Anno della fede 11 ottobre 2012 - 24 novembre 2013

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miriam bolfissimo
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Anno della fede 11 ottobre 2012 - 24 novembre 2013

Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 10, 2012 3:10 pm

Miei carissimi tutti, pace e bene! comincia domani, nel giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio vaticano II e del ventesimo della pubblicazione del catechismo della chiesa cattolica, l'Anno dela fede, indetto dal santo padre l'11 ottobre 2011 con la lettere apostolica Porta Fidei...

...è un tempo di grazia speciale per tutti noi - che si concluderà domenica 24 novembre dell'anno prossimo, festa di Cristo Re - che dobbiamo vivere in comunione di preghiera e confermazione: possiamo prendere in mano i documenti del concilio convocato da giovanni XXIII e chiuso da paolo VI, possiamo fare nostro il catechismo voluto da giovanni paolo II o il suo compendio pensato da benedetto XVI... oppure, semplicemente, impariamo a vivere il Credo che recitiamo a Messa ogni domenica... è importante che cogliamo questa occasione per interrogarci sulla nostra fede, come singoli e come chiesa: ognuno dove è stato seminato a lode e gloria della Trinità Santissima...

Unabbraccissimodibuoncamminodolcissimo, miriam bolfissimo ;)
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Messaggio da Redazione » mer ott 10, 2012 3:23 pm

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 10, 2012 3:27 pm

Un Anno della Fede fu indetto anche da Paolo VI, il 22 febbraio 1967, con l'Esortazione Apostolica Petrum et Paulum Apostolos; si estese dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968 e volle celebrare il XIX centenario del martirio a Roma degli apostoli Pietro e Paolo.

Aperto l'Anno della fede il 29 giugno, dal 29 settembre al 29 ottobre, si riunì a Roma il primo Sinodo dei Vescovi, nel quale si sottomise al Papa anche il desiderio della stesura di una dichiarazione sulle questioni della fede, una regola della fede che permettesse al popolo cristiano di distinguere con chiarezza ciò che appartiene alla fede cattolica e ciò che è speculazione teologica o anche semplice opinione privata. D'altronde nell'ottobre 1966 c'era stata la presentazione, da parte del cardinale Bernard Jan Alfrink, del Catechismo Olandese, che suscitò una vasta polemica nella Chiesa per alcune sue posizioni dottrinali.

Il 14 dicembre 1967, il cardinale Journet venne ricevuto da Paolo VI, e ne approfittò per rinnovargli il suggerimento di pubblicare, per la fine dell'Anno della fede, un qualche grande documento per orientare quelli che volevano rimanere nella Chiesa. Il Papa gli rispose che qualcuno aveva già suggerito una simile prospettiva alla fine del Concilio, e ricordò espressamente il progetto - accantonato - del Congar, ma chiese al Journet: "Preparatemi voi uno schema di ciò che voi pensate debba essere fatto". Questi si fece aiutare dal Maritain, e ne uscì la bozza del Credo del Popolo di Dio che Paolo VI, dopo averlo adattato e modificato, proclamò solennemente il 30 giugno seguente, alla chiusura dell'Anno della fede.

Immagine "La fede è una virtù divina, meravigliosa; e se noi abbiamo la fortuna di possederla, dobbiamo esercitarla, dobbiamo esercitarla, dobbiamo respirarla, dobbiamo professarla": così scriveva Paolo VI. Questo volume riporta le catechesi di Paolo VI nell'Anno della Fede, con alcuni manoscritti inediti, che dimostrano come la Fede sia stato un tema fondamentale del suo pontificato.
Paolo VI. L'anno della fede di Leonardo Sapienza, Edizioni Vivere In, maggio 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 10, 2012 3:29 pm


  • Credo del Popolo di Dio
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Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli, e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale.

Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè; ed Egli è Amore, come ce lo insegna l'Apostolo Giovanni: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l'unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l'umana misura. Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l'Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.

Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales, sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell'Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità».

Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri; e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l'umanità, ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l'unità della persona.

Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com'Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risolto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

E il suo Regno non avrà fine.

Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell'intimo dell'anima, rende l'uomo capace di rispondere all'invito di Gesù: «Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste».

Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente, preservata da ogni macchia del peccato originale e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature.

Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile, la Vergine Santissima, l'Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti.

Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all'inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l'uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno».

Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che - secondo la parola dell'Apostolo - «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).

Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall'acqua c dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo.

Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l'opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria. Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza. È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione. Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.

Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale. Noi crediamo nell'infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli, e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo.

Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza.

Riconoscendo poi, al di fuori dell'organismo della Chiesa di Cristo, l'esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all'unità cattolica, e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l'amore per tale unità, Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l'unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.

Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza.

Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell'Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell'ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale.

Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all'unità del suo Corpo Mistico.

L'unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell'Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.

Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all'amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L'intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l'ardore dell'attesa del suo Signore e del Regno eterno.

Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.

Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine.

Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete. E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.

Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen
  • Paolo VI, 30 giugno 1968
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Messaggio da Redazione » gio ott 11, 2012 10:53 am

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Riflessione Apertura Anno della fede 2012

Messaggio da Grazia Cuffari » sab ott 13, 2012 3:36 pm

Riflessione personale nel giorno dell' Apertura dell' Anno della Fede


Oggi,11ottobre 2012, giorno di apertura dell'Anno della Fede, è stata per me una giornata di apertura alla speranza di un ritorno alla Chiesa degli Apostoli, un ritorno consapevole e corroborato dalla sofferenza di vedere intorno a noi il deserto, la “desertificazione”, come l'ha definita il Papa, prodotta dai nostri errori di non mettere nella nostra vita Dio al primo posto, dalla nostra superficialità e tiepidezza, nonché per molti, dal rifiuto esplicito di Dio.

Ho ascoltato alla radio il Papa che amorevolmente, partendo da una esposizione del Concilio Vaticano II del 1962, definendolo la “Nuova Pentecoste”, si è prodigato, con parole semplici ed efficaci, per farci capire che abbiamo bisogno di una “nuova evangelizzazione” adatta ai tempi che stiamo vivendo.

Dobbiamo tutti, come membri del Corpo Mistico di Cristo, collaborare a ricostruire questa nostra Chiesa, lacerata giornalmente da egoismi individuali che fanno perdere di vista il bene comune e la Fede che è la nostra perla preziosa, la sola capace di trasformarci nell' intimità del nostro essere, per diventarere Cristiani autentici, come vuole Cristo, il cui Spirito che vive in noi e con noi, conduce i passi della nostra Chiesa.

In mezzo a tanti individualismi, laicismi, sincretismi, relativismi e altre forze avverse,che non capisco bene, mi piace pensare a una Porta Fidei che avvii progressivamente tutti noi Cristiani ad un' apertura del cuore a Cristo, alla sua Umanità, alla sua Accoglienza verso l'Altro, così come Egli, Uomo-Dio ci è stato d'esempio, durante l' arco della sua vita terrena.
Che ci porti a riconoscere che questa apertura del cuore all'Umano è la cosa essenziale che non delude nella vita, anzi le dà un senso e una pienezza che sa d'infinito, perché corrisponde alla nostra realtà di esseri umani, creati col soffio divino del Dio Padre.

E questo non può avvenire solo a parole o per opera di magia, ma soltanto con una vera conversione della mente, del cuore e della volontà a Dio Signore.

E per ottenere ciò Dio ci dà infiniti stimoli adatti a farci rinascere totalmente in Lui, in Lui che ci trasforma se stiamo permanentemente attenti ad ascoltare cosa ci dice la sua Parola e a come metterla in pratica; se frequentiamo col cuore i Sacramenti della Confessione e della Eucaristia; se stiamo attenti anche alle piccole cose, come facava Santa Teresina del Bambin Gesù.

Gesù ci parla al cuore come ha parlato a Nicodemo, come ha parlato ai Santi del Passato, come parla attualmente ai Santi del Presente.
Andiamogli incontro senza aver paura, fidiamoci di Lui, abbandoniamoci completamente a Lui e la ricompensa sarà grandissima, immensa, impagabile !

E quando questo avviene s' instaura in noi, per sua grazia, uno stato di fiducia totale, non solo in Dio, ma nella Vita, nella vera Vita, accettando con serenità tutto quanto avviene nel nostro presente.
Solo così possiamo dare vera testimonianza, perchè il nostro comportamento non sarà più dettato solo dal nostro egoistico io, ma da noi che viviamo con Dio, in Dio e per Dio, con la stessa forza spirituale di Gesù Cristo, nostro Dio.

E come l'Apostolo Paolo possiamo affermare:
“Non siamo noi che viviamo, ma è Cristo che vive in Noi ! “
-IL CRISTO RISORTO-

PREGHIERA

Signore Gesù, fa' che la Chiesa, annunciando e testimoniando il Vangelo, attiri nel mondo l'effusione del Tuo Spirito: il tutto, perché venga resa ben manifesta la Tua Gloria, la Tua Potenza e la Tua Magnificenza a tutta l'Umanità. Fa' che la Comunità cristiana viva di Te e trovi il suo riposo, la sua gioia e la sua pienezza di grazia in Te, nostro Signore e nostro Dio. Signore Gesù, dacci una fede viva e una grande semplicità di spirito. Convertici, immergici in un bagno di fede per rinascere in Te come persone nuove che testimoniano il tuo Amore.
Grazie, Gesù, dal profondo del cuore !
Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Preghiera di Madre Teresa

Messaggio da Grazia Cuffari » lun ott 15, 2012 2:54 pm

Mi ha colpito questa bella preghiera di Madre Teresa
e con essa voglio pregare ogni giorno, perché questo
Anno della Fede possa essere Anno di apertura
del nostro cuore a Cristo per non lasciarlo più


Ho sentito il battito del tuo cuore - Madre Teresa di Calcutta
pubblicata da - Madre Teresa di Calcutta
il giorno Giovedì 3 giugno 2010 alle ore 5.21 ·

Ti ho trovato in tanti posti, Signore.
Ho sentito il battito del tuo cuore
nella quiete perfetta dei campi,
nel tabernacolo oscuro di una cattedrale vuota,
nell'unità di cuore e di mente
di un'assemblea di persone che ti amano.
Ti ho trovato nella gioia,
dove ti cerco e spesso ti trovo.

Ma sempre ti trovo nella sofferenza.
La sofferenza è come il rintocco della campana
che chiama la sposa di Dio alla preghiera.

Signore, ti ho trovato nella terribile grandezza
della sofferenza degli altri.
Ti ho visto nella sublime accettazione
e nell'inspiegabile gioia
di coloro la cui vita è tormentata dal dolore.

Ma non sono riuscito a trovarti
nei miei piccoli mali e nei miei banali dispiaceri.
Nella mia fatica
ho lasciato passare inutilmente
il dramma della tua passione redentrice,
e la vitalità gioiosa della tua Pasqua è soffocata
dal grigiore della mia autocommiserazione.

Signore io credo. Ma tu aiuta la mia fede.
Madre Teresa di Calcutta.
Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 16, 2012 9:30 am

Mia carissima maria grazia, pace e bene! ma che bel pregare: grazie! con madre teresa e con te, ad una voce...
  • Ti ho trovato in tanti posti, Signore.
    Ho sentito il battito del tuo cuore nella quiete perfetta dei campi,
    nel tabernacolo oscuro di una cattedrale vuota,
    nell'unità di cuore e di mente di un'assemblea di persone che ti amano.

    Ti ho trovato nella gioia, dove ti cerco e spesso ti trovo.
    Ma sempre ti trovo nella sofferenza.
    La sofferenza è come il rintocco della campana
    che chiama la sposa di Dio alla preghiera.

    Signore, ti ho trovato nella terribile grandezza della sofferenza degli altri.
    Ti ho visto nella sublime accettazione
    e nell'inspiegabile gioia
    di coloro la cui vita è tormentata dal dolore.

    Ma non sono riuscito a trovarti nei miei piccoli mali e nei miei banali dispiaceri.
    Nella mia fatica ho lasciato passare inutilmente
    il dramma della tua passione redentrice e la vitalità gioiosa della tua Pasqua è soffocata
    dal grigiore della mia autocommiserazione.

    Signore io credo. Ma tu aiuta la mia fede. Amen
Un abbraccissimo, miriam bolfissimo ;)
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da Redazione » mar ott 16, 2012 3:40 pm


É on line il sito della Campagna di Preghiera per l'Evangelizzazione del mondo allestito dalla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli e dalle Pontificie Opere Missionarie, in particolare dalla Pontificia Unione Missionaria.

Il Santo Padre Benedetto XVI ricevendo in udienza l'11 maggio scorso i Direttori Nazionali delle Pontificie Opere Missionarie (POM), a Roma per l'Assemblea annuale del Consiglio Superiore, aveva sottolineato: "La missione oggi ha bisogno di rinnovare la fiducia nell'azione di Dio; ha bisogno di una preghiera più intensa perché venga il suo Regno, perché sia fatta la sua volontà come in Cielo, così in terra... Sono pertanto ben lieto di incoraggiare il progetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli e delle Pontificie Opere Missionarie, in sostegno all'Anno della Fede. Tale progetto prevede una campagna mondiale, che, attraverso la preghiera del Santo Rosario, accompagni l'opera di evangeli! zzazione nel mondo e per tanti battezzati la riscoperta e l'approfondimento della fede".

Il sito, ancora in fase di completamento, è in quattro lingue (italiano, inglese, francese e spagnolo) e si articola in diverse sezioni: Preghiera per l'Evangelizzazione, Preghiera del cuore, Preghiera Mariana, Intenzioni di preghiera, Contributi dal mondo...

Viene anche riportata una intervista al Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che in occasione della sua recente visita pastorale nella Repubblica democratica del Congo, aveva illustrato l'iniziativa: "Nell'Anno della Fede ci saranno molti programmi di approfondimento teologico in tutto il mondo, a partire da Roma fino ad ogni diocesi. La Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli ha ritenuto che tutte queste attività dell'Anno della Fede debbano essere sostenute da un'iniziativa silenziosa fondamentale, che non è altro che il Rosario per l'Evangelizzazione durante l'Anno della Fede. Questa iniziativa impegna ogni persona a sostenere di giorno in giorno l'evangeli! zzazione dei popoli che non conoscono la fede, quelli che la rifiutano e/o coloro che l'hanno perduta".
  • fonte agenzia fides 15/10/2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 17, 2012 3:15 pm


  • L'Anno della Fede. Introduzione
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Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei introdurre il nuovo ciclo di catechesi, che si sviluppa lungo tutto l’Anno della fede appena iniziato e che interrompe - per questo periodo – il ciclo dedicato alla scuola della preghiera. Con la Lettera apostolica Porta Fidei ho indetto questo Anno speciale, proprio perché la Chiesa rinnovi l’entusiasmo di credere in Gesù Cristo, unico salvatore del mondo, ravvivi la gioia di camminare sulla via che ci ha indicato, e testimoni in modo concreto la forza trasformante della fede.

La ricorrenza dei cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II è un’occasione importante per ritornare a Dio, per approfondire e vivere con maggiore coraggio la propria fede, per rafforzare l’appartenenza alla Chiesa, «maestra di umanità», che, attraverso l’annuncio della Parola, la celebrazione dei Sacramenti e le opere della carità ci guida ad incontrare e conoscere Cristo, vero Dio e vero uomo. Si tratta dell’incontro non con un’idea o con un progetto di vita, ma con una Persona viva che trasforma in profondità noi stessi, rivelandoci la nostra vera identità di figli di Dio. L’incontro con Cristo rinnova i nostri rapporti umani, orientandoli, di giorno in giorno, a maggiore solidarietà e fraternità, nella logica dell’amore. Avere fede nel Signore non è un fatto che interessa solamente la nostra intelligenza, l’area del sapere intellettuale, ma è un cambiamento che coinvolge la vita, tutto noi stessi: sentimento, cuore, intelligenza, volontà, corporeità, emozioni, relazioni umane. Con la fede cambia veramente tutto in noi e per noi, e si rivela con chiarezza il nostro destino futuro, la verità della nostra vocazione dentro la storia, il senso della vita, il gusto di essere pellegrini verso la Patria celeste.

Ma - ci chiediamo - la fede è veramente la forza trasformante nella nostra vita, nella mia vita? Oppure è solo uno degli elementi che fanno parte dell’esistenza, senza essere quello determinante che la coinvolge totalmente? Con le catechesi di quest’Anno della fede vorremmo fare un cammino per rafforzare o ritrovare la gioia della fede, comprendendo che essa non è qualcosa di estraneo, di staccato dalla vita concreta, ma ne è l’anima. La fede in un Dio che è amore, e che si è fatto vicino all’uomo incarnandosi e donando se stesso sulla croce per salvarci e riaprirci le porte del Cielo, indica in modo luminoso che solo nell’amore consiste la pienezza dell’uomo. Oggi è necessario ribadirlo con chiarezza, mentre le trasformazioni culturali in atto mostrano spesso tante forme di barbarie, che passano sotto il segno di «conquiste di civiltà»: la fede afferma che non c’è vera umanità se non nei luoghi, nei gesti, nei tempi e nelle forme in cui l’uomo è animato dall’amore che viene da Dio, si esprime come dono, si manifesta in relazioni ricche di amore, di compassione, di attenzione e di servizio disinteressato verso l’altro. Dove c’è dominio, possesso, sfruttamento, mercificazione dell’altro per il proprio egoismo, dove c’è l’arroganza dell’io chiuso in se stesso, l’uomo viene impoverito, degradato, sfigurato. La fede cristiana, operosa nella carità e forte nella speranza, non limita, ma umanizza la vita, anzi la rende pienamente umana.

La fede è accogliere questo messaggio trasformante nella nostra vita, è accogliere la rivelazione di Dio, che ci fa conoscere chi Egli è, come agisce, quali sono i suoi progetti per noi. Certo, il mistero di Dio resta sempre oltre i nostri concetti e la nostra ragione, i nostri riti e le nostre preghiere. Tuttavia, con la rivelazione è Dio stesso che si autocomunica, si racconta, si rende accessibile. E noi siamo resi capaci di ascoltare la sua Parola e di ricevere la sua verità. Ecco allora la meraviglia della fede: Dio, nel suo amore, crea in noi – attraverso l’opera dello Spirito Santo – le condizioni adeguate perché possiamo riconoscere la sua Parola. Dio stesso, nella sua volontà di manifestarsi, di entrare in contatto con noi, di farsi presente nella nostra storia, ci rende capaci di ascoltarlo e di accoglierlo. San Paolo lo esprime con gioia e riconoscenza così: «Ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1 Ts 2,13).

Dio si è rivelato con parole e opere in tutta una lunga storia di amicizia con l’uomo, che culmina nell’Incarnazione del Figlio di Dio e nel suo Mistero di Morte e Risurrezione. Dio non solo si è rivelato nella storia di un popolo, non solo ha parlato per mezzo dei Profeti, ma ha varcato il suo Cielo per entrare nella terra degli uomini come uomo, perché potessimo incontrarlo e ascoltarlo. E da Gerusalemme l’annuncio del Vangelo della salvezza si è diffuso fino ai confini della terra. La Chiesa, nata dal costato di Cristo, è divenuta portatrice di una nuova solida speranza: Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, salvatore del mondo, che siede alla destra del Padre ed è il giudice dei vivi e dei morti. Questo è il kerigma, l’annuncio centrale e dirompente della fede. Ma sin dagli inizi si pose il problema della «regola della fede», ossia della fedeltà dei credenti alla verità del Vangelo, nella quale restare saldi, alla verità salvifica su Dio e sull’uomo da custodire e trasmettere. San Paolo scrive: «Ricevete la salvezza, se mantenete [il vangelo] in quella forma in cui ve l’ho annunciato. Altrimenti avreste creduto invano» (1 Cor 15,2).

Ma dove troviamo la formula essenziale della fede? Dove troviamo le verità che ci sono state fedelmente trasmesse e che costituiscono la luce per la nostra vita quotidiana? La risposta è semplice: nel Credo, nella Professione di Fede o Simbolo della fede, noi ci riallacciamo all’evento originario della Persona e della Storia di Gesù di Nazaret; si rende concreto quello che l’Apostolo delle genti diceva ai cristiani di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno» (1 Cor 15,3).

Anche oggi abbiamo bisogno che il Credo sia meglio conosciuto, compreso e pregato. Soprattutto è importante che il Credo venga, per così dire, «riconosciuto». Conoscere, infatti, potrebbe essere un’operazione soltanto intellettuale, mentre «riconoscere» vuole significare la necessità di scoprire il legame profondo tra le verità che professiamo nel Credo e la nostra esistenza quotidiana, perché queste verità siano veramente e concretamente - come sempre sono state - luce per i passi del nostro vivere, acqua che irrora le arsure del nostro cammino, vita che vince certi deserti della vita contemporanea. Nel Credo si innesta la vita morale del cristiano, che in esso trova il suo fondamento e la sua giustificazione.

Non è un caso che il Beato Giovanni Paolo II abbia voluto che il Catechismo della Chiesa Cattolica, norma sicura per l’insegnamento della fede e fonte certa per una catechesi rinnovata, fosse impostato sul Credo. Si è trattato di confermare e custodire questo nucleo centrale delle verità della fede, rendendolo in un linguaggio più intellegibile agli uomini del nostro tempo, a noi. E’ un dovere della Chiesa trasmettere la fede, comunicare il Vangelo, affinché le verità cristiane siano luce nelle nuove trasformazioni culturali, e i cristiani siano capaci di rendere ragione della speranza che portano (cfr 1 Pt 3,14). Oggi viviamo in una società profondamente mutata anche rispetto ad un recente passato, e in continuo movimento. I processi della secolarizzazione e di una diffusa mentalità nichilista, in cui tutto è relativo, hanno segnato fortemente la mentalità comune. Così, la vita è vissuta spesso con leggerezza, senza ideali chiari e speranze solide, all’interno di legami sociali e familiari liquidi, provvisori. Soprattutto le nuove generazioni non vengono educate alla ricerca della verità e del senso profondo dell’esistenza che superi il contingente, alla stabilità degli affetti, alla fiducia. Al contrario, il relativismo porta a non avere punti fermi, sospetto e volubilità provocano rotture nei rapporti umani, mentre la vita è vissuta dentro esperimenti che durano poco, senza assunzione di responsabilità. Se l’individualismo e il relativismo sembrano dominare l’animo di molti contemporanei, non si può dire che i credenti restino totalmente immuni da questi pericoli, con cui siamo confrontati nella trasmissione della fede. L’indagine promossa in tutti i continenti per la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione, ne ha evidenziato alcuni: una fede vissuta in modo passivo e privato, il rifiuto dell’educazione alla fede, la frattura tra vita e fede.

