All'ombra del sicomoro...

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 02, 2012 9:39 am


  • Come ostriche
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Come ostriche sullo scoglio, tenacemente aggrappate laddove ha avuto inizio la loro storia. Le ostriche della novella Fantasticheria di Giovanni Verga: dalla loro fisionomia e dalle loro movenze il grande romanziere ottocentesco si lasciò guidare per elaborare "l’ideale dell’ostrica", quel punto d’appoggio che sostiene la povera gente. Lo spiegò a quella dama d’alta società che s’era fermata in un paesino di pescatori – affascinata da quel mondo pittoresco, rude e semplice – ma dopo due giorni fu colta da irresistibile noia. Le ostriche di Verga sono di tutt’altra specie da quelle che hanno riempito le cronache (si fa fatica a dire "politiche") in questi giorni: più che simbolo di mondanità e di sperequazione, la vita delle ostriche divengono la metafora per proclamare la religione della famiglia, quella predicata dal vecchio padron ’Ntoni nei pressi della casa del nespolo. Come l’ostrica vive sicura finché resta avvinghiata allo scoglio, così sarà dell’uomo: vivrà sicuro finché non tradirà quella religione nella quale i padri hanno creduto, sono cresciuti e hanno tramandato valori. Vivranno poveri ma sicuri, forti di quell’umile fierezza che proviene dal quotidiano adoperarsi per guadagnarsi la vita. È una religione che si riverbera sul mestiere delle persone, sulla loro casa e persino sui sassi che segnano la strada per Aci Trezza. Cose tutte «rispettabilissime e serissime».

L’ideale dell’ostrica verghiano è una sorta di dichiarazione d’intenti sull’uomo e sulla società. Ed è un monito: quando si tenta di turbare e sconvolgere un saggio equilibrio sociale, si è destinati a fallire e a produrre fallimento. Oggi – che delle ostriche si parla in forma negativa e le si abbina senza allegria con uno champagne non meritato – quest’ideale ben s’addice alla riapertura delle nostre parrocchie all’alba dell’Anno della Fede. All’ombra del campanile – alternando vecchi adagi e arrischiando nuovi percorsi come i Magi – la missione è quella di raccontare e condividere la trama di quella storia sempre più ambiziosa e paradossale che va sotto il nome di cristianesimo, la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai conosciuto e compiuto. Riaprono le porte degli oratori, si rianima la piazzetta in fronte alla chiesa e si riaccende l’eterna sfida: mostrare come la fede cristiana abbia ancora qualcosa da dire all’uomo e alla donna del tempo presente.

Come nella novella del Verga, anche qui c’è uno scoglio al quale rimanere aggrappati, pena il rischio di lasciarci divorare dalla disperazione. Uno scoglio che corrisponde a un Volto, Gesù di Nazaret, il cui nome non sta scritto sulla sabbia come le vecchie poesie d’amore ma è inciso sulla roccia, materia evangelica di provata robustezza. Perché l’uomo, rimanendogli fedele, possa sperimentare la bellezza e l’utilità di un Dio che perdutamente lo ama, ma soprattutto il piacere di creare amicizia con Lui. E se la sagoma dello scoglio terrà la morfologia del Golgota, varrà ancor più l’alfabeto dell’ostrica: quando entra in essa un granellino di sabbia prova dolore. Per difendersi dall’irritazione, lo avvolge con strati di madreperla che, usciti, daranno forma alla bellezza della perla. Dentro la bellezza alloggia la sofferenza, come dietro il sepolcro abita il Calvario: ostriche felici non fanno perle, ostriche sofferenti sono artigiane della bellezza.

Tutto il Vangelo prepara alla Risurrezione, ma non la descrive. Rimane quel sepolcro spalancato come occasione di inaspettato stupore, al quale sapranno prestare voce coloro che sullo scoglio di Cristo stanno aggrappati come le ostriche del Verga. Per evitare che il mondo, da pesce vorace qual’è, ne deturpi la bellezza.
  • Marco Pozza
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Grazia Cuffari
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Grazie, Marco Pozza !

