere battezzato scendeva nella grande vasca del Battistero, lasciando i suoi vestiti, e il Vescovo o il Presbitero gli versava per tre volte l'acqua sul capo, battezzandolo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Poi il battezzato usciva dalla vasca e indossava la nuova veste, quella bianca: era nato cioè ad una vita nuova, immergendosi nella Morte e Risurrezione di Cristo. Era diventato figlio di Dio. San Paolo nella Lettera ai Romani scrive: voi «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!"» (Rm 8,15). È proprio lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo che ci insegna, ci spinge, a dire a Dio: "Padre", o meglio, "Abbà!" che significa "papà". Così è il nostro Dio: è un papà per noi. Lo Spirito Santo realizza in noi questa nuova condizione di figli di Dio. E questo è il più grande dono che riceviamo dal Mistero pasquale di Gesù. E Dio ci tratta da figli, ci comprende, ci perdona, ci abbraccia, ci ama anche quando sbagliamo. Già nell'Antico Testamento, il profeta Isaia affermava che se anche una madre si dimenticasse del figlio, Dio non si dimentica mai di noi, in nessun momento (cfr 49,15). E questo è bello!

Tuttavia, questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev'essere alimentata ogni giorno con l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell'Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità - noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l'esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio. Per questo dobbiamo avere il coraggio della fede e non lasciarci condurre dalla mentalità che ci dice: "Dio non serve, non è importante per te", e così via. É proprio il contrario: solo comportandoci da figli di Dio, senza scoraggiarci per le nostre cadute, per i nostri peccati, sentendoci amati da Lui, la nostra vita sarà nuova, animata dalla serenità e dalla gioia. Dio è la nostra forza! Dio è la nostra speranza!

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all'eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un'eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato.

Cari fratelli e sorelle, a chi ci chiede ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15), indichiamo il Cristo Risorto. Indichiamolo con l'annuncio della Parola, ma soprattutto con la nostra vita di risorti. Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. É un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l'alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio.
  • papa Francesco, mercoledì 10 aprile 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 16, 2013 3:49 pm


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«Ogni celebrazione liturgica si apre nel segno della Trinità santa e si conclude con l'invocazione della benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. "Benedire è un'azione divina che dà la vita e di cui il Padre è la sorgente. La sua benedizione è insieme parola e dono (bene-dictio, eu-logía). Riferito all'uomo, questo termine significherà l'adorazione e la consegna di sé al proprio Creatore nell'azione di grazie"» (Catechismo, 1078).

Fin dal principio, il rapporto che Dio ha voluto intessere con le sue creature, specialmente con l'uomo, è stato un rapporto di benedizione. Anche quando, con il peccato, gli uomini si sono chiusi, dando una interpretazione distorta (cf Gen 3,1-7), Dio ha continuato a prendersi cura di loro. Con Abramo, «la benedizione divina penetra la storia degli uomini, che andava verso la morte, per farla ritornare alla vita, alla sua sorgente: grazie alla fede del "padre dei credenti" che accoglie la benedizione, si inaugura la storia della salvezza» (Catechismo, 1080). In Cristo la benedizione di Dio per gli uomini si fa dono di adozione filiale: il Padre «ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,3-6). La liturgia è ricordo e rinnovazione della benedizione filiale che il Cristo ha attuato mediante il suo mistero pasquale. È un ricordare di cui abbiamo particolarmente bisogno: troppe volte la vita quotidiana ci mette di fronte a situazioni nelle quali sembra quasi che la maledizione del potere del male prevalga sulla benedizione misericordiosa del Padre. Occorre che la celebrazione liturgica rinnovi in noi la certezza della benedizione rendendoci capaci di illuminare con essa ogni cosa. Il ricordo della fedeltà di Dio al suo progetto di amore si trasforma in sguardo di speranza: lo sguardo cioè che legge ogni avvenimento in maniera più profonda, fino a cogliere la presenza dello Spirito che sta portando la storia alla pienezza secondo il progetto originario del Padre.

  • La benedizione divina è per tutti
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Nella liturgia «la benedizione divina è pienamente rivelata e comunicata: il Padre è riconosciuto e adorato come la sorgente e il termine di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza; nel suo Verbo, incarnato, morto e risorto per noi, egli ci colma delle sue benedizioni, e per suo mezzo effonde nei nostri cuori il dono che racchiude tutti i doni: lo Spirito Santo» (Catechismo, 1082).

È una pienezza di benedizione che esige risposta da parte del credente: è responsabilità da vivere fiduciosamente. Occorre riconoscerla e accoglierla, trasformandola a nostra volta in rendimento di grazie e in lode gioiosa. La Chiesa nella liturgia non solo «benedice il Padre per il "suo ineffabile Dono" (2Cor 9,15) con l'adorazione, la lode e l'azione di grazie», ma non cessa anche «di presentare al Padre "l'offerta dei propri doni" e d'implorare che mandi lo Spirito Santo sull'offerta, su se stessa, sui fedeli e sul mondo intero», affinché «queste benedizioni divine portino frutti di vita "a lode e gloria della sua grazia" (Ef 1,6)» (Catechismo, 1083). La benedizione di Dio è sempre dono da condividere con gli altri: impegno di liberazione dal potere del peccato e di trasformazione di tutta la realtà «in attesa della completa redenzione» (Ef 1,14). Pensare di vivere la benedizione di Dio come «privilegio» da conservare solo per sé, significa non averla compresa né accolta effettivamente: la benedizione chiede di essere condivisa, comunicata, fatta sperimentare anche agli altri. È donata a noi, perché arrivi e venga incontrata da tutti. Lo stesso deve dirsi dell'atteggiamento di chi la nasconde per paura della croce, inevitabile quando ci si contrappone al potere del peccato. La benedizione è talento da far fruttificare. Quando ci arrendiamo alle difficoltà, dobbiamo ricordare le dure parole per il servo infingardo: «Toglietegli il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 28,28-29).

  • Il perenne agire salvifico di Cristo
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«"Assiso alla destra del Padre" da dove effonde lo Spirito Santo nel suo corpo che è la Chiesa, Cristo agisce ora attraverso i sacramenti, da lui istituiti per comunicare la sua grazia. I sacramenti sono segni sensibili (parole e azioni), accessibili alla nostra attuale umanità. Essi realizzano in modo efficace la grazia che significano, mediante l'azione di Cristo e la potenza dello Spirito Santo» (Catechismo, 1084).

Nella catechesi giustamente viene richiamata l'importanza delle disposizioni e degli atteggiamenti per la fruttuosa celebrazione dei sacramenti. Occorre però che questo non faccia perdere di vista la priorità dell'agire salvifico di Cristo che in essi si attua. Il nostro impegno deve scaturire dalla fede e dal grazie meravigliato per il suo amore che, nonostante i nostri limiti e le nostre chiusure, continua a inondare la nostra vita e la nostra storia. In ogni celebrazione liturgica il nostro sguardo deve restare fisso sul Cristo per ascoltarne la parola, accoglierne il dono di vita nuova, sperimentarci proiettati nella speranza verso quel futuro di pienezza che il Padre ha preparato per noi. La gioia grata è caratteristica indispensabile, anche quando la consapevolezza di essere peccatori ci spinge a chiedere perdono: possiamo chiederlo perché crediamo che ci è anticipato in dono. Nella liturgia proclamiamo e accogliamo la perenne attualità del mistero pasquale del Cristo. A differenza di ogni altro evento, la sua morte e risurrezione, pur essendosi verificate in un momento preciso della storia, non restano confinate nel passato, ma sono di perenne attualità: «Venuta la sua Ora, egli vive l'unico avvenimento della storia che non passa: Gesù muore, è sepolto, risuscita dai morti e siede alla destra del Padre "una volta per tutte"» (Catechismo, 1085). Il ricordo del mistero pasquale, celebrato nella liturgia, è un rendere presente, un rivivere, un attuare: «tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell'eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente» (Catechismo, 1085). Il grazie si fa accoglienza grata e fiduciosa che proietta verso il futuro.

  • Da Cristo alla Chiesa. Nei secoli
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«Donando lo Spirito Santo agli Apostoli, Cristo risorto conferisce loro il proprio potere di santificazione: diventano segni sacramentali di Cristo. Per la potenza dello stesso Spirito Santo, essi conferiscono tale potere ai loro successori. Questa "successione apostolica" struttura tutta la vita liturgica della Chiesa; essa stessa è sacramentale, trasmessa attraverso il sacramento dell'Ordine» (Catechismo, 1087).

Dinanzi alla chenosi misericordiosa dell'incarnazione del Verbo non si può non restare sorpresi e ammirati. Come fa Paolo: Cristo «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Questa chenosi continua nei sacramenti. La sua forza santificatrice Cristo non la conserva gelosamente per sé, ma ne rende partecipi coloro che per la fede vengono trasformati in membri del suo corpo. In maniera particolare ne rende partecipi gli apostoli, nonostante i loro limiti: ripieni dello Spirito vengono inviati per annunziare che «il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e trasferiti nel regno del Padre" e attuare "per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s'impernia tutta la vita liturgica, l'opera della salvezza che annunziavano» (Sacrosanctum Concilium, 6). A loro volta gli Apostoli non dovevano trasformare in privilegio da conservare solo per sé questa missione di annuncio e di santificazione: era loro affidata perché la trasmettessero anche ai loro successori. La "successione apostolica" è fondamentale per l'economia sacramentale della Chiesa. Interromperla significherebbe porsi fuori di essa: si cadrebbe in una arbitrarietà, che pretende di arrogare a se stessi un servizio che solo il Cristo può concedere. Non si tratta di una successione di potere, ma di servizio, da vivere lasciandosi portare dallo Spirito sullo stesso cammino del Cristo, "venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (Gaudium et spes, 3).

  • Con noi, fino alla fine del mondo
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«Il valore salvifico delle azioni liturgiche deriva dalla presenza di Cristo che in esse e per mezzo di esse attua il suo mistero pasquale. Per evidenziare la peculiarità di questa presenza, il Catechismo ricorre alle parole del paragrafo sette della Sacrosanctum Concilium: Cristo, "sempre presente nella sua Chiesa" per attuare il disegno salvifico del Padre, lo è "in modo speciale nelle azioni liturgiche"» (Catechismo, 1088).

La Chiesa è certa che il suo Signore è sempre con lei lungo i secoli. Affidando ai discepoli la sua stessa missione, il Risorto si è impegnato a restare con loro: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). È una presenza che avvalora la vita dei credenti, aprendo il loro cuore alla speranza e rendendoli coraggiosi nella testimonianza, come ricordano i nostri vescovi nella Nota pastorale dopo il Convegno di Verona facendo proprie le parole di Benedetto XVI: «La risurrezione è una parola che il Signore rivolge a ciascuno di noi, dicendoci: "Sono risorto e ora sono sempre con te (…). La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce"» (n. 5). Questa presenza del Risorto assume una densità e un valore salvifico particolari nelle celebrazioni liturgiche. Cristo «è presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro… sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza» (Sacrosanctum Concilium, 7). La certezza della presenza salvifica del Risorto nei sacramenti va valorizzata insieme alle altre modalità della sua presenza: «Nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» e quando «la Chiesa prega e loda» (Catechismo, 1088).

  • La liturgia celebra la speranza
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«Le celebrazioni liturgiche hanno un respiro che va oltre la concretezza storica in cui si realizzano. Il Catechismo anche a questo riguardo invita a rileggere la Sacrosanctum Concilium: "Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini"» (Catechismo, 1090).

Accogliere la presenza del Risorto nei sacramenti proietta verso «la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13), che «"trasformerà il nostro misero corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso" (Fil 3,21) e verrà "per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno creduto" (2Tes 1,10)» (Lumen Gentium, 48). La liturgia fa crescere in noi la consapevolezza di essere pellegrini in cammino. Ci spinge così ad affrancarci da ogni chiusura immanentistica e da ogni assolutizzazione dell'avere e del fare. Nel cuore della celebrazione eucaristica, il richiamo alla comunione con i santi diventa invocazione: «Possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti». Lo stesso avviene per la preghiera per «i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria» (Preghiera eucaristica III). Fino al ritorno finale del Cristo, infatti, «alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri, compiuta questa vita, si purificano ancora, altri infine godono della gloria contemplando "chiaramente Dio uno e trino, qual è". Tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria» (Lumen Gentium, 49). Ogni celebrazione liturgica deve essere celebrazione di speranza, che non solo ci conferma nell'attesa fiduciosa della pienezza progettata da Dio per ognuno di noi e per tutta l'umanità, ma ci fa sentire in una comunione con i fratelli che va oltre i confini della morte. La certezza di poter contare sulla solidarietà fraterna di coloro che sono già nella gloria del Padre è motivo di ulteriore fiducia, mentre il ricordo dei defunti si fa invocazione per loro.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 10 al 16 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 22, 2013 8:20 am


  • L'Anno della Fede. È salito al cielo, siede alla destra del Padre
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel Credo, troviamo l’affermazione che Gesù «è salito al cielo, siede alla destra del Padre». La vita terrena di Gesù culmina con l’evento dell’Ascensione, quando cioè Egli passa da questo mondo al Padre ed è innalzato alla sua destra. Qual è il significato di questo avvenimento? Quali ne sono le conseguenze per la nostra vita? Che cosa significa contemplare Gesù seduto alla destra del Padre? Su questo, lasciamoci guidare dall’evangelista Luca.

Partiamo dal momento in cui Gesù decide di intraprendere il suo ultimo pellegrinaggio a Gerusalemme. San Luca annota: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Mentre “ascende” alla Città santa, dove si compirà il suo “esodo” da questa vita, Gesù vede già la meta, il Cielo, ma sa bene che la via che lo riporta alla gloria del Padre passa attraverso la Croce, attraverso l’obbedienza al disegno divino di amore per l’umanità. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che «l’elevazione sulla croce significa e annuncia l’elevazione dell’ascensione al cielo» (n. 661). Anche noi dobbiamo avere chiaro, nella nostra vita cristiana, che l’entrare nella gloria di Dio esige la fedeltà quotidiana alla sua volontà, anche quando richiede sacrificio, richiede alle volte di cambiare i nostri programmi. L’Ascensione di Gesù avvenne concretamente sul Monte degli Ulivi, vicino al luogo dove si era ritirato in preghiera prima della passione per rimanere in profonda unione con il Padre: ancora una volta vediamo che la preghiera ci dona la grazia di vivere fedeli al progetto di Dio.