Il cristiano spesso non conosce neppure il nucleo centrale della propria fede cattolica, del Credo, così da lasciare spazio ad un certo sincretismo e relativismo religioso, senza chiarezza sulle verità da credere e sulla singolarità salvifica del cristianesimo. Non è così lontano oggi il rischio di costruire, per così dire, una religione «fai-da-te». Dobbiamo, invece, tornare a Dio, al Dio di Gesù Cristo, dobbiamo riscoprire il messaggio del Vangelo, farlo entrare in modo più profondo nelle nostre coscienze e nella vita quotidiana.

Nelle catechesi di quest’Anno della fede vorrei offrire un aiuto per compiere questo cammino, per riprendere e approfondire le verità centrali della fede su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa, su tutta la realtà sociale e cosmica, meditando e riflettendo sulle affermazioni del Credo. E vorrei che risultasse chiaro che questi contenuti o verità della fede (fides quae) si collegano direttamente al nostro vissuto; chiedono una conversione dell’esistenza, che dà vita ad un nuovo modo di credere in Dio (fides qua). Conoscere Dio, incontrarlo, approfondire i tratti del suo volto mette in gioco la nostra vita, perché Egli entra nei dinamismi profondi dell’essere umano.

Possa il cammino che compiremo quest’anno farci crescere tutti nella fede e nell’amore a Cristo, perché impariamo a vivere, nelle scelte e nelle azioni quotidiane, la vita buona e bella del Vangelo. Grazie.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 17 ottobre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Grazia Cuffari
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Grazie Santità !

Messaggio da Grazia Cuffari » gio ott 18, 2012 7:15 am

Grazie, Sua Santità !

Grazie per l' Udienza d' introduzione alla Fede tenuta il 17 ottobre di quest'anno !
Grazie dal più profondo del cuore ! Le parole che rivolgi a noi Cristiani nella catechesi, con vero affetto di Padre, scendono come balsamo per sanare le ferite prodotte da una cultura lontana da Dio e anche dal comune buon
senso.

E per imprimerle bene nella mia mente mi piace leggerle e rileggerle, ma anche trascrivere alcune tue frasi atte
a far riemergere dal mio intimo quella scintilla di luce divina che Tu hai impresso a caratteri di fuoco dentro di noi
al momento della Creazione e confermata col Sacramento del Battesimo. Eccole :


"Si tratta dell’incontro non con un’idea o con un progetto di vita, ma con una Persona viva che trasforma in profondità noi stessi, rivelandoci la nostra vera identità di figli di Dio. L’incontro con Cristo rinnova i nostri rapporti umani, orientandoli, di giorno in giorno, a maggiore solidarietà e fraternità, nella logica dell’amore.

Avere fede nel Signore non è un fatto che interessa solamente la nostra intelligenza, l’area del sapere intellettuale, ma è un cambiamento che coinvolge la vita, tutto noi stessi: sentimento, cuore, intelligenza, volontà, corporeità, emozioni, relazioni umane. Con la fede cambia veramente tutto in noi e per noi, e si rivela con chiarezza il nostro destino futuro, la verità della nostra vocazione dentro la storia, il senso della vita, il gusto di essere pellegrini verso la Patria celeste.

La fede è accogliere questo messaggio trasformante nella nostra vita, è accogliere la rivelazione di Dio, che ci fa conoscere chi Egli è, come agisce, quali sono i suoi progetti per noi. Certo, il mistero di Dio resta sempre oltre i nostri concetti e la nostra ragione, i nostri riti e le nostre preghiere. Tuttavia, con la rivelazione è Dio stesso che si autocomunica, si racconta, si rende accessibile. E noi siamo resi capaci di ascoltare la sua Parola e di ricevere la sua verità.

Ecco allora la meraviglia della fede: Dio, nel suo amore, crea in noi – attraverso l’opera dello Spirito Santo – le condizioni adeguate perché possiamo riconoscere la sua Parola. Dio stesso, nella sua volontà di manifestarsi, di entrare in contatto con noi, di farsi presente nella nostra storia, ci rende capaci di ascoltarlo e di accoglierlo."



E prego Dio che la Sua Parola, rivelataci da Gesù, venga accolta da tanti che, disillusi da false teorie emergenti, desiderano ardentemente fare inversione di marcia per tornare a una vita che ha senso, a una vita di Fede che ci fa vivere in Dio, con Dio e per Dio.

Vivere la Fede come Verità, viverla come Vita dà pienezza al nostro esistere, pienezza interna che sazia, che rinnova, che dà coraggio, che consola e dà riposo; pienezza che eleva lo spirito e lo fortifica per superare ogni avversità; pienezza che crea dentro di me una dolce armonia che sa d' Infinito.

Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Credo apostolico e preghiera

Messaggio da Grazia Cuffari » mar ott 23, 2012 4:47 pm

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E voglio professare la mia fede recitando ogni giorno il Credo che è il Simbolo degli Apostoli :


CREDO (Simbolo apostolico)


Io credo in Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra;
e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito di Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto;
discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte;
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne,
la vita eterna.


E voglio aggiungere questa mia personale e semplice

PREGHIERA

Voglio ripetere oggi le parole di Pietro
come risposta alla tua domanda Signore,
domanda che sento farmi da Te anch'io nel cuore.
Amorevolmente mi chiedi " Mi ami Tu ? "
" Tu lo sai Signore che io ti amo " rispondo.
E Tu, Signore, di rimando continui a dirmi :
" Allora osserva il mio comandamento dell'Amore
e non tirarti più indietro se vuoi in te nel cuore
una pace duratura che sa di Infinito, una pace
che il mondo non sa darti mai. Ti amo da sempre,
resta con me e seguimi ! "
Ti seguirò Signore dovunque mi conduci
e amerò la Tua Chiesa Signore, quella Chiesa
che Tu hai istituito nell'ultima Cena per noi,
perché ci sia di aiuto nel cammino che a Te conduce.
Siamo una Comunità fragile che ripete i medesimi errori.
Aiutaci a camminare insieme con Te, uniti nell'accettare
ogni giorno, umilmente, la Tua Santa Volontà.
Stiamo navigando in acque tempestose,
aiutaci a capire che senza di Te non possiamo far niente.
Senza la bussola della Tua Parola e senza i Sacramenti
stiamo perdendo tutti il sano orientamento !
Vogliamo tornare a Te, Signore, per essere uomini
di vera fede, di quella fede che ci unisce e ci rende autentici.
Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Messaggio da Redazione » mer ott 24, 2012 3:28 pm

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letture per l'Anno delle fede

• qui il sito della libreria del santo

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 24, 2012 3:32 pm


  • L'Anno della Fede. Che cosa è la fede
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Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso, con l'inizio dell'Anno della fede, ho cominciato con una nuova serie di catechesi sulla fede. E oggi vorrei riflettere con voi su una questione fondamentale: che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall'amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta.

Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A volte, si ha come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della tecnica, oggi l'uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura, poi, ha educato a muoversi solo nell'orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani. D'altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C'è un futuro per l'uomo, per noi e per le nuove generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita? Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte?

Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell'uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell'uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l'uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale. Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell'uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all'eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l'atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani.

Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, oggi abbiamo parole dure del Risorto che dice : «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell'azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza dell'incontro vitale con Cristo. Già sant'Agostino poneva questo problema in un suo commento alla parabola del seminatore: «Noi parliamo - diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona» (Discorsi sulla disciplina cristiana, 13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci. Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto.

Ma chiediamoci: da dove attinge l'uomo quell'apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo siano la guida e la luce dell'esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia "a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità"» (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro cammino di fede c'è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l'ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli.

La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice con chiarezza: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all'intelligenza dell'uomo» (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all'azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro «sì» a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo «sì» trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile.

Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l'esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine. Grazie.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 24 ottobre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer ott 31, 2012 2:55 pm


  • L'Anno della Fede. La fede della Chiesa
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Cari fratelli e sorelle,

continuiamo nel nostro cammino di meditazione sulla fede cattolica. La settimana scorsa ho mostrato come la fede sia un dono, perché è Dio che prende l'iniziativa e ci viene incontro; e così la fede è una risposta con la quale noi Lo accogliamo come fondamento stabile della nostra vita. É un dono che trasforma l'esistenza, perché ci fa entrare nella stessa visione di Gesù, il quale opera in noi e ci apre all'amore verso Dio e verso gli altri.

Oggi vorrei fare un altro passo nella nostra riflessione, partendo ancora una volta da alcune domande: la fede ha un carattere solo personale, individuale? Interessa solo la mia persona? Vivo la mia fede da solo? Certo, l'atto di fede è un atto eminentemente personale, che avviene nell'intimo più profondo e che segna un cambiamento di direzione, una conversione personale: è la mia esistenza che riceve una svolta, un orientamento nuovo. Nella Liturgia del Battesimo, al momento delle promesse, il celebrante chiede di manifestare la fede cattolica e formula tre domande: Credete in Dio Padre onnipotente? Credete in Gesù Cristo suo unico Figlio? Credete nello Spirito Santo? Anticamente queste domande erano rivolte personalmente a colui che doveva ricevere il Battesimo, prima che si immergesse per tre volte nell'acqua. E anche oggi la risposta è al singolare: «Credo». Ma questo mio credere non è il risultato di una mia riflessione solitaria, non è il prodotto di un mio pensiero, ma è frutto di una relazione, di un dialogo, in cui c'è un ascoltare, un ricevere e un rispondere; è il comunicare con Gesù che mi fa uscire dal mio «io» racchiuso in me stesso per aprirmi all'amore di Dio Padre. É come una rinascita in cui mi scopro unito non solo a Gesù, ma anche a tutti quelli che hanno camminato e camminano sulla stessa via; e questa nuova nascita, che inizia con il Battesimo, continua per tutto il percorso dell'esistenza. Non posso costruire la mia fede personale in un dialogo privato con Gesù, perché la fede mi viene donata da Dio attraverso una comunità credente che è la Chiesa e mi inserisce così nella moltitudine dei credenti in una comunione che non è solo sociologica, ma radicata nell'eterno amore di Dio, che in Se stesso è comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è Amore trinitario. La nostra fede è veramente personale, solo se è anche comunitaria: può essere la mia fede, solo se vive e si muove nel «noi» della Chiesa, solo se è la nostra fede, la comune fede dell'unica Chiesa.

Alla domenica, nella Santa Messa, recitando il Credo, noi ci esprimiamo in prima persona, ma confessiamo comunitariamente l'unica fede della Chiesa. Quel «credo» pronunciato singolarmente si unisce a quello di un immenso coro nel tempo e nello spazio, in cui ciascuno contribuisce, per così dire, ad una concorde polifonia nella fede. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume in modo chiaro così: «"Credere" è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. "Nessuno può dire di avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa come Madre" [san Cipriano]» (n. 181). Quindi la fede nasce nella Chiesa, conduce ad essa e vive in essa. Questo è importante ricordarlo.

Agli inizi dell'avventura cristiana, quando lo Spirito Santo scende con potenza sui discepoli, nel giorno di Pentecoste - come narrano gli Atti degli Apostoli (cfr 2,1-13) - la Chiesa nascente riceve la forza per attuare la missione affidatale dal Signore risorto: diffondere in ogni angolo della terra il Vangelo, la buona notizia del Regno di Dio, e guidare così ogni uomo all'incontro con Lui, alla fede che salva. Gli Apostoli superano ogni paura nel proclamare ciò che avevano udito, visto, sperimentato di persona con Gesù. Per la potenza dello Spirito Santo, iniziano a parlare lingue nuove, annunciando apertamente il mistero di cui erano stati testimoni. Negli Atti degli Apostoli ci viene riferito poi il grande discorso che Pietro pronuncia proprio nel giorno di Pentecoste. Egli parte da un passo del profeta Gioele (3,1-5), riferendolo a Gesù, e proclamando il nucleo centrale della fede cristiana: Colui che aveva beneficato tutti, che era stato accreditato presso Dio con prodigi e segni grandi, è stato inchiodato sulla croce ed ucciso, ma Dio lo ha risuscitato dai morti, costituendolo Signore e Cristo. Con Lui siamo entrati nella salvezza definitiva annunciata dai profeti e chi invocherà il suo nome sarà salvato (cfr At 2,17-24). Ascoltando queste parole di Pietro, molti si sentono personalmente interpellati, si pentono dei propri peccati e si fanno battezzare ricevendo il dono dello Spirito Santo (cfr At 2, 37-41). Così inizia il cammino della Chiesa, comunità che porta questo annuncio nel tempo e nello spazio, comunità che è il Popolo di Dio fondato sulla nuova alleanza grazie al sangue di Cristo e i cui membri non appartengono ad un particolare gruppo sociale o etnico, ma sono uomini e donne provenienti da ogni nazione e cultura. É un popolo «cattolico», che parla lingue nuove, universalmente aperto ad accogliere tutti, oltre ogni confine, abbattendo tutte le barriere. Dice san Paolo: «Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti" (Col 3,11).

La Chiesa, dunque, fin dagli inizi è il luogo della fede, il luogo della trasmissione della fede, il luogo in cui, per il Battesimo, si è immersi nel Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo, che ci libera dalla prigionia del peccato, ci dona la libertà di figli e ci introduce nella comunione col Dio Trinitario. Al tempo stesso, siamo immersi nella comunione con gli altri fratelli e sorelle di fede, con l'intero Corpo di Cristo, tirati fuori dal nostro isolamento. Il Concilio Ecumenico Vaticano II lo ricorda: «Dio volle salvare e santificare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che Lo riconoscesse nella verità e fedelmente Lo servisse» (Cost. dogm. Lumen gentium, 9). Richiamando ancora la liturgia del Battesimo, notiamo che, a conclusione delle promesse in cui esprimiamo la rinuncia al male e ripetiamo «credo» alle verità della fede, il celebrante dichiara: «Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo di professarla in Cristo Gesù nostro Signore». La fede è virtù teologale, donata da Dio, ma trasmessa dalla Chiesa lungo la storia. Lo stesso san Paolo, scrivendo ai Corinzi, afferma di aver comunicato loro il Vangelo che a sua volta anche lui aveva ricevuto (cfr 1 Cor 15,3).

Vi è un'ininterrotta catena di vita della Chiesa, di annuncio della Parola di Dio, di celebrazione dei Sacramenti, che giunge fino a noi e che chiamiamo Tradizione. Essa ci dà la garanzia che ciò in cui crediamo è il messaggio originario di Cristo, predicato dagli Apostoli. Il nucleo dell'annuncio primordiale è l'evento della Morte e Risurrezione del Signore, da cui scaturisce tutto il patrimonio della fede. Dice il Concilio: «La predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere consegnata con successione continua fino alla fine dei tempi» Cost. dogm. Dei Verbum, 8). In tal modo, se la Sacra Scrittura contiene la Parola di Dio, la Tradizione della Chiesa la conserva e la trasmette fedelmente, perché gli uomini di ogni epoca possano accedere alle sue immense risorse e arricchirsi dei suoi tesori di grazia. Così la Chiesa «nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (ibidem).

Vorrei, infine, sottolineare che è nella comunità ecclesiale che la fede personale cresce e matura. É interessante osservare come nel Nuovo Testamento la parola «santi» designa i cristiani nel loro insieme, e certamente non tutti avevano le qualità per essere dichiarati santi dalla Chiesa. Che cosa si voleva indicare, allora, con questo termine? Il fatto che coloro che avevano e vivevano la fede in Cristo risorto erano chiamati a diventare un punto di riferimento per tutti gli altri, mettendoli così in contatto con la Persona e con il Messaggio di Gesù, che rivela il volto del Dio vivente. E questo vale anche per noi: un cristiano che si lascia guidare e plasmare man mano dalla fede della Chiesa, nonostante le sue debolezze, i suoi limiti e le sue difficoltà, diventa come una finestra aperta alla luce del Dio vivente, che riceve questa luce e la trasmette al mondo. Il Beato Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio affermava che «la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l'identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (n. 2).

La tendenza, oggi diffusa, a relegare la fede nella sfera del privato contraddice quindi la sua stessa natura. Abbiamo bisogno della Chiesa per avere conferma della nostra fede e per fare esperienza dei doni di Dio: la sua Parola, i Sacramenti, il sostegno della grazia e la testimonianza dell'amore. Così il nostro «io» nel «noi» della Chiesa potrà percepirsi, ad un tempo, destinatario e protagonista di un evento che lo supera: l'esperienza della comunione con Dio, che fonda la comunione tra gli uomini. In un mondo in cui l'individualismo sembra regolare i rapporti fra le persone, rendendole sempre più fragili, la fede ci chiama ad essere Popolo di Dio, ad essere Chiesa, portatori dell'amore e della comunione di Dio per tutto il genere umano (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 1). Grazie per l'attenzione.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 31 ottobre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer nov 07, 2012 2:41 pm


  • L'Anno della Fede. Il desiderio di Dio
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Cari fratelli e sorelle,

il cammino di riflessione che stiamo facendo insieme in quest’Anno della fede ci conduce a meditare oggi su un aspetto affascinante dell’esperienza umana e cristiana: l’uomo porta in sé un misterioso desiderio di Dio. In modo molto significativo, il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre proprio con la seguente considerazione: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa» (n. 27).

Una tale affermazione, che anche oggi in molti contesti culturali appare del tutto condivisibile, quasi ovvia, potrebbe invece sembrare una provocazione nell’ambito della cultura occidentale secolarizzata. Molti nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio. Per larghi settori della società Egli non è più l’atteso, il desiderato, quanto piuttosto una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi. In realtà, quello che abbiamo definito come «desiderio di Dio» non è del tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo. Il desiderio umano tende sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero «il» bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere. Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?

Nella mia prima Enciclica, Deus caritas est, ho cercato di analizzare come tale dinamismo si realizzi nell’esperienza dell’amore umano, esperienza che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Attraverso l’amore, l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza della vita e del reale. Se ciò che sperimento non è una semplice illusione, se davvero voglio il bene dell’altro come via anche al mio bene, allora devo essere disposto a de-centrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. La risposta alla questione sul senso dell’esperienza dell’amore passa quindi attraverso la purificazione e la guarigione del volere, richiesta dal bene stesso che si vuole all’altro. Ci si deve esercitare, allenare, anche correggere, perché quel bene possa veramente essere voluto.

L’estasi iniziale si traduce così in pellegrinaggio, «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Enc. Deus caritas est, 6). Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero che esso rappresenta: nemmeno la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. Dunque, l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e a trovarsi di fronte al mistero che avvolge l’intera esistenza.

Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche a proposito di altre esperienze umane, quali l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato. Indubbiamente da tale desiderio profondo, che nasconde anche qualcosa di enigmatico, non si può arrivare direttamente alla fede. L’uomo, in definitiva, conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia. Non si può conoscere Dio a partire soltanto dal desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e incerti. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del «cuore inquieto» come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere religioso (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 28), un «mendicante di Dio». Possiamo dire con le parole di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo» (Pensieri, ed. Chevalier 438; ed. Brunschvicg 434). Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza.

Dobbiamo pertanto ritenere che sia possibile anche nella nostra epoca, apparentemente tanto refrattaria alla dimensione trascendente, aprire un cammino verso l’autentico senso religioso della vita, che mostra come il dono della fede non sia assurdo, non sia irrazionale. Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà. E ciò farà emergere quel desiderio di Dio di cui stiamo parlando.

Un secondo aspetto, che va di pari passo con il precedente, è il non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto. Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo così a tendere, disarmati, verso quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le nostre forze; a non lasciarci scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato.

A questo proposito, non dobbiamo però dimenticare che il dinamismo del desiderio è sempre aperto alla redenzione. Anche quando esso si inoltra su cammini sviati, quando insegue paradisi artificiali e sembra perdere la capacità di anelare al vero bene. Anche nell’abisso del peccato non si spegne nell’uomo quella scintilla che gli permette di riconoscere il vero bene, di assaporarlo, e di avviare così un percorso di risalita, al quale Dio, con il dono della sua grazia, non fa mancare mai il suo aiuto. Tutti, del resto, abbiamo bisogno di percorrere un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio. Siamo pellegrini verso la patria celeste, verso quel bene pieno, eterno, che nulla ci potrà più strappare. Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua vera altezza. Quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo è già segno della presenza della fede nell’animo, fede che è una grazia di Dio. Sempre sant’Agostino affermava: «Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace» (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6: PL 35, 2009).

In questo pellegrinaggio, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene. Preghiamo, in questo Anno della fede, perché Dio mostri il suo volto a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Grazie.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 7 novembre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer nov 14, 2012 5:56 pm


  • L'Anno della Fede. Le vie che portano alla conoscenza di Dio
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Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso abbiamo riflettuto sul desiderio di Dio che l’essere umano porta nel profondo di se stesso. Oggi vorrei continuare ad approfondire questo aspetto meditando brevemente con voi su alcune vie per arrivare alla conoscenza di Dio. Vorrei ricordare, però, che l’iniziativa di Dio precede sempre ogni iniziativa dell’uomo e, anche nel cammino verso di Lui, è Lui per primo che ci illumina, ci orienta e ci guida, rispettando sempre la nostra libertà. Ed è sempre Lui che ci fa entrare nella sua intimità, rivelandosi e donandoci la grazia per poter accogliere questa rivelazione nella fede. Non dimentichiamo mai l’esperienza di sant’Agostino: non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede.

Tuttavia ci sono delle vie che possono aprire il cuore dell’uomo alla conoscenza di Dio, ci sono dei segni che conducono verso Dio. Certo, spesso rischiamo di essere abbagliati dai luccichii della mondanità, che ci rendono meno capaci di percorrere tali vie o di leggere tali segni. Dio, però, non si stanca di cercarci, è fedele all’uomo che ha creato e redento, rimane vicino alla nostra vita, perché ci ama. E’ questa una certezza che ci deve accompagnare ogni giorno, anche se certe mentalità diffuse rendono più difficile alla Chiesa e al cristiano comunicare la gioia del Vangelo ad ogni creatura e condurre tutti all’incontro con Gesù, unico Salvatore del mondo. Questa, però, è la nostra missione, è la missione della Chiesa e ogni credente deve viverla gioiosamente, sentendola come propria, attraverso un’esistenza animata veramente dalla fede, segnata dalla carità, dal servizio a Dio e agli altri, e capace di irradiare speranza. Questa missione splende soprattutto nella santità a cui tutti siamo chiamati.