Messaggio da Grazia Cuffari » gio ott 04, 2012 4:29 pm

Mentre ringrazio Marco Pozza per l'articolo bellissimo
che ha scritto" Sullo scoglio della Fede "apparso su
Avvenire, confermo con parole mie che la Fede è un
dono di grazia che Dio regala a tutti coloro che si
accostano a Lui e lo invocano; essa si apprende
come Verità e si vive come Vita: Vita Nuova che scende
nell'anima, trasforma il nostro essere e ci fa diventare
Uomini nuovi.
Se la Fede non diventa vita essa rimane sempre estranea
all'anima, se, invece, aggrappati alla roccia di Cristo
la viviamo quotidianamente, dicendo il nostro SI' a Dio
come fece la Vergine Maria, anche l'accettazione della
sofferenza diventa un' armonia interiore che non si può
esprimere a parole : pienezza interna che sazia,
consolazione, riposo, gioia ineffabile preludio di paradiso.
Provare per credere ! Rimaniamo ancorati a Cristo Signore
per mostrare come la sofferenza che la vita ci fa incontrare
e, umilmente accettata, produce quella "perla preziosa"
della quale Gesù parla nei Vangeli, perla che espande
musica interiore nella nostra vita, le cui note sono
i Comandamenti della legge di Dio: indicazioni per vivere
il nostro "super stile di vita".

Immagine
VIVA LA VITA ! LA VITA VERA !
Dio mi ama e ama tutti nel presente e nell'eternità

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio ott 11, 2012 10:30 am


  • Quella Porta delle nostre porte
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Nel giorno che ricorda, cinquant’anni dopo, l’inizio del Concilio si apre l’Anno della fede. Le due aperture vogliono essere comprese in sintonia e sostenersi a vicenda. Il Papa ha indicato il legame, il Sinodo dei Vescovi ne sta tracciando il passaggio. Se qualcuno si era immaginato un Sinodo preparato per chiudere quello che il Concilio aveva aperto, si è semplicemente sbagliato. Nell’aula del grande raduno sta prendendo ritmo e forma, piuttosto, una passione dominante: dobbiamo noi stessi aprirci alla fede; e riaprire di nuovo, per tutti, la porta della fede. Niente altro, prima di questo.

È una parola forte, se ci pensate, che riassume una transizione e porta in campo l’autentica svolta che ne doveva maturare. Certo, per quanto appaia tutta l’enormità dell’impresa, ricondotta alla questione della fede, essa sembra persino più semplice, adesso. La fede, proprio lei, è il nostro tesoro più prezioso. Lo è per noi, lo è per tutti. Non possiamo perderla, non vogliamo corromperla, non intendiamo affogarla in un gergo per iniziati, né dissiparla a poco prezzo pur di trarne vantaggio per noi. Non è solo il tema del nostro impegno, è la sua forza migliore.

La fede è una forza bella. Ricominciamo a guardarla con occhio più limpido e scopriamo che la potenza della fede e l’inizio dell’evangelizzazione coincidono fin dal primo momento. Infatti si comunica la fede che si ha, e la fede che si dona è proprio quella più allegra, che non cede mai.

La fede del resto, anche per tutto questo tempo, non è mai stata abbandonata a se stessa: nemmeno nei momenti più difficili. Ha sempre accantonato grano buono, per i momenti di carestia. Ha persino trasformato l’acqua in vino migliore, quando si doveva fare un miracolo per non mortificare gli ospiti. Il Signore e lo Spirito ci hanno colmato di santi e di saggi, quanti ne servivano: pochi noti, moltissimi quasi invisibili. Abbiamo fatto tesoro dell’insegnamento del Signore, parola per parola: la dottrina e la catechesi della tradizione cattolica non sono arrivate per caso, raccolgono l’eredità migliore dei Padri della fede: non improvvisazioni, magistero autentico, affinato nel fuoco dello Spirito.