Alla fine del suo Vangelo, san Luca narra l’evento dell’Ascensione in modo molto sintetico. Gesù condusse i discepoli «fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,50-53); così dice san Luca. Vorrei notare due elementi del racconto. Anzitutto, durante l’Ascensione Gesù compie il gesto sacerdotale della benedizione e sicuramente i discepoli esprimono la loro fede con la prostrazione, si inginocchiano chinando il capo. Questo è un primo punto importante: Gesù è l’unico ed eterno Sacerdote che con la sua passione ha attraversato la morte e il sepolcro ed è risorto e asceso al Cielo; è presso Dio Padre, dove intercede per sempre a nostro favore (cfr Eb 9,24). Come afferma san Giovanni nella sua Prima Lettera Egli è il nostro avvocato: che bello sentire questo! Quando uno è chiamato dal giudice o va in causa, la prima cosa che fa è cercare un avvocato perché lo difenda. Noi ne abbiamo uno, che ci difende sempre, ci difende dalle insidie del diavolo, ci difende da noi stessi, dai nostri peccati! Carissimi fratelli e sorelle, abbiamo questo avvocato: non abbiamo paura di andare da Lui a chiedere perdono, a chiedere benedizione, a chiedere misericordia! Lui ci perdona sempre, è il nostro avvocato: ci difende sempre! Non dimenticate questo! L’Ascensione di Gesù al Cielo ci fa conoscere allora questa realtà così consolante per il nostro cammino: in Cristo, vero Dio e vero uomo, la nostra umanità è stata portata presso Dio; Lui ci ha aperto il passaggio; Lui è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio. Se affidiamo a Lui la nostra vita, se ci lasciamo guidare da Lui siamo certi di essere in mani sicure, in mano del nostro salvatore, del nostro avvocato.

Un secondo elemento: san Luca riferisce che gli Apostoli, dopo aver visto Gesù salire al cielo, tornarono a Gerusalemme “con grande gioia”. Questo ci sembra un po’ strano. In genere quando siamo separati dai nostri familiari, dai nostri amici, per una partenza definitiva e soprattutto a causa della morte, c’è in noi una naturale tristezza, perché non vedremo più il loro volto, non ascolteremo più la loro voce, non potremo più godere del loro affetto, della loro presenza. Invece l’evangelista sottolinea la profonda gioia degli Apostoli. Ma come mai? Proprio perché, con lo sguardo della fede, essi comprendono che, sebbene sottratto ai loro occhi, Gesù resta per sempre con loro, non li abbandona e, nella gloria del Padre, li sostiene, li guida e intercede per loro.

San Luca narra il fatto dell’Ascensione anche all’inizio degli Atti degli Apostoli, per sottolineare che questo evento è come l’anello che aggancia e collega la vita terrena di Gesù a quella della Chiesa. Qui san Luca accenna anche alla nube che sottrae Gesù dalla vista dei discepoli, i quali rimangono a contemplare il Cristo che ascende verso Dio (cfr At 1,9-10). Intervengono allora due uomini in vesti bianche che li invitano a non restare immobili a guardare il cielo, ma a nutrire la loro vita e la loro testimonianza della certezza che Gesù tornerà nello stesso modo con cui lo hanno visto salire al cielo (cfr At 1,10-11). È proprio l’invito a partire dalla contemplazione della Signoria di Cristo, per avere da Lui la forza di portare e testimoniare il Vangelo nella vita di ogni giorno: contemplare e agire, ora et labora insegna san Benedetto, sono entrambi necessari nella nostra vita di cristiani.

Cari fratelli e sorelle, l’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli: abbiamo questo avvocato che ci attende, che ci difende. Non siamo mai soli: il Signore crocifisso e risorto ci guida; con noi ci sono tanti fratelli e sorelle che nel silenzio e nel nascondimento, nella loro vita di famiglia e di lavoro, nei loro problemi e difficoltà, nelle loro gioie e speranze, vivono quotidianamente la fede e portano, insieme a noi, al mondo la signoria dell’amore di Dio, in Cristo Gesù risorto, asceso al Cielo, avvocato per noi. Grazie.
  • papa Francesco, mercoledì 17 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 23, 2013 1:20 pm


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«Nella liturgia lo Spirito Santo è il pedagogo della fede del popolo di Dio, l'artefice di quei "capolavori di Dio" che sono i sacramenti della Nuova Alleanza… Quando egli incontra in noi la risposta di fede da lui suscitata, si realizza una vera cooperazione. Grazie ad essa, la liturgia diventa l'opera comune dello Spirito Santo e della Chiesa» (Catechismo, 1091).

La "riscoperta" dello Spirito Santo è stata una delle caratteristiche del cammino postconciliare. Significativo l'auspicio di Paolo VI, riproposto da Giovanni Paolo II in Dominum et vivificantem, l'enciclica dedicata proprio allo Spirito Santo: «Alla cristologia e specialmente all'ecclesiologia del Concilio deve succedere uno studio nuovo ed un culto nuovo sullo Spirito Santo, proprio come complemento immancabile all'insegnamento conciliare» (n. 2). Non si tratta di contrapporre: lo Spirito è il dono per eccellenza del Cristo risorto. La prospettiva cristologica e quella pneumatologica sono inseparabili e si integrano reciprocamente, come sintetizza la Lumen Gentium: «Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cf Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cf Ef 2,18)» (n. 4). Quest'opera santificatrice dello Spirito fa sì che ogni battezzato, ricorda ancora la Lumen Gentium, si scopra chiamato alla santità: una santità che «promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano» (n. 40) e perciò va attuata «nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose» (n. 41). La liturgia è il "luogo" privilegiato in cui lo Spirito attua la sua opera di santificazione, rendendoci sempre più partecipi della vita del Risorto. Lo fa ridestando e approfondendo la fede, la carità e la speranza. La vita quotidiana diventa camino di santità se ogni cosa sappiamo ricevere «con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo» (ivi).

  • Dall'Antica alla Nuova Alleanza
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«La corretta comprensione della liturgia è possibile solo alla luce della fondamentale unità del progetto salvifico e perciò dell'armonia tra il Nuovo e l'Antico Testamento: "Poiché la Chiesa di Cristo era "mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'Antica Alleanza" (Lumen Gentium, 2), la liturgia della Chiesa conserva come parte integrante e insostituibile, facendoli propri, alcuni elementi del culto dell'Antica Alleanza: in modo particolare la lettura dell'Antico Testamento, la preghiera dei Salmi e, soprattutto, il memoriale degli eventi salvifici e delle realtà prefigurative che hanno trovato il loro compimento nel Mistero di Cristo» (Catechismo, 1093).

Nella liturgia il credente è guidato dallo Spirito a comprendere la gradualità misericordiosa e paziente con la quale ha attuato, lungo la storia, la preparazione alla rivelazione e attuazione definitiva del disegno salvifico nel mistero pasquale del Cristo. È una pedagogia, come scrive Tommaso d'Aquino, da «ciò che è più imperfetto e ciò che è più perfetto« (Summa Theologiae I-II, 106, a. 4). È una «preparazione» che lo Spirito continua a operare. Alla fede si arriva attraverso un cammino, diverso per ognuno. I passi e la velocità con cui vengono compiuti non sono gli stessi per tutti. È però sempre lo stesso Spirito a suscitarli e a renderli possibili. E questo vale non solo per il primo incontro con il Cristo, ma anche per la vita nuova che da esso scaturisce: occorre sempre proiettarsi da ciò che è più imperfetto a ciò che è più perfetto. Il cammino della fede, reso possibile dal dono dello Spirito, è anche una nostra responsabilità: «La "porta della fede" (cf At 14,27), che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l'ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. È possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita» (Porta fidei, 1). Dall'incontro sacramentale la fede trae anche la necessità di impegnarsi a leggere gli avvenimenti in maniera sempre nuova: affrancandosi dalle letture superficiali per arrivare allo Spirito che sta portando a pienezza il mistero pasquale di Cristo.

  • Insieme per incontrare il Signore
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«Ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell'Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa. L'assemblea liturgica riceve la propria unità dalla "comunione dello Spirito Santo" che riunisce i figli di Dio nell'unico Corpo di Cristo. Essa supera le affinità umane, razziali, culturali e sociali» (Catechismo 1097).

Una celebrazione liturgica non è mai un fatto privato. È sempre un fatto ecclesiale: è testimonianza e ulteriore attuazione della convocazione dello Spirito che ci rende membri gli uni degli altri nell'unico corpo di Cristo. In questa solidarietà salvifica non possono esserci differenze o discriminazioni: «Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Nella comunione, che costituisce la Chiesa, le diversità vanno vissute come reciprocità, giacché il dono specifico, che lo Spirito fa a ognuno, è sempre per il bene di tutti. Occorre impegnarsi perché ogni celebrazione sia scuola di effettiva reciprocità, affrancando dalle tante logiche conflittuali che caratterizzano la mentalità corrente. Restano di forte attualità le parole di Giovanni Paolo II: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (Novo millennio ineunte, 43). L'apertura sincera agli altri è indispensabile per accogliere lo Spirito e permettergli di operare in noi. Il semplice stare insieme non è assemblea liturgica. È indispensabile che sia espressione di cuori aperti e solidali: di cuori che si sentano prossimi gli uni degli altri. È questa la preparazione indispensabile per incontrare il Signore. «Questa preparazione dei cuori è l'opera comune dello Spirito Santo e dell'assemblea, in particolare dei suoi ministri. La grazia dello Spirito Santo cerca di risvegliare la fede, la conversione del cuore e l'adesione alla volontà del Padre. Queste disposizioni sono il presupposto per l'accoglienza delle altre grazie offerte nella celebrazione stessa e per i frutti di vita nuova che essa è destinata a produrre in seguito» (Catechismo, 1098).

  • La memoria dell'evento pasquale
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«Lo Spirito e la Chiesa cooperano per manifestare Cristo e la sua opera di salvezza nella liturgia. Specialmente nell'Eucaristia, e in modo analogo negli altri sacramenti, la liturgia è Memoriale del mistero della salvezza. Lo Spirito Santo è la memoria viva della Chiesa» (Catechismo, 1099).

La memoria è dimensione fondamentale della vita. Da essa dipende il senso dell'identità di ognuno, la sua possibilità di svilupparsi, di vivere costruttivamente le novità. Questo vale anche per la fede, che si fonda sulla memoria viva dell'evento pasquale. Nelle celebrazioni liturgiche, la comunità cristiana si apre all'azione dello Spirito per rinnovarsi nella memoria pasquale che la costituisce. È lo Spirito che ricorda alla Chiesa tutto ciò che il Cristo ha detto ai discepoli (cf Gv 14,26). Lo fa, però, portando alla comprensione piena: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,12-13). La memoria della Chiesa non è mai ripetizione passiva: è disponibilità fiduciosa a lasciarsi guidare dallo Spirito verso la pienezza della verità. Nelle celebrazioni sacramentali, particolarmente nell'eucaristia, impariamo non solo a radicarci sempre più profondamente nell'evento pasquale del Cristo, ma ad aprirci a una sua comprensione e attuazione sempre più piena. La liturgia è scuola di fedeltà creativa: proiettando la luce della Parola sulla quotidianità, spinge a risposte cariche di speranza alla novità della storia. Lo Spirito «ricorda in primo luogo all'assemblea liturgica il senso dell'evento della salvezza vivificando la Parola di Dio che viene annunziata per essere accolta e vissuta» (Catechismo, 1100). Lo fa, però, mettendo «i fedeli e i ministri in relazione viva con Cristo, Parola e Immagine del Padre, affinché possano trasfondere nella loro vita il significato di ciò che ascoltano, contemplano e compiono nella celebrazione» (ivi, 1101). Va bandito dalle celebrazioni ogni formalismo, preoccupato solo delle parole e dei gesti. Parimenti va bandito ogni riduzionismo individualista che banalizza i segni della memoria. Attraverso le parole e i gesti ci apriamo all'azione dello Spirito che ricordando crea novità e porta alla pienezza.

  • L'attualità del mistero pasquale
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«La liturgia cristiana non soltanto ricorda gli eventi che hanno operato la nostra salvezza; essa li attualizza, li rende presenti. Il mistero pasquale di Cristo viene celebrato, non ripetuto; sono le celebrazioni che si ripetono; in ciascuna di esse ha luogo l'effusione dello Spirito Santo che attualizza l'unico mistero» (Catechismo, 1104).

La molteplicità delle celebrazioni non deve mai far perdere di vista l'unicità dell'evento pasquale che viene celebrato. Non è sempre facile, anche perché a volte, soprattutto nella religiosità popolare, è stata accentuata la molteplicità, insistendo sul numero delle celebrazioni più che sulla loro qualità. È lo Spirito che rende molteplice nelle celebrazioni ciò che in sé è unico. Per questo nel cuore di ogni celebrazione troviamo l'invocazione allo Spirito. È quanto accade nell'epiclesi dell'eucaristia: «L'intercessione con la quale il sacerdote supplica il Padre di inviare lo Spirito Santificatore affinché le offerte diventino il Corpo e il Sangue di Cristo e i fedeli, ricevendole, divengano essi pure un'offerta viva a Dio» (Catechismo, 1105). Occorre non perdere mai di vista la priorità dell'azione dello Spirito: non solo nel rendere segni e strumenti di grazia le cose e i gesti che operiamo, ma anche nella trasformazione dei cuori e nella loro apertura alla santità. Sono certamente importanti anche i nostri atteggiamenti, i nostri impegni, i nostri metodi, ma prioritaria è sempre l'azione dello Spirito: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16). Sono doni dello Spirito non solo la chiamata alla santità di tutti i battezzati, ma anche il poterla «mantenere e perfezionare con la loro vita» (Lumen Gentium, 40). In questo modo lo Spirito anticipa e proietta verso «la piena comunione della Santissima Trinità. Mandato dal Padre che esaudisce l'epiclesi della Chiesa, lo Spirito dona la vita a coloro che l'accolgono, e costituisce per essi, fin d'ora, "la caparra" della loro eredità» (Catechismo, 1107).

  • Spirito e Chiesa, i «cooperanti»
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«Nella liturgia si attua la più stretta cooperazione tra lo Spirito Santo e la Chiesa. Egli, lo Spirito di comunione, rimane nella Chiesa in modo indefettibile, e per questo la Chiesa è il grande sacramento della comunione divina che riunisce i figli di Dio dispersi. Il frutto dello Spirito nella liturgia è inseparabilmente comunione con la Santa Trinità e comunione fraterna» (Catechismo, 1108).