Oggi - lo sappiamo – non mancano le difficoltà e le prove per la fede, spesso poco compresa, contestata, rifiutata. San Pietro diceva ai suoi cristiani: «Siate sempre pronti a rispondere, ma con dolcezza e rispetto, a chiunque vi chiede conto della speranza che è nei vostri cuori» (1 Pt 3,15). Nel passato, in Occidente, in una società ritenuta cristiana, la fede era l’ambiente in cui si muoveva; il riferimento e l’adesione a Dio erano, per la maggioranza della gente, parte della vita quotidiana. Piuttosto era colui che non credeva a dover giustificare la propria incredulità. Nel nostro mondo, la situazione è cambiata e sempre di più il credente deve essere capace di dare ragione della sua fede. Il beato Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Fides et ratio, sottolineava come la fede sia messa alla prova anche nell’epoca contemporanea, attraversata da forme sottili e capziose di ateismo teorico e pratico (cfr nn. 46-47). Dall’Illuminismo in poi, la critica alla religione si è intensificata; la storia è stata segnata anche dalla presenza di sistemi atei, nei quali Dio era considerato una mera proiezione dell’animo umano, un’illusione e il prodotto di una società già falsata da tante alienazioni. Il secolo scorso poi ha conosciuto un forte processo di secolarismo, all’insegna dell’autonomia assoluta dell’uomo, considerato come misura e artefice della realtà, ma impoverito del suo essere creatura «a immagine e somiglianza di Dio». Nei nostri tempi si è verificato un fenomeno particolarmente pericoloso per la fede: c’è infatti una forma di ateismo che definiamo, appunto, «pratico», nel quale non si negano le verità della fede o i riti religiosi, ma semplicemente si ritengono irrilevanti per l’esistenza quotidiana, staccati dalla vita, inutili. Spesso, allora, si crede in Dio in modo superficiale, e si vive «come se Dio non esistesse» (etsi Deus non daretur). Alla fine, però, questo modo di vivere risulta ancora più distruttivo, perché porta all’indifferenza verso la fede e verso la questione di Dio.

In realtà, l’uomo, separato da Dio, è ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale. Oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli. Le tentazioni che Gesù ha affrontato nel deserto prima della sua missione pubblica, rappresentano bene quegli «idoli» che affascinano l’uomo, quando non va oltre se stesso. Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri. Non è tramontato ciò che la saggezza antica evoca con il mito di Prometeo: l’uomo pensa di poter diventare egli stesso «dio», padrone della vita e della morte.

Di fronte a questo quadro, la Chiesa, fedele al mandato di Cristo, non cessa mai di affermare la verità sull’uomo e sul suo destino. Il Concilio Vaticano II afferma sinteticamente così: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore» (Cost. Gaudium et spes, 19).

Quali risposte, allora è chiamata a dare la fede, con «dolcezza e rispetto», all’ateismo, allo scetticismo, all’indifferenza verso la dimensione verticale, affinché l’uomo del nostro tempo possa continuare ad interrogarsi sull'esistenza di Dio e a percorrere le vie che conducono a Lui? Vorrei accennare ad alcune vie, che derivano sia dalla riflessione naturale, sia dalla stessa forza della fede. Le vorrei molto sinteticamente riassumere in tre parole: il mondo, l’uomo, la fede.

La prima: il mondo. Sant’Agostino, che nella sua vita ha cercato lungamente la Verità ed è stato afferrato dalla Verità, ha una bellissima e celebre pagina, in cui afferma così: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo…, interroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora queste creature così belle, ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è la bellezza in modo immutabile?» (Sermo 241, 2: PL 38, 1134). Penso che dobbiamo recuperare e far recuperare all’uomo d’oggi la capacità di contemplare la creazione, la sua bellezza, la sua struttura. Il mondo non è un magma informe, ma più lo conosciamo e più ne scopriamo i meravigliosi meccanismi, più vediamo un disegno, vediamo che c’è un’intelligenza creatrice. Albert Einstein disse che nelle leggi della natura «si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (Il Mondo come lo vedo io, Roma 2005). Una prima via, quindi, che conduce alla scoperta di Dio è il contemplare con occhi attenti la creazione.

La seconda parola: l’uomo. Sempre sant’Agostino, poi, ha una celebre frase in cui dice che Dio è più intimo a me di quanto lo sia io a me stesso (cfr Confessioni III, 6, 11). Da qui egli formula l’invito: «Non andare fuori di te, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, 39, 72). Questo è un altro aspetto che noi rischiamo di smarrire nel mondo rumoroso e dispersivo in cui viviamo: la capacità di fermarci e di guardare in profondità in noi stessi e leggere quella sete di infinito che portiamo dentro, che ci spinge ad andare oltre e rinvia a Qualcuno che la possa colmare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma così: «Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio» (n. 33).

La terza parola: la fede. Soprattutto nella realtà del nostro tempo, non dobbiamo dimenticare che una via che conduce alla conoscenza e all’incontro con Dio è la vita della fede. Chi crede è unito a Dio, è aperto alla sua grazia, alla forza della carità. Così la sua esistenza diventa testimonianza non di se stesso, ma del Risorto, e la sua fede non ha timore di mostrarsi nella vita quotidiana, è aperta al dialogo che esprime profonda amicizia per il cammino di ogni uomo, e sa aprire luci di speranza al bisogno di riscatto, di felicità, di futuro. La fede, infatti, è incontro con Dio che parla e opera nella storia e che converte la nostra vita quotidiana, trasformando in noi mentalità, giudizi di valore, scelte e azioni concrete. Non è illusione, fuga dalla realtà, comodo rifugio, sentimentalismo, ma è coinvolgimento di tutta la vita ed è annuncio del Vangelo, Buona Notizia capace di liberare tutto l’uomo. Un cristiano, una comunità che siano operosi e fedeli al progetto di Dio che ci ha amati per primo, costituiscono una via privilegiata per quanti sono nell’indifferenza o nel dubbio circa la sua esistenza e la sua azione. Questo, però, chiede a ciascuno di rendere sempre più trasparente la propria testimonianza di fede, purificando la propria vita perché sia conforme a Cristo. Oggi molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu, in un rapporto d’amore con lui. In realtà, a fondamento di ogni dottrina o valore c’è l’evento dell’incontro tra l’uomo e Dio in Cristo Gesù. Il Cristianesimo, prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù. Per questo, il cristiano e le comunità cristiane devono anzitutto guardare e far guardare a Cristo, vera Via che conduce a Dio.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 14 novembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer nov 21, 2012 3:02 pm


  • L'Anno della Fede. La ragionevolezza della fede in Dio
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Cari fratelli e sorelle,

avanziamo in quest’Anno della fede, portando nel nostro cuore la speranza di riscoprire quanta gioia c’è nel credere e di ritrovare l’entusiasmo di comunicare a tutti le verità della fede. Queste verità non sono un semplice messaggio su Dio, una particolare informazione su di Lui. Esprimono invece l’evento dell’incontro di Dio con gli uomini, incontro salvifico e liberante, che realizza le aspirazioni più profonde dell’uomo, i suoi aneliti di pace, di fraternità, di amore. La fede porta a scoprire che l’incontro con Dio valorizza, perfeziona ed eleva quanto di vero, di buono e di bello c’è nell’uomo. Accade così che, mentre Dio si rivela e si lascia conoscere, l’uomo viene a sapere chi è Dio e, conoscendolo, scopre se stesso, la propria origine, il proprio destino, la grandezza e la dignità della vita umana.

La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un “sàpere”, cioè un conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo. La fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, vincendo la solitudine che rende tristi. Questa conoscenza di Dio attraverso la fede non è perciò solo intellettuale, ma vitale. E’ la conoscenza di Dio-Amore, grazie al suo stesso amore. L’amore di Dio poi fa vedere, apre gli occhi, permette di conoscere tutta la realtà, oltre le prospettive anguste dell’individualismo e del soggettivismo che disorientano le coscienze. La conoscenza di Dio è perciò esperienza di fede e implica, nel contempo, un cammino intellettuale e morale: toccati nel profondo dalla presenza dello Spirito di Gesù in noi, superiamo gli orizzonti dei nostri egoismi e ci apriamo ai veri valori dell’esistenza.

Oggi in questa catechesi vorrei soffermarmi sulla ragionevolezza della fede in Dio. La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. Credo quia absurdum (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il «sole», Dio, perché è accoglienza della sua rivelazione nella storia e, per così dire, riceve veramente tutta la luminosità del mistero di Dio, riconoscendo il grande miracolo: Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza, accondiscendendo al limite creaturale della sua ragione (cfr Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 13). Allo stesso tempo, Dio, con la sua grazia, illumina la ragione, le apre orizzonti nuovi, incommensurabili e infiniti. Per questo, la fede costituisce uno stimolo a cercare sempre, a non fermarsi mai e a mai quietarsi nella scoperta inesausta della verità e della realtà. E’ falso il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E’ vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato. Sant’Agostino, prima della sua conversione, cerca con tanta inquietudine la verità, attraverso tutte le filosofie disponibili, trovandole tutte insoddisfacenti. La sua faticosa ricerca razionale è per lui una significativa pedagogia per l’incontro con la Verità di Cristo. Quando dice: «comprendi per credere e credi per comprendere» (Discorso 43, 9: PL 38, 258), è come se raccontasse la propria esperienza di vita. Intelletto e fede, dinanzi alla divina Rivelazione non sono estranei o antagonisti, ma sono ambedue condizioni per comprenderne il senso, per recepirne il messaggio autentico, accostandosi alla soglia del mistero. Sant’Agostino, insieme a tanti altri autori cristiani, è testimone di una fede che si esercita con la ragione, che pensa e invita a pensare. Su questa scia, Sant’Anselmo dirà nel suo Proslogion che la fede cattolica è fides quaerens intellectum, dove il cercare l’intelligenza è atto interiore al credere. Sarà soprattutto San Tommaso d’Aquino – forte di questa tradizione – a confrontarsi con la ragione dei filosofi, mostrando quanta nuova feconda vitalità razionale deriva al pensiero umano dall’innesto dei principi e delle verità della fede cristiana.

La fede cattolica è dunque ragionevole e nutre fiducia anche nella ragione umana. Il Concilio Vaticano I, nella Costituzione dogmatica Dei Filius, ha affermato che la ragione è in grado di conoscere con certezza l’esistenza di Dio attraverso la via della creazione, mentre solo alla fede appartiene la possibilità di conoscere «facilmente, con assoluta certezza e senza errore» (DS 3005) le verità che riguardano Dio, alla luce della grazia. La conoscenza della fede, inoltre, non è contro la retta ragione. Il Beato Papa Giovanni Paolo II, infatti, nell’Enciclica Fides et ratio, sintetizza così: «La ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43). Nell’irresistibile desiderio di verità, solo un armonico rapporto tra fede e ragione è la strada giusta che conduce a Dio e al pieno compimento di sé.

Questa dottrina è facilmente riconoscibile in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, sostiene, come abbiamo sentito: «Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,22-23). Dio, infatti, ha salvato il mondo non con un atto di potenza, ma mediante l’umiliazione del suo Figlio unigenito: secondo i parametri umani, l’insolita modalità attuata da Dio stride con le esigenze della sapienza greca. Eppure, la Croce di Cristo ha una sua ragione, che San Paolo chiama: ho lògos tou staurou, “la parola della croce” (1 Cor 1,18). Qui, il termine lògos indica tanto la parola quanto la ragione e, se allude alla parola, è perché esprime verbalmente ciò che la ragione elabora. Dunque, Paolo vede nella Croce non un avvenimento irrazionale, ma un fatto salvifico che possiede una propria ragionevolezza riconoscibile alla luce della fede. Allo stesso tempo, egli ha talmente fiducia nella ragione umana, al punto da meravigliarsi per il fatto che molti, pur vedendo le opere compiute da Dio, si ostinano a non credere in Lui. Dice nella Lettera ai Romani: «Infatti le … perfezioni invisibili [di Dio], ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (1,20). Così, anche S. Pietro esorta i cristiani della diaspora ad adorare «il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). In un clima di persecuzione e di forte esigenza di testimoniare la fede, ai credenti viene chiesto di giustificare con motivazioni fondate la loro adesione alla parola del Vangelo, di dare la ragione della nostra speranza.

Su queste premesse circa il nesso fecondo tra comprendere e credere, si fonda anche il rapporto virtuoso fra scienza e fede. La ricerca scientifica porta alla conoscenza di verità sempre nuove sull’uomo e sul cosmo, lo vediamo. Il vero bene dell’umanità, accessibile nella fede, apre l’orizzonte nel quale si deve muovere il suo cammino di scoperta. Vanno pertanto incoraggiate, ad esempio, le ricerche poste a servizio della vita e miranti a debellare le malattie. Importanti sono anche le indagini volte a scoprire i segreti del nostro pianeta e dell’universo, nella consapevolezza che l’uomo è al vertice della creazione non per sfruttarla insensatamente, ma per custodirla e renderla abitabile. Così la fede, vissuta realmente, non entra in conflitto con la scienza, piuttosto coopera con essa, offrendo criteri basilari perché promuova il bene di tutti, chiedendole di rinunciare solo a quei tentativi che - opponendosi al progetto originario di Dio - possono produrre effetti che si ritorcono contro l’uomo stesso. Anche per questo è ragionevole credere: se la scienza è una preziosa alleata della fede per la comprensione del disegno di Dio nell’universo, la fede permette al progresso scientifico di realizzarsi sempre per il bene e per la verità dell’uomo, restando fedele a questo stesso disegno.

Ecco perché è decisivo per l’uomo aprirsi alla fede e conoscere Dio e il suo progetto di salvezza in Gesù Cristo. Nel Vangelo viene inaugurato un nuovo umanesimo, un’autentica «grammatica» dell'uomo e di tutta la realtà. Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La verità di Dio è la sua sapienza che regge l’ordine della creazione e del governo del mondo. Dio che, da solo, «ha fatto cielo e terra» (Sal 115,15), può donare, egli solo, la vera conoscenza di ogni cosa creata nella relazione con lui» (n. 216).

Confidiamo allora che il nostro impegno nell’ evangelizzazione aiuti a ridare nuova centralità al Vangelo nella vita di tanti uomini e donne del nostro tempo. E preghiamo perché tutti ritrovino in Cristo il senso dell’esistenza e il fondamento della vera libertà: senza Dio, infatti, l’uomo smarrisce se stesso. Le testimonianze di quanti ci hanno preceduto e hanno dedicato la loro vita al Vangelo lo confermano per sempre. E’ ragionevole credere, è in gioco la nostra esistenza. Vale la pena di spendersi per Cristo, Lui solo appaga i desideri di verità e di bene radicati nell’anima di ogni uomo: ora, nel tempo che passa, e nel giorno senza fine dell’Eternità beata.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 21 novembre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer nov 28, 2012 2:53 pm


  • L'Anno della fede. Come parlare di Dio?
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Cari fratelli e sorelle,
La domanda centrale che oggi ci poniamo è la seguente: come parlare di Dio nel nostro tempo? Come comunicare il Vangelo, per aprire strade alla sua verità salvifica nei cuori spesso chiusi dei nostri contemporanei e nelle loro menti talvolta distratte dai tanti bagliori della società? Gesù stesso, ci dicono gli Evangelisti, nell’annunciare il Regno di Dio si è interrogato su questo: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30). Come parlare di Dio oggi? La prima risposta è che noi possiamo parlare di Dio, perché Egli ha parlato con noi. La prima condizione del parlare di Dio è quindi l’ascolto di quanto ha detto Dio stesso. Dio ha parlato con noi! Dio non è quindi una ipotesi lontana sull’origine del mondo; non è una intelligenza matematica molto lontana da noi. Dio si interessa a noi, ci ama, è entrato personalmente nella realtà della nostra storia, si è autocomunicato fino ad incarnarsi. Quindi, Dio è una realtà della nostra vita, è così grande che ha anche tempo per noi, si occupa di noi. In Gesù di Nazaret noi incontriamo il volto di Dio, che è sceso dal suo Cielo per immergersi nel mondo degli uomini, nel nostro mondo, ed insegnare l’«arte di vivere», la strada della felicità; per liberarci dal peccato e renderci figli di Dio (cfrEf 1,5; Rm 8,14). Gesù è venuto per salvarci e mostrarci la vita buona del Vangelo.

Parlare di Dio vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: non un Dio astratto, una ipotesi, ma un Dio concreto, un Dio che esiste, che è entrato nella storia ed è presente nella storia; il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una nostra personale e reale conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso. Il metodo di Dio è quello dell’umiltà – Dio si fa uno di noi – è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale e concreto, un Dio che si interessa di noi, un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede del problema “come parlare di Dio” con grande semplicità. Nella Prima Lettera ai Corinzi scrive: «Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2,1-2). Quindi la prima realtà è che Paolo non parla di una filosofia che lui ha sviluppato, non parla di idee che ha trovato altrove o inventato, ma parla di una realtà della sua vita, parla del Dio che è entrato nella sua vita, parla di un Dio reale che vive, ha parlato con lui e parlerà con noi, parla del Cristo crocifisso e risorto. La seconda realtà è che Paolo non cerca se stesso, non vuole crearsi una squadra di ammiratori, non vuole entrare nella storia come capo di una scuola di grandi conoscenze, non cerca se stesso, ma San Paolo annuncia Cristo e vuole guadagnare le persone per il Dio vero e reale. Paolo parla solo con il desiderio di voler predicare quello che è entrato nella sua vita e che è la vera vita, che lo ha conquistato sulla via di Damasco. Quindi, parlare di Dio vuol dire dare spazio a Colui che ce lo fa conoscere, che ci rivela il suo volto di amore; vuol dire espropriare il proprio io offrendolo a Cristo, nella consapevolezza che non siamo noi a poter guadagnare gli altri a Dio, ma dobbiamo attenderli da Dio stesso, invocarli da Lui. Il parlare di Dio nasce quindi dall’ascolto, dalla nostra conoscenza di Dio che si realizza nella familiarità con Lui, nella vita della preghiera e secondo i Comandamenti.

Comunicare la fede, per san Paolo, non significa portare se stesso, ma dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro: è portare quel Gesù che sente presente in sé ed è diventato il vero orientamento della sua vita, per far capire a tutti che Egli è necessario per il mondo ed è decisivo per la libertà di ogni uomo. L’Apostolo non si accontenta di proclamare delle parole, ma coinvolge tutta la propria esistenza nella grande opera della fede. Per parlare di Dio, bisogna fargli spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza: fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la nostra comunicazione sarà fruttuosa. E questo vale anche per le comunità cristiane: esse sono chiamate a mostrare l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi, chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani l’amore di Dio. Domandiamoci se sono veramente così le nostre comunità. Dobbiamo metterci in moto per divenire sempre e realmente così, annunciatori di Cristo e non di noi stessi.

A questo punto dobbiamo domandarci come comunicava Gesù stesso. Gesù nella sua unicità parla del suo Padre - Abbà - e del Regno di Dio, con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le difficoltà dell’esistenza umana. Parla con grande realismo e, direi, l’essenziale dell’annuncio di Gesù è che rende trasparente il mondo e la nostra vita vale per Dio. Gesù mostra che nel mondo e nella creazione traspare il volto di Dio e ci mostra come nelle storie quotidiane della nostra vita Dio è presente. Sia nelle parabole della natura, il grano di senapa, il campo con diversi semi, o nella vita nostra, pensiamo alla parabola del figlio prodigo, di Lazzaro e ad altre parabole di Gesù. Dai Vangeli noi vediamo come Gesù si interessa di ogni situazione umana che incontra, si immerge nella realtà degli uomini e delle donne del suo tempo, con una fiducia piena nell’aiuto del Padre. E che realmente in questa storia, nascostamente, Dio è presente e se siamo attenti possiamo incontrarlo. E i discepoli, che vivono con Gesù, le folle che lo incontrano, vedono la sua reazione ai problemi più disparati, vedono come parla, come si comporta; vedono in Lui l’azione dello Spirito Santo, l’azione di Dio. In Lui annuncio e vita si intrecciano: Gesù agisce e insegna, partendo sempre da un intimo rapporto con Dio Padre. Questo stile diventa un’indicazione essenziale per noi cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza vissuta in Cristo la credibilità, il realismo di quello che diciamo con le parole, che non sono solo parole, ma mostrano la realtà, la vera realtà. E in questo dobbiamo essere attenti a cogliere i segni dei tempi nella nostra epoca, ad individuare cioè le potenzialità, i desideri, gli ostacoli che si incontrano nella cultura attuale, in particolare il desiderio di autenticità, l’anelito alla trascendenza, la sensibilità per la salvaguardia del creato, e comunicare senza timore la risposta che offre la fede in Dio. L’Anno della fede è occasione per scoprire, con la fantasia animata dallo Spirito Santo, nuovi percorsi a livello personale e comunitario, affinché in ogni luogo la forza del Vangelo sia sapienza di vita e orientamento dell’esistenza.

Anche nel nostro tempo, un luogo privilegiato per parlare di Dio è la famiglia, la prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni. Il Concilio Vaticano II parla dei genitori come dei primi messaggeri di Dio (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 11; Decr. Apostolicam actuositatem, 11), chiamati a riscoprire questa loro missione, assumendosi la responsabilità nell’educare, nell’aprire le coscienze dei piccoli all’amore di Dio come un servizio fondamentale alla loro vita, nell’essere i primi catechisti e maestri della fede per i loro figli. E in questo compito è importante anzitutto la vigilanza, che significa saper cogliere le occasioni favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far maturare una riflessione critica rispetto ai numerosi condizionamenti a cui sono sottoposti i figli. Questa attenzione dei genitori è anche sensibilità nel recepire le possibili domande religiose presenti nell’animo dei figli, a volte evidenti, a volte nascoste. Poi, la gioia: la comunicazione della fede deve sempre avere una tonalità di gioia. È la gioia pasquale, che non tace o nasconde le realtà del dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà, dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana. La vita buona del Vangelo è proprio questo sguardo nuovo, questa capacità di vedere con gli occhi stessi di Dio ogni situazione. È importante aiutare tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso, ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere la presenza del bene, che non fa rumore; ed offre orientamenti preziosi per vivere bene la propria esistenza. Infine, la capacità di ascolto e di dialogo: la famiglia deve essere un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno per l’altro, dell’amore misericordioso di Dio.