Insomma, ecco la scoperta: la fede stessa è la nostra vera ricchezza, il nostro lato migliore, la nostra bellezza realmente guardabile. Una volta che puntiamo a essa, non abbiamo bisogno di orpelli per restituire credibilità alla potenza della sua Parola, e commozione alla sua capacità di riconciliare l’uomo con Dio.

Questa buona coscienza deve riprendere respiro, scioglierci dalla nevrosi del tempo, restituirci uno sguardo lieto e non corrucciato. In mezzo a tutti gli espedienti che ci siamo inventati, e a tutti i puntigli che ci hanno stremati, si riapre dunque la porta della fede. E scopriamo – un po’ con emozione e un po’ con vergogna – che ci siamo immaginati di passare dovunque, eccetto che di lì. Intanto, sono passati anni. Ma adesso, molti segni fanno veramente pensare che ci stiamo tutti riconciliando con la bellezza di quella apertura che la fede stessa è.

Me lo sento, vi dico. Quando ci vedrete tutti su quella soglia, saprete che è un gran giorno. La storia si riaprirà, scoprendo quello che ci siamo persi in questi decenni. E vi verrà voglia di riaprire la porta della vostra casa, per la sorpresa di quello che vi verrà incontro.
  • Pierangelo Sequeri
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Riflessioni e speranze Apertura anno della fede

Messaggio da Grazia Cuffari » gio ott 11, 2012 7:28 pm

Riflessioni e speranze personali nel giorno dell' Apertura dell' Anno della Fede

Oggi 11 ottobre 2012, giorno di apertura dell'Anno della Fede, è stata per me una giornata di apertura alla speranza di un ritorno alla Chiesa degli Apostoli, un ritorno consapevole e corroborato dalla sofferenza di vedere intorno a noi il deserto, la desertificazione come l'ha soprannominata il Papa, prodotta dalla nostra superficialità e tiepidezza, nonché per molti, dal rifiuto esplicito di Dio.

Ho ascoltato alla radio il Papa che amorevolmente si è prodigato, con parole semplici ed efficaci, per farci capire che dobbiamo tutti, come membri del Corpo Mistico di Cristo collaborare a ricostruire questa nostra Chiesa, lacerata giornamente da egoismi individuali che fanno perdere di vista il bene comune e la Fede che è la nostra perla preziosa.

Ma in mezzo a tanti individualismi, laicismi, sincretismi, relativismi e altre forze avverse, mi piace pensare a una Porta Fidei che porti progressivamente in tutti noi Cristiani ad un' apertura del cuore a Cristo, alla sua Umanità, alla sua Accoglienza verso l'Altro, così come Egli ci è stato d'esempio durante l' arco della sua vita terrena. E a riconoscere che questa è la cosa essenziale che non deludenella vita, perché corrisponde alla nostra realtà di esseri umani creati da Dio Padre.

E questo non può avvenire solo a parole o per opera di magia, ma soltanto con una vera conversione della mente, del cuore e della volontà a Dio Signore.
E per ottenere ciò Dio ci dà infiniti Stimoli adatti a farci rinascere totalmente in Lui, in Lui che ci trasforma se stiamo permanentemente attenti a cosa ci dice la sua Parola e a come metterla in pratica, se frequentiamo i Sacramenti della Confessione e della Eucaristia; se stiamo attenti anche alle piccole cose, come Santa Teresina del Bambin Gesù

Gesù ci parla al cuore come ha parlato a Nicodemo, come ha parlato ai Santi del Passato, come parla attualmente ai Santi del Presente.
Andiamogli incontro senza aver paura, fidiamoci di Lui, abbandoniamoci completamente a Lui e la ricompensa sarà grandissima, immensa, impagabile !

E quando questo avviene s' instaura in noi, per sua grazia, uno stato di fiducia totale, non solo in Dio, ma nella Vita, accettando con serenità tutto quanto avviene nel nostro presente.
Solo così possiamo dare vera testimonianza, perchè il nostro comportamento non sarà più dettato solo dal nostro egoistico io, ma da noi che viviamo con Dio, in Dio e per Dio, con la stessa forza spirituale di Gesù Cristo Dio.