La sacramentalità della Chiesa va considerata da tutti i battezzati come dono e responsabilità da condividere: è un «dovere» reso più urgente «dalle presenti condizioni del mondo… perché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (Lumen Gentium, 1).
Nelle azioni liturgiche lo Spirito, facendoci crescere nella comunione con il Cristo e tra noi, ci rende anche capaci di «portare frutti nella carità per la vita del mondo» (Optatam totius, 16). In esse la Chiesa prega il Padre di «inviare lo Spirito Santo, perché faccia della vita dei fedeli un'offerta viva a Dio attraverso la trasformazione spirituale a immagine di Cristo, la sollecitudine per l'unità della Chiesa e la partecipazione alla sua missione per mezzo della testimonianza e del servizio della carità» (Catechismo, 1109).
L'agire del credente continua così nelle situazioni quotidiane il fruttificare della liturgia: l'amore incontrato e ricevuto diventa esigenza e impegno di unità, di testimonianza e di annunzio: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Nelle celebrazioni sacramentali, lo Spirito ci rende partecipi della vita del Risorto e perciò capaci di trasformare le molteplici situazioni della vita quotidiana in «alfabeto per comunicare il Vangelo» e «linguaggio della testimonianza», come ricordano i nostri vescovi nella Nota pastorale dopo il Convegno di Verona. Occorre però ognuno permetta allo Spirito di renderlo «capace di offrire speranza» dando «un di più di umanità alla storia» e mettendo «con umiltà se stesso e i propri progetti sotto il giudizio di una verità e di una promessa che supera ogni attesa umana» (n. 7 e 12).
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 17 al 23 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer apr 24, 2013 2:47 pm


  • L'Anno della Fede. Di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

nel Credo noi professiamo che Gesù «di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». La storia umana ha inizio con la creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e si chiude con il giudizio finale di Cristo. Spesso si dimenticano questi due poli della storia, e soprattutto la fede nel ritorno di Cristo e nel giudizio finale a volte non è così chiara e salda nel cuore dei cristiani. Gesù, durante la vita pubblica, si è soffermato spesso sulla realtà della sua ultima venuta. Oggi vorrei riflettere su tre testi evangelici che ci aiutano ad entrare in questo mistero: quello delle dieci vergini, quello dei talenti e quello del giudizio finale. Tutti e tre fanno parte del discorso di Gesù sulla fine dei tempi, nel Vangelo di san Matteo.

Anzitutto ricordiamo che, con l’Ascensione, il Figlio di Dio ha portato presso il Padre la nostra umanità da Lui assunta e vuole attirare tutti a sé, chiamare tutto il mondo ad essere accolto tra le braccia aperte di Dio, affinché, alla fine della storia, l’intera realtà sia consegnata al Padre. C’è, però, questo “tempo immediato” tra la prima venuta di Cristo e l’ultima, che è proprio il tempo che stiamo vivendo. In questo contesto del “tempo immediato” si colloca la parabola delle dieci vergini (cfr Mt 25,1-13). Si tratta di dieci ragazze che aspettano l’arrivo dello Sposo, ma questi tarda ed esse si addormentano. All’annuncio improvviso che lo Sposo sta arrivando, tutte si preparano ad accoglierlo, ma mentre cinque di esse, sagge, hanno olio per alimentare le proprie lampade, le altre, stolte, restano con le lampade spente perché non ne hanno; e mentre lo cercano giunge lo Sposo e le vergini stolte trovano chiusa la porta che introduce alla festa nuziale. Bussano con insistenza, ma ormai è troppo tardi, lo Sposo risponde: non vi conosco. Lo Sposo è il Signore, e il tempo di attesa del suo arrivo è il tempo che Egli ci dona, a tutti noi, con misericordia e pazienza, prima della sua venuta finale; è un tempo di vigilanza; tempo in cui dobbiamo tenere accese le lampade della fede, della speranza e della carità, in cui tenere aperto il cuore al bene, alla bellezza e alla verità; tempo da vivere secondo Dio, poiché non conosciamo né il giorno, né l’ora del ritorno di Cristo. Quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro - preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, l’incontro con Gesù -, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù. Non addormentarci!

La seconda parabola, quella dei talenti, ci fa riflettere sul rapporto tra come impieghiamo i doni ricevuti da Dio e il suo ritorno, in cui ci chiederà come li abbiamo utilizzati (cfr Mt 25,14-30). Conosciamo bene la parabola: prima della partenza, il padrone consegna ad ogni servo alcuni talenti, affinché siano utilizzati bene durante la sua assenza. Al primo ne consegna cinque, al secondo due e al terzo uno. Nel periodo di assenza, i primi due servi moltiplicano i loro talenti – queste sono antiche monete -, mentre il terzo preferisce sotterrare il proprio e consegnarlo intatto al padrone. Al suo ritorno, il padrone giudica il loro operato: loda i primi due, mentre il terzo viene cacciato fuori nelle tenebre, perché ha tenuto nascosto per paura il talento, chiudendosi in se stesso. Un cristiano che si chiude in se stesso, che nasconde tutto quello che il Signore gli ha dato è un cristiano… non è cristiano! E’ un cristiano che non ringrazia Dio per tutto quello che gli ha donato! Questo ci dice che l’attesa del ritorno del Signore è il tempo dell’azione - noi siamo nel tempo dell’azione -, il tempo in cui mettere a frutto i doni di Dio non per noi stessi, ma per Lui, per la Chiesa, per gli altri, il tempo in cui cercare sempre di far crescere il bene nel mondo. E in particolare in questo tempo di crisi, oggi, è importante non chiudersi in se stessi, sotterrando il proprio talento, le proprie ricchezze spirituali, intellettuali, materiali, tutto quello che il Signore ci ha dato, ma aprirsi, essere solidali, essere attenti all’altro. Nella piazza, ho visto che ci sono molti giovani: è vero, questo? Ci sono molti giovani? Dove sono? A voi, che siete all’inizio del cammino della vita, chiedo: Avete pensato ai talenti che Dio vi ha dato? Avete pensato a come potete metterli a servizio degli altri? Non sotterrate i talenti! Scommettete su ideali grandi, quegli ideali che allargano il cuore, quegli ideali di servizio che renderanno fecondi i vostri talenti. La vita non ci è data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data perché la doniamo. Cari giovani, abbiate un animo grande! Non abbiate paura di sognare cose grandi!

Infine, una parola sul brano del giudizio finale, in cui viene descritta la seconda venuta del Signore, quando Egli giudicherà tutti gli esseri umani, vivi e morti (cfr Mt 25,31-46). L’immagine utilizzata dall’evangelista è quella del pastore che separa le pecore dalle capre. Alla destra sono posti coloro che hanno agito secondo la volontà di Dio, soccorrendo il prossimo affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato - ho detto “straniero”: penso a tanti stranieri che sono qui nella diocesi di Roma: cosa facciamo per loro? - mentre alla sinistra vanno coloro che non hanno soccorso il prossimo. Questo ci dice che noi saremo giudicati da Dio sulla carità, su come lo avremo amato nei nostri fratelli, specialmente i più deboli e bisognosi. Certo, dobbiamo sempre tenere ben presente che noi siamo giustificati, siamo salvati per grazia, per un atto di amore gratuito di Dio che sempre ci precede; da soli non possiamo fare nulla. La fede è anzitutto un dono che noi abbiamo ricevuto. Ma per portare frutti, la grazia di Dio richiede sempre la nostra apertura a Lui, la nostra risposta libera e concreta. Cristo viene a portarci la misericordia di Dio che salva. A noi è chiesto di affidarci a Lui, di corrispondere al dono del suo amore con una vita buona, fatta di azioni animate dalla fede e dall’amore.

Cari fratelli e sorelle, guardare al giudizio finale non ci faccia mai paura; ci spinga piuttosto a vivere meglio il presente. Dio ci offre con misericordia e pazienza questo tempo affinché impariamo ogni giorno a riconoscerlo nei poveri e nei piccoli, ci adoperiamo per il bene e siamo vigilanti nella preghiera e nell’amore. Il Signore, al termine della nostra esistenza e della storia, possa riconoscerci come servi buoni e fedeli. Grazie.
  • papa Francesco, mercoledì 24 aprile 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 30, 2013 3:35 pm


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«Tutta la vita liturgica della Chiesa gravita attorno al sacrificio eucaristico e ai sacramenti. Nella Chiesa vi sono sette sacramenti: il Battesimo, la Confermazione o Crismazione, l'Eucaristia, la Penitenza, l'Unzione degli infermi, l'Ordine, il Matrimonio» (Catechismo, 1113).

I sette sacramenti non esauriscono certo la sacramentalità affidata e vissuta dalla Chiesa. Ne costituiscono però il vertice. Occorre perciò che stiano nel cuore dell'impegno dei credenti, lasciandosi plasmare da essi a tutti i livelli. Non si tratta di formalismo o di ritualismo. Soprattutto va scartata con cura ogni oggettivazione, che possa indurre a una interpretazione deresponsabilizzante, riducendo i sacramenti a semplici «posti di rifornimento spirituale». La priorità dell'azione di Cristo e la certezza di essa, nonostante gli eventuali limiti dei ministri ai quali sono affidati, non devono far dimenticare che essa esige sempre il sì della fede: «L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore» (Deus caritas est, 17). Il cammino compiuto dalla Chiesa nella comprensione della specificità dei sette sacramenti è stato lungo e complesso, attraverso anche momenti di tensione. È un cammino da continuare, lasciandosi fiduciosamente guidare dallo Spirito e radicandosi su quanto la fede ecclesiale ha già acquisito. Questo vale in maniera particolare per il linguaggio e le categorie con le quali cerchiamo di veicolare il mistero dell'incontro tra l'iniziativa di Dio e la libertà accogliente dell'uomo. Le formulazioni che la tradizione ecclesiale ci ha trasmesso sono un bene da conservare gelosamente. Il ricordare però è autentico se è anche un continuare a ricercare, a riesprimere meglio, a rendere più significativo per l'uomo d'oggi il «mistero salvifico» dei sette sacramenti.

  • Dono del Cristo alla sua Chiesa
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Quando si guarda in maniera superficiale alla molteplicità dei riti, in cui la Chiesa celebra i sacramenti, oppure si ricorda sommariamente la storia complessa della loro definizione, è facile correre il rischio di ridurli a una "invenzione" della comunità cristiana. Oggi questo rischio diventa ancora più forte, perché la nostra cultura tende a storicizzare ogni cosa, riconducendola al "potere" dell'uomo. I sacramenti sono una "invenzione" del Cristo, dettata da amore e affidata alla sua Chiesa. Nel ribadirlo il tono del Catechismo si fa solenne, attingendo al Concilio di Trento: «"Attenendoci alla dottrina delle Sacre Scritture, alle tradizioni apostoliche e all'unanime pensiero […] dei Padri", noi professiamo "che i sacramenti della nuova Legge sono stati istituiti tutti da Gesù Cristo nostro Signore"» (Catechismo, 1114).

È una "invenzione" che è possibile comprendere solo se si ha presente la chenosi misericordiosa di Dio nell'incarnazione del Verbo: «I misteri della vita di Cristo, continua il Catechismo, costituiscono i fondamenti di ciò che, ora, Cristo dispensa nei sacramenti mediante i ministri della sua Chiesa». E fa sue le parole di Leone Magno: ciò che «era visibile nel nostro Salvatore è passato nei suoi misteri» (Catechismo, 115). Il ragionare deve lasciarsi guidare dalla logica dell'amore, sfociando nel grazie meravigliato: «"Forze che escono" dal Corpo di Cristo, sempre vivo e vivificante, azioni dello Spirito Santo operante nel suo Corpo che è la Chiesa, i sacramenti sono i "capolavori di Dio" nella Nuova ed eterna Alleanza» (Catechismo, 1116). Il grazie ammirato per i sacramenti dovrebbe essere più frequentemente sulle nostre labbra e soprattutto nei nostri cuori. Purtroppo spesso rischiano di trasformasi in "abitudine" ripetitiva. Ogni celebrazione va invece vissuta come un'esperienza di amore che trasforma la vita. Alla luce dei sacramenti appare tutta l'assurdità della menzogna con la quale il tentatore ha illuso l'uomo fin dal principio nel giardino dell'Eden: Dio vi limita, ingannandovi, perché non diventiate come lui (cf Gen 3,4). I sacramenti ci fanno toccare con mano che la volontà di Dio è proprio l'opposto: non solo vuole che diventiamo come lui, ma ci rende partecipi della sua stessa vita.

  • I sacramenti, affidati alla Chiesa
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Nei riguardi dei sacramenti il cammino di comprensione e di determinazione, vissuto dalla Chiesa, è analogo a quello riguardante il canone delle Scritture e la dottrina della fede: «per mezzo dello Spirito che la guida "alla verità tutta intera" (Gv 16,13), la Chiesa ha riconosciuto a poco a poco questo tesoro ricevuto da Cristo e ne ha precisato la "dispensazione"». Gradualmente è riuscita a «discernere che, tra le sue celebrazioni liturgiche, ve ne sono sette le quali costituiscono, nel senso proprio del termine, sacramenti istituiti dal Signore» (Catechismo, 1117).

Affidati alla Chiesa dal Cristo, i sacramenti sono un "tesoro" da custodire con cura e da comprendere sempre meglio. È una responsabilità che la Chiesa vive ponendo la sua fiducia nello Spirito che la guida. Non deve perciò meravigliare la gradualità della presa di coscienza da parte della Chiesa nei riguardi dei sette sacramenti: è conferma di quella "economia", rispettosa della libertà, scelta da Dio per far sì che l'uomo sia "cooperatore" nell'attuazione della salvezza. Il grazie allora si trasforma in responsabilità: riconoscendosi costruita dai sacramenti, la Chiesa li vive come un dono di cui rendere partecipi tutti, perché «tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (Lumen Gentium, 40). Di qui l'impegno costante della comunità cristiana per la catechesi perché tutti i credenti crescano nella consapevolezza non solo del dono ma anche della necessità di accoglierlo e di lasciarsi trasformare. Di qui però anche la preoccupazione pastorale perché si realizzi per tutti la possibilità di celebrarli in maniera adeguata. Si comprende allora il duplice movimento che esiste tra la Chiesa e i sacramenti: «sono "da essa" e "per essa"» (Catechismo, 1118). Sono dalla Chiesa, perché in essi la Chiesa esprime la sua sacramentalità: corpo di Cristo che, grazie all'azione dello Spirito, attua nella storia la potenzialità salvifica del suo mistero pasquale. Sono per la Chiesa, in quanto essa è costruita dallo Spirito mediante i sacramenti, dato che questi «manifestano e comunicano agli uomini, soprattutto nell'Eucaristia, il mistero della comunione del Dio Amore, uno in tre Persone» (ivi).

  • Una comune dignità sacerdotale
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«Poiché con il Cristo-Capo forma "quasi un'unica persona mistica", la Chiesa agisce nei sacramenti come "comunità sacerdotale", "organicamente strutturata"» (Catechismo, 1119).