Parlare di Dio, quindi, vuol dire far comprendere con la parola e con la vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana. Così ritorniamo all’inizio: parlare di Dio è comunicare, con forza e semplicità, con la parola e con la vita, ciò che è essenziale: il Dio di Gesù Cristo, quel Dio che ci ha mostrato un amore così grande da incarnarsi, morire e risorgere per noi; quel Dio che chiede di seguirlo e lasciarsi trasformare dal suo immenso amore per rinnovare la nostra vita e le nostre relazioni; quel Dio che ci ha donato la Chiesa, per camminare insieme e, attraverso la Parola e i Sacramenti, rinnovare l’intera Città degli uomini, affinché possa diventare Città di Dio.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 28 novembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 04, 2012 8:38 am


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«Molto presto si diede il nome di catechesi all'insieme degli sforzi intrapresi nella Chiesa per fare discepoli, per aiutare gli uomini a credere che Gesù è il Figlio di Dio, affinché, mediante la fede, essi abbiano la vita nel suo Nome…» (Catechismo, 4).

Durante l'ultimo Sinodo dei vescovi, tenutosi a Roma in ottobre, molti interventi hanno fatto risuonare i termini "catechesi", "catechismo" e "catechista". La Nuova evangelizzazione non può prescindere dal catechismo e dalla catechesi per rinnovarsi in metodi, strumenti e linguaggi. Per questo l'itinerario della rubrica che oggi prende il via (e proseguirà per tutto l'Anno della fede) cerca di approfondire la prima parte del Catechismo, dedicata proprio alla fede. La catechesi e il relativo catechismo nascono dal desiderio esplicito o implicito di quanti cercano di consolidare i contenuti della fede in Gesù Cristo. Forse è opportuno precisare che l'orizzonte e l'ansia catechetica non sorgono nei secoli successivi del cristianesimo ma si trovano già enucleati negli scritti del Nuovo Testamento. Così Luca introduce il suo Vangelo: «Anch'io ho deciso di fare ricerche accurate... e di scrivere per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti ricevuti (katechéthes)» (Luca 1,3-4). I Vangeli sono scritti di storia sulla vita di Gesù nel suo tempo, finalizzati a rendere salda la fede di quanti, ricevuto il primo annuncio, desiderano approfondire la conoscenza del Figlio di Dio. L'intenzione di Luca torna nella prima conclusione del Vangelo di Giovanni: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni 20,20-21). Quanto più il catechismo rimanda ai Vangeli e alla Parola di Dio, tanto più nutre la fede dei credenti. Basterebbe soffermarsi sulle battute iniziali e finali dei Vangeli citati per rendersi conto che la storia di Gesù non è stata redatta per semplice curiosità o per dovere di cronaca, ma per favorire l'incontro con lui da cui la fede s'irrobustisce con la catechesi.

  • Il desiderio inestinguibile di Dio
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«Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio» (Catechismo, 27).

Quando, in occasione del suo secondo viaggio missionario, san Paolo giunge ad Atene osserva, tra l'altro, un'iscrizione d'altare dedicata «al Dio ignoto» (Atti 17,23). L'iscrizione gli offre l'opportunità di annunciare nell'Areopago la fede nell'unico Dio di Gesù Cristo. Prima però di predicare la sua fede nella risurrezione riconosce la religiosità degli Ateniesi, il loro intimo desiderio di conoscere Dio. Nella ricerca dell'Assoluto l'uomo si trova in un labirinto, avvolto da una luce fioca. Per questo avanza a tentoni alla ricerca della strada migliore che gli permetta di attraversare il Castello (Franz Kafka) o il Deserto dei Tartari (Dino Buzzati). Spesso ci si illude che progredendo nella tecnica e nelle scienze regredisca nel cuore umano il desiderio di Dio; e invece cresce a dismisura assumendo nuove forme di religiosità, che sconfinano spesso nella divinazione. La storia umana è costante ricerca di Dio poiché «in Lui, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28). Le vie dell'universo, del creato e della sua bellezza, della scienza, dell'amore umano, della Cognizione del dolore (Carlo Emilio Gadda) e dell'arte si dischiudono affinché ognuno le attraversi nella ricerca di Dio. In particolare il creato, con le sue diverse espressioni, rimanda al Creatore, giacché «dalla creazione del mondo in poi le perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da Lui compiute, come la Sua eterna potenza e divinità» (Romani 1,20). Tuttavia spesso l'uomo confonde il Creatore con la creatura e si ferma a metà strada, o la smarrisce del tutto. Due eccessi polarizzano la ricerca umana di Dio: la sicumera di chi s'illude di possederlo, o la rimozione con cui si cerca di tacitare il naturale desiderio di Lui. Entrambe sono forme di oltraggio e di tracotanza che riducono Dio in forme di idoli a disposizione o, ancor peggio, che scelgono l'uomo come misura di tutte le cose. Fra questi eccessi, s'inerpica il sentiero del Castello interiore (Teresa d'Avila) dove si scopre che Dio è più intimo di quanto sia l'uomo a se stesso (Agostino d'Ippona).

  • L'eloquente Rivelazione di Dio
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«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della divina natura» (Dei Verbum 2; Catechismo, 51).

Quanto più cresce nel cuore umano la ricerca di Dio, tanto più si comprende che si è cercati da Lui. La domanda che risuona dopo il peccato di Adamo e di ogni persona umana è "Dove sei?" (Genesi 3,9). Nella sua realtà ultima il peccato non risponde soltanto alla trasgressione della legge divina ma alla separazione da se stessi, dai fratelli e da Dio. Si perde il senso dell'orientamento! Nonostante qualsiasi tentativo umano di separarsi da Dio, Egli è alla costante ricerca dell'uomo, poiché in lui si riflette il Suo volto: «L'uomo vivente è la gloria di Dio» (Ireneo di Lione). Nella citazione iniziale la «Dei Verbum» e il Catechismo evocano due letture del Nuovo Testamento che s'introducono con la benevolenza con cui Dio ha voluto rivelare se stesso agli uomini: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nell'amore» (Efesini 1,3-4); «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi a padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, la parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Ebrei 1,1-2). Nel rivelarsi, Dio manifesta il suo amore perché Egli è amore. La rivelazione di Dio è un continuo approssimarsi del suo amore, che conduce la sua amata nel deserto per parlare al suo cuore e renderla sua sposa per sempre (Osea 2,21-22). E l'amore è la via maestra dell'incontro tra Dio e l'uomo. L'amore non è un sentimento umano proiettato verso l'altro, ma un rivelarsi di Dio verso l'uomo. In gesti e parole si rivela l'amore di Dio: in parole che sono non dette soltanto ma raggiungono il loro effetto nei gesti; in gesti più eloquenti di qualsiasi parola. Gesù Cristo è la Parola definitiva di Dio all'uomo, poiché in lui «Dio ha detto no a se stesso e sì all'uomo» (Karl Barth): un sì fedele, che attende l'amen dei credenti (2 Corinzi 1,20).

  • Il compimento della Rivelazione
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«Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella» (Catechismo, 65).

La rivelazione di Dio attraversa i secoli e giunge al compimento in Gesù Cristo, la Parola fatta carne (cf. Giovanni 1,14). Tutto ciò che Dio ha detto di sé nella storia umana lo realizza in modo definitivo nel Figlio, «la Parola uscita dal silenzio» (Ignazio di Antiochia). Egli è l'alfa e l'omèga, l'inizio e la fine dei giorni (Apocalisse 1,8). Quanto precede prepara l'incarnazione della Parola e quanto segue la dispiega come un immenso rotolo consegnato nelle mani dell'uomo. In quanto Parola incarnata, Gesù è il rivelatore finale di Dio, poiché «Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio che è nel seno del Padre, egli lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Dalla Risurrezione alla fine della storia Gesù Cristo continua a condividere il cammino dei discepoli di Emmaus, «spiegando tutto ciò che si riferisce a lui nelle Scritture» (Luca 24,27); si rende vivo fra i discepoli per aprire loro la mente nell'intelligenza delle Scritture (cfr. Luca 24,45). Per questo compiuta in Cristo, la rivelazione di Dio continua a spiegarsi e a esplicitarsi nella storia umana. Egli che è «lo stesso ieri oggi e per sempre» (Ebrei 13,8), ha bisogno di diventare in ogni dimensione dello spazio e del tempo «il centro del tempo» (H. Conzelmann). Senza il compimento della rivelazione di Dio in Cristo, ogni persona umana è come se partecipasse alla prima parte della visione sul libro nell'Apocalisse di Giovanni: è colta dalla disperazione poiché non si trova nessuno capace di aprire il libro e di scioglierne i sigilli (Apocalisse 5,1-4). Soltanto quando l'Agnello, assiso sul trono come «immolato» (in quanto morto e risorto), apre il libro, allora il pianto di Giovanni si muta in gioia e in canto di esultanza. Perché, togliendo i sigilli del libro, il Risorto rivela pienamente Dio all'uomo e l'uomo a se stesso. Gesù Cristo è l'unico esegeta ("exeghésato" in Giovanni 1,18) di Dio: Colui che lo ha spiegato e continua a spiegarlo nella Chiesa e per le vie della storia.

  • Le due «ali» della Rivelazione
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«La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono tra loro strettamente congiunte e comunicanti» (Catechismo, 80).

Come due ali dell'unica Rivelazione sono la Tradizione e la Scrittura: la prima conserva la Parola affidata a Israele e alla Chiesa; la seconda la pone per iscritto nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Dal versante storico la Tradizione precede la Scrittura poiché, prima che l'Antico e il Nuovo Testamento fossero scritti, la memoria viva d'Israele e della Chiesa conserva la Parola. A sua volta la Sacra Scrittura genera la Tradizione viva della Chiesa. Scrittura e Tradizione sono l'unico deposito della fede, a cui la fede dei credenti attinge per essere nutrita e rinvigorita. Senza la Scrittura, la Tradizione – per quanto viva – rischia di smarrire la memoria della Parola. E senza la Tradizione, la Scrittura riduce la fede cristiana a "religione del libro", a una concezione intellettiva e meccanica della fede. Ma il cristianesimo è religione della Parola. Spesso la storia del cristianesimo ha visto tensioni e conflitti tra Scrittura e Tradizione, come se una potesse prescindere dall'altra. L'assioma "sola Scriptura" ha cercato di sottovalutare la Tradizione. Per inverso, va preso atto che la "sola Traditio" si è in alcuni periodi allontanata dalla Scrittura. Al Concilio Vaticano II spetta il merito di aver ricomposto gli equilibri tra Scrittura e Tradizione, accomunate dall'unica Parola di Dio. La Tradizione si nutre della Scrittura per essere rafforzata, la Scrittura della Tradizione per essere condivisa nella fede della Chiesa. Una delle professioni di fede più antiche, ripresa nelle conclusioni dell'ultimo Sinodo dei Vescovi, esprime l'inscindibile connubio fra Tradizione e Scrittura: «Vi ho trasmesso ciò che a mia volta ho ricevuto: Gesù Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Corinzi 15,3-5). La formula della trasmissione della fede si ripete a proposito delle parole di Gesù durante la cena, quando s'identifica nel pane spezzato e nel sangue versato per noi (cfr. 1Corinzi 11,23). Prima della Scrittura c'è la Tradizione viva della Chiesa e dalla Scrittura la Parola di Dio si trasforma in deposito della fede.

  • Nelle Scritture l'impronta divina
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«La Sacra Scrittura è la Parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito divino» (Catechismo, 81).

Nel consegnare il suo testamento spirituale a Timoteo, il suo fedele collaboratore, Paolo confessa l'ispirazione della Sacra Scrittura: «Tutta la Scrittura è divinamente ispirata, utile per l'insegnamento, la convinzione, la correzione e l'educazione nella giustizia» (2 Timoteo 3,16). Il termine greco, «theópneusthos», è impossibile da rendere nelle lingue moderne con una sola parola. Esprime l'azione dello Spirito di Dio che si trova all'origine della Sacra Scrittura. La trasmissione della fede inizia nel momento in cui la Scrittura, in quanto Parola di Dio, è riconosciuta non come libro né come lettera scritta, bensì in quanto ispirata da Dio. Lo stesso Spirito che aleggiava sulle acque all'inizio della creazione, ha dato origine all'incarnazione del Figlio di Dio nel seno di Maria e ha operato nella formazione della Sacra Scrittura. Non uno Spirito indefinito o divinatorio, cercato nei culti misterici, ma lo Spirito del Dio vivente e del Figlio di Dio ha ispirato la Scrittura. La Parola ispirata (L. Alonso Shökel) segue lo stesso processo dell'incarnazione del Figlio di Dio. Lo Spirito attraversa la lettera come la linfa nell'albero, e vi è contenuto come il miele nel favo. Dalla lettera allo Spirito, perché lo Spirito umanizza Parola di Dio. L'ispirazione artistica e poetica rendono l'idea dell'ispirazione divina, poiché rinviano al modo con cui la Scrittura ha Dio come Autore finale. Per questo l'ispirazione prosegue nel tempo quando la Scrittura si legge con lo stesso Spirito con cui è stata scritta (Dei Verbum, 12). Senza lo Spirito la Scrittura è lettera che uccide perché è incapace di alimentare la fede; e soltanto con lo Spirito la Scrittura forma l'uomo di Dio. Nel nostro tempo si avverte sempre più l'emergenza educativa nella Chiesa e nella società civile, alla ricerca del senso della giustizia. Questa si affronta anzitutto con la frequentazione costante della Sacra Scrittura in famiglia, a scuola e nell'università affinché, come prosegue il testamento di Paolo, «l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona».

  • Dentro il «forziere» della fede
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«Il deposito della fede («depositum fidei»), contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, è stato affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa. (Catetchismo, 84).

Una delle più brevi e lapidarie parabole di Gesù spiega cos'è, in concreto, il deposito della fede. Gesù chiede ai discepoli se avessero compreso tutte le parabole che ha raccontato. E dopo la risposta affermativa dei discepoli aggiunge: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e antiche» (Matteo 13,52). Il deposito non è la stanza degli impicci, dove si pone tutto ciò che non serve al momento ma può tornare utile in futuro, bensì è il forziere in cui si collocano i beni più preziosi di famiglia. Si tratta di cose antiche e nuove, come Antico e Nuovo sono i due Testamenti affidati alla Chiesa. Al padrone di casa spetta il compito di custodire il deposito della fede riscrivendolo con il suo stile di vita, come uno scriba fedele. Agli Apostoli e ai loro successori la responsabilità che il deposito della fede, che contiene la Scrittura e la Tradizione, non venga dissipato, ma sia conservato come il tesoro nel campo e la perla preziosa. Questo deposito cresce di valore se non è custodito in modo geloso da quanti ne conservano la chiave. Per questo ha bisogno di essere condiviso dall'intera comunità dei credenti per non essere consumato dalla fuliggine e sostituito da falsi tesori che non alimentano la fede. Tra la paura di perdere il tesoro del deposito e la noncuranza di svenderlo, lo Spirito Santo permette a Timoteo e a ogni suo successore di custodire per condividere con i fratelli il bene prezioso che gli è stato affidato (2 Timoteo 1,14). Di generazione in generazione il deposito della fede ha bisogno di essere trasmesso, come è passato dalla fede della nonna Lòide alla madre Eunìce per trasformare la fede schietta del nipote Timoteo (2 Timoteo 1,5). Soltanto così la fede è condivisa, altrimenti ci s'illude che la migliore fede sia quella che non abbisogna del deposito per essere trasmessa; ed è la sventura che colpisce spesso le nuove generazioni separate da quelle che le precedono.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 27 novembre al 4 dicembre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer dic 05, 2012 4:59 pm


  • L'Anno della fede. Dio rivela il suo "disegno di benevolenza"
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Cari fratelli e sorelle,
all’inizio della sua Lettera ai cristiani di Efeso (cfr 1, 3-14), l’apostolo Paolo eleva una preghiera di benedizione a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci introduce a vivere il tempo di Avvento, nel contesto dell’Anno della fede. Tema di questo inno di lode è il progetto di Dio nei confronti dell’uomo, definito con termini pieni di gioia, di stupore e di ringraziamento, come un “disegno di benevolenza” (v. 9), di misericordia e di amore.

Perché l’Apostolo eleva a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione? Perché guarda al suo agire nella storia della salvezza, culminato nell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù, e contempla come il Padre celeste ci abbia scelti prima ancora della creazione del mondo, per essere suoi figli adottivi, nel suo Figlio Unigenito, Gesù Cristo (cfr Rm 8,14s.; Gal 4,4s.). Noi esistiamo, fin dall’eternità nella mente di Dio, in un grande progetto che Dio ha custodito in se stesso e che ha deciso di attuare e di rivelare «nella pienezza dei tempi» (cfr Ef 1,10). San Paolo ci fa comprendere, quindi, come tutta la creazione e, in particolare, l’uomo e la donna non siano frutto del caso, ma rispondano ad un disegno di benevolenza della ragione eterna di Dio che con la potenza creatrice e redentrice della sua Parola dà origine al mondo. Questa prima affermazione ci ricorda che la nostra vocazione non è semplicemente esistere nel mondo, essere inseriti in una storia, e neppure soltanto essere creature di Dio; è qualcosa di più grande: è l’essere scelti da Dio, ancora prima della creazione del mondo, nel Figlio, Gesù Cristo. In Lui, quindi, noi esistiamo, per così dire, già da sempre. Dio ci contempla in Cristo, come figli adottivi. Il “disegno di benevolenza” di Dio, che viene qualificato dall’Apostolo anche come “disegno di amore” (Ef 1,5), è definito “il mistero” della volontà divina (v. 9), nascosto e ora manifestato nella Persona e nell’opera di Cristo. L’iniziativa divina precede ogni risposta umana: è un dono gratuito del suo amore che ci avvolge e ci trasforma.

Ma qual è lo scopo ultimo di questo disegno misterioso? Qual è il centro della volontà di Dio? E’ quello – ci dice san Paolo – di «ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose» (v. 10). In questa espressione troviamo una delle formulazioni centrali del Nuovo Testamento che ci fanno comprendere il disegno di Dio, il suo progetto di amore verso l’intera umanità, una formulazione che, nel secondo secolo, sant’Ireneo di Lione mise come nucleo della sua cristologia: “ricapitolare” tutta la realtà in Cristo. Forse qualcuno di voi ricorda la formula usata dal Papa san Pio X per la consacrazione del mondo al Sacro Cuore di Gesù: “Instaurare omnia in Christo”, formula che si richiama a questa espressione paolina e che era anche il motto di quel santo Pontefice. L’Apostolo, però, parla più precisamente di ricapitolazione dell’universo in Cristo, e ciò significa che nel grande disegno della creazione e della storia, Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, asse portante di tutto, che attira a Sé l’intera realtà, per superare la dispersione e il limite e condurre tutto alla pienezza voluta da Dio (cfr Ef 1,23).

Questo “disegno di benevolenza” non è rimasto, per così dire, nel silenzio di Dio, nell’altezza del suo Cielo, ma Egli lo ha fatto conoscere entrando in relazione con l’uomo, al quale non ha rivelato solo qualcosa, ma Se stesso. Egli non ha comunicato semplicemente un insieme di verità, ma si è auto-comunicato a noi, fino ad essere uno di noi, ad incarnarsi. Il Concilio Ecumenico Vaticano II nella Costituzione dogmatica Dei Verbum dice: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso [non solo qualcosa di sé, ma se stesso] e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della divina natura» (n. 2). Dio non solo dice qualcosa, ma Si comunica, ci attira nella divina natura così che noi siamo coinvolti in essa, divinizzati. Dio rivela il suo grande disegno di amore entrando in relazione con l’uomo, avvicinandosi a lui fino al punto di farsi Egli stesso uomo. Il Concilio continua: «Il Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33,11; Gv 15,14-15) e vive tra essi (cfr Bar 3,38) per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (ibidem). Con la sola intelligenza e le sue capacità l’uomo non avrebbe potuto raggiungere questa rivelazione così luminosa dell’amore di Dio; è Dio che ha aperto il suo Cielo e si è abbassato per guidare l’uomo nell’abisso del suo amore.

Ancora san Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. E a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio» (2,9-10). E san Giovanni Crisostomo, in una celebre pagina a commento dell’inizio della Lettera agli Efesini, invita a gustare tutta la bellezza di questo “disegno di benevolenza” di Dio rivelato in Cristo, con queste parole: «Che cosa ti manca? Sei divenuto immortale, sei divenuto libero, sei divenuto figlio, sei divenuto giusto, sei divenuto fratello, sei divenuto coerede, con Cristo regni, con Cristo sei glorificato. Tutto ci è stato donato e – come sta scritto – “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,32). La tua primizia (cfr 1 Cor 15,20.23) è adorata dagli angeli […]: che cosa ti manca?» (PG 62,11).
Questa comunione in Cristo per opera dello Spirito Santo, offerta da Dio a tutti gli uomini con la luce della Rivelazione, non è qualcosa che viene a sovrapporsi alla nostra umanità, ma è il compimento delle aspirazioni più profonde, di quel desiderio dell’infinito e di pienezza che alberga nell’intimo dell’essere umano, e lo apre ad una felicità non momentanea e limitata, ma eterna. San Bonaventura da Bagnoregio, riferendosi a Dio che si rivela e ci parla attraverso le Scritture per condurci a Lui, afferma così: «La sacra Scrittura è […] il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri» (Breviloquium, Prol.; Opera Omnia V, 201s.). Infine, il beato Papa Giovanni Paolo II ricordava che «la Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio, che la mente non può esaurire, ma solo accogliere nella fede» (Enc. Fides et ratio, 14).