E come l'Apostolo Paolo possiamo dire: <<Non siamo noi che viviamo, ma è Cristo che vive in Noi ! >> - IL CRISTO RISORTO-
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 15, 2012 8:52 am


  • Il Papa: il cristianesimo «è sempre nuovo»
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Il messaggio cristiano «non deve essere abbassato» a ciò «che piace all’opinione pubblica». Immutabile nel tempo, esso, piuttosto, deve fecondare la quotidianità dell’uomo. Per questo, «esattamente come fecero i padri conciliari, dobbiamo portare l’oggi che viviamo alla misura dell’evento cristiano, dobbiamo portare l’oggi del nostro tempo nell’oggi di Dio».

È al piccolo gruppo dei sessantanove partecipanti al Concilio Vaticano II arrivati a Roma per l’apertura dell’Anno della Fede, convocato nei 50 anni dall’apertura di quell’assise che, ieri mattina, Benedetto XVI s’è rivolto, ricevendoli in udienza e, più tardi, a pranzo. Incontrandoli nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, presenti anche patriarchi e arcivescovi delle Chiese orientali cattoliche, numerosi presidenti delle Conferenze episcopali del mondo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e il primate anglicano Rowan Wiliams, il Papa ha sottolineato come sia l’attualità che vive l’uomo a dover essere ricondotta ogni volta all’eternità di Dio. «Sono tanti i ricordi – ha detto il Pontefice rivolgendosi ai presenti – che affiorano alla nostra mente e che ognuno ha ben impressi nel cuore di quel periodo così vivace, ricco e fecondo che è stato il Concilio; non voglio, però, dilungarmi troppo, ma vorrei ricordare solamente come una parola, lanciata dal beato Giovanni XXIII quasi in modo programmatico, ritornava continuamente nei lavori conciliari: la parola "aggiornamento"».

Mezzo secolo dopo dall’apertura di quella solenne assise, ha proseguito il Papa, «qualcuno si domanderà se quell’espressione non sia stata, forse fin dall’inizio, non del tutto felice. Penso che sulla scelta delle parole si potrebbe discutere per ore e si troverebbero pareri continuamente discordanti, ma sono convinto – ha affermato – che l’intuizione che il beato Giovanni XXIII compendiò con questa parola sia stata e sia tuttora esatta».

Il cristianesimo infatti, per Benedetto XVI, «non deve essere considerato come "qualcosa del passato", né deve essere vissuto con lo sguardo perennemente rivolto "all’indietro", perché Gesù Cristo è ieri, oggi e per l’eternità». Ciò perché il cristianesimo, ha continuato a spiegare, «è segnato dalla presenza del Dio eterno, che è entrato nel tempo ed è presente a ogni tempo, perché ogni tempo sgorga dalla sua potenza creatrice, dal suo eterno "oggi"». Ed è allora per questo, ha aggiunto papa Ratzinger, che «il cristianesimo è sempre nuovo. Non lo dobbiamo mai vedere come un albero pienamente sviluppatosi dal granellino di senape evangelico: è un albero in perenne aurora, sempre giovane».

Da qui sgorga un’ulteriore riflessione, e cioè che «questa attualità, questo aggiornamento non significa rottura con la tradizione, ma ne esprime la continua vitalità; non significa – ha insistito il papa – ridurre la fede, abbassandola alla moda dei tempi, al metro di ciò che ci piace, a ciò che piace all’opinione pubblica, ma è il contrario: esattamente come fecero i padri conciliari, dobbiamo portare l’oggi che viviamo alla misura dell’evento cristiano, dobbiamo portare l’oggi del nostro tempo nell’oggi di Dio».