I sacramenti sono espressione e responsabilità di tutto il popolo di Dio. Per il Battesimo e la Confermazione, i cristiani acquistano vera dignità sacerdotale: «Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9). Per la sua dignità sacerdotale, ogni membro del popolo di Dio non solo è reso capace di rendere a Dio il «culto spirituale» di una quotidianità vissuta come un «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1), ma diventa soggetto attivo del culto sacramentale della Chiesa. Anche se sono stati fatti passi significativi, occorre ancora molto cammino per far affermare in tutti i battezzati la coscienza che i sacramenti sono una corresponsabilità che lo Spirito affida a tutto il popolo di Dio. Nessuno nella celebrazione deve sentirsi o restare passivo. Ognuno deve parteciparvi attivamente secondo i doni e le competenze che gli sono propri. Sulla base della comune dignità sacerdotale e come servizio ad essa, va compreso il sacerdozio ministeriale o ordinato: «Il ministero ordinato o "sacerdozio ministeriale" è al servizio del sacerdozio battesimale. Esso garantisce che, nei sacramenti, è proprio il Cristo che agisce per mezzo dello Spirito Santo a favore della Chiesa. La missione di salvezza affidata dal Padre al proprio Figlio incarnato è consegnata agli Apostoli e da essi ai loro successori; questi ricevono lo Spirito Santo di Gesù per operare in suo nome e in sua persona» (Catechismo, 1120). Anche se nella pratica pastorale a volte si danno tensioni, non è possibile separare, tanto meno contrapporre sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale: sono tra loro strettamente connessi. Neppure sarebbe corretto sottolineare talmente l'importanza dell'uno da svalutare l'altro. La sintesi, che si realizza nella celebrazione soprattutto dell'Eucaristia, deve essere anche criterio ispiratore di tutta la vita della comunità cristiana.

  • Fede e Parola sono inseparabili
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«La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l'antico adagio: "Lex orandi, lex credendi". La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega» (Catechismo, 1124).

La fede, che scaturisce dall'ascolto della Parola, e i sacramenti sono inseparabili, come appare dal mandato missionario affidato da Cristo alla sua Chiesa: «Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). I sacramenti, osserva il Vaticano II, «non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati sacramenti della fede» (Sacrosanctum Concilium, 59). Di qui la necessità che ogni celebrazione sacramentale sia annunzio e assimilazione della Parola. Il Vaticano II ricorda ai presbiteri: «La predicazione della Parola è necessaria per lo stesso ministero dei sacramenti, trattandosi di sacramenti della fede, la quale nasce e si alimenta con la Parola" (Presbyterorum ordinis, 4). È un dato che ogni credente deve far suo, superando abitudini e frettolosità. In quanto espressioni della fede della Chiesa, le celebrazioni sacramentali vanno vissute rispettandone la specificità: «Nessun rito sacramentale può essere modificato o manipolato dal ministro o dalla comunità a loro piacimento. Neppure l'autorità suprema nella Chiesa può cambiare la liturgia a sua discrezione, ma unicamente nell'obbedienza della fede e nel religioso rispetto del mistero della liturgia» (Catechismo, 1126). Questo non significa formalismo. L'inculturazione della liturgia è un impegno da continuare con fiducia, come pure il suo adattamento alle diverse realtà locali. Occorre però che siano sorretti dal rispetto sincero per ciò che, anche a livello celebrativo, è essenziale. Di qui il monito di Benedetto XVI sull'importanza della catechesi riguardante i libri liturgici: «Sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia» (Sacramentum caritatis, 40).

  • Nei sacramenti la potenza di Dio
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In quanto opera del Cristo e dello Spirito, i sacramenti hanno una propria e particolare efficacia salvifica, perché «in essi agisce Cristo stesso: è lui che battezza, è lui che opera nei suoi sacramenti per comunicare la grazia che il sacramento significa. Il Padre esaudisce sempre la preghiera della Chiesa di suo Figlio, la quale, nell'epiclesi di ciascun sacramento, esprime la propria fede nella potenza dello Spirito. Come il fuoco trasforma in sé tutto ciò che tocca, così lo Spirito Santo trasforma in vita divina ciò che è sottomesso alla sua potenza» (Catechismo, 1127).

Questa specifica efficacia salvifica dei sacramenti è espressione dell'amore misericordioso con cui il Padre viene incontro alla nostra debolezza. Soprattutto permette di essere certi del suo donarsi a noi: della fedeltà del suo amore. Si tratta naturalmente di una certezza radicata nella fede che apre all'accoglienza grata e alla risposta fiduciosa. La fede nell'efficacia salvifica dei sacramenti invita a tenere sempre lo sguardo fisso sul Cristo e a mettere in primo piano l'operare dello Spirito tramite la preghiera della Chiesa. Solo in questa luce è possibile comprendere correttamente la necessità di ciò che spetta alla nostra libertà: lasciarci incontrare, accogliere, trasformare. Per evidenziare la specifica efficacia salvifica dei sacramenti, la Chiesa ricorre all'espressione ex opere operato: essi sono efficaci «per il fatto stesso che l'azione viene compiuta, cioè in virtù dell'opera salvifica di Cristo compiuta una volta per tutte» (Catechismo, 1128). Non si tratta certo di dare un valore quasi magico alle parole e ai gesti. Si tratta invece di affermare la priorità incondizionata dell'operare salvifico di Dio: «Quando un sacramento viene celebrato in conformità all'intenzione della Chiesa, la potenza di Cristo e del suo Spirito agisce in esso e per mezzo di esso, indipendentemente dalla santità personale del ministro» (ivi). Questo però non deve mai far dimenticare le nostre responsabilità: i frutti della grazia sacramentale «dipendono anche dalle disposizioni di colui che li riceve» (ivi). La grazia esige sempre il sì coerente della nostra libertà.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 24 al 30 aprile 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 07, 2013 3:32 pm


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«Nei sacramenti di Cristo la Chiesa già riceve la caparra della sua eredità, già partecipa alla vita eterna, pur "nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo" (Tt 2,13)» (Catechismo, 1130).

Vale per tutti i sacramenti l'acclamazione con cui il popolo risponde al «mistero della fede» proclamato dal sacerdote dopo la consacrazione eucaristica: «Annunciamo la tua morte, Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». I sacramenti ricordano il mistero pasquale, ne attuano le potenzialità salvifiche, ne anticipano la pienezza che aspettiamo per la fine dei tempi. Sono tre dimensioni da tenere costantemente in rapporto, perché coessenziali, per ogni autentica vita cristiana. Uno dei rischi più forti che oggi viviamo è quello di non lasciarci adeguatamente guidare dalla certezza della pienezza finale. Pesano le tendenze culturali di taglio immanentistico, che riducono tutto al «qui e ora». Si carica di forte attualità il monito di Paolo ai Corinti: «Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede… Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15,16-19). Le celebrazioni sacramentali ci aprono alla «grande speranza» di cui abbiamo tutti bisogno, come sottolinea Benedetto XVI: «Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere» (Spe salvi, 31). Questa proiezione fiduciosa verso il futuro «non diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell'attuazione di essi» (Gaudium et spes, 21). Ci dà infatti il coraggio di farci carico delle immancabili croci, sapendo che «le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18).

  • La bellezza della liturgia celeste
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«La catechesi liturgica, cominciando da quella sacramentale, deve portare a celebrazioni che facciano trasparire il mistero che in esse si attua. Per questo motivo il Catechismo ritiene necessario approfondirne gli elementi fondamentali: chi celebra, come, quando e dove celebrare» (Catechismo, 1137).

Va sottolineata innanzitutto la risposta alla prima di queste domande: «La liturgia è "azione" di "Cristo tutto intero" (Christus totus). Coloro che qui la celebrano, al di là dei segni, sono già nella liturgia celeste, dove la celebrazione è totalmente comunione e festa» (Catechismo, 1138). Per sintetizzare la grandezza e la bellezza della liturgia celeste, veniamo invitati a rileggere le pagine dell'Apocalisse: «"Ricapitolati" in Cristo, partecipano al servizio della lode di Dio e al compimento del suo disegno: le Potenze celesti, tutta la creazione (i quattro esseri viventi), i servitori dell'Antica e della Nuova Alleanza (i ventiquattro vegliardi), il nuovo popolo di Dio (i centoquarantaquattromila), in particolare i martiri "immolati a causa della Parola di Dio" (Ap 6,9-11), e la santissima Madre di Dio, infine "una moltitudine immensa, che nessuno" può contare, "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7,9)" (Catechismo, 1138). La consapevolezza di essere proiettata e in comunione con la liturgia celeste permette di dare a ogni nostra celebrazione slancio e profondità. Soprattutto fa crescere nella fiducia che la nostra debolezza può diventare preghiera: «A causa della loro più intima unione con Cristo, gli abitanti del cielo rinsaldano tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e in molteplici maniere contribuiscono a una più ampia edificazione (cf 1Cor 12,12-27)» (Lumen Gentium, 49). Alla luce di queste prospettive, la liturgia e la pietà popolare possono incontrarsi in maniera feconda. La pietà popolare arricchisce la liturgia con il suo calore partecipativo e il suo radicamento nella vita concreta; la liturgia fa sì che la pietà popolare abbia sempre più profondità e diventi capace di evitare superficialità e formalismi.

  • A celebrare è la comunità intera
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«È tutta la comunità, il corpo di Cristo unito al suo Capo, che celebra» (Catechismo, 1140).

Una partecipazione attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche, a cominciare da quella eucaristica, è uno dei frutti più significativi del rinnovamento promosso dal Vaticano II. Oggi infatti è difficile che qualcuno parli di «assistere» alla Messa, come purtroppo avveniva nel passato. Fattore decisivo è stata la scelta di servirsi delle lingue correnti, senza accantonare del tutto il latino. Resta però ancora lungo il cammino da compiere per far sì che tutti i battezzati sentano veramente che il battesimo li rende sacerdoti; che la celebrazione presuppone la convocazione del popolo sacerdotale; che ogni sacramento è espressione anche della loro responsabilità sacerdotale per la crescita verso la santità. Va perciò scartata con decisione ogni tentazione di clericalismo, comunque motivato. Pietra miliare di questo cammino resta l'indicazione del Vaticano II: «La Madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, "stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto", (1Pt 2,9) ha diritto e dovere in forza del Battesimo» (Sacrosanctum concilium, 14). Tutto questo va accompagno dalla consapevolezza che, nell'unico popolo di Dio, vi sono doni, competenze e uffici diversi: «Alcuni sono chiamati da Dio, nella Chiesa e dalla Chiesa, ad un servizio speciale della comunità. Questi servitori sono scelti e consacrati mediante il sacramento dell'Ordine, con il quale lo Spirito Santo li rende idonei ad operare nella persona di Cristo-Capo per il servizio di tutte le membra della Chiesa» (Catechismo, 1142). La specificità e il ruolo del sacerdozio ministeriale vanno riconosciuti in tutto il loro significato: non si tratta di potere, ma di servizio sacramentale «per edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,12-13).

  • I ministeri non consacrati
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«Al fine di servire le funzioni del sacerdozio comune dei fedeli, vi sono inoltre altri ministeri particolari, non consacrati dal sacramento dell'Ordine, la cui funzione è determinata dai vescovi secondo le tradizioni liturgiche e le necessità pastorali» (Catechismo, 1143).

Una consapevolezza più chiara della molteplicità ministeriale del popolo di Dio è uno dei tratti che hanno maggiormente caratterizzato il cammino recente della comunità cristiana. L'impulso è venuto dal Vaticano II, che ha invitato a cogliere in essa la perenne azione con la quale lo Spirito guida la Chiesa «alla pienezza della verità (cf Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cf Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22)» (Lumen Gentium, 4). Decisiva è stata anche la necessità di far fronte a urgenze pastorali, rese acute dalla mancanza di vocazioni sacerdotali. Le forme tradizionali di ministerialità si sono così arricchite di altre espressioni, riguardanti non solo l'impegno evangelizzatore e caritativo, ma anche l'ambito liturgico e sacramentale. Occorre ringraziare lo Spirito per questo rinnovamento della ministerialità dell'intero popolo di Dio. Occorre però anche il discernimento da parte dei Pastori perché essa si attui in fedeltà allo Spirito e al servizio effettivo del popolo di Dio. Valgono per ogni celebrazione liturgica quanto Benedetto XVI ricordava per quella eucaristica: «La bellezza e l'armonia dell'azione liturgica trovano una significativa espressione nell'ordine con cui ciascuno è chiamato a partecipare attivamente. Ciò comporta il riconoscimento dei diversi ruoli gerarchici implicati nella celebrazione stessa… Soprattutto non giova alla causa della partecipazione attiva dei fedeli una confusione che venisse ingenerata dalla incapacità di distinguere, nella comunione ecclesiale, i diversi compiti spettanti a ciascuno» (Sacramentum caritatis, 53). Sarà allora più facile comprendere che «nella celebrazione dei sacramenti, tutta l'assemblea è "il liturgo", ciascuno secondo la propria funzione, ma nell'"unità dello "Spirito" che agisce in tutti» (Catechismo, 1144).

  • I simboli, la «porta» sul mistero
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Per una partecipazione piena alla celebrazione sacramentale è indispensabile comprenderne lo specifico linguaggio. La liturgia infatti «è intessuta di segni e di simboli. Secondo la pedagogia divina della salvezza, il loro significato si radica nell'opera della creazione e nella cultura umana, si precisa negli eventi materiali dell'Antica Alleanza e si rivela pienamente nella persona e nell'opera di Cristo» (Catechismo, 1145).

In quanto espressione della pedagogia divina, i segni e i simboli sono custoditi dalla Chiesa come un tesoro da conservare gelosamente e da trasmettere fedelmente. Di qui il rispetto sincero nei loro riguardi: sono una «porta» sul mistero. Rispetto però non significa formalismo. La storia della liturgia ne è testimonianza eloquente. Oggi la preoccupazione maggiore è la trasmissione viva dei gesti e dei segni liturgici alle nuove generazioni. È un compito che riguarda tutti, da vivere però nel rispetto delle norme liturgiche in maniera che l'inculturazione e l'adattamento siano espressione costruttiva dell'unità di tutto popolo di Dio. Significativo il richiamo di Benedetto XVI: «La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell'ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l'artificiosità di aggiunte inopportune» (Sacramentum caritatis, 40). Solo accettandone la fondamentale dimensione comunitaria, possiamo vivere il linguaggio liturgico come strumento di dialogo. Rispettarlo può sembrare a prima vista un limite. A ben riflettere però appare subito che si tratta di quel dinamismo di «codificazione» indispensabile per ogni comunicazione: «Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l'uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l'uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio» (Catechismo, 1146). Parametro decisivo è l'incarnarsi del Verbo: «Non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
  • don Antonio Pitta e padre Sabatino Majorano in Avvenire, dal 1° al 7 maggio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 08, 2013 1:57 pm


  • L'Anno della Fede. Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il tempo pasquale che con gioia stiamo vivendo, guidati dalla liturgia della Chiesa, è per eccellenza il tempo dello Spirito Santo donato «senza misura» (cfr Gv 3,34) da Gesù crocifisso e risorto. Questo tempo di grazia si conclude con la festa della Pentecoste, in cui la Chiesa rivive l’effusione dello Spirito su Maria e gli Apostoli raccolti in preghiera nel Cenacolo.