In questa prospettiva, che cos’è dunque l’atto della fede? E’ la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio, che si fa conoscere, che manifesta il suo disegno di benevolenza; è, per usare un’espressione agostiniana, lasciarsi afferrare dalla Verità che è Dio, una Verità che è Amore. Per questo san Paolo sottolinea come a Dio, che ha rivelato il suo mistero, si debba «l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr 1,5; 2 Cor 10, 5-6), l’atteggiamento con il quale «l’uomo liberamente si abbandona tutto a Lui, prestando la piena adesione dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli da» (Cost dogm. Dei Verbum, 5). Tutto questo porta ad un cambiamento fondamentale del modo di rapportarsi con l’intera realtà; tutto appare in una nuova luce, si tratta quindi di una vera “conversione”, fede è un “cambiamento di mentalità”, perché il Dio che si è rivelato in Cristo e ha fatto conoscere il suo disegno di amore, ci afferra, ci attira a Sé, diventa il senso che sostiene la vita, la roccia su cui essa può trovare stabilità. Nell’Antico Testamento troviamo una densa espressione sulla fede, che Dio affida al profeta Isaia affinché la comunichi al re di Giuda, Acaz. Dio afferma: «Se non crederete - cioè se non vi manterrete fedeli a Dio - non resterete saldi» (Is 7,9b). Esiste quindi un legame tra lo stare e il comprendere, che esprime bene come la fede sia un accogliere nella vita la visione di Dio sulla realtà, lasciare che sia Dio a guidarci con la sua Parola e i Sacramenti nel capire che cosa dobbiamo fare, qual è il cammino che dobbiamo percorrere, come vivere. Nello stesso tempo, però, è proprio il comprendere secondo Dio, il vedere con i suoi occhi che rende salda la vita, che ci permette di “stare in piedi”, di non cadere.
Cari amici, l’Avvento, il tempo liturgico che abbiamo appena iniziato e che ci prepara al Santo Natale, ci pone di fronte al luminoso mistero della venuta del Figlio di Dio, al grande “disegno di benevolenza” con il quale Egli vuole attirarci a Sé, per farci vivere in piena comunione di gioia e di pace con Lui. L’Avvento ci invita ancora una volta, in mezzo a tante difficoltà, a rinnovare la certezza che Dio è presente: Egli è entrato nel mondo, facendosi uomo come noi, per portare a pienezza il suo piano di amore. E Dio chiede che anche noi diventiamo segno della sua azione nel mondo. Attraverso la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, Egli vuole entrare nel mondo sempre di nuovo e vuol sempre di nuovo far risplendere la sua luce nella nostra notte.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 5 dicembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 11, 2012 3:14 pm


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«Il cuore di Cristo designa la Sacra Scrittura che appunto rivela il cuore di Cristo» (Catechismo, 112/1).

Prima della conversione, Agostino d'Ippona aveva più volte sfogliato la Bibbia, ma l'aveva abbandonata perché la considerava una raccolta di favole. Ogni volta partiva dal libro della Genesi, ma si arenava ai primi capitoli. Finalmente nel momento cruciale della sua conversione s'imbatte in un paragrafo della Lettera ai Romani: «Così tornai concitato al luogo dove stava Alipio e dove aveva lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: "Non nelle crapule e nell'ebbrezze... ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo..." (Romani 13,13-14). Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» (Confessioni 8,12). Centro e culmine della Scrittura è Gesù Cristo, di cui bisogna rivestirsi per cogliere l'unità della Scrittura. E quanto più ci si riveste di Lui, tanto più la Scrittura si rivela unitaria da cima a fondo. Non è fortuito che le principali difficoltà affrontate dalle prime comunità cristiane non hanno riguardato la divinità e l'umanità di Gesù Cristo – in quanto già credute – bensì il valore o il disvalore dell'Antico Testamento. Ma di fronte alla scelta di Marcione (II secolo d.C.) che ha creato un canone nel canone, ovvero una parte della Scrittura valida e l'altra inutile, le Chiese d'Oriente e di Occidente hanno cercato di conservare l'unità della Scrittura. La tendenza si è ripetuta durante il periodo della Riforma luterana, quando oltre al «pane quotidiano dell'anima», che è la Lettera ai Romani, Martin Lutero ha definito la Lettera di Giacomo come «lettera di paglia». E anche in questo frangente la Chiesa ha voluto riaffermare l'unità e l'ispirazione della Scrittura. L'Apostolo Paolo aiuta a comprendere la ragione per cui la Scrittura è unitaria, pur nelle diversità dei libri che la compongono: «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostra istruzione, affinché in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Romani 15,4).

  • I quattro sensi della Scrittura
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«La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza» (Catechismo, 115).

Spesso il Medioevo è ingiustamente considerato come periodo oscuro nella storia della civiltà occidentale. A questo cliché hanno contribuito non poco Il nome della rosa di Umberto Eco e Mistero buffo di Dario Fo. Eppure è l'epoca che ha visto la fioritura di giganti della letteratura come Dante Alighieri, Boccaccio e Petrarca, del pensiero teologico come Tommaso d'Aquino, e della santità come Domenico di Guzman e Francesco d'Assisi. Le imponenti cattedrali romaniche e gotiche, sparse per l'Europa, testimoniano, contro tutti i pregiudizi e le strumentalizzazioni storiche, lo splendore del Medioevo. Tra l'altro i quattro sensi della Scrittura, rivalutati da Henri De Lubac con la monumentale Esegesi medievale, sono di quell'epoca e sintetizzano le relazioni tra il senso letterale e quello spirituale della Scrittura: «La lettera insegna i fatti, l'allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare, e l'anagogia dove tendere». Quanto più si approfondisce la storia, tanto più si è in grado di cogliere lo Spirito nella Scrittura. Altrimenti la lettura biblica è lasciata al sentimentalismo e all'arbitrio di chiunque. La lettera contiene lo Spirito che la «trascende» (Benedetto XVI, Verbum Domini) e conduce verso gli altri tre sensi che generano la fede, la carità e la speranza. Attraversare il senso letterale per giungere a quello allegorico della fede è ciò che lo Spirito realizza nel cuore dei credenti. Ma non basta il senso allegorico o superiore; è necessario giungere a quello etico dell'amore, altrimenti la fede senza le opere muore. Ed è il senso etico che produce quello anagogico, o della salita verso la speranza. I quattro sensi della Scrittura non sono un'invenzione medievale, ma affondano le radici nel Nuovo Testamento. Per questo Paolo ringrazia il Signore per la fede operosa, la carità faticosa e la perseverante speranza che si sono diffuse fra i Tessalonicesi (1 Tessalonicesi 1,3). L'itinerario delle virtù è autentico quanto la Parola di Dio annunciata è accolta non come parola di uomini ma com'è veramente: Parola di Dio che opera nel cuore dei credenti (1 Tessalonicesi 2,13).

  • Il canone della Scrittura
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«È stata la Tradizione apostolica a far discernere alla Chiesa quali scritti dovessero essere compresi nell'elenco dei Libri Sacri (Dei Verbum 8)» (Catechismo, 120).

Nel nostro tempo torna in grande spolvero la questione del canone biblico. L'interesse mediatico per gli scritti apocrifi (letteralmente "nascosti") induce credenti e agnostici a dubitare sulla storicità degli scritti canonici. Non è difficile di fronte a tanta letteratura romanzata, che strumentalizza gli apocrifi, identificare il messaggio subliminale che si cerca di trasmettere. Il canone sarebbe un'invenzione della Chiesa Cattolica che ha insabbiato gli scritti apocrifi per trasmettere un Gesù divinizzato, contrario ai dati storici. In realtà la questione del canone della Bibbia non sorge dall'alto per imposizione di una Chiesa centralizzata, come quella romana, bensì sorge dal basso: dal consenso della fede fra le Chiese del I-II secolo d.C. che nei libri canonici si riconoscono perché li frequentano nella liturgia e nella catechesi. Ci riferiamo a un'epoca in cui non c'è ancora una Chiesa imperiale, né tanto meno una Chiesa che impone, per ufficio, il canone della Scrittura. E se alcuni apocrifi sono stati insabbiati, per essere riscoperti nel 1900, è perché non sono stati in grado di veicolare l'umanità di Gesù e non la sua divinità. Assurdo è che testi orientati a presentare un Gesù troppo divino, oggi siano strumentalizzati per finalità contrarie, ossia per sottovalutarne l'umanità. I 46 libri dell'Antico Testamento e i 27 scritti del Nuovo Testamento hanno nutrito la fede cristiana dei primi secoli e, per questo, sono rientrati nel canone. In essi il metro (canone significa misurazione compiuta mediante una canna) della fede in Gesù Cristo, il Signore, si è riconosciuta e identificata. La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede deve, gioco forza, fare i conti con queste ventate di scetticismo che, servendosi dei vangeli apocrifi, cercano di delegittimare quelli rientrati nel canone non per imposizione dall'alto, bensì per identificazione dal basso.

  • Quell'alleanza mai revocata
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«L'Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore perenne poiché l'Antica Alleanza non è mai stata revocata» (Catechismo, 121).

Quando nel 1980 Giovanni Paolo II tenne il discorso a Mainz sul popolo ebraico e l'alleanza mai revocata, suscitò un vivo dibattito sul rapporto tra l'Antica e la Nuova Alleanza e, di conseguenza, tra Antico e Nuovo Testamento. Non per concessione, né per una forma di pentimento, dopo la terribile ora della Shoah, il Pontefice ha riconosciuto come irrevocabile l'Antica Alleanza. Paolo di Tarso che di Antico Testamento se ne intendeva, in quanto proveniva dalle file dei farisei, affronta le relazioni tra l'antica e la nuova alleanza. Nella Seconda Lettera ai Corinzi precisa da una parte che «la nostra capacità viene da Dio che ci ha resi degni di essere ministri della nuova alleanza" (2Corinzi 3,6) e dall'altra che «fino ad oggi quel medesimo velo rimane non rimosso, quando si legge l'antica alleanza, perché è in Cristo che esso viene eliminato» (2Corinzi 3,14). Dunque quanto è in fase di rimozione non è l'antica alleanza, bensì il velo che è tolto per quanti sono e credono in Cristo. Ancora più chiara è la prospettiva con cui Paolo ricorda i privilegi d'Israele nella Lettera ai Romani: «Essi sono Israeliti, hanno l'adozione filiale, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Gesù secondo la carne» (Romani 9,4-5). I doni elencati restano per sempre perché è in gioco l'amore di Dio che non dipende dalle risposte umane, ma dalla sua fedeltà all'alleanza. Per questo «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Romani 11,29). Irrevocabili sono le alleanze della storia biblica, come irrevocabile è l'umanità ebraica di Gesù. Qui sta la differenza tra l'antica e la nuova alleanza. L'antica diventa nuova in Cristo e non è né vecchia, né abrogata. E la nuova alleanza fa rivivere l'antica perché è realizzata con il sangue di Cristo: «Questo calice è la nuova alleanza con il mio sangue versato per voi» (Luca 22,20). Precisa bene Agostino d'Ippona: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico, mentre l'Antico è svelato nel Nuovo».

  • Nei Vangeli c'è il nostro nome
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«I Vangeli sono il cuore di tutte le Scritture "in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore"» (Dei Verbum 20; Catechismo, 125).

Prima dei Vangeli, che raccontano la vita di Gesù e dei suoi discepoli, il termine euanghélion designava una notizia breve, positiva e nuova; e non era neanche un termine religioso, bensì sociale e profano. Euanghélion è la nascita dell'imperatore che inaugura un'epoca di pace o l'intervento del messia che porterà la lieta notizia ai poveri (Isaia 61,1-2). Si deve a Marco il passaggio dall'annuncio breve al Vangelo che racconta la vita di Gesù. Nel suo solco, Matteo ha raccontato il Vangelo dell'Emmanuele o del Dio con noi, Luca quello della salvezza nell'oggi dell'incontro con Gesù e Giovanni della Parola fatta carne che ha posto la sua tenda fra noi. Prima però di essere raccontato dai quattro evangelisti Gesù ha fatto dell'evangelo il cuore della sua missione. Ha portato il regno dei cieli sulla terra, chiedendo la conversione del cuore e la fede nel suo evangelo (Marco 1,14-15). Ha proclamato il messaggio rivoluzionario delle Beatitudini per i poveri e i perseguitati nel suo nome (Matteo 5,1-12). Durante una liturgia in sinagoga ha commentato l'oracolo di Isaia che abbiamo evocato: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Luca 4,21). E ai discepoli di Giovanni Battista, che gli chiedono dove abitasse, ha risposto di andare con lui per vedere dove il Verbo ha posto la sua tenda (Giovanni 1,39). La nuova evangelizzazione è tale non se è capace d'inventarsi qualcosa di nuovo per gli uomini e le donne del nostro tempo ma se conduce chiunque a incontrare Gesù per seguirlo. Non c'è bene più prezioso dei Vangeli perché più di qualsiasi altro scritto continuano a rivelare il volto umano di Dio. Non il Gesù dimezzato dei vangeli gnostici, che nasconde la sua umanità per esaltare la sua divinità, ma l'esatto contrario. Il Gesù che redime l'uomo con la sua passione per tutti: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito affinché chiunque crede in lui non si perda, ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3,16). Il pronome indefinito «chiunque» è capace di contenere il nome personale di ognuno, perché l'amore di Dio è per tutti e per ciascuno.

  • La Parola, come un sacramento
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«La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore; in ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (Dei Verbum 21; Catechismo 141).

Uno dei frutti più ricchi della primavera dello Spirito che è il Concilio Vaticano II è la consegna della Sacra Scrittura nelle mani dei credenti. Prima del Concilio la Scrittura era letta in Chiesa, ma era proclamata in latino e non era compresa (con tutto il rispetto per il latino). La frequentazione della lectio divina o della lettura spirituale della Scrittura ha valicato le soglie dei monasteri per entrare in quelle delle comunità parrocchiali e fra i gruppi giovanili. Il rapporto tra la Parola di Dio e il Corpo eucaristico di Gesù è stato approfondito in uno dei passi più significativi della Verbum Domini di Benedetto XVI: «La sacramentalità della Parola» (n.56). Non che s'intendesse creare un nuovo sacramento, da aggiungere a quelli già riconosciuti, ma la dimensione sacramentale della Parola di Dio si trova all'origine della sua venerazione nella vita della Chiesa. Purtroppo a questa venerazione della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura, non si è ancora formati. Per rendersi conto che la sacramentalità della Parola non segue il passo di quella dell'Eucaristia basta pensare ai luoghi occasionali dove si pongono i lezionari per la liturgia della Parola di Dio, alle scelte estemporanee dei lettori durante la Messa e alle modalità con cui la Scrittura è proclamata. Naturalmente non mancano eccezioni degne di merito! Serva da insegnamento il ritorno del popolo ebraico dall'esilio babilonese nel 538 a.C., raccontato nel Libro di Neemia. Il popolo si raduna nella piazza, e dopo che Esdra apre il libro tutti si alzano, si inginocchiano e si prostrano con la faccia a terra dinanzi al Signore (Neemia 8,1-6). Ecco la sacramentalità della Parola di Dio che cementa un popolo, come un solo uomo, in adorazione.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 5 all'11 dicembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer dic 12, 2012 2:07 pm


  • L'Anno della fede. Le tappe della Rivelazione
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Cari fratelli e sorelle,
nella scorsa catechesi ho parlato della Rivelazione di Dio, come comunicazione che Egli fa di Se stesso e del suo disegno di benevolenza e di amore. Questa Rivelazione di Dio si inserisce nel tempo e nella storia degli uomini: storia che diventa «il luogo in cui possiamo costatare l’agire di Dio a favore dell’umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare, e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci» (Giovanni Paolo II, Enc. Fides et ratio, 12).

L’evangelista san Marco – come abbiamo sentito - riporta, in termini chiari e sintetici, i momenti iniziali della predicazione di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Ciò che illumina e dà senso pieno alla storia del mondo e dell’uomo inizia a brillare nella grotta di Betlemme; è il Mistero che contempleremo tra poco nel Natale: la salvezza che si realizza in Gesù Cristo. In Gesù di Nazaret Dio manifesta il suo volto e chiede la decisione dell’uomo di riconoscerlo e di seguirlo. Il rivelarsi di Dio nella storia per entrare in rapporto di dialogo d’amore con l’uomo, dona un nuovo senso all’intero cammino umano. La storia non è un semplice succedersi di secoli, di anni, di giorni, ma è il tempo di una presenza che le dona pieno significato e la apre ad una solida speranza.
Dove possiamo leggere le tappe di questa Rivelazione di Dio? La Sacra Scrittura è il luogo privilegiato per scoprire gli eventi di questo cammino, e vorrei - ancora una volta - invitare tutti, in questo Anno della fede, a prendere in mano più spesso la Bibbia per leggerla e meditarla e a prestare maggiore attenzione alle Letture della Messa domenicale; tutto ciò costituisce un alimento prezioso per la nostra fede.

Leggendo l’Antico Testamento possiamo vedere come gli interventi di Dio nella storia del popolo che si è scelto e con cui stringe alleanza non sono fatti che passano e cadono nella dimenticanza, ma diventano “memoria”, costituiscono insieme la “storia della salvezza”, mantenuta viva nella coscienza del popolo d’Israele attraverso la celebrazione degli avvenimenti salvifici. Così, nel Libro dell’Esodo il Signore indica a Mosè di celebrare il grande momento della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, la Pasqua ebraica, con queste parole: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne» (12,14). Per l’intero popolo d’Israele ricordare ciò che Dio ha operato diventa una sorta di imperativo costante perché il trascorrere del tempo sia segnato dalla memoria vivente degli eventi passati, che così formano, giorno per giorno, di nuovo la storia e rimangono presenti. Nel Libro del Deuteronomio, Mosè si rivolge al popolo dicendo: «Guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita: le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (4,9). E così dice anche a noi: «Guardati bene dal dimenticare le cose che Dio ha fatto con noi». La fede è alimentata dalla scoperta e dalla memoria del Dio sempre fedele, che guida la storia e che costituisce il fondamento sicuro e stabile su cui poggiare la propria vita. Anche il canto del Magnificat, che la Vergine Maria innalza a Dio, è un esempio altissimo di questa storia della salvezza, di questa memoria che rende e tiene presente l'agire di Dio. Maria esalta l’agire misericordioso di Dio nel cammino concreto del suo popolo, la fedeltà alle promesse di alleanza fatte ad Abramo e alla sua discendenza; e tutto questo è memoria viva della presenza divina che mai viene meno (cfr Lc 1,46-55).

Per Israele, l’Esodo è l’evento storico centrale in cui Dio rivela la sua azione potente. Dio libera gli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto perché possano ritornare alla Terra Promessa e adorarlo come l’unico e vero Signore. Israele non si mette in cammino per essere un popolo come gli altri - per avere anche lui un'indipendenza nazionale -, ma per servire Dio nel culto e nella vita, per creare per Dio un luogo dove l'uomo è in obbedienza a Lui, dove Dio è presente e adorato nel mondo; e, naturalmente, non solo per loro, ma per testimoniarlo in mezzo agli altri popoli. La celebrazione di questo evento è un renderlo presente e attuale, perché l’opera di Dio non viene meno. Egli tiene fede al suo disegno di liberazione e continua a perseguirlo, affinché l’uomo possa riconoscere e servire il suo Signore e rispondere con fede e amore alla sua azione.
Dio quindi rivela Se stesso non solo nell’atto primordiale della creazione, ma entrando nella nostra storia, nella storia di un piccolo popolo che non era né il più numeroso, né il più forte. E questa Rivelazione di Dio, che va avanti nella storia, culmina in Gesù Cristo: Dio, il Logos, la Parola creatrice che è all’origine del mondo, si è incarnata in Gesù e ha mostrato il vero volto di Dio. In Gesù si compie ogni promessa, in Lui culmina la storia di Dio con l’umanità. Quando leggiamo il racconto dei due discepoli in cammino verso Emmaus, narratoci da san Luca, vediamo come emerga in modo chiaro che la persona di Cristo illumina l’Antico Testamento, l’intera storia della salvezza e mostra il grande disegno unitario dei due Testamenti, mostra la via della sua unicità. Gesù, infatti, spiega ai due viandanti smarriti e delusi di essere il compimento di ogni promessa: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (24,27). L’Evangelista riporta l’esclamazione dei due discepoli dopo aver riconosciuto che quel compagno di viaggio era il Signore: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (v. 32).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume le tappe della Rivelazione divina mostrandone sinteticamente lo sviluppo (cfr nn. 54-64): Dio ha invitato l’uomo fin dagli inizi ad un’intima comunione con Sé e anche quando l’uomo, per la propria disobbedienza, ha perso la sua amicizia, Dio non l’ha abbandonato in potere della morte, ma ha offerto molte volte agli uomini la sua alleanza (cfr Messale Romano, Pregh. Euc. IV). Il Catechismo ripercorre il cammino di Dio con l’uomo dall’alleanza con Noé dopo il diluvio, alla chiamata di Abramo ad uscire dalla sua terra per renderlo padre di una moltitudine di popoli. Dio forma Israele quale suo popolo, attraverso l’evento dell’Esodo, l’alleanza del Sinai e il dono, per mezzo di Mosè, della Legge per essere riconosciuto e servito come l’unico Dio vivo e vero. Con i profeti, Dio guida il suo popolo nella speranza della salvezza. Conosciamo - tramite Isaia - il “secondo Esodo”, il ritorno dall'esilio di Babilonia alla propria terra, la rifondazione del popolo; nello stesso tempo, però, molti rimangono nella dispersione e così comincia l'universalità di questa fede. Alla fine non si aspetta più solo un re, Davide, un figlio di Davide, ma un “Figlio d’uomo”, la salvezza di tutti i popoli. Si realizzano incontri tra le culture, prima con Babilonia e la Siria, poi anche con la moltitudine greca. Così vediamo come il cammino di Dio si allarga, si apre sempre più verso il Mistero di Cristo, il Re dell'universo. In Cristo si realizza finalmente la Rivelazione nella sua pienezza, il disegno di benevolenza di Dio: Egli stesso si fa uno di noi.

Mi sono soffermato sul fare memoria dell’agire di Dio nella storia dell’uomo, per mostrare le tappe di questo grande disegno di amore testimoniato nell’Antico e nel Nuovo Testamento: un unico disegno di salvezza rivolto all’intera umanità, progressivamente rivelato e realizzato dalla potenza di Dio, dove Dio sempre reagisce alle risposte dell'uomo e trova nuovi inizi di alleanza quando l'uomo si smarrisce. Questo è fondamentale nel cammino di fede. Siamo nel tempo liturgico dell’Avvento che ci prepara al Santo Natale. Come sappiamo tutti, il termine “Avvento” significa “venuta”, “presenza”, e anticamente indicava proprio l’arrivo del re o dell’imperatore in una determinata provincia. Per noi cristiani la parola indica una realtà meravigliosa e sconvolgente: Dio stesso ha varcato il suo Cielo e si è chinato sull’uomo; ha stretto alleanza con lui entrando nella storia di un popolo; Egli è il re che è sceso in questa povera provincia che è la terra e ha fatto dono a noi della sua visita assumendo la nostra carne, diventando uomo come noi. L’Avvento ci invita a ripercorrere il cammino di questa presenza e ci ricorda sempre di nuovo che Dio non si è tolto dal mondo, non è assente, non ci ha abbandonato a noi stessi, ma ci viene incontro in diversi modi, che dobbiamo imparare a discernere. E anche noi con la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità, siamo chiamati ogni giorno a scorgere e a testimoniare questa presenza nel mondo spesso superficiale e distratto, e a far risplendere nella nostra vita la luce che ha illuminato la grotta di Betlemme. Grazie.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 12 dicembre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 18, 2012 11:26 am


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«Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (Dei Verbum, 21; Catechismo, 107).