«Il Concilio – ha concluso – è stato un tempo di grazia in cui lo Spirito Santo ci ha insegnato che la Chiesa, nel suo cammino nella storia, deve sempre parlare all’uomo contemporaneo, ma questo può avvenire solo per la forza di coloro che hanno radici profonde in Dio, si lasciano guidare da Lui e vivono con purezza la propria fede; non viene da chi si adegua al momento che passa, da chi sceglie il cammino più comodo. Santità è far entrare l’oggi eterno di Dio nell’oggi della nostra vita».
  • Salvatore Mazza
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 22, 2012 9:51 am


  • Credere e parlare
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«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Mai come oggi, nella tribolazione scandita dal grave fenomeno recessivo, sia sul piano materiale, ma, soprattutto, spirituale, avvertiamo un po’ tutti il bisogno istintivo di fare tesoro di questo messaggio, all’insegna della speranza, con cui si apriva la Gaudium et Spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa e sul mondo, uno dei documenti cardine del Concilio Vaticano II. I 50 anni trascorsi dall’inizio dei lavori delle assise conciliari e l’indizione dell’Anno della Fede, da parte di Benedetto XVI, costituiscono le ragioni di un rinnovato impegno per annunciare e testimoniare la Buona Notizia, in un mondo che ha fame e sete di Dio. E, sebbene, la Barca di Pietro debba fronteggiare, in questo primo segmento del Terzo Millennio, le onde di un mare in tempesta, corrugato dall’umana fragilità, è proprio ripartendo dall’assunzione del mandato missionario che è possibile riscoprire la propria identità cristiana e tracciare con consapevolezza la rotta.

Come leggiamo, infatti, nell’altro grande decreto conciliare, l’Ad Gentes, «l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della Chiesa: essa ne diffonde la fede salvatrice, ne realizza l’unità cattolica diffondendola, si regge sulla sua apostolicità, mette in opera il senso collegiale della sua gerarchia, testimonia infine, diffonde e promuove la sua santità». Ecco che allora, l’odierna Giornata missionaria mondiale rappresenta il momento propizio per fare memoria di un impegno che coinvolge ogni comunità cristiana e ogni singolo battezzato. Lo slogan scelto da Missio, l’organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana preposto all’animazione missionaria, è davvero la metafora di un ideale irrinunciabile per chiunque s’impegni a seguire Cristo sulle strade del mondo: «Ho creduto, perciò ho parlato» (2 Cor. 4,13). Le parole dell’apostolo Paolo esprimono l’esigenza di dare senso e significato a una comunicazione verace, davvero capace di scuotere le coscienze.

E se da una parte, spesso assistiamo a una banalizzazione della religione per la scarsa testimonianza delle tradizionali agenzie educative, dalla famiglia alla scuola, passando per le nostre stesse comunità, dall’altra occorre esprimere un sussulto di missionarietà, nella consapevolezza che, come scriveva il beato Giovanni Paolo II, «la fede si rafforza donandola!». Essa, infatti, spiegava, «rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni». Come credenti, perciò, abbiamo l’obbligo morale di parlare. Sappiamo molto bene che stando silenti, defilandoci dall’Agorà, assumendo un profilo innocuo di fronte alle sfide imposte dalla globalizzazione, non si hanno noie. Ma è lo stesso Paolo a rammentarci che non è consentito tacere perché è in gioco la Verità. Un concetto ben espresso nella Lettera agli Efesini: «Veritatem facientes in caritate» (4, 15).

Sperimentare la verità nella carità (o meglio: l’annuncio della verità si realizza nella carità) come ricorda proprio Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate. Sì, proprio come fanno i nostri missionari e missionarie, disseminati nei cinque continenti, in cui la comunicazione è fatta sempre e comunque di gesti solidali che precedono le parole. Essi stessi, con le loro comunità, spesso pagano un prezzo altissimo per la loro fede in Gesù Cristo, denunciando ingiustizie e sopraffazioni. È la logica delle Beatitudini, del mondo capovolto di Dio (Lc 1,52) che «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».
  • Giulio Albanese
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 30, 2012 4:38 pm