Ma chi è lo Spirito Santo? Nel Credo noi professiamo con fede: «Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita». La prima verità a cui aderiamo nel Credo è che lo Spirito Santo è Kýrios, Signore. Ciò significa che Egli è veramente Dio come lo sono il Padre e il Figlio, oggetto, da parte nostra, dello stesso atto di adorazione e di glorificazione che rivolgiamo al Padre e al Figlio. Lo Spirito Santo, infatti, è la terza Persona della Santissima Trinità; è il grande dono del Cristo Risorto che apre la nostra mente e il nostro cuore alla fede in Gesù come il Figlio inviato dal Padre e che ci guida all’amicizia, alla comunione con Dio.

Ma vorrei soffermarmi soprattutto sul fatto che lo Spirito Santo è la sorgente inesauribile della vita di Dio in noi. L’uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi desidera una vita piena e bella, giusta e buona, una vita che non sia minacciata dalla morte, ma che possa maturare e crescere fino alla sua pienezza. L’uomo è come un viandante che, attraversando i deserti della vita, ha sete di un’acqua viva, zampillante e fresca, capace di dissetare in profondità il suo desiderio profondo di luce, di amore, di bellezza e di pace. Tutti sentiamo questo desiderio! E Gesù ci dona quest’acqua viva: essa è lo Spirito Santo, che procede dal Padre e che Gesù riversa nei nostri cuori. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza», ci dice Gesù (Gv 10,10).

Gesù promette alla Samaritana di donare un’“acqua viva”, con sovrabbondanza e per sempre, a tutti coloro che lo riconoscono come il Figlio inviato dal Padre per salvarci (cfr Gv 4, 5-26; 3,17). Gesù è venuto a donarci quest’“acqua viva” che è lo Spirito Santo, perché la nostra vita sia guidata da Dio, sia animata da Dio, sia nutrita da Dio. Quando noi diciamo che il cristiano è un uomo spirituale intendiamo proprio questo: il cristiano è una persona che pensa e agisce secondo Dio, secondo lo Spirito Santo. Ma mi faccio una domanda: e noi, pensiamo secondo Dio? Agiamo secondo Dio? O ci lasciamo guidare da tante altre cose che non sono propriamente Dio? Ciascuno di noi deve rispondere a questo nel profondo del suo cuore.

A questo punto possiamo chiederci: perché quest’acqua può dissetarci sino in fondo? Noi sappiamo che l’acqua è essenziale per la vita; senz’acqua si muore; essa disseta, lava, rende feconda la terra. Nella Lettera ai Romani troviamo questa espressione: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). L’“acqua viva”, lo Spirito Santo, Dono del Risorto che prende dimora in noi, ci purifica, ci illumina, ci rinnova, ci trasforma perché ci rende partecipi della vita stessa di Dio che è Amore. Per questo, l’Apostolo Paolo afferma che la vita del cristiano è animata dallo Spirito e dai suoi frutti, che sono «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23). Lo Spirito Santo ci introduce nella vita divina come “figli nel Figlio Unigenito”. In un altro passo della Lettera ai Romani, che abbiamo ricordato più volte, san Paolo lo sintetizza con queste parole: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi… avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,14-17). Questo è il dono prezioso che lo Spirito Santo porta nei nostri cuori: la vita stessa di Dio, vita di veri figli, un rapporto di confidenza, di libertà e di fiducia nell’amore e nella misericordia di Dio, che ha come effetto anche uno sguardo nuovo verso gli altri, vicini e lontani, visti sempre come fratelli e sorelle in Gesù da rispettare e da amare. Lo Spirito Santo ci insegna a guardare con gli occhi di Cristo, a vivere la vita come l’ha vissuta Cristo, a comprendere la vita come l’ha compresa Cristo. Ecco perché l’acqua viva che è lo Spirito Santo disseta la nostra vita, perché ci dice che siamo amati da Dio come figli, che possiamo amare Dio come suoi figli e che con la sua grazia possiamo vivere da figli di Dio, come Gesù. E noi, ascoltiamo lo Spirito Santo? Cosa ci dice lo Spirito Santo? Dice: Dio ti ama. Ci dice questo. Dio ti ama, Dio ti vuole bene. Noi amiamo veramente Dio e gli altri, come Gesù? Lasciamoci guidare dallo Spirito Santo, lasciamo che Lui ci parli al cuore e ci dica questo: che Dio è amore, che Dio ci aspetta, che Dio è il Padre, ci ama come vero Papà, ci ama veramente e questo lo dice soltanto lo Spirito Santo al cuore. Sentiamo lo Spirito Santo, ascoltiamo lo Spirito Santo e andiamo avanti per questa strada dell'amore, della misericordia e del perdono. Grazie.
  • papa Francesco, mercoledì 8 maggio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 14, 2013 1:29 pm


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La liturgia, attingendo i segni e i simboli sia dalla natura sia dalla vita sociale, costituisce una scuola preziosa: natura e cultura non vanno mai contrapposte, ma armonizzate. «Dio parla all'uomo attraverso la creazione visibile. L'universo materiale si presenta all'intelligenza dell'uomo perché vi legga le tracce del suo Creatore. La luce e la notte, il vento e il fuoco, l'acqua e la terra, l'albero e i frutti parlano di Dio, simboleggiano ad un tempo la sua grandezza e la sua vicinanza» (Catechismo, 1147).

Assunti nella liturgia, gli elementi della natura evidenziano ulteriormente ciò che già li caratterizza in quanto creature: essere segni dell'amore di Dio. Nella Pratica di amar Gesù Cristo, la sintesi popolare della sua proposta morale, sant'Alfonso de Liguori scriveva: «Vedendo Iddio che gli uomini si fan tirare da' benefici, volle, per mezzo de' suoi doni, cattivarli al suo amore. Disse pertanto: "Voglio tirare gli uomini ad amarmi con quei lacci con cui gli uomini si fan tirare, cioè coi legami dell'amore" (cf Os 11,4). Tali appunto sono stati tutti i doni fatti da Dio all'uomo» (cap. 1, n. 3). Dalla liturgia, siamo spinti a un rispetto della natura convinto e sincero senza cadere in assolutizzazioni: «Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore» (Gaudium et spes, 14). Nella liturgia i segni e i simboli della natura si fondono con «i segni e i simboli della vita sociale degli uomini: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice possono esprimere la presenza santificante di Dio e la gratitudine dell'uomo verso il suo Creatore» (Catechismo, 1148). Nella nostra società si va diffondendo sempre più la tendenza a svuotare e banalizzare il linguaggio e la gestualità. Non ci accorgiamo che in questa maniera rendiamo più forte l'ipoteca della violenza su tutti i nostri rapporti. Dalle celebrazioni liturgiche siamo spinti a un linguaggio e una gestualità che dicono incontro, comunione, camminare insieme.

  • Liturgia, segni sacramentali
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Nei segni e nei simboli della liturgia la Chiesa esprime la continuità con l'Antica Alleanza e al tempo stesso il suo compimento e superamento nella morte e risurrezione del Cristo. Gran parte dei segni liturgici della Chiesa sono attinti dalla storia di Israele, a cominciare da quelli collegati con l'evento pasquale: «Il popolo eletto riceve da Dio segni e simboli distintivi che caratterizzano la sua vita liturgica: non sono più soltanto celebrazioni di cicli cosmici e di gesti sociali, ma segni dell'Alleanza, simboli delle grandi opere compiute da Dio per il suo popolo» (Catechismo, 1150).

La consapevolezza di questo radicamento veterotestamentario è importante per la corretta comprensione dei segni e dei simboli liturgici. Occorre però non dimenticare che non si tratta di una semplice riproposizione. La liturgia li legge come prefigurazione del Cristo e dell'alleanza nuova e definitiva donataci in lui. Nella sua predicazione, Gesù ricorre più volte alle realtà create per illustrare il mistero del Regno. Si pensi, ad esempio, alla ricchezza di riferimenti contenuti nelle parabole. Inoltre «compie le guarigioni o dà rilievo alla sua predicazione con segni o gesti simbolici». Soprattutto «conferisce un nuovo significato ai fatti e ai segni dell'Antica Alleanza, specialmente all'esodo e alla pasqua, poiché egli stesso è il significato di tutti questi segni» (Catechismo, 1151). Valgono per le celebrazioni liturgiche le parole del prologo del vangelo di Giovanni: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16-17). Nei sacramenti questa effusione di «grazia su grazia» viene non solo ricordata, ma incessantemente rinnovata e attualizzata dallo Spirito: «È mediante i segni sacramentali della sua Chiesa che lo Spirito Santo opera la santificazione. I sacramenti della Chiesa non aboliscono, ma purificano e integrano tutta la ricchezza dei segni e dei simboli del cosmo e della vita sociale. Inoltre essi danno compimento ai tipi e alle figure dell'Antica Alleanza» (Catechismo, 1151).

  • Parole e gesti della celebrazione
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In quanto «incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo», nella celebrazione sacramentale si intrecciano parole e gesti: «Anche se le azioni simboliche già per se stesse sono un linguaggio, è tuttavia necessario che la Parola di Dio e la risposta della fede accompagnino e vivifichino queste azioni, perché il seme del Regno porti il suo frutto nella terra buona» (Catechismo, 1153).

Il contenuto salvifico del gesto sacramentale è esplicitato dalla Parola; la Parola a sua volta si attua nella sua potenzialità salvifica attraverso il gesto: «Lo Spirito Santo non si limita a dare l'intelligenza della Parola di Dio suscitando la fede; attraverso i sacramenti egli realizza anche le "meraviglie" di Dio annunziate dalla Parola; rende presente e comunica l'opera del Padre compiuta dal Figlio diletto» (Catechismo, 1155). Parola e gesti non vanno mai separati: si richiamano e si chiarificano reciprocamente. Questo vale non solo per il dono di grazia, concesso nel sacramento, ma anche per l'accoglienza grata e la risposta fiduciosa da parte della comunità e del singolo credente: «Le azioni liturgiche significano ciò che la Parola di Dio esprime: l'iniziativa gratuita di Dio e, nello stesso tempo, la risposta di fede del suo popolo» (Catechismo, 1153). Solo così la celebrazione diventa incontro vero tra libertà: quella di Dio che anticipa il suo amore e quella dell'uomo che accoglie e si lascia trasformare. Lo sforzo di questi ultimi decenni per una maggiore valorizzazione della Parola, come «parte integrante delle celebrazioni sacramentali», va portato avanti con convinzione, non solo per quanto riguarda la sua proclamazione ma anche per i gesti e i segni con cui la liturgia ne evidenzia il significato: «Il libro della Parola (lezionario o evangeliario), la venerazione di cui è fatta oggetto (processione, incenso, candele), il luogo da cui viene annunziata (ambone), la sua proclamazione udibile e comprensibile, l'omelia del ministro che ne prolunga la proclamazione, le risposte dell'assemblea (acclamazioni, salmi di meditazione, litanie, Professione di fede)» (Catechismo, 1154).

  • Canto e musica si fanno preghiera
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Il canto e la musica caratterizzano fin dall'inizio il linguaggio liturgico, come già ricordava san Paolo: «Intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5,19). Di qui l'affermazione di Benedetto XVI: «Nell'ars celebrandi un posto di rilievo viene occupato dal canto liturgico» (Sacramentum caritatis, n. 42).

Anche a questo riguardo la liturgia della Chiesa si ricollega alla prassi di Israele: «La composizione e il canto dei salmi ispirati, frequentemente accompagnati da strumenti musicali, sono già strettamente legati alle celebrazioni liturgiche dell'Antica Alleanza. La Chiesa continua e sviluppa questa tradizione» (Catechismo, 1156). Lungo i secoli la Chiesa «ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto» (Sacramentum caritatis, 42). Si tratta infatti di «un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte» (ivi, 112). È un patrimonio da sviluppare secondo le diverse sensibilità culturali, lasciandosi guidare da tre criteri: «La bellezza espressiva della preghiera, l'unanime partecipazione dell'assemblea nei momenti previsti e il carattere solenne della celebrazione». Così, il canto e la musica «partecipano alla finalità delle parole e delle azioni liturgiche: la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli» (Catechismo, 1157). Il canto dice soprattutto la gioia dell'incontro con il Dio che salva e ama per primo. È una gioia vissuta insieme, fondendo in armonia la voce e il cuore di ognuno. Per questo, il Catechismo fa suo il monito della Sacrosanctum Concilium a promuovere «"con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, e nelle stesse azioni liturgiche", secondo le norme della Chiesa, "possano risuonare le voci dei fedeli"» (Catechismo, 1158).
Occorre però che il canto sia effettivamente preghiera, meglio che sia un pregare due volte, come diceva sant'Agostino. E soprattutto che l'armonia del pregare insieme si traduca poi in armonia del vivere nella carità, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2).

  • Le immagini parlano del mistero
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«L'iconografia cristiana trascrive attraverso l'immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola. Immagine e parola si illuminano a vicenda» (Catechismo, 1160).

Si tratta di una reciprocità alla quale è particolarmente sensibile la nostra cultura, che tende a privilegiare l'immagine sullo scritto. Del resto già nel passato le immagini hanno avuto un ruolo catechetico per il popolo: basta pensare ai grandi cicli pittorici sulle pareti delle chiese rinascimentali. Dio e il suo mistero trascendono ogni rappresentazione. Nel Vecchio Testamento la proibizione di ogni immagine di Dio è assoluta: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4). Il rischio di cedimenti alle prassi idolatriche dei popoli, tra i quali Israele vive, era forte. Questa proibizione è superata da Cristo: con la sua incarnazione egli si pone tra noi come «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). Viene così inaugura «una nuova "economia" delle immagini» (Catechismo, 1159). Possono essere segno della sua presenza, ricordare quanto ha operato, aprire alla speranza della pienezza inaugurata con la sua risurrezione. Ogni immagine sacra fa riferimento a Cristo, anche quelle della santa Madre di Dio e dei santi «poiché significano Cristo che in loro è glorificato. Esse manifestano "il gran nugolo di testimoni" (Eb 12,1) che continuano a partecipare alla salvezza del mondo e ai quali noi siamo uniti, soprattutto nella celebrazione sacramentale». Le loro icone rivelano «alla nostra fede l'uomo creato "a immagine di Dio", e trasfigurato "a sua somiglianza", come pure gli angeli, anch'essi ricapitolati in Cristo» (Catechismo, 1161). Attraverso le immagini la liturgia si arricchisce di bellezza portando all'incontro con il mistero. La loro contemplazione, insieme all'ascolto grato della Parola e all'armonia condivisa del canto, fa sì che «il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli» (Catechismo, 1162). Le immagini sacre sulle pareti delle nostre case possono essere un importante richiamo in questa prospettiva.