Il numero della Dei Verbum citato e ripreso dal Catechismo è di capitale importanza sulla questione della verità biblica poiché la rapporta, in modo chiaro, alla nostra salvezza. In gioco non è soltanto la storicità dei Vangeli, bensì la loro finalità. Più innanzi il Catechismo distingue molto bene le tre fasi che nella composizione storica dei Vangeli: la vita e la predicazione di Gesù; la tradizione orale delle prime comunità cristiane; e i Vangeli scritti (n.126). Ignorare queste tre tappe significa creare pericolosi cortocircuiti sulla verità storica dei Vangeli. Non c'è episodio dei Vangeli che non rifletta le tre fasi menzionate, per cui appigliarsi sulle discordanze dei Vangeli sullo stesso episodio significa banalizzarli e strumentalizzare le fatiche della secolare ricerca esegetica. Che poi Benedetto XVI sia contrario al metodo storico-critico, come sostengono alcuni, è un pregiudizio infondato. Basta soffermarsi sulla Verbum Domini, n.19, per accorgersene: «Certamente la riflessione teologica ha sempre considerato ispirazione e verità come due concetti chiave per un'ermeneutica ecclesiale delle Sacre Scritture. Tuttavia, si deve riconoscere l'odierna necessità di un approfondimento adeguato di queste realtà, così da poter rispondere meglio alle esigenze riguardanti l'interpretazione dei testi sacri secondo la loro natura. In tale prospettiva formulo il vivo auspicio che la ricerca in questo campo possa progredire e porti frutto per la scienza biblica e per la vita spirituale dei fedeli». L'attuale Pontefice non ha mai delegittimato il metodo storico-critico, bensì ne ha riconosciuto l'importanza e, nello stesso tempo, i limiti (che sono naturali). Tirare in ballo gli studiosi del Nuovo Testamento per contrastare i volumi di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret è poco rispettoso, anche nei loro confronti.

  • Abramo, nostro padre nella fede
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«Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» ( Eb 11,8; Catechismo, 145).

Nell'elogio della fede, La Lettera agli Ebrei insiste in particolar modo su Abramo: attraversa tutta la sua vita, sino al sacrificio d'Isacco. Prima di Abramo non si parla della fede in Genesi e, a giusto titolo, è considerato nostro padre nella fede. In lui le tre grandi religioni monoteistiche – l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam – trovano la comune radice della fede intesa come obbedienza che nasce dall'ascolto. La storia della fede inizia con Abramo e giunge sino a coloro che, come lui, si fidano senza condizioni di Dio. La sua fede granitica inizia con la richiesta di abbandonare le sicurezze del suo paese per diventare nomade in terra straniera. Questa è stata messa a dura prova quando, di fronte alla promessa di una discendenza innumerevole, non ha ancora il figlio della promessa. E allorché riceve Isacco, gli è chiesto di offrirlo in sacrificio. Sbalordisce la fede di Abramo, disposto a sacrificare l'unico figlio della promessa fatta da Dio. Grandi filosofi e teologi si sono soffermati sull'obbedienza di Abramo poiché la normale fede non giunge a un gesto così estremo. Naturale è che qualsiasi genitore cerchi di tranquillizzare il figlio o la figlia che lo interroghino sul sacrificio d'Isacco, rispondendo che non li avrebbe mai sacrificati in nome della fede. Ma la risposta più profonda è di Origene: «Per noi avviciniamo le parole dell'Apostolo, dove dice di Dio: Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma per noi tutti lo ha consegnato (Romani 8,32). Vedi come Dio gareggia magnificamente in generosità con gli uomini: Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale, senza che questi morisse; Dio ha consegnato alla morte il Figlio immortale per gli uomini». Il sacrificio d'Isacco anticipa quello della croce di Cristo, dove qualsiasi sacrificio umano è sorpassato da quello del Figlio di Dio. Sulla croce Gesù non è il semplice capro espiatorio che sostituisce i sacrifici umani o di animali, ma è il Figlio che dona se stesso per la salvezza del mondo. Questo è il mistero della croce. Qualsiasi altra risposta è meglio non darla per non banalizzare la fede di Abramo!

  • La fede come incontro
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«Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (Gen 15,6; Rm 4,3; Catechismo, 146).

Prima di essere risposta dell'uomo a Dio, la fede è incontro. Purtroppo spesso bypassiamo questo dato centrale e riduciamo la fede alla convinzione che ognuno si costruisce secondo il proprio modo di pensare. Così emerge l'accezione tipicamente occidentale della pístis, ovvero della fede come persuasione o convinzione. L'episodio evocato dall'espressione di Genesi 15,6 sposta invece l'attenzione su un'altra visione della fede intesa come emunáh, ossia come fiducia, affidabilità, fedeltà, credibilità e affidamento. La fede di Abramo nasce dall'incontro che Dio stabilisce con lui nella prima alleanza. Al centro dell'alleanza c'è, da una parte, la fedeltà di Dio e, dall'altra, la fede fiduciale di Dio. Sino a Genesi 15 Abramo aveva ricevuto soltanto la promessa per una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Finalmente con l'alleanza che il Signore gli propone, Abramo esprime la propria fede nel Signore. Questa fiducia gli è accreditata come giustizia, nel senso che, compromettendosi con lui, il Signore si dichiara in debito con la promessa fattagli. Conseguenza dell'incontro tra la fedeltà di Dio e la fede di Abramo è la giustizia, da intendere però non come "dare a ciascuno il suo", secondo la definizione giuridica di Ulpiano, bensì come giustificazione e azione gratuita del Signore nel confronti di Abramo. Così la fede di Abramo nasce dalla parola promessa dal Signore e approda nella certezza che Egli non viene mai meno alle sue promesse. Per secoli si è pensato che il Giudaismo fosse religione della Legge e delle opere, mentre il Cristianesimo religione della grazia e della fede. L'assunto è semplicemente infondato poiché Abramo non ebbe bisogno della Legge per credere nel Signore; e quando questa giunge con annulla la promessa fondata sulla fedeltà della Parola di Dio, ma rientra sempre nell'alleanza stabilita con Abramo. A una fede reclinata su se stessi come persuasione personale, Abramo testimonia la fede come espressione dell'incontro tra la fedeltà di Dio che si compromette e la fiducia dell'uomo che aderisce all'alleanza mai revocata. Gesù Cristo è l'incontro definitivo tra la fedeltà di Dio e la fiducia dell'uomo.

  • La lotta della fede
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«Il Popolo d'Israele non pronuncia il Nome di Dio, per rispetto alla sua santità" (Catechismo, 209).

Per l'ebreo credente all'origine del nome impronunciabile di Dio c'è l'episodio della lotta tra Giacobbe e l'uomo misterioso presso il guado del fiume Iabbok (Genesi 32,23-33). La lotta è senza tregua: attraversa la notte sino all'alba, quando Giacobbe riesce finalmente ad avere la meglio sul nemico. Allora l'uomo misterioso gli chiede di lasciarlo andare e Giacobbe gli chiede di benedirlo. L'uomo lo benedice e gli cambia il nome: non si chiamerà più "Giacobbe", ma "Israele" perché ha combattuto con Dio e con gli uomini, sino a prevalere. A questo punto Giacobbe gli chiede il nome, ma l'uomo non risponde e come segno della lotta lo colpisce al nervo sciatico. Nella storia umana sono stati dati molti nomi a Dio, ma quello d'Israele non ha un nome e quando si rivela nella storia della salvezza il suo diventa un nome relazionale che non lo identifica in quanto tale. YHWH è il Tetragramma sacro che non può essere vocalizzato affinché non sia pronunciato ed è reso con "Signore", "Onnipotente", il Nome, il Luogo, i Cieli. Gesù ha rivelato il nome di Dio: "Abba, Padre!" (Marco 14,36) e ha insegnato ai discepoli a chiamarlo "Padre nostro…". Dio è luce e amore sostiene la 1Giovanni 1,5; 4,8. Tuttavia si tratta nuovamente di un nome relazionale e non proprio di persona. L'elenco dei novantanove nomi di Allah nel Corano inizia con Il Misericordioso e si chiude con Il Paziente: tuttavia manca proprio "Padre", nel timore infondato d'identificarlo con un nome proprio. Ogni persona umana è alla ricerca del Nome, ma più lo cerca più avverte lo stiramento violento del nervo sciatico ed è costretto, come Giacobbe, a zoppicare per tutta la vita. La fede non è possesso del Nome, ma è lotta sino all'alba. Questo vale per chiunque si accosti al Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento. Altrimenti si cade nell'idolatria, nella presunzione dell'io di fronte a Dio, mentre si è incapaci persino di stare di fronte a se stessi. «Todo hombre tiene dos/ batallas que pelear!:/ en sueños lucha con Dios;/ y despierto con el mar» (A. Machado).

  • Così si presenta il Dio dei viventi
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«Dio chiama Mosè dal mezzo di un roveto che brucia senza consumarsi, e gli dice: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe"» (Es 3,6; Catechismo 205).

La vocazione di Mosè, raccontata in Esodo 3,1-4,16, è la più combattuta di tutta la Sacra Scrittura: tra il Signore che si rivela nel roveto ardente e Mosè che non è disposto a partire per condurre il popolo d'Israele verso la liberazione dall'Egitto. L'incontro tra il Signore e Mosè sul monte Oreb è un intercalarsi di rivelazioni e di obiezioni. All'inizio del dialogo, Mosè invitato a togliersi i sandali per restare a piedi nudi perché il luogo che sta calpestando è santo. Il profeta comprende e si copre il volto perché il Signore non si può vedere faccia a faccia. Da una parte il Dio dei patriarchi, dall'altra Mosè che gli chiede il Nome. A un certo punto il Signore sembra accontentarlo e gli dice «Io sono Colui che sono». Ma Mosè intuisce il gioco perché "Io sono colui che sono" significa tutto e niente: "Colui che è", "che diviene", "che giunge", "che è presente". Durante l'interminabile dialogo, il Signore consegna a Mosè alcuni segni che garantiscono la sua Presenza in mezzo al suo popolo. Ma Mosè è ostinato e non vuol partire; si arrende soltanto quando il Signore gli mostra la sua collera. In occasione della discussione con i sadducei sulla risurrezione dei morti, Gesù torna sull'evento del roveto per sostenere che «il Dio di Abramo, d'Isacco e Giacobbe è non dei morti, ma dei viventi perché tutto vivono per Lui» (Luca 20,27-38). Credere nel Dio dei patriarchi conduce alla fede nella risurrezione perché Egli è il Vivente. Soltanto in Gesù Cristo il velo di Mosè è finalmente tolto, poiché i credenti in lui riconoscono che la Gloria di Dio si riflette nel volto di Cristo (2 Corinzi 4,5-6). All'episodio del roveto allude anche il Memoriale che Pascal portò cucito sul suo abito fino alla morte e che fu scoperto, in seguito, dal suo domestico: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo».

  • Il dramma e la meraviglia della fede
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«Con Giobbe, il giusto, noi confessiamo: "Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te"" (Gb 42,2; Catechismo, 275)

Il dramma di Giobbe è una delle perle più preziose della Sacra Scrittura. Riflette la storia di un uomo, messo a dura prova per la sua fede in Dio. Giobbe perde tutti i suoi beni e i familiari restando senza nulla e colpito dalla malattia. I suoi amici cercano di giustificare le sue sventure ricorrendo al principio della retribuzione divina per i peccati di ognuno. Ma Giobbe non ha peccato e chiama in causa Dio stesso. Finalmente Dio si rivela in modo misterioso e instaura con Giobbe un dialogo di altissimo lirismo sui disegni imperscrutabili della sua volontà. Il libro culmina con la confessione di Giobbe, ripresa dal Catechismo, che prosegue: «Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me che non comprendo… Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Giobbe 42,4-5). La letteratura di tutti i tempi si è ispirata al libro di Giobbe e l'ha riscritto attualizzandolo nelle situazioni più drammatiche. Lo ha riscritto J. Roth con Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. Più drammatica è la riscrittura compiuta da Zvi Kolitz con il suo Yossl Rakover si rivolge a Dio, nel contesto del ghetto di Varsavia. Anche Yossl chiama in causa Dio per la sventura della Shoah che ha colpito la sua famiglia. Questa volta però il testo si chiude non con la ricompensa terrena, bensì con la una terribile contestazione di Dio: «Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un'incrollabile fede in Te». Ai cristiani è affidata la profonda riflessione della Lettera agli Ebrei 5,7 sulla passione di Gesù: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva salvarlo dalla morte, e fu esaudito per la sua pietà». Il Padre ha esaudito il Figlio non evitandogli la passione e la morte, ma per la sua pietà intesa come affidamento totale alla Sua volontà. Attraverso la morte di croce il Padre ha risposto con la risurrezione, ma il grido del Figlio resta con tutto il suo interrogativo e si fa carico di ogni nostra incomprensione. Spesso la fede è fatta più di domande che di risposte scontate.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 12 al 18 dicembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio dic 20, 2012 4:34 pm


  • L'Anno della fede. Maria Vergine: Icona della fede obbediente
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Cari fratelli e sorelle,
nel cammino dell’Avvento la Vergine Maria occupa un posto particolare come colei che in modo unico ha atteso la realizzazione delle promesse di Dio, accogliendo nella fede e nella carne Gesù, il Figlio di Dio, in piena obbedienza alla volontà divina. Oggi vorrei riflettere brevemente con voi sulla fede di Maria a partire dal grande mistero dell’Annunciazione.

«Chaîre kecharitomene, ho Kyrios meta sou», «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). Sono queste le parole - riportate dall’evangelista Luca – con cui l’arcangelo Gabriele si rivolge a Maria. A prima vista il termine chaîre, “rallegrati”, sembra un normale saluto, usuale nell’ambito greco, ma questa parola, se letta sullo sfondo della tradizione biblica, acquista un significato molto più profondo. Questo stesso termine è presente quattro volte nella versione greca dell’Antico Testamento e sempre come annuncio di gioia per la venuta del Messia (cfr Sof 3,14; Gl 2,21; Zc 9,9; Lam 4,21). Il saluto dell’angelo a Maria è quindi un invito alla gioia, ad una gioia profonda, annuncia la fine della tristezza che c’è nel mondo di fronte al limite della vita, alla sofferenza, alla morte, alla cattiveria, al buio del male che sembra oscurare la luce della bontà divina. E’ un saluto che segna l’inizio del Vangelo, della Buona Novella.

Ma perché Maria viene invitata a rallegrarsi in questo modo? La risposta si trova nella seconda parte del saluto: “il Signore è con te”. Anche qui per comprendere bene il senso dell’espressione dobbiamo rivolgerci all’Antico Testamento. Nel Libro di Sofonia troviamo questa espressione «Rallégrati, figlia di Sion,… Re d’Israele è il Signore in mezzo a te… Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente» (3,14-17). In queste parole c’è una duplice promessa fatta ad Israele, alla figlia di Sion: Dio verrà come salvatore e prenderà dimora proprio in mezzo al suo popolo, nel grembo della figlia di Sion. Nel dialogo tra l’angelo e Maria si realizza esattamente questa promessa: Maria è identificata con il popolo sposato da Dio, è veramente la Figlia di Sion in persona; in lei si compie l’attesa della venuta definitiva di Dio, in lei prende dimora il Dio vivente.

Nel saluto dell’angelo, Maria viene chiamata “piena di grazia”; in greco il termine “grazia”, charis, ha la stessa radice linguistica della parola “gioia”. Anche in questa espressione si chiarisce ulteriormente la sorgente del rallegrarsi di Maria: la gioia proviene dalla grazia, proviene cioè dalla comunione con Dio, dall’avere una connessione così vitale con Lui, dall’essere dimora dello Spirito Santo, totalmente plasmata dall’azione di Dio. Maria è la creatura che in modo unico ha spalancato la porta al suo Creatore, si è messa nelle sue mani, senza limiti. Ella vive interamente della e nella relazione con il Signore; è in atteggiamento di ascolto, attenta a cogliere i segni di Dio nel cammino del suo popolo; è inserita in una storia di fede e di speranza nelle promesse di Dio, che costituisce il tessuto della sua esistenza. E si sottomette liberamente alla parola ricevuta, alla volontà divina nell’obbedienza della fede.

L’Evangelista Luca narra la vicenda di Maria attraverso un fine parallelismo con la vicenda di Abramo. Come il grande Patriarca è il padre dei credenti, che ha risposto alla chiamata di Dio ad uscire dalla terra in cui viveva, dalle sue sicurezze, per iniziare il cammino verso una terra sconosciuta e posseduta solo nella promessa divina, così Maria si affida con piena fiducia alla parola che le annuncia il messaggero di Dio e diventa modello e madre di tutti i credenti.

Vorrei sottolineare un altro aspetto importante: l’apertura dell’anima a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio colui che - come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come profeticamente dirà il vecchio Simeone a Maria, al momento in cui Gesù viene presentato al Tempio (cfr Lc 2,35). Il cammino di fede di Abramo comprende il momento di gioia per il dono del figlio Isacco, ma anche il momento dell’oscurità, quando deve salire sul monte Moria per compiere un gesto paradossale: Dio gli chiede di sacrificare il figlio che gli ha appena donato. Sul monte l’angelo gli ordina: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito» (Gen 22,12); la piena fiducia di Abramo nel Dio fedele alle promesse non viene meno anche quando la sua parola è misteriosa ed è difficile, quasi impossibile, da accogliere. Così è per Maria, la sua fede vive la gioia dell’Annunciazione, ma passa anche attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione.

Non è diverso anche per il cammino di fede di ognuno di noi: incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche passaggi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia - come Abramo e come Maria - tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.

Vorrei soffermarmi ancora su un aspetto che emerge nei racconti sull’Infanzia di Gesù narrati da san Luca. Maria e Giuseppe portano il figlio a Gerusalemme, al Tempio, per presentarlo e consacrarlo al Signore come prescrive la legge di Mosé: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» (cfr Lc 2,22-24). Questo gesto della Santa Famiglia acquista un senso ancora più profondo se lo leggiamo alla luce della scienza evangelica di Gesù dodicenne che, dopo tre giorni di ricerca, viene ritrovato nel Tempio a discutere tra i maestri. Alle parole piene di preoccupazione di Maria e Giuseppe: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», corrisponde la misteriosa risposta di Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose del Padre mio?» (Lc 2,48-49). Cioè nella proprietà del Padre, nella casa del Padre, come lo è un figlio. Maria deve rinnovare la fede profonda con cui ha detto «sì» nell’Annunciazione; deve accettare che la precedenza l’abbia il Padre vero e proprio di Gesù; deve saper lasciare libero quel Figlio che ha generato perché segua la sua missione. E il «sì» di Maria alla volontà di Dio, nell’obbedienza della fede, si ripete lungo tutta la sua vita, fino al momento più difficile, quello della Croce.

Davanti a tutto ciò, possiamo chiederci: come ha potuto vivere Maria questo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione di Dio? C’è un atteggiamento di fondo che Maria assume di fronte a ciò che avviene nella sua vita. Nell’Annunciazione Ella rimane turbata ascoltando le parole dell’angelo - è il timore che l’uomo prova quando viene toccato dalla vicinanza di Dio –, ma non è l’atteggiamento di chi ha paura davanti a ciò che Dio può chiedere. Maria riflette, si interroga sul significato di tale saluto (cfr Lc 1,29). Il termine greco usato nel Vangelo per definire questo “riflettere”, “dielogizeto”, richiama la radice della parola “dialogo”. Questo significa che Maria entra in intimo dialogo con la Parola di Dio che le è stata annunciata, non la considera superficialmente, ma si sofferma, la lascia penetrare nella sua mente e nel suo cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da lei, il senso dell’annuncio. Un altro cenno all’atteggiamento interiore di Maria di fronte all’azione di Dio lo troviamo, sempre nel Vangelo di san Luca, al momento della nascita di Gesù, dopo l’adorazione dei pastori. Si afferma che Maria «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19); in greco il termine è symballon, potremmo dire che Ella “teneva insieme”, “poneva insieme” nel suo cuore tutti gli avvenimenti che le stavano accadendo; collocava ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto all’interno del tutto e lo confrontava, lo conservava, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio. Maria non si ferma ad una prima comprensione superficiale di ciò che avviene nella sua vita, ma sa guardare in profondità, si lascia interpellare dagli eventi, li elabora, li discerne, e acquisita quella comprensione che solo la fede può garantire. E’ l’umiltà profonda della fede obbediente di Maria, che accoglie in sé anche ciò che non comprende dell’agire di Dio, lasciando che sia Dio ad aprirle la mente e il cuore. «Beata colei che ha creduto nell’adempimento della parola del Signore» (Lc 1,45), esclama la parente Elisabetta. E’ proprio per la sua fede che tutte le generazioni la chiameranno beata.

Cari amici, la solennità del Natale del Signore che tra poco celebreremo, ci invita a vivere questa stessa umiltà e obbedienza di fede. La gloria di Dio non si manifesta nel trionfo e nel potere di un re, non risplende in una città famosa, in un sontuoso palazzo, ma prende dimora nel grembo di una vergine, si rivela nella povertà di un bambino. L’onnipotenza di Dio, anche nella nostra vita, agisce con la forza, spesso silenziosa, della verità e dell’amore. La fede ci dice, allora, che l’indifesa potenza di quel Bambino alla fine vince il rumore delle potenze del mondo.
  • papa Benedetto XVI, mercoledì 19 dicembre 2012
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 21, 2012 3:17 pm


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«La Vergine Maria realizza nel modo più perfetto l'obbedienza della fede» (Catechismo, 148).

Tra la fede di Abramo e quella di Maria c'è un legame profondo, stabilito dall'annuncio che a entrambi è dato di una nascita incredibile. In occasione della visita dei tre angeli alle querce di Mamre è promessa la nascita di un figlio, nonostante la vecchiaia di Abramo e Sara: «C'è forse qualcosa d'impossibile per il Signore?» (Genesi 18,14). La stessa affermazione è detta dall'angelo Gabriele a Maria: «Nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). L'Annunciazione a Maria è il momento della sua vocazione e della sua rivelazione che vede l'intrecciarsi di tutta la storia della salvezza, segnata dall'impossibile possibilità di Dio. I contatti più sostanziali si verificano tra l'annunzio a Gedeone e quello a Maria: entrambi sono visitati dal saluto dell'angelo, sono turbati, replicano per la loro piccolezza, diventano strumenti della salvezza d'Israele e sono assicurati da un segno inviato dal Signore (cf. Giudici 6,11-24; Luca 1,26-38). Ma mentre Gedeone è salutato come uomo forte, Maria è riconosciuta come piena di grazia. E la risposta di Maria è incredibile, come la proposta dell'angelo: «Ecco la schiava (e non semplicemente "la serva") del Signore, avvenga per me secondo la tua parola» (Luca 1,38). La fede di Maria, nasce dall'ascolto della Parola e approda nell'obbedienza: un'obbedienza qualificata o avvolta dalla fede. Purtroppo spesso la nostra fede non soltanto s'identifica con il nostro modo di pensare e non di ascoltare, ma non sfocia nell'obbedienza. Uno dei commenti più appropriati alla fede di Abramo e di Maria è di Kierkegaard in Timore e Tremore: «Maria non ha bisogno dell'ammirazione del mondo, così come Abramo non ha bisogno delle lacrime: perché ella non è un'eroina, né egli un eroe. Ma ambedue divennero ancor più grandi degli eroi non col fuggire la sofferenza, le pene, il paradosso, bensì per via di essi». Per accostarsi alla fede obbediente di Maria, andrebbe riscoperto L'annuncio a Maria di Paul Claudel, dopo la sua conversione: «Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire? Così Violaine, tutta pronta, segue la mano che prende la sua».

  • Beata colei che ha creduto
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Elisabetta la salutò così: «Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Per questa fede tutte le generazioni la chiameranno beata (Cf Lc 1,48; Catechismo, 148).

Prima che all'inizio della sua vita pubblica Gesù pronunziasse le Beatitudini per i poveri, gli affamati, coloro che piangono e sono disprezzati a causa sua (cf. Luca 6,20-23), quella fede della Madre è la chiave di volta di tutte le beatitudini. Purtroppo talvolta le Beatitudini sono state viste come l'oppio dei popoli, il narcotismo della fede che lascia gli uomini in condizione di passività o di sottomissione sociale. Al contrario, le Beatitudini sono la carta più rivoluzionaria che sia stata dettata nella storia umana, poiché sospingono i destinatari ad andare avanti nonostante gli ostacoli che incontrano. Dio è dalla loro parte e si prende cura delle loro povertà, a condizione che non perdano la fede nella realizzazione della sua Parola. Senza la prima beatitudine di Maria, le altre Beatitudini rischiano di appiattirsi sul sociale, mentre nascono dalla fede e sono capaci di trasformare le sorti degli uomini. Tutte le generazioni continuano a chiamarla beata perché il Signore ha guardato l'umiltà della sua schiava (cf. Luca 1,48). Il Magnificat cantato da Maria anticipa il rovesciamento che Dio realizza nella storia umana: Egli disperde i superbi, rovescia i potenti dai troni, rimanda a mani vuote i ricchi, mentre innalza gli umili e ricolma di beni gli affamati (cf. Luca 1,46-55). La vita di Maria è una costante testimonianza dei capovolgimenti che Dio realizza nella storia umana, perché le Beatitudini non riguardano un futuro lontano ma si realizzano nell'oggi di quanti, contro tutte avversità, sentono che Dio è dalla loro parte. Nel 1979 la Conferenza episcopale latinoamericana, riunita a Puebla, stilò un documento capace di accogliere le istanze dell'Evangeli nuntiandi di Paolo VI: «Il Magnificat è lo specchio dell'anima di Maria. In questo poema raggiunge il suo punto culminante la spiritualità dei poveri di Jhvh e il profetismo dell'Antica Alleanza. È il cantico che annuncia il nuovo vangelo di Cristo, è il preludio del Discorso della Montagna».

  • La fede semplice dei pastori
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«L'angelo ha annunziato ai pastori la nascita di Gesù come quella del Messia promesso a Israele: "Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore che è il Cristo Signore"» (Lc 2,11; Catechismo, 437).

Il mistero dell'Annunciazione, che ha messo a dura prova la fede di Maria, si ripercuote per i pastori in occasione della nascita di Gesù. Non sono degli sprovveduti i pastori che ricevono per primi la notizia del Salvatore, ma persone che, raggiunte dalla gloria di Dio, discutono prima di mettersi in viaggio. Tipici del vangelo di Luca sono gli avverbi "oggi" e "senza indugio" o "in fretta". L'oggi s'impone per l'adempimento della Scrittura realizzato da Gesù nella sinagoga di Nazaret, in occasione dell'incontro con Zaccheo a Gerico (Luca 19,5.9) e della salvezza assicurata al buon ladrone (Luca 23,43). Ogni incontro con lui è carico di salvezza che si realizza nell'oggi hic et nunc e non domani. A sua volta, la risposta umana è caratterizzata dal "senza indugio". In fretta i pastori si recano a Betlemme per verificare quanto è stato annunciato dall'angelo, come in fretta Maria si è recata da Elisabetta (Luca 1,39) e "prontamente" Zaccheo risponde alla salvezza offertagli da Gesù (Luca 19,6). Una volta giunti a Betlemme i pastori constatano il segno: un bambino avvolto in fasce nella mangiatoia. La fede non è soltanto dono di grazia, ma anche dono semplice. Purtroppo tutte le cose più semplici sono anche le più difficili da trovare. Naturalmente, la semplicità di cui parliamo non va confusa con l'ingenuità, né con la superficialità. In tutta la ricerca affannosa della fede bisogna conservare un cuore semplice, altrimenti si nasconde e non si trova mai. Così i pastori possono tornare alle loro greggi glorificando e lodando Dio. La meraviglia per le piccole cose accompagna la loro fede. Quando Gesù sarà adulto loderà Dio, Padre Signore del cielo e della terra perché ai piccoli rivela i segreti del Regno, mentre li nasconde ai sapienti e ai dotti (Matteo 11,25-26). Detto in modo inverso: i sapienti che non sanno farsi piccoli non s'accorgono delle piccole cose che osservano i pastori. In questione non è il fanciullino di pascoliana memoria, ma Il Dio delle piccole cose di Arundathy Roy (Booker Price 1997).

  • La fede dei Magi in cammino
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«In questi "Magi", che rappresentano le religioni pagane circostanti, il Vangelo vede le primizie delle nazioni che nell'Incarnazione accolgono la Buona Novella della salvezza» (Catechismo, 528).

La fede è anzitutto dono che Dio offre a chi, dove e quando vuole: non può essere rinchiusa nel recinto di un gruppo etnico o religioso. Per questo spesso si verifica che chi cerca la fede non la trovi, come Erode, mentre chi non la cerca la trova, come i Magi. Mentre si discute sulla loro identità, i nome e le origine, interroghiamoci sull'importanza che nel Vangelo di Matteo è data ai Magi (Matteo 2,1-12). I Magi sono stranieri che non conoscono la Sacra Scrittura, né hanno mai sentito parlare di Betlemme. Tuttavia, con loro si realizzano le profezie dell'Antico Testamento: «Una stella spunta da Giacobbe» (Numeri 24,17); «Uno stuolo di cammelli t'invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclameranno le glorie del Signore» (Isaia 60,6). Nello stesso tempo l'episodio dei Magi anticipa l'inizio della vita pubblica di Gesù, quando andando ad abitare a Cafarnao, nella «Galilea delle Genti», «il popolo che cammina nelle tenebre vede una grande luce, per quelli che abitano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Matteo 4,15-16). Quella raccontata da Matteo non è una fiaba per bambini, bensì realizza e anticipa l'universalismo della salvezza che passa non soltanto per Israele, ma si estende a tutti gli uomini del mondo. Bisogna raggiungere il secondo miracolo compiuto da Gesù verso il servo del centurione, per rendersi conto del dramma che l'episodio veicola: «Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori...» (Matteo 8,11). L'universalismo della salvezza passa non soltanto per la divinità (l'incenso), la regalità (l'oro) di Gesù, ma necessariamente per la mirra, utilizzata per imbalsamare i defunti. Nell'orizzonte si stagliano la morte e la sepoltura di Gesù con cui la salvezza universale è aperta a tutti. La comunità di Matteo ha vissuto questo prodigio della fede che passa attraverso la terra d'Israele ma, nello stesso tempo, li sopravanza.

  • Serbare tutto nel proprio cuore
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«Maria e Giuseppe "non compresero" queste parole, ma le accolsero nella fede, e Maria "serbava tutte queste cose nel suo cuore" ( Lc 2,51 )» (Catechismo, 534).

Con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si compie la propria professione di fede per ottenere la salvezza (cf. Romani 10,10). Anzitutto il cuore, poiché mentre l'uomo è ammaliato dall'aspetto, Dio conosce e guarda il cuore. L'atteggiamento che più di tutti caratterizza Maria, durante l'infanzia di Gesù, coinvolge il suo cuore. In occasione della visita dei pastori, Maria custodisce tutte le cose che dicono del figlio, meditandole nel suo cuore (cf. Luca 2,19). E mentre vede il figlio crescere in sapienza e grazia, lei continua a custodire tutto nel cuore (cf. Luca 2,51). Il cuore non è semplicemente la sede dei sentimenti, ma della meditazione e della custodia di quanto si verifica ogni giorno nella propria vita. Più che altrove, nel cuore si compiono le scelte più intime che soltanto Dio conosce e vaglia. La fede nasce da uno cuore docile, aperto alla volontà di Dio e capace di scegliere. Che il cuore non si riduca a sentimenti, ma orienti verso le scelte da compiere lo rivela il vecchio Simeone a Maria: «Ecco egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l'anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2,34-35). Nel momento più drammatico della sua esistenza, la fede di Maria resta incrollabile: ai piedi della croce la spada trafigge la sua anima, ma il suo cuore resta indiviso. Un cuore capace di meditare e di custodire è la porta interiore della fede. Per questo la più grande tentazione è la sfiducia nella Parola di Dio, quando satana cerca di strapparla dal cuore dei credenti: «I semi lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, affinché non avvenga che, credendo, siano salvati» (Luca 8,12). Al tentatore non interessa più di tanto il corpo dei credenti, ma il cuore dove la Parola spera di attecchire per produrre il frutto.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 19 al 23 dicembre 2012
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Su proposta del Card. Angelo Comastri

Messaggio da Grazia Cuffari » gio dic 27, 2012 6:49 pm

Riporto le parole del Card. Angelo Comastri che, per l' Anno della fede, così si rivolge a un gruppo di persone,sparse nel mondo, molte delle quali, sofferenti nel fisico, ma ricche di slancio spirituale e facenti parte dell'Associazione "Briciole":

CITTA' DEL VATICANO
Vi propongo una poesia di Trilussa, un poeta romanesco che piaceva tanto a Giovanni Paolo I; tant'è vero che citò in udienza a memoria un sonetto sulla Fede.
Trilussa immagina la Fede come una vecchietta cieca e scrive:

" Quella vecchietta cieca che incontrai, la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: - Se la strada nun la sai, te ciaccompagno io che la conosco.
Se ciai la forza di venirmi appresso, de tanto in tanto te darò 'na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso, fino là in cima, dove c'è la Croce...
Io risposi: -Sarà... ma trovo strano che me possa guidar chi nun ce vede...
La cieca allora me pijò la mano e sospirò: - Cammina! -
ERA LA FEDE"

E continua ancora il Cardinale :
Siamo tutti nel bosco, siamo tutti un po' sperduti nel bosco della vita, c'è soltanto questa vecchietta cieca che ci può guidare.
E' l' umiltà che ci apre alla fede. Anche a noi la cieca, prendendoci per mano e sospirando, dice"Cammina!". E' la FEDE ! Per impararla abbiamo una maestra stupenda:MARIA". Ascoltiamola spesso !
Diventeremo più credenti ! Santo Natale ! Vi benedico
Angelo Card. Comastri Arciprete della Basilica Papale di San Pietro
Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 31, 2012 2:35 pm


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«Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4-5; Catechismo, 422).

Nelle sue lettere Paolo non menziona mai il nome della Madre di Gesù, ma nella proposizione di Galati 4,4-5 è condensato il contenuto centrale della fede cristiana. Per questo il Catechismo colloca la citazione paolina all'inizio della sezione dedicata alla fede nell'unico Figlio di Dio e torna più volte sulla pienezza del tempo. In epoca antica non erano stati ancora inventati gli orologi a muro o da polso. Il tempo era calcolato mediante il riempimento di anfore che, una volta giunte fino all'orlo, venivano svuotate per scandire le ore e i giorni. A questa realtà quotidiana allude Paolo quando parla della pienezza del tempo. Per rendere l'idea si osservi, per il tempo che occorre, una clessidra. Progressivamente la parte superiore si svuota sino all'ultimo granello di sabbia; poi una volta capovolta ricomincia d'accapo. Restando nella metafora, l'ultimo granello è occupato da Maria che porta in grembo il Figlio di Dio: lei è l'ultimo e il primo granello della clessidra. Con la sua fede, Maria occupa l'ultimo e il primo posto nella scansione del tempo perché senza il suo grembo Dio non avrebbe, di fatto, inviato il suo unico Figlio nel mondo e, con lui, lo Spirito del Figlio che grida nei nostri cuori: «Abba, Padre» (Gal 4,6). Qui sta tutto il mistero della fede nella Maternità verginale di Maria che la Chiesa celebra all'inizio di ogni anno. Maria è la theotókos: colei che nel tempo genera il Figlio di Dio permettendo all'eternità di farsi tempo e di scandirlo. Il commento più appropriato al passo di San Paolo lo propone, da par suo, Martin Lutero: «Non è stata la pienezza del tempo a causare l'invio del Figlio, ma al contrario è stato l'invio del Figlio a causare la pienezza del tempo». Di questa pienezza dei giorni, dei mesi e degli anni, Maria entra a far parte perché, per vocazione, è piena di grazia.

  • Qualunque cosa vi dica, fatela!
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«La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce l'unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia» (Catechismo, 970).

Secondo il vangelo di Giovanni, il primo segno (e non soltanto il primo miracolo), compiuto da Gesù, è quello di Cana, dov'è invitato con la Madre e i suoi discepoli a una festa nuziale. A un certo punto viene a mancare il vino e le nozze rischiano di finire in malo modo. Quando la Madre osserva che il vino scarseggia, Gesù replica che la questione non li riguarda: «Che cosa (interessa) a me e a te? Non è ancora giunta la mia ora» (Giovanni 2,4). Come andò a finire la storia è nota a tutti, ma il cambiamento dell'acqua in vino è causato dalla Madre di Gesù: «Qualunque cosa vi dica, fatela!». Nell'occasione Maria svolge il ruolo di mediatrice fra i servi che riempiono le sei idrie d'acqua e Gesù. Tuttavia, la sua mediazione non è di una Dea, né tanto meno di una semidea che s'interpone tra Dio e gli uomini. Piuttosto è la mediazione di una madre che, come tutte le madri, s'accorge che qualcosa non va per il verso giusto nella vita degli uomini. Ma più di qualsiasi madre, soltanto lei può e riesce a ottenere che il Figlio anticipi la sua ora rispetto alla scadenza prevista nel disegno di Dio, che è quella della passione. L'ora di cui stiamo parlando non è di una giornata qualsiasi, ma è l'ora della salvezza e della rivelazione definitiva dell'amore di Gesù per gli uomini: quella che inizia prima della festa di Pasqua e si chiude con la simultanea morte di croce e la consegna dello Spirito (Giovanni 19,30): «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Giovanni 13,1). Alle sei idrie d'acqua, riempite fino all'orlo dai servi delle nozze di Cana, manca una perché raggiungano il numero perfetto: quella della pienezza del tempo di cui Maria fa parte (cf. Galati 4,4) e che Gesù identifica come l'ora della fine e del compimento.

  • Giuseppe, l'uomo giusto
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«Giuseppe è stato chiamato da Dio a "prendere" con sé "Maria" sua "sposa", incinta di "quel che è generato in lei... dallo Spirito Santo» (Mt 1,20), affinché Gesù, "chiamato Cristo", nasca dalla sposa di Giuseppe nella discendenza messianica di Davide» (Catechismo, 437).

Tutt'altro che giusto, nel senso abituale del termine, è Giuseppe, lo sposo di Maria. Giusto sarebbe piuttosto chi, in osservanza della Legge mosaica, espone la propria donna alla pubblica condanna se è incinta di qualcun Altro. Eppure Giuseppe è definito giusto con un significato ben più profondo. Giusto è nel vangelo di Matteo chi cerca la volontà di Dio in qualsiasi situazione, soprattutto quando non riesce a decifrarla. Nella ricerca della giustizia così intesa, Giuseppe è il gigante della fede che si lascia guidare in sogno dall'angelo senza profferire parola, né obiezioni di sorta. Tuttavia per cercare la volontà o la giustizia di Dio c'è un segreto che vale per tutti i tempi: il silenzio. E di Giuseppe non abbiamo una parola nel Nuovo Testamento, tale è la sua ricerca della giustizia di Dio. Il rischio che corre Giuseppe è, in certo senso, maggiore di quello di Maria, soprattutto in una società, come quella giudaica del tempo in cui i diritti e i doveri maschili sono più gravosi di quelli femminili. Guidato dai sogni, Giuseppe interpreta la volontà di Dio per sé e la sua sposa. Nulla di più labile o non verificabile con la ragione, tant'è che oggi i sogni sono diventati fonti di lucro per i numeri a lotto. Ma nella Scrittura il sogno è il momento privilegiato in cui Dio si lascia cercare. Per questo grande è la fede di Giuseppe che si accontenta dei sogni per cercare e trovare la giustizia di Dio. Sarebbe l'ora di smetterla sull'età senile di Giuseppe per sostenere la verginità di Maria: non c'è un luogo del Nuovo Testamento in cui Giuseppe è presentato come vecchio. Naturale è piuttosto che si debba pensare a un giovane che ha anteposto la giustizia e la volontà di Dio alla sua, mettendo a repentaglio la propria credibilità. Uomo giusto non è chi osserva con scrupolo la legge, ma chi cerca per mezzo di essa la volontà di Dio che la sovrasta.

  • Maranatha, venuta nella carne
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«"Maran atha" (Il Signore viene!"), oppure "Marana tha" (Vieni, Signore!") (1Cor 16,22), "Amen, vieni, Signore Gesù!" (Ap 22,20)" (Catechismo, 451).

Nella conclusione di 1Corinzi Paolo riporta forse la più antica confessione di fede delle prime comunità cristiane: maranatha. L'espressione può essere resa in due modi: "Il Signore nostro è venuto (maran atha)" oppure "Signore nostro, vieni" (marana tha). Entrambe si richiamano a vicenda poiché il Signore è venuto (riconoscimento) ed è così invocato nelle prime comunità cristiane (attesa). Comunque la confessione aramaica conduce all'ambiente delle prime comunità cristiane palestinesi (anni 35-40 d.C.) per diffondersi, in pochi anni, fra tutte le comunità cristiane e paoline. Gesù non è diventato Signore con l'inculturazione del cristianesimo in ambiente ellenistico, come si pensava nella prima parte del secolo scorso, ma è riconosciuto come tale già nelle comunità palestinesi. Indicativo è che a differenza ad esempio di "abba, Padre", maranatha non è tradotto, ma è semplicemente traslitterato in greco, data l'immediata diffusione. L'ambiente in cui la brevissima formula di fede sorge è quello liturgico e in particolare della celebrazione eucaristica. Non è fortuito che proprio in 1Corinzi, quando Paolo ricorda le parole di Gesù, durante la cena, richiami in chiusura la stessa professione e l'invocazione della fede: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26). La stessa invocazione sarà rivolta dallo Spirito e la Sposa (la Chiesa), a chiusura dell'Apocalisse: "Vieni!" (Apocalisse 22,17). E torna nella Didaché (fine I sec. d.C.) come professione di fede, subito dopo l'insegnamento sulla cena eucaristica: «Se uno è santo, venga; se uno non lo è, si converta. Maranatha. Amen» (10,6). Ogni volta che i cristiani celebrano l'eucarestia, partecipano al pasto del Signore Gesù e non a un ricordo del passato, né a un comune banchetto fra amici. Con la loro fede attendono colui che è già venuto nella carne. Questo il contenuto centrale della fede per l'Avvento e il Natale che celebriamo ogni anno. Purtroppo questa tensione della fede ci manca, ma ci è sempre ricordata quando partecipiamo alla cena del Signore.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 27 al 30 dicembre 2012
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 08, 2013 9:53 am


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«Precedendo Gesù "con lo spirito e la forza di Elia" (Lc 1,17), gli rende testimonianza con la sua predicazione, il suo battesimo di conversione ed infine con il suo martirio (Cf Mc 6,17-29)» (Catechismo, 523).

Ogni evangelista ritrae Giovanni Battista con prospettive diverse che ne approfondiscono la grandezza. Il Battista è il precursore che chiede la conversione del cuore per il perdono dei peccati (Marco); il precursore che si limita a domandare la conversione perché soltanto Gesù può rimettere i peccati (Matteo); l'ultimo e più grande profeta della storia della salvezza (Luca); l'amico dello Sposo che gioisce per l'incontro tra Gesù e la Sposa (Giovanni). Tutti però evidenziano la sua testimonianza della fede che non è autoreferenziale, ma rinvia a Gesù. Il Battista aveva tutte le carte in regola per farsi acclamare come Messia, ma ogni volta ha declinato la richiesta della folla. La sua testimonianza alla verità giunge sino all'effusione del sangue. A riguardo vale la pena riportare quanto Flavio Giuseppe riporta nelle Antichità Giudaiche 18,117 su Giovanni Battista: «Erode infatti aveva ucciso quest'uomo buono che esortava i Giudei a una vita virtuosa, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo». I martiri della fede s'impongono con la loro vita spesa per la verità e non semplicemente per il loro coraggio. Dei ritratti segnalati il più originale è del Quarto vangelo, che presenta il Battista come l'amico dello Sposo (Giovanni 3,29-30). A questi spetta non tradire mai la fiducia dello Sposo e preparare al meglio la festa nuziale. Quando poi la festa si chiude nel miglior modo, la sua gioia è grande. Non sostituirsi mai alla fede degli altri, ma accompagnarla nell'incontro con lo Sposo, è una responsabilità ardua da svolgere; ma il Battista è rimasto fedele al compito affidatogli. La fede ha bisogno di testimoni per essere trasmessa; ma di testimoni che non si sostituiscono alla ricerca faticosa di ognuno. Guardare al Battista significa essere rimandati altrove: verso l'agnello che toglie i peccati del mondo. Diminuirsi per lasciare il posto a chi deve crescere è di chi non possiede la verità, ma ne indica la strada perché ha visto e ha testimoniato: «E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Giovanni 1,34).