  • Al centro, la Pasqua del Signore
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Nella liturgia il tempo viene vissuto con una chiara connotazione pedagogica. Il Catechismo (n. 1163) lo ricorda con le parole della Costituzione conciliare sulla liturgia: «La santa Madre Chiesa considera suo dovere celebrare con sacra memoria in determinati giorni nel corso dell'anno, l'opera salvifica del suo Sposo divino… Ricordando in tal modo i misteri della redenzione, essa apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza» (Catechismo, 102).

La nostra mentalità fa fatica a vivere costruttivamente il susseguirsi dei giorni, dei mesi, delle stagioni. Forti delle nostre capacità tecnologiche, tendiamo a uniformare ogni cosa, senza ascoltare né rispettare i ritmi della natura. Il rischio è un appiattimento sull'oggi, gestito egoisticamente. La liturgia invita a riscoprire la sintonia con la natura, la peculiarità del susseguirsi dei mesi e delle stagioni, la gradualità del costruire e del maturare. È una pedagogia che affranca dal «tutto e subito» e fa riscoprire la fecondità umana dell'attendere e del preparare. Cuore del progetto pedagogico della liturgia è la celebrazione annuale della Pasqua del Signore. Tutte le altre ruotano e conducono ad essa. È una centralità da approfondire incessantemente, se vogliamo che la vita dei credenti sia effettivamente una vita pasquale. È un compito che la pietà popolare deve far suo in maniera particolare, chiarificando tradizioni che a volte hanno privilegiato altri elementi. A differenza del popolo di Israele, che viveva la Pasqua annuale soprattutto come ricordo delle grandi gesta con cui Dio lo aveva liberato dalla schiavitù d'Egitto, la Chiesa celebra la perenne attualità della Pasqua del Cristo e «una parola scandisce la sua preghiera: Oggi!, come eco della preghiera che le ha insegnato il suo Signore e dell'invito dello Spirito Santo. Questo "oggi" del Dio vivente in cui l'uomo è chiamato ad entrare è l'"Ora" della Pasqua di Gesù, che attraversa tutta la storia e ne è il cardine» (Catechismo, 1165).
  • padre Sabatino Majorano in Avvenire, dall'8 al 14 maggio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 21, 2013 8:31 am


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La domenica è stata da sempre vissuta dalla comunità cristiana come giorno da dedicare in maniera speciale al Signore: «Il giorno della risurrezione di Cristo è ad un tempo il "primo giorno della settimana", memoriale del primo giorno della creazione, e l'"ottavo giorno" in cui Cristo, dopo il suo "riposo" del grande Sabato, inaugura il Giorno "che il Signore ha fatto", il "giorno che non conosce tramonto". La "cena del Signore" ne costituisce il centro, poiché in essa l'intera comunità dei fedeli incontra il Signore risorto che la invita al suo banchetto» (Catechismo, 1166).

La celebrazione eucaristica domenicale è espressione e testimonianza di fede: i cristiani, radunandosi per ascoltare la Parola e partecipare all'Eucaristia fanno «memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù» e rendono «grazie a Dio che li ha "rigenerati per una speranza viva per mezzo della Risurrezione di Gesù Cristo dai morti"» (Sacrosanctum Concilium, 106). È una testimonianza comunitaria che il complesso contesto attuale rende più difficile e insieme più urgente. Va vissuta non tanto come un dovere, ma come una esigenza della nostra fede: la luce, che ci è stata donata, è necessario che risplenda «davanti a tutti gli uomini» (Mt 5,14-16). I cristiani sono «coloro che vivono secondo la domenica», scriveva Ignazio di Antiochia. Benedetto XVI, dopo aver richiamato questa affermazione, aggiunge: «La domenica è il giorno in cui il cristiano ritrova quella forma eucaristica della sua esistenza secondo la quale è chiamato a vivere costantemente. "Vivere secondo la domenica" vuol dire vivere nella consapevolezza della liberazione portata da Cristo e svolgere la propria esistenza come offerta di se stessi a Dio, perché la sua vittoria si manifesti pienamente a tutti gli uomini attraverso una condotta intimamente rinnovata» (Sacramentum caritatis, 72). Giorno del Signore, la domenica ci è da lui ridonata come giorno dell'uomo: giorno in cui, aprendoci maggiormente al senso della vita, all'incontro e alla solidarietà, affermiamo la nostra dignità di persone, che non può essere mai ridotta al solo fare o al solo avere.

  • Pasqua, la «festa delle feste»
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«A partire dal Triduo Pasquale, come dalla sua fonte di luce, il tempo nuovo della risurrezione permea tutto l'anno liturgico del suo splendore. Progressivamente, da un versante e dall'altro di questa fonte, l'anno è trasfigurato dalla liturgia» (Catechismo, 1168).

Seguendone lo sviluppo, siamo condotti dalla preghiera della Chiesa a una crescente comprensione e apertura alla forza rinnovatrice del vittoria del Cristo sul peccato e sulla morte. Preparata dal cammino penitenziale della quaresima, la celebrazione della Pasqua continua nei giorni successivi fino alla Pentecoste. L'intero anno liturgico va però considerato come «il dispiegarsi dei diversi aspetti dell'unico mistero pasquale. Questo è vero soprattutto per il ciclo delle feste relative al mistero dell'incarnazione (Annunciazione, Natale, Epifania) le quali fanno memoria degli inizi della nostra salvezza e ci comunicano le primizie del mistero di Pasqua» (Catechismo, 1171). Fissata dal Concilio di Nicea (325) nella «domenica che segue il plenilunio (14 Nisan) dopo l'equinozio di primavera», la data della celebrazione della Pasqua non trova ancora concordi le chiese d'Occidente e d'Oriente «a causa dei diversi metodi utilizzati per calcolare il giorno 14 del mese di Nisan» (Catechismo, 1170). È auspicabile che il cammino dell'ecumenismo porti al superamento delle divergenze. Sarebbe allora più chiara la testimonianza del valore unico e fondamentale della Pasqua, che non può essere considerata come una festa tra le altre ma «è la "festa delle feste", la "solennità delle solennità", come l'Eucaristia è il sacramento dei sacramenti (il grande sacramento). Sant'Atanasio la chiama "la grande domenica", come la Settimana santa in Oriente è chiamata "la grande Settimana"» (Catechismo, 1169). La tradizione popolare ha privilegiato la passione e morte del Cristo e la partecipazione sofferente della Vergine Maria. Sono aspetti della fede pasquale da non perdere. Vanno però approfonditi alla luce dell'intero mistero pasquale: è la risurrezione che svela il senso pieno della passione e della morte del Cristo.

  • L'esempio di Maria e dei Santi
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Lungo l'anno liturgico la celebrazione dei misteri del Cristo è arricchita dal costante riferimento alla presenza materna di Maria. Il Catechismo lo ricorda con le parole della Sacrosanctum Concilium: «Nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con speciale amore la beata Maria Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l'opera salvifica del Figlio suo; in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della Redenzione, e contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa tutta desidera e spera di essere» (Catechismo, 1172).

Dalla liturgia Maria è additata come guida sicura alla comprensione piena del mistero salvifico. Del resto è stato così fin dagli inizi: basta ricordare la proclamazione della maternità divina di Maria nel concilio di Efeso (431), tappa fondamentale del cammino della fede cristologica nei primi secoli. Il ricordo della Vergine Madre evidenzia in maniera particolare che tutto il mistero salvifico è un mistero di amore misericordioso, che non si lascia bloccare nemmeno dal nostro rifiuto: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Con la sua maternità, per la quale è indissolubilmente congiunta al Figlio, Maria pone in rilievo non solo la priorità dell'azione salvifica di Dio ma anche «la modalità sacramentale con cui Dio raggiunge e coinvolge nella sua iniziativa salvifica la creatura umana» (Sacramentum caritatis, 33). Si pone perciò come modello per tutto l'operare apostolico della Chiesa: «La Vergine nella sua vita fu modello di quell'amore materno da cui devono essere animati tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini» (Lumen Gentium, 65). Con Maria, lungo l'anno liturgico, la Chiesa fa anche memoria dei martiri e dei santi: proclamando in loro la capacità salvifica del mistero pasquale, li propone come «esempi, che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo, e implora per i loro meriti i benefici di Dio» (Sacrosanctum Concilium, 104; cf Catechismo, 1773).

  • Scorrono le ore con la preghiera
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«Il mistero di Cristo, la sua incarnazione e la sua pasqua, che celebriamo nell'Eucaristia, soprattutto nell'assemblea domenicale, penetra e trasfigura il tempo di ogni giorno attraverso la celebrazione della liturgia delle Ore, "l'Ufficio divino"» (Catechismo, 1174)

Lo scorrere della giornata viene così scandito da momenti di preghiera che coinvolgono tutta la comunità cristiana. Anche quando l'ufficio divino è pregato in maniera personale, ci si ricollega sempre alla preghiera della Chiesa intera. La liturgia delle Ore, ricorda la Sacrosanctum Concilium, è «preghiera pubblica della Chiesa» e «voce della Sposa stessa che parla allo Sposo, anzi è la preghiera di Cristo, con il suo Corpo, al Padre» (n. 84). Modellata inizialmente sul ritmo della vita monastica e sacerdotale, oggi «la liturgia delle Ore è destinata a diventare la preghiera di tutto il popolo di Dio». Ogni battezzato è chiamato a prendervi parte «secondo il ruolo che riveste nella Chiesa e le circostanze della propria vita» (Catechismo, 1175), valorizzando innanzitutto i due momenti fondamentali delle Lodi al mattino e dei Vespri alla sera. Per favorire la partecipazione di tutto il popolo di Dio, sarà indispensabile continuare nell'adattamento dei libri liturgici in maniera da radicarli sempre più nel vissuto della vita quotidiana e in sintonia con il suo ritmo attuale. Occorre però uno sforzo ancora più grande nella formazione biblica e liturgica dei fedeli: senza di essa, la preghiera soprattutto di alcuni salmi rischierebbe di cadere in un formalismo, che non permette di fondere insieme mente e cuore. Nonostante la sua importanza in quanto «quasi un prolungamento della celebrazione eucaristica», la liturgia delle Ore «non esclude ma richiede come complementari le varie devozioni del popolo di Dio, in modo particolare l'adorazione e il culto del Santissimo Sacramento» (Catechismo, 1178). Occorre superare ogni forma di contrapposizione, come a volte si è verificato nel passato, e realizzare in maniera convinta quella circolarità che è indispensabile sia per la liturgia sia per la pietà popolare.

  • Lo spazio dell'incontro
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«Quando non viene ostacolato l'esercizio della libertà religiosa, i cristiani costruiscono edifici destinati al culto divino. Tali chiese visibili non sono semplici luoghi di riunione, ma significano e manifestano la Chiesa che vive in quel luogo, dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo" (Catechismo, 1180).

Il culto cristiano non è legato a un luogo esclusivo. La parola di Gesù alla Samaritana è netta: «Viene l'ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,23-24). Offrendo tutta la propria vita come «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1), i credenti sono "pietre vive" che costruiscono un «edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2,5). Ignazio di Antiochia lo ricordava al cristiani di Efeso: «Siete davvero le pietre del Padre, preparate per la costruzione che egli compie, elevate con l'argano di Gesù Cristo, che è la croce e con la corda dello Spirito Santo; la fede è la vostra leva e la carità è la strada che vi conduce a Dio» (n. 9). Le chiese di pietra sono segno della chiesa viva, «il popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium, 4). Accogliendo i battezzati per l'evangelizzazione e la preghiera, li stimolano ad accogliere il dono salvifico che loro viene concesso e alla risposta coerente nella vita quotidiana. Con la bellezza e l'armonia della loro architettura, le chiese devono facilitare l'apertura al mistero e l'incontro fraterno. Molte delle nostre chiese sono state arricchite lungo i secoli con opere artistiche di incalcolabile valore. Vanno custodite con cura. Occorre però che non vengano ridotte a semplici musei. Il Vaticano II ricordava ai presbiteri che la casa di preghiera «deve essere nitida e adatta alla preghiera e alle sacre funzioni» (Presbyterorum ordinis, 5). È un impegno però di cui deve sentirsi corresponsabile l'intera comunità cristiana.

  • La verità e l'armonia dei segni
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Nella casa di Dio «la verità e l'armonia dei segni che la costituiscono devono manifestare Cristo che in quel luogo è presente e agisce» (Catechismo, 1181).

La presenza di Cristo è molteplice. È presente nell'assemblea radunata nel suo nome, secondo la sua stessa promessa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Lc 18,20); nella sua Parola proclamata e accolta; nei segni sacramentali con i quali rende partecipi della grazia; soprattutto nell'Eucaristia custodita nel tabernacolo. Occorre che la struttura della Chiesa porti all'incontro personale con lui mediante l'incontro fraterno. Centro di ogni chiesa è l'altare, che ricorda e attualizza la croce con cui è stata sancita la nuova alleanza: sull'altare viene reso presente il sacrificio della croce sotto i segni sacramentali. Esso è anche la Mensa del Signore, alla quale è invitato il Popolo di Dio (Catechismo, 1182). Con l'altare il tabernacolo dell'Eucaristia. Purtroppo in alcune chiese costruite più recentemente tale centralità non viene evidenziata adeguatamente. Occorre invece che sia «in luogo distintissimo, col massimo onore», in maniera che la sua nobiltà, disposizione e sicurezza possano «favorire l'adorazione del Signore realmente presente nel santissimo Sacramento dell'altare» (Catechismo, 1183). L'ambone deve evidenziare il ruolo fondamentale della Parola. Deve essere tale da focalizzare spontaneamente l'attenzione dei fedeli, quando essa viene proclamata, in maniera che possa arrivare «viva e efficace» e penetrare «fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Essendo il battesimo l'inizio del cammino della fede, è necessario che la chiesa abbia «un luogo per la celebrazione del Battesimo (battistero) e favorire il ricordo delle promesse battesimali (acqua benedetta)». Inoltre, dato che «il rinnovamento della vita battesimale esige la penitenza», occorre che la chiesa si presti «all'espressione del pentimento e all'accoglienza del perdono, e questo comporta un luogo adatto per accogliere i penitenti» (Catechismo, 1185). Occorre riconoscere che non è facile comporre armonicamente questi diversi segni. La comunità cristiana è però certa che, come già nel passato, la creatività e la fede degli artisti sapranno trovare soluzioni adeguate.
  • padre Sabatino Majorano in Avvenire, dal 15 al 21 maggio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 27, 2013 8:24 am


  • L'Anno della Fede. Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

Nel Credo, subito dopo aver professato la fede nello Spirito Santo, diciamo: «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». C’è un profondo legame tra queste due realtà di fede: è lo Spirito Santo, infatti, che dà vita alla Chiesa, guida i suoi passi. Senza la presenza e l’azione incessante dello Spirito Santo, la Chiesa non potrebbe vivere e non potrebbe realizzare il compito che Gesù risorto le ha affidato di andare e fare discepoli tutti i popoli (cfr Mt 28,18). Evangelizzare è la missione della Chiesa, non solo di alcuni, ma la mia, la tua, la nostra missione. L’Apostolo Paolo esclamava: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Ognuno deve essere evangelizzatore, soprattutto con la vita! Paolo VI sottolineava che «evangelizzare… è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14).