  • L'inizio del Vangelo: la conversione
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«Ecco la Buona Novella riguardante "Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Mc 1,1 )» (Catechismo, 422).

L'incipit del Vangelo di Marco è lapidario e, a prima vista, sembra dire tutto di Gesù: è il Messia e il Figlio di Dio. In realtà, quell'inizio condensa una serie di domande che Marco intende approfondire con il suo Vangelo. In che senso Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio? Dove e quando egli è il Cristo? E dove e quando è il Figlio di Dio? Quali sono gli eventi che ne rivelano la duplice identità? Prima di Marco il termine "vangelo" aveva connotati diversi: una notizia bella o buona, breve e verbale. Il termine non era neanche di tipo religioso, bensì profano: "vangelo" è la nascita di un figlio insperato, di una liberazione attesa da anni o di una guarigione. Si deve a Marco se il termine ha assunto forme e contenuti diversi: raccontare Gesù Cristo che ha fatto del "vangelo" la sua missione, sino a identificarsi con esso. Prima di essere predicato nei Vangeli, Gesù ha predicato il vangelo. Quell'inizio è come la chiave d'accesso che progressivamente dischiude un mondo di relazioni tra Gesù e il vangelo. E conduce verso un altro inizio: quello della vita pubblica di Gesù, posto dopo gli antefatti del Battesimo e delle tentazioni nel deserto. Gesù si reca in Galilea e dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel vangelo» (Marco 1,14-15). Con Gesù si compiono i tempi delle attese e si avvicina non un regno umano o politico, bensì di Dio. Le due richieste per chiunque sono la conversione e la fede nel vangelo che Gesù inizia a rivelare. Convertirsi non è disgiunto dal credere, bensì gli è vincolato senza soluzione di continuità. Non convertirsi per poi credere nel vangelo; in tal caso Gesù resterebbe ancora ad aspettare! Piuttosto convertirsi è, nello stesso tempo, credere nel Vangelo: fidarsi che incontrare lui significa imbattersi nella notizia più vera e bella che sia stata data agli uomini. In fondo l'espressione "nuova evangelizzazione", che stiamo approfondendo nell'anno della fede, è un'urgente ripetizione, poiché il Vangelo o è nuovo o non è, punto!

  • L'immersione nel tempo dell'uomo
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«Il battesimo di Gesù è, da parte di lui, l'accettazione e l'inaugurazione della sua missione di Servo sofferente» (Catechismo, 536).

Anche gli storici più scettici riconoscono che Gesù si fece battezzare da Giovanni presso il Giordano. All'episodio si può applicare sia il criterio dell'attestazione molteplice, poiché è riportato da gran parte delle fonti del Nuovo Testamento e non soltanto dai vangeli, sia il criterio dell'imbarazzo. Come mai il Figlio di Dio, l'amato, su cui Dio ha posto il suo compiacimento, si fa battezzare con i peccatori da Giovanni? Il verbo baptízein significa soprattutto «immergere», «annegare». Con il battesimo, Gesù s'immerge nell'acqua che scorre col tempo per condividere in pieno la vita degli uomini, sino a farsene carico. Per questo il suo battesimo è evento trinitario: del Padre che ama il Figlio, dello Spirito che scende su di lui e del Figlio che s'immerge nella nostra umanità per redimerla. A proposito dello Spirito: non s'incarna in una colomba, ma si rende presente come colomba. Il simbolo è stato interpretato in diversi modi: dalla colomba del diluvio (Genesi 8,8-12), allo Spirito che aleggia sulle acque all'inizio della creazione (Genesi 1,2), all'amata del Cantico dei Cantici (5,2) paragonata a una colomba. Forse l'interpretazione più pertinente proviene dalle Odi di Salomone 28,1: «Come le ali delle colombe sui loro piccoli… così le ali dello Spirito sul mio cuore». Comunque già Ambrogio di Milano precisa nel De Sacramentis (1,17) che lo Spirito discende «su Gesù non come una colomba vera e propria». Al centro del Battesimo c'è la voce che rompe i cieli e rivela la missione di Gesù, paragonata a quella del Servo nel primo canto d'Isaia: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (Isaia 42,1). Ma Gesù non è soltanto il servo sofferente; è il Figlio che attraverso il Battesimo redime l'umanità, facendosi carico dei peccati di tutti. Ad Abramo che non ha risparmiato il figlio che ama (Genesi 22,16), risponde Dio che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi (Romani 8,32).

  • Vincere le tentazioni, come Gesù
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«I Vangeli parlano di un tempo di solitudine di Gesù nel deserto, immediatamente dopo che ebbe ricevuto il battesimo da Giovanni: "Sospinto" dallo Spirito nel deserto, Gesù vi rimane quaranta giorni digiunando» (Catechismo, 538).

I quaranta giorni di Gesù nel deserto evocano quelli di Elia all'Oreb e, a ritroso, i quarant'anni d'Israele nel deserto, sino all'originaria condizione di Adamo prima e dopo il peccato. L'essenzialità di Marco, che non si attarda sul tipo di tentazione provata da Gesù (Marco 1,12-13), è approfondita nei vangeli di Matteo e di Luca con tre tentazioni esemplari. Le pietre da trasformare in pane, l'identità del Figlio di Dio e il potere sui regni del mondo (Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13). Sono le principali tentazioni che colpiscono ogni figlio di Adamo: il profitto economico, la gloria e il potere. Scontata è la risposta per cui Gesù ha superato le tentazioni perché è il Figlio di Dio. Ma nessuno degli evangelisti punta l'attenzione su questo dato di fatto. Piuttosto ha superato le tentazioni perché ha interiorizzato per quaranta giorni la Parola di Dio, per cui Gesù replica ogni volta a satana con la Sacra Scrittura. Purtroppo satana si rende conto della forza che Gesù riceve dalla Parola di Dio e anch'egli decide di citare la Scrittura. La replica finale che chiude la partita è la profonda interiorizzazione che Gesù fa dello Shemah: «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» (Deuteronomio 6,13 in Matteo 4,10).
La tentazione è vinta non con la Scrittura imparata a memoria – e satana la conosce meglio di noi – bensì con la sua assimilazione nel cuore e nella vita. Con acuta genialità M. Bulgakov ha rappresentato questa tentazione originaria nel Maestro e Margherita, ambientandola tra Mosca e il processo a Gesù. A chi non ha pazienza di leggere lo stupendo romanzo di Bulgakov, consigliamo di vedere non il banale The Last Tentation of Christ di M. Scorsese, ma The Devil's Advocate di T. Hackford, con l'impareggiabile interpretazione di Al Pacino: «Vanità, decisamente il mio peccato preferito» (J. Milton, Paradise Lost).

  • La fede e la sequela di Cristo
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«Fin dall'inizio Gesù ha associato i suoi discepoli alla sua vita; (Cf Mc 1,16-20; Mc 3,13-19) ha loro rivelato il Mistero del Regno» (Cf Mt 13,10-17; Catechismo, 787).

Gesù non annunzia il Regno in astratto, né lo presenta con una sorta di piano ideologico, ma lo concretizza con la scelta dei suoi discepoli. Il breve racconto della vocazione di Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni è di una essenzialità sbalorditiva poiché tutto si regge sull'elezione per andare dietro a Gesù e diventare pescatori di uomini. Da una parte c'è la grazia dell'elezione, dall'altra la fiducia dei discepoli. Anzitutto la grazia: Gesù non s'informa prima sulle attitudini, le capacità e la costanza dei discepoli, ma li sceglie senza condizioni. Contrariamente a tutte le altre forme di sequela nel mondo antico, non sono i discepoli a scegliere il maestro per la sua capacità persuasiva, bensì è il Maestro che sceglie i discepoli. Il primato della grazia s'impone per la scelta di quelle persone e non di altre: non sono scelti gli altri pescatori che pure sono presenti, ma soltanto loro. Il primato della grazia trova risposta nella fiducia dei discepoli. In entrambe le scelte dei primi quattro discepoli l'accento è posto sull'avverbio "subito" che non lascia spazio a tentennamenti o a dilazioni. Giacomo e Giovanni non chiedono prima il permesso a Zebedeo, loro padre, per seguire Gesù, ma s'incamminano subito dietro a lui. Oggi è diventato di moda sostenere che «Gesù ha predicato il regno ed è nata la Chiesa», travisando peraltro l'affermazione di A. Loisy. Piuttosto Gesù ha predicato il Regno e sono nati i discepoli che, guidati dall'azione dello Spirito, formeranno la Chiesa. L'entusiasmo dell'inizio sarà messo a dura prova durante il ministero pubblico di Gesù e soprattutto in occasione della passione, quando tutti i discepoli lo tradiranno. Tuttavia quell'inizio sarà ancora più decisivo dopo la Pasqua, quando i discepoli torneranno al loro mestiere di pescatori, ma saranno nuovamente chiamati a seguire il Risorto. In questo binomio si decide il rapporto tra la nuova evangelizzazione e la trasmissione della fede, che è tale non soltanto nelle strategie, negli strumenti e nel linguaggio, ma anche nella sostanza. Perché il Risorto continua a evangelizzare anzitutto la sua Chiesa ponendola nella condizione della sequela.

  • I Dodici, trasformati dallo Spirito
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«Fin dagli inizi della vita pubblica, Gesù sceglie dodici uomini perché stiano con lui e prendano parte alla sua missione» (Catechismo, 551).

Gesù attira intorno a sé molta gente: ognuno per i propri interessi, le ansie e le speranza che si porta dentro. Ma come per i primi quattro discepoli (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni), non sono loro a scegliere il Maestro, bensì è lui che sceglie i Dodici. L'elenco dei Dodici è riportato in Marco 3,16-19, ma prima l'evangelista annota che Gesù sale sul monte, sceglie quelli che vuole affinché stiano con lui e comincino a predicare. Luca precisa che Gesù sale sul monte per trascorrere la notte in preghiera (Luca 6,11) e finalmente al mattino sceglie i Dodici. L'elenco si apre con Simon Pietro e si chiude con Giuda, il traditore. Fra gli eletti c'è un pubblicano, come Matteo, due abbastanza irascibili, come Giacomo e Giovanni, uno che non è disposto a credere per sentito dire, come Tommaso, uno zelota o guerrafondaio come l'altro Simone. A proposito del primo, Simon Pietro lo tradirà al canto del gallo; e l'ultimo, Giuda, è un delatore. Insomma ce n'è di tutto e di più; e se questo è il frutto di una notte in preghiera, c'è poco da sperare! Tutti mancano di costanza nella fede; e Gesù elogia la fede di quanti gli chiedono aiuto, ma non loda mai la fede dei Dodici. Partiti in missione, non riescono a cavare un ragno da un buco perché hanno dimenticato la condizione più importante per sconfiggere il male: la preghiera! Quando Paolo, da poco convertito, inizierà a consultare le colonne della Chiesa – Pietro, Giacomo e Giovanni – non sarà colpito dall'apparenza, bensì dal cuore; quanto a capacità oratorie, nemmeno a parlarne! Ci mancava proprio lui: un fariseo che interpreta la Legge in modo accomodante. A ognuno le conseguenze sullo strapotere della grazia rispetto alla costanza della fede o della fedeltà umana: «Gratuitamente avete ricevuto; gratuitamente date» (Matteo 10,8). Soltanto lo Spirito sarà capace di trasformare i Dodici in testimoni intrepidi di Gesù Cristo: ma bisognerà aspettare la Pentecoste.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 2 all'8 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 15, 2013 3:26 pm


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«Gesù chiama ad entrare nel Regno servendosi delle parabole, elemento tipico del suo insegnamento» (Cf Mc 4,33-34; Catechismo, 546).

J. Jeremias, che di parabole se ne intendeva, ha ben sostenuto che chi approfondisce le parabole di Gesù si muove su un terreno sicuro dal versante storico. Gesù ha definito il Regno di Dio non in astratto o per concetti difficili, ma lo ha raccontato con le sue stupende parabole. Non sono favole, né allegorie o raccontini per bambini, ma le sue parabole aprono spiragli infiniti sulle relazioni tra Dio e gli uomini. Nessuno prima di lui ha raccontato il Regno di Dio in parabole e nessuno dopo di lui è capace di fare altrettanto. Le parabole dei vangeli gnostici sono un surrogato, peraltro mal riuscito, delle sue parabole riportate nei vangeli del Nuovo Testamento. Guai a moralizzarle perché si rischia di perdere per strada gran parte del loro contenuto. Veicolano prospettive sapienziali ed escatologiche, nel senso che sono capaci d'insegnare come affrontare le situazioni della vita quotidiana e di proiettarle verso l'incontro finale con Dio. Di tutte le parabole, la più importante – per confessione di Gesù stesso – è quella del seminatore che getta il seme della Parola su diversi tipi di terreno (Marco 4,3-9). Per Gesù il Regno nasce e si sviluppa dove trova un terreno disposto ad accogliere il seme della Parola di Dio, sino a produrre il trenta, il sessanta e il cento per uno. Attenzione però: le parabole sono apparentemente semplici. Lo sono per chi diventa discepolo di Gesù, mentre restano oscure per coloro che non lo seguono. Altro che il Gesù analfabeta di alcuni studiosi, come D. Crossan! Si legga Il metodo parabolico di Gesù di J. Dupont, prima di emettere giudizi affrettati. Quando rividi Vittorio Fusco, immerso nel ministero episcopale, gli confidai che di Gesù mi hanno sempre impressionato le parabole. Con la semplicità di chi ha scritto lo stupendo Oltre la parabola mi rispose: «Certo, qui Paolo non regge il confronto». Dovetti arrendermi! Nell'era degli iPad la nostra fede in Gesù può prescindere dalle sue parabole?

  • I gigli del campo e gli uccelli del cielo
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«Dio ha creato il mondo per manifestare e per comunicare la sua gloria. Che le sue creature abbiano parte alla sua verità, alla sua bontà, alla sua bellezza: ecco la gloria per la quale Dio le ha create» (Catechismo, 319).

La parabola dei gigli del campo e degli uccelli del cielo (Matteo 6,26-30; Luca 12,24-28) permette d'identificare una delle principali fonti ispiratrici delle parabole di Gesù: il creato; l'altra è la vita quotidiana degli uomini. Di fronte alle preoccupazioni per il domani, Gesù conduce i discepoli in aperta campagna, verso la contemplazione del creato. Negli uccelli del cielo e nei gigli dei campi contempla la provvidenza di Dio che li nutre e li riveste. Precisiamo che la sua non è una visione idilliaca della vita, né tanto meno bucolica, ma realistica e, con alcune parabole, drammatica. Sa bene che insieme al grano c'è la zizzania, che con il buon pastore ci sono i mercenari delle pecore e i vignaioli che cercano d'impossessarsi della vigna, mettendo a morte il figlio del padrone. Tuttavia nutre una fiducia sconfinata nel Padre che se si prende cura del creato, quanto più si cura degli uomini di poca fede. Ogni giorno chiediamo con il Padre Nostro che ci doni il pane quotidiano, ma siamo noi a procurarcelo non soltanto per il presente, ma anche per i futuro prossimo e remoto. L'impatto irriducibile della parabola non consiste nel darsi all'ozio perché tanto Dio si prende cura di noi, bensì nello spazio che offriamo alla sua provvidenza: un termine che abbiamo ormai bandito dal vocabolario della fede. Su I gigli dei campi e gli uccelli del cielo, è tornato S. Kierkegaard che ha saputo cogliere il nocciolo del problema ponendo l'accento sulle condizioni che poniamo continuamente alla nostra fede, destinata a restare sempre piccola e a non crescere mai: «Il giglio e l'uccello, i gioiosi maestri di gioia, sono la gioia stessa perché sono incondizionatamente gioiosi. Colui infatti la cui gioia dipende da determinate condizioni non è la gioia stessa, la sua gioia è nelle condizioni, è condizionata da esse».

  • Il grano e la zizzania di oggi
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«In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo» (Cf Mt 13,24-30 ; Catechismo, 827).

La parabola del grano e della zizzania o del loglio è di una permanente attualità. Ai servi del campo, pronti a impegnarsi per separare nel presente il grano dalla zizzania, il padrone chiede di attendere i tempi della mietitura, quando le parassitarie potranno essere separate dalle spighe di grano. Grano e zizzania sono nel cuore di ognuno, nella Chiesa a cui si appartiene e nel mondo in cui si vive ogni giorno. E come al solito si guarda più alla zizzania, che al grano! Tuttavia la parabola guarda al futuro in vista del presente, e non il contrario. In questione non è il momento finale della mietitura, bensì quello prolungato della contemporanea crescita tra grano e zizzania. E anche se non si possono separare, pena la perdita del bene che è in ciascuno, nella Chiesa e nel mondo, il grano si riconosce sempre e non va confuso con la zizzania. La storia del cristianesimo ha visto un continuo pendolarismo tra una Chiesa di puri e perfetti e una Santa, ma bisognosa di fare sempre penitenza per i peccati dei credenti. A favore di una chiesa di perfetti si sono schierati i Montanisti, i Donatisti, i Catari, i Calvinisti e i Giansenisti: l'elenco può continuare sino ai nostri giorni. Ma la Chiesa continua a lasciarsi evangelizzare dalla parabola di Gesù, senza cedere a forme ideologiche di puritanesimo, né per inverso a espressioni di lassismo perché tanto, nel presente, grano e zizzania non si possono scindere. Risalta così la questione capitale: come imparare a guardare il grano in mezzo alla zizzania e a confidare che non sia soffocato? La risposta più appropriata proviene dalla Gaudium et Spes che, citando la parabola di Gesù, commenta: «Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani per risposta affermano che tutte le attività umane, che sono messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall'amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo» (nr. 37).

  • La fede che genera i miracoli
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«Gesù accompagna le sue parole con numerosi "miracoli, prodigi e segni» (At 2,22), i quali manifestano che in lui il Regno è presente. Attestano che Gesù è il Messia annunziato» (Cf Lc 7,18-23; Catechismo, 547).

Gesù non si è limitato a parlare del Regno di Dio con le parabole, ma lo ha reso tangibile con i miracoli e, in particolare, con le guarigioni di quanti lo cercano per essere sanati. Tuttavia mentre altri taumaturgi del suo tempo, come Apollonio di Tiana, sceglievano i miracoli per garantire la loro autorità di "uomini divini", Gesù sposta decisamente l'attenzione sulla fede dei malati come condizione necessaria per essere guariti. L'espressione «la tua fede ti ha salvato» (Marco 5,34; 10,52), ripetuta più volte da Gesù, rinvia al primato della fede sui miracoli e non il contrario. Così non sono i miracoli a generare la fede, rischiando di produrre una visione magica della fede, bensì la fede in Gesù Cristo a causare i miracoli. Altrettanto significativo è l'ambito d'azione della fede così intesa: non riguarda soltanto la sfera interiore o intima della persona, bensì la coinvolge nella totalità, al punto che essere salvati per la fede equivale a essere sanati nel corpo e non soltanto nell'anima. Spesso si pensa che la fede generata dai miracoli risulti più solida, mentre Gesù dimostra che non sempre i miracoli conducono alla fede. L'esempio dei dieci lebbrosi guariti (Luca 17,11-19), fra i quali soltanto uno torna da Gesù per ringraziarlo, dimostra che mentre la fede è capace di salvare, non sempre i miracoli conducono naturalmente alla fede. Il percorso consequenziale dalla fede ai miracoli immette verso la manifestazione più visibile del regno di Dio. Di fronte ai discepoli di Giovanni Battista, che gli chiedono se egli fosse realmente il Cristo o bisognasse aspettare un altro, Gesù li rinvia alle guarigioni compiute (Luca 7,18-24). I sordi ascoltano, i ciechi vedono, gli storpi camminano e i lebbrosi sono guariti. In fondo, se la fede precede sempre i miracoli è perché è capace di guarire più di quanto si sia soliti pensare, mentre – strano a dirsi – non sempre i miracoli portano alla fede.

  • La fede pungolata dall'incredulità
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«La venuta del Regno di Dio è la sconfitta del regno di Satana… Gli esorcismi di Gesù liberano alcuni uomini dal tormento dei demoni» (Catechismo, 550).

Se per Gesù la fede precede e non segue i miracoli, l'avvento del regno di Dio si manifesta tra l'altro con la fiducia nella sconfitta del regno di satana o del maligno. A buon diritto, la guarigione dell'epilettico indemoniato, riportata in Marco 9,14-29, può essere definita come il miracolo della fede. Dopo essersi rivolto ai discepoli senza risultati positivi, il padre del giovane epilettico chiede aiuto a Gesù: «Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Ma Gesù lo rinvia alla fede: «Se tu puoi; tutto è possibile a chi crede». E il padre esprime la dimensione più realistica della fede: «Credo, aiutami nella mia incredulità». Così s'incontrano la compassione di Gesù per gli uomini e l'incredulità nella fede che accompagna chi trova in lui l'ultima speranza. Più si avanza nella fede, tanto più si è accompagnati dal dubbio che la vittoria sul male non sia possibile, che il regno di satana sia a volte più forte di quello di Dio. L'esito positivo della guarigione dell'epilettico sconcerta i discepoli perché non erano riusciti a scacciare il maligno. Ma Gesù rivela che soltanto la preghiera è capace di sconfiggere il maligno. Per questo nella preghiera del Padre nostro i credenti chiedono di essere liberati dal maligno o dalla sfiducia che il male sia più potente del bene. Non si crede in Gesù Cristo una volta per sempre, ma ogni giorno la fede è pungolata dall'incredulità e dall'incertezza. Tuttavia l'incredulità autentica non s'identifica con il dubbio metodico, di cartesiana memoria, né con lo scetticismo universale, bensì con il senso del limite che si trasforma in richiesta d'aiuto. La preghiera è il respiro quotidiano della fede, senza la quale si è continuamente derisi dal maligno. Fede e incredulità sono inseparabili nella vita quotidiana. Senza l'incredulità, la fede è considerata acquisita e non avverte il bisogno della preghiera. E senza la fede, l'incredulità cade nella sfiducia che il male sia più potente del bene.
  • don Antonio Pitta in Avvenire, dal 9 al 15 gennaio 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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