Chi è il vero motore dell’evangelizzazione nella nostra vita e nella Chiesa? Paolo VI scriveva con chiarezza: «È lui, lo Spirito Santo che, oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da Lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché sia aperto ad accogliere la Buona Novella e il Regno annunziato» (ibid., 75). Per evangelizzare, allora, è necessario ancora una volta aprirsi all'orizzonte dello Spirito di Dio, senza avere timore di che cosa ci chieda e dove ci guidi. Affidiamoci a Lui! Lui ci renderà capaci di vivere e testimoniare la nostra fede, e illuminerà il cuore di chi incontriamo. Questa è stata l’esperienza di Pentecoste: agli Apostoli, riuniti con Maria nel Cenacolo, «apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4). Lo Spirito Santo, scendendo sugli Apostoli, li fa uscire dalla stanza in cui erano chiusi per timore, li fa uscire da se stessi, e li trasforma in annunciatori e testimoni delle «grandi opere di Dio» (v. 11). E questa trasformazione operata dallo Spirito Santo si riflette sulla folla accorsa sul luogo e proveniente «da ogni nazione che è sotto il cielo» (v. 5), perché ciascuno ascolta le parole degli Apostoli come se fossero pronunciate nella propria lingua (v. 6).

Qui c’è un primo effetto importante dell’azione dello Spirito Santo che guida e anima l’annuncio del Vangelo: l’unità, la comunione. A Babele, secondo il racconto biblico, era iniziata la dispersione dei popoli e la confusione delle lingue, frutto del gesto di superbia e di orgoglio dell’uomo che voleva costruire, con le sole proprie forze, senza Dio, «una città e una torre la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,4). A Pentecoste queste divisioni sono superate. Non c’è più l’orgoglio verso Dio, né la chiusura degli uni verso gli altri, ma c’è l’apertura a Dio, c’è l’uscire per annunciare la sua Parola: una lingua nuova, quella dell’amore che lo Spirito Santo riversa nei cuori (cfr Rm 5,5); una lingua che tutti possono comprendere e che, accolta, può essere espressa in ogni esistenza e in ogni cultura. La lingua dello Spirito, la lingua del Vangelo è la lingua della comunione, che invita a superare chiusure e indifferenza, divisioni e contrapposizioni. Dovremmo chiederci tutti: come mi lascio guidare dallo Spirito Santo in modo che la mia vita e la mia testimonianza di fede sia di unità e di comunione? Porto la parola di riconciliazione e di amore che è il Vangelo negli ambienti in cui vivo? A volte sembra che si ripeta oggi quello che è accaduto a Babele: divisioni, incapacità di comprendersi, rivalità, invidie, egoismo. Io che cosa faccio con la mia vita? Faccio unità attorno a me? O divido, con le chiacchiere, le critiche, le invidie? Che cosa faccio? Pensiamo a questo. Portare il Vangelo è annunciare e vivere noi per primi la riconciliazione, il perdono, la pace, l’unità e l’amore che lo Spirito Santo ci dona. Ricordiamo le parole di Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Un secondo elemento: il giorno di Pentecoste, Pietro, colmo di Spirito Santo, si alza in piedi «con gli undici» e «a voce alta» (At 2,14) e «con franchezza» (v. 29) annuncia la buona notizia di Gesù, che ha dato la sua vita per la nostra salvezza e che Dio ha risuscitato dai morti. Ecco un altro effetto dell’azione dello Spirito Santo: il coraggio, di annunciare la novità del Vangelo di Gesù a tutti, con franchezza (parresia), a voce alta, in ogni tempo e in ogni luogo. E questo avviene anche oggi per la Chiesa e per ognuno di noi: dal fuoco della Pentecoste, dall’azione dello Spirito Santo, si sprigionano sempre nuove energie di missione, nuove vie in cui annunciare il messaggio di salvezza, nuovo coraggio per evangelizzare. Non chiudiamoci mai a questa azione! Viviamo con umiltà e coraggio il Vangelo! Testimoniamo la novità, la speranza, la gioia che il Signore porta nella vita. Sentiamo in noi «la dolce e confortante gioia di evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Perché evangelizzare, annunciare Gesù, ci dà gioia; invece, l'egoismo ci dà amarezza, tristezza, ci porta giù; evangelizzare ci porta su.

Accenno solamente ad un terzo elemento, che però è particolarmente importante: una nuova evangelizzazione, una Chiesa che evangelizza deve partire sempre dalla preghiera, dal chiedere, come gli Apostoli nel Cenacolo, il fuoco dello Spirito Santo. Solo il rapporto fedele e intenso con Dio permette di uscire dalle proprie chiusure e annunciare con parresia il Vangelo. Senza la preghiera il nostro agire diventa vuoto e il nostro annunciare non ha anima, e non è animato dallo Spirito.

Cari amici, come ha affermato Benedetto XVI, oggi la Chiesa «sente soprattutto il vento dello Spirito Santo che ci aiuta, ci mostra la strada giusta; e così, con nuovo entusiasmo, siamo in cammino e ringraziamo il Signore» (Parole all’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 27 ottobre 2012). Rinnoviamo ogni giorno la fiducia nell’azione dello Spirito Santo, la fiducia che Lui agisce in noi, Lui è dentro di noi, ci dà il fervore apostolico, ci dà la pace, ci dà la gioia. Lasciamoci guidare da Lui, siamo uomini e donne di preghiera, che testimoniano con coraggio il Vangelo, diventando nel nostro mondo strumenti dell’unità e della comunione con Dio. Grazie.
  • papa Francesco, mercoledì 22 maggio 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 28, 2013 2:07 pm


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«Dalla prima comunità di Gerusalemme fino alla parusia, le Chiese di Dio, fedeli alla fede apostolica, celebrano, in ogni luogo, lo stesso mistero pasquale. Il mistero celebrato nella liturgia è uno, ma variano le forme nelle quali esso è celebrato» (Catechismo, 1.200).
L'unità della Chiesa non è uniformità, ma comunione: è «varietà di Chiese locali tendenti all'unità» (Lumen gentium, 23). Le diverse tradizioni liturgiche, che ne hanno segnato il cammino fin dall'inizio, ne sono un'espressione eloquente. Fin quando le Chiese d'Oriente e d'Occidente hanno vissuto le loro rispettive «tradizioni liturgiche in comunione tra loro nella fede e nei sacramenti della fede, si sono reciprocamente arricchite crescendo nella fedeltà alla Tradizione e alla missione comune a tutta la Chiesa» (Catechismo, 1.201). La varietà delle tradizioni liturgiche all'interno dell'unica Chiesa è una ricchezza da custodire e sviluppare, perché testimonia il suo radicamento tra i diversi popoli: celebrando «il mistero di Cristo con espressioni particolari, culturalmente caratterizzate», essa lo rende più vicino e significativo «al popolo e alla cultura si quali essa è inviata e nei quali è radicata» (Catechismo, 1.202). Di qui l'impegno a riconoscere pari dignità ai diversi riti esistenti nell'unica Chiesa, come sottolineava il Vaticano II: «Il sacro Concilio, in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che la santa Madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati» (Sacrosanctum Concilium, 4). La contrapposizione tra Oriente e Occidente, consumatasi alla fine del primo millennio, ha reso più problematico il reciproco arricchimento anche a livello liturgico. Il Vaticano II ha richiamato con forza la necessità che la Chiesa torni a respirare con entrambi i polmoni: «Nella Chiesa tutti, secondo il compito assegnato ad ognuno sia nelle varie forme della vita spirituale e della disciplina, sia nella diversità dei riti liturgici, anzi, anche nella elaborazione teologica della verità rivelata, pur custodendo l'unità nelle cose necessarie, serbino la debita libertà; in ogni cosa poi pratichino la carità» (Unitatis redintegratio, 4).

  • Liturgia, cultura e genio dei popoli
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«La celebrazione della liturgia deve corrispondere al genio e alla cultura dei diversi popoli… La moltitudine dei figli di Dio, infatti, ha accesso al Padre, per rendergli gloria, in un solo Spirito, con e per mezzo della propria cultura umana, assunta e trasfigurata da Cristo» (Catechismo, 1204).

L'inculturazione della fede è una delle sfide più urgenti alle quali la comunità cristiana è chiamata oggi a rispondere. Nel Messaggio del Sinodo dei vescovi dello scorso ottobre si ricorda: «la nuova evangelizzazione ha al suo centro Cristo e l'attenzione alla persona umana, per dare vita a un reale incontro con lui. Ma i suoi orizzonti sono larghi quanto il mondo e non si chiudono a nessuna esperienza dell'uomo. Questo significa che essa coltiva con particolare cura il dialogo con le culture, nella fiducia di poter trovare in ciascuna di esse i "semi del Verbo" di cui parlavano gli antichi Padri» (n. 10). È un compito impegnativo che la Chiesa però vive con fiducia, lasciandosi guidare dallo Spirito nel discernimento di ciò che va conservato e ciò che va innovato. La liturgia, ricordava il Vaticano II, «consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee» (n. 21). Il cammino della riforma liturgica scaturita dal Vaticano ha vissuto momenti molto belli e fruttuosi, ma anche momenti problematici e di tensione che esigono ancora risposte adeguate. A volte per buttare l'acqua sporca abbiamo rischiato anche di buttare il bambino; altre volte l'adattamento ai gusti del momento ha fatto perdere ai segni la loro capacità di aprire al mistero. L'inculturazione della liturgia riguarda non solo le grandi culture dei vari paesi, ma anche le tante articolazioni in esse presenti. Decisivo sarà mantenere vivo il dialogo, evitando contrapposizioni e formalismi. L'autentica inculturazione, come ricordava Giovanni Paolo II, «non può esprimersi che nella fedeltà alla fede comune, ai segni sacramentali, che la Chiesa ha ricevuto da Cristo, e alla comunione gerarchica», compiendo quando è necessario, «anche rotture con abitudini ancestrali incompatibili con la fede cattolica» (Vicesimus quintus annus, 16).

  • I sette sacramenti, la nostra vita
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Istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa, i sette sacramenti «toccano tutte le tappe e tutti i momenti importanti della vita del cristiano: grazie ad essi, la vita di fede dei cristiani nasce e cresce, riceve la guarigione e il dono della missione». Viene così ad attuarsi «una certa somiglianza tra le tappe della vita naturale e quelle della vita spirituale» (Catechismo, 1210).

Questa analogia vale particolarmente per i tre sacramenti della iniziazione cristiana: battesimo, cresima eucaristia. Il Catechismo lo sottolinea facendo sue le parole di Paolo VI in Divinae consortium naturae: «I fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell'Eucaristia, sicché, per effetto di questi sacramenti dell'iniziazione cristiana, sono in grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità» (Catechismo, 1212). È un'analogia che non deve sorprendere, perché nel progetto di Dio c'è continuità e insieme trascendenza tra natura e grazia. Deve invece stimolare a una comprensione sempre più piena: «Per mezzo dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, gli uomini, uniti con Cristo nella sua morte, nella sua sepoltura e risurrezione, vengono liberati dal potere delle tenebre, ricevono lo Spirito di adozione a figli e celebrano, con tutto il popolo di Dio, il memoriale della morte e risurrezione del Signore» (n. 1). Pur nella specificità propria di ognuno, i sette sacramenti costituiscono come «un organismo nel quale ciascuno di essi ha il suo ruolo vitale» e nel quale l'Eucaristia «occupa un posto unico in quanto è il "Sacramento dei sacramenti"» al quale tutti gli altri sono ordinati (Catechismo, 1211). La stretta interconnessione esistente tra i sette sacramenti e la loro finalizzazione all'Eucaristia vanno costantemente tenuti presenti se si vuole comprenderli nella loro capacità salvifica e farne fonte e culmine della vita. Questo vale particolarmente per i tre sacramenti dell'iniziazione: anche se nell'attuale pratica pastorale la loro celebrazione avviene generalmente in momenti distinti tra di loro, costituiscono un tutt'uno inscindibile.

  • Il Battesimo, la porta della fede
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«Sacramento della rigenerazione cristiana mediante l'acqua e la Parola», il battesimo costituisce «il fondamento di tutta la vita cristiana, il vestibolo d'ingresso alla vita nello Spirito (vitae spiritualis ianua) e la porta che apre l'accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo membra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione» (Catechismo, 1213).

In quanto «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tt 3,5), il battesimo «significa e realizza quella nascita dall'acqua e dallo Spirito senza la quale nessuno "può entrare nel regno di Dio" (Gv 3,5)» (Catechismo, 1215). È l'inizio del cammino della fede, come sottolinea Benedetto XVI nel documento programmatico dell'Anno della fede. «La "porta della fede" (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l'ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi». Se la si oltrepassa, «la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cf Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre, e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù» (Porta fidei, 1). È un cammino di liberazione e di crescita da vivere con la fiducia dei figli, lasciandosi guidare dallo Spirito che con il battesimo fa del nostro cuore e della nostra coscienza la sua "casa". È quanto Paolo ricorda con forza scrivendo ai cristiani di Roma: «Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 14-17). È una pagina che non dovremmo stancarci di approfondire, volendo comprendere e soprattutto vivere il dono del nostro battesimo.

  • L'acqua, il segno della salvezza
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«Nella Liturgia della Notte Pasquale, in occasione della benedizione dell'acqua battesimale, la Chiesa fa solenne memoria dei grandi eventi della storia della salvezza che prefiguravano il mistero del Battesimo» (Catechismo, 1217).

La ricchezza salvifica del battesimo traspare dai segni, che ne scandiscono la celebrazione. Rimandano alla creazione e al cammino di Israele dall'Egitto alla terra promessa. Fondamentale è l'acqua, segno di vita: «Fin dalle origini del mondo l'acqua, questa umile e meravigliosa creatura, è la fonte della vita e della fecondità. La Sacra Scrittura la vede come "covata" dallo Spirito di Dio» (Catechismo, 1218). Nel battesimo è segno della vita nuova, affrancata dal potere del peccato, tesa alla pienezza della risurrezione finale. Di qui il motivo della prima lettera di Pietro: «Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore» (1Pt 2,2-3). L'acqua però può essere anche fonte di morte. Abbiamo ancore negli occhi le immagini drammatiche della forza distruttrice dello straripare dei fiumi e delle onde dello tsunami. L'acqua del battesimo è «figura del mistero della Croce. Per mezzo di questo simbolismo il Battesimo significa la comunione alla morte di Cristo» (Catechismo, 1220). Il credente rinasce in Cristo perché in lui muore al peccato e al suo potere: «Con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe» (Col 2,12-13). Occorre perciò che tutto questo continui e si rafforzi nella vita quotidiana. Il simbolismo dell'acqua battesimale rimanda anche al passaggio del Mar Rosso e poi a quello del Giordano da parte del popolo di Israele: hanno segnato la fine della schiavitù egiziana e l'ingresso nella terra promessa. Non sono eventi realizzati per le capacità del popolo, ma solo grazie all'intervento del Signore: egli è rimasto fedele al suo amore, nonostante le ribellioni di coloro che aveva scelto. Il battesimo esige che non perdiamo mai di vista la priorità dell'azione di Dio: una priorità che non deresponsabilizza, ma chiede a noi una corresponsabilità più piena e fiduciosa.

  • Il Battesimo cruento della Croce
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Le prefigurazioni del Battesimo, presenti nell'Antica Alleanza, trovano il loro pieno adempimento in Cristo: «Egli dà inizio alla sua vita pubblica dopo essersi fatto battezzare da san Giovanni Battista nel Giordano e, dopo la sua Risurrezione, affida agli Apostoli questa missione: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20)» (Catechismo, 1223).

Il battesimo di Giovanni era un segno di penitenza e di conversione: egli «predicava nel deserto della Giudea dicendo: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!"». Coloro che accoglievano la sua predicazione «si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mt 3,1-6). Presentandosi a Giovanni per farsi battezzare, come uno dei tanti bisognosi di conversione e di perdono, Cristo testimonia la radicalità della sua condivisione con noi: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Assunti dal Cristo, la nostra fragilità e il nostro peccato vengono aperti e superati: «Lo Spirito che si librava sulle acque della prima creazione, scende ora su Cristo, come preludio della nuova creazione, e il Padre manifesta Gesù come il suo "Figlio prediletto"» (Catechismo, 1224). La pienezza di tutto ciò si realizzerà nel battesimo cruento della croce: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!» (Lc 10,50). A questo suo battesimo i discepoli saranno chiamati a partecipare: «Nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati» (Mc 10,39). Innalzato sulla croce, Gesù fu colpito nel fianco con una lancia da un soldato e «subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). La comunità cristiana li ha sempre considerati come «segni del Battesimo e dell'Eucaristia, sacramenti della vita nuova: da quel momento è possibile "nascere dall'acqua e dallo Spirito" per entrare nel Regno dei cieli» (Catechismo, 1225). Portarli a tutte le nazioni sarà la missione della Chiesa lungo i secoli.
  • padre Sabatino Majorano in Avvenire, dal 22 al 28 maggio 2013
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar giu 04, 2013 3:32 pm


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«Il Battesimo è un bagno d'acqua nel quale "il seme incorruttibile" della Parola di Dio produce il suo effetto vivificante» (Catechismo, 1228).

Il cammino della Chiesa, fin dal primo annunzio di Pietro dopo la discesa dello Spirito nella Pentecoste, scaturisce dal Battesimo, radicato nella fede: «Pentitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Non si tratta di un gesto formale o di semplice aggregazione a un gruppo. È un vero rinascere, grazie alla morte-risurrezione di Cristo, e ha come orizzonte la vita piena per sempre: «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rm 6,4-5). È una novità di vita di cui non dovremmo mai stancarci di ringraziare l'amore di Dio che ce ne fa dono. È necessario prenderne sempre più consapevolezza in maniera che le nostre scelte siano cariche di speranza, anche nei momenti più duri. Purtroppo ci sono credenti che non ricordano nemmeno la data del loro Battesimo, pur avendo una memoria attenta a tante altre ricorrenze. Occorre soprattutto crescere nella consapevolezza che il Battesimo dice dono di vita in pienezza. Quando la catechesi parla solo di «doveri» che scaturiscono dal Battesimo, presentandoli come doveri limitanti, finisce con il rendersi corresponsabile della richiesta di essere «sbattezzati» che alcuni oggi presentano. Rinato nel Battesimo, il nuovo popolo di Dio «ha per capo Cristo»; «per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo»; per legge «il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati»; per fine «il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato» fino alla pienezza finale di liberazione e di vita (Lumen gentium, 9).

  • Comprendere la grazia ricevuta
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Al Battesimo si arriva attraverso un cammino di fede, segnato da tappe. «Nei primi secoli della Chiesa l'iniziazione cristiana ha conosciuto un grande sviluppo, con un lungo periodo di catecumenato e una serie di riti preparatori che scandivano liturgicamente il cammino della preparazione catecumenale per concludersi con la celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana» (Catechismo, 1229).

Illuminato dalla Parola, il catecumeno veniva gradualmente introdotto nella conoscenza del mistero cristiano e reso partecipe della celebrazione liturgica. Tracce di questo cammino progressivo si trovano nella liturgia domenicale del tempo di Quaresima. Quando si è diffusa la prassi di battezzare i bambini, questa preparazione è diventata «un atto unico che, in modo molto abbreviato, integra le tappe preparatorie dell'iniziazione cristiana» (Catechismo, 1231). Di qui la necessità di un catecumenato post-battesimale: una catechesi che porti il battezzato a comprendere e far sua la grazia che ha già ricevuto. È un compito proprio innanzitutto dei genitori: gli sposi «insigniti della dignità e responsabilità di padre e madre, adempiranno diligentemente il dovere dell'educazione, soprattutto religiosa, che spetta loro prima che a chiunque altro» (Gaudium et spes, 48). Chiedere il Battesimo per i figli presuppone questo impegno. I genitori però non vanno lasciati soli: devono essere sostenuti e incoraggiati dalla solidarietà dell'intera comunità cristiana. Va vista in questa prospettiva la scelta del padrino e della madrina: essi esprimono la corresponsabilità dell'intera comunità per il cammino di fede del neo-battezzato. Altre motivazioni potranno certamente intervenire, però non dovrebbero far dimenticare che si tratta innanzitutto di condividere la responsabilità educativa nella fede. L'educazione cristiana non si limita alla comunicazione delle verità: è iniziazione graduale alla vita di fede. Restano significative le parole di Giovanni Paolo II: «Chiedere a un catecumeno: "Vuoi ricevere il Battesimo?" significa al tempo stesso chiedergli: "Vuoi diventare santo?". Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48)» (Novo millennio ineunte, 31).

  • Un cammino che dura tutta la vita
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«Il significato e la grazia del sacramento del Battesimo appaiono chiaramente nei riti della sua celebrazione. Seguendo con attenta partecipazione i gesti e le parole di questa celebrazione, i fedeli sono iniziati alle ricchezze che tale sacramento significa e opera in ogni nuovo battezzato» (Catechismo, 1234).

Lasciarsi guidare dai gesti e dalle parole è fondamentale in ogni celebrazione liturgica. Acquista una particolare importanza in quella del Battesimo. Con la riforma liturgica sono stati fatti passi importanti in questa prospettiva, cominciando dalla collocazione del battistero e dal superamento di prassi segnate dall'individualismo. Occorre continuare in questo impegno per una partecipazione attiva e consapevole. Va evidenziato in maniera particolare lo stretto legame tra la Parola e il gesto battesimale: «L'annunzio della Parola di Dio illumina con la verità rivelata i candidati e l'assemblea, e suscita la risposta della fede, inseparabile dal Battesimo. Infatti il Battesimo è in modo tutto particolare "il sacramento della fede", poiché segna l'ingresso sacramentale nella vita di fede» (Catechismo, 1236). Si oltrepassa la porta della fede, ha scritto Benedetto XVI, «quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cf Rm 6,4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre, e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù che, con il dono dello Spirito Santo, ha voluto coinvolgere nella sua stessa gloria quanti credono in Lui» (Porta fidei, 1). Nel Battesimo dei bambini è la fede dei genitori e dell'intera comunità che si fa anticipatrice e interprete di quella di chi viene battezzato senza avere compiuto personalmente alcun passo nel cammino della fede. Sarebbe assurdo se poi non continuassero a donargli con abbondanza la luce della Parola e il sostegno della testimonianza. Non si tratterà mai di imporre ciò che resta autentico solo se deciso dalla libertà della persona, ma di proporre fiduciosamente rispettando i ritmi di crescita di ognuno.

  • Battesimo, le tre «immersioni»
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Parte essenziale della celebrazione battesimale è la triplice immersione o effusione dell'acqua: «Il Battesimo viene compiuto nel modo più espressivo per mezzo della triplice immersione nell'acqua battesimale. Ma fin dall'antichità può anche essere conferito versando per tre volte l'acqua sul capo del candidato» (Catechismo, 1239).

L'immersione o l'effusione dell'acqua evidenzia la purificazione dal peccato, il morire all'uomo vecchio, la nuova nascita: con il Cristo «sepolti nel Battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (Col 2,12). La triplice immersione o infusione dell'acqua è accompagnata dall'invocazione della Trinità Santa: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Il riferimento alle parole finali del vangelo di Matteo è evidente: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). Il Battesimo rende partecipi della vita trinitaria: una reciprocità di amore. Trova così attuazione il desiderio di pienezza che da sempre l'uomo ha sperimentato in se stesso. È il desiderio che il tentatore, fin dall'inizio della storia aveva strumentalizzato portando a sospettare dell'amore di Dio: «il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio"» (Gen 3,4-5). Nel Battesimo lo Spirito rende partecipi i credenti della santità di Dio in maniera che possano avere «attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito». Dimorando «nei cuori dei fedeli come in un tempio», lo Spirito «in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione» (Lumen gentium, 4). Anche quando si scontra con la durezza delle vicende quotidiane, il battezzato non può rinunziare al desiderio di vita piena: «non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16).

  • Non siamo condannati al male
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Nella celebrazione battesimale sono due le unzioni: una prima e l'altra dopo il battesimo propriamente detto. La prima viene fatta con l'olio dei catecumeni e può essere sostituita dalla imposizione delle mani del celebrante. Sottolinea l'affrancamento dal potere di morte del peccato: «Significa la liberazione dal peccato e dal suo istigatore, il diavolo». Rinunziando «esplicitamente a Satana», il candidato «può professare la fede della Chiesa alla quale sarà "consegnato" per mezzo del Battesimo» (Catechismo, 1237).

Grazie allo Spirito, il credente può dare una risposta positiva alla debolezza nei riguardi del bene, che in tanti modi sperimenta. Paolo la descrive in tutta la sua drammaticità: «In me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me» (Rm 7,18-20). Aggiunge però subito che tutto questo è stato vinto grazie al Cristo: «La legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). È la condizione nuova che scaturisce per ognuno di noi dal Battesimo: non siano "condannati" a ripetere il male che abbiamo operato, possiamo essere nuovi. La seconda unzione avviene dopo il battesimo propriamente detto. Viene fatta con il crisma, olio profumato consacrato dal Vescovo: «Significa il dono dello Spirito Santo elargito al nuovo battezzato. Egli è divenuto un cristiano, ossia "unto" di Spirito Santo, incorporato a Cristo, che è unto Sacerdote, Profeta e Re» (Catechismo, 1241). I padri della Chiesa non si stancavano di esortare i credenti a conoscere la propria dignità e a esserle fedeli, in tutte le circostanze: «Bisogna non solo chiamarsi cristiani, ma esserlo» (Ignazio di Antiochia). È una dignità affidata alla nostra responsabilità. Ogni battezzato deve impegnarsi a svilupparla, lasciandosi guidare fiduciosamente dallo Spirito: la sua luce e la sua forza non verranno mai meno. Occorre però che non venga mai meno anche la solidarietà fraterna: come nel corpo umano, anche nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, Dio vuole che «le varie membra abbiano cura le une delle altre» (1 Cor 12,25).

  • La veste bianca, la candela accesa
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La consegna della veste bianca e della candela accesa evidenzia la vita nuova donata nel Battesimo: «La veste bianca significa che il battezzato si è "rivestito di Cristo" (Gal 3,27): egli è risorto con Cristo. La candela, accesa al cero pasquale, significa che Cristo ha illuminato il neofita. In Cristo i battezzati sono "la luce del mondo" (Mt 5,14)» (Catechismo, 1243).

Per indossare un vestito nuovo, occorre lasciare quello vecchio. Il dono della vita nuova chiede un impegno coerente per abbandonare quella segnata dall'egoismo e dal potere del peccato: «Vi siete svestiti dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato» (Col 3,9-10). Essere fedeli e crescere in questa novità, modellata sul Cristo e animata dallo Spirito, devono essere al centro dell'impegno del battezzato lungo tutta la sua vita: «Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). La santità battesimale, simboleggiata dalla feste bianca, va espressa e testimoniata nella vita quotidiana. Il Vaticano II ha sottolineato la chiamata alla santità di tutti i battezzati, ricordando che «saranno ogni giorno più santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo» (Lumen gentium, 41). Il credente irradia così la luce del Cristo, aprendo alla speranza i diversi ambiti di vita. Oggi l'irradiamento da parte dei battezzati laici, afferma ancora il Vaticano II, «si è reso tanto più urgente, in quanto l'autonomia di molti settori della vita umana si è assai accresciuta, com'è giusto; ma talora ciò è avvenuto con un certo distacco dall'ordine etico e religioso e con grave pericolo della vita cristiana» (Apostolicam actuositatem, 1). Nella celebrazione del Battesimo dei bambini la candela accesa al cero, simbolo di Cristo, viene presa in consegna unitamente dai genitori, padrino e madrina. Trasmettere e testimoniare la luce di Cristo vanno vissuti sempre insieme, sostenendosi gli uni gli altri.
  • padre Sabatino Majorano in Avvenire, dal 29 maggio al 4 giugno 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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