  • Lo specchio e l'acqua
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«Per me è stato veramente edificante, consolante e incoraggiante vedere qui lo specchio della Chiesa universale con le sue sofferenze, minacce, pericoli e gioie... Abbiamo sentito come la Chiesa, anche oggi, cresce e vive». Le parole di Benedetto XVI alla conclusione del Sinodo allargano il cuore dei cristiani: come quando su un sentiero aspro di montagna si cammina concentrati sui propri passi, e poi improvvisamente, distogliendosi dalla fatica e dall’affanno, si alza lo sguardo – e si rimane muti davanti alla larghezza della terra e all’infinito del cielo. La Chiesa, ha ricordato ieri il Papa con un accento di commozione, è sempre Chiesa di tutti i popoli, è sempre Chiesa di Pentecoste. (Così che se dalla propria particolare limitata visuale la fede sembra dentro un inarrestabile declino, altrove già sta cominciando a rinascere; spesso lontano, e dove non te lo aspetteresti, dopo lun­ghi anni di desertificazione, quando tutto sembrava finito).

Di «deserto» aveva parlato pochi giorni fa Benedetto; e però già suggerendo come proprio quel vuoto sia in realtà un possibile luogo e tempo di domanda. Nel deserto chi vuole vivere va a cercare un pozzo. Come la samaritana, ricordata nell’incipit del messaggio finale dei padri sinodali: che nell’arsura bollente di un mezzogiorno mediterraneo arriva al pozzo, con il suo secchio vuoto. Ma «è l’acqua del pozzo che fa fiorire il deserto». È l’immagine della penultima riga del discorso del Sinodo. E chi, dopo avere scorso le riflessioni realiste e pensose dei padri sinodali, arriva a questa penultima riga, si ferma: a questa frase che suona benedizione e profezia. L’acqua del pozzo fa fiorire il deserto.

Chi sia passato dalla costa meridionale della Sicilia alla fine dell’estate sa come quella terra appaia, in quel momento dell’anno, totalmente prosciugata. Secca e aspra e quasi dolorosa la campagna, bruciata in ogni piega da un sole già africano. In una terra così, pensa chi passa, non può più germinare niente. Ma lo straniero dopo un po’ si accorge che nei giardini delle rare masserie, da dentro i muri di cinta, spunta una vegetazione straordinaria e lussureggiante: oleandri e bouganville sgargianti, e fiori che in Italia normalmente non vedi, grandi, coloratissimi, barocchi nei calici cir­condati da api adoranti. E quel profumo struggente dei gelsomini che si sporgono, incontenibili, dalle inferriate? Allora lo straniero capisce il miracolo dell’acqua: è l’acqua, che fa fiorire il deserto.

Noi lombardi fatichiamo a riconoscere quale dono sia l’acqua, giacché ne abbiamo ovunque e in abbondanza. Ma quella Sicilia riarsa e annichilita dall’agosto rivela cosa davvero genera vita anche nel più sassoso e brullo deserto: è l’acqua, che sgorga dai pozzi. L’acqua, che fa fiorire il deserto. E cosa o chi sia poi davvero quell’acqua, noi cristiani lo sappiamo, o almeno lo abbiamo un tempo imparato. (Quelle parole nel silenzio e nella luce accecante, nell’aria immobile sotto il sole allo zenit: «Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti chiede da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva»).

Non c’è uomo o donna che, nella sua vita, non si ritrovi, come la donna di Samarìa, accanto a un pozzo con un’anfora vuota, hanno scritto i padri sinodali. Ma, hanno aggiunto come spinti da una urgenza, «sentiamo l’esigenza di dirvi che la fede si decide tutta nel rapporto che instauriamo con la persona di Cristo». Duemila anni dopo la Chiesa si rimette in cammino nella assolutezza di questa affermazione: tutto comincia dal volto di Cristo, vivo fra noi, non nobile maestro o pio ricordo. E poi, a chiusa, quella promessa: l’acqua del pozzo fa fiorire il deserto. Quelli delle grandi metropoli e quelli che abbiamo in noi. Sembra – ed è – benedizione, e profezia.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 06, 2012 10:36 am


  • Credo la risurrezione della carne e la vita eterna
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Cari Fratelli e Sorelle nel Signore

1. Celebriamo il giorno dei Defunti nel cuore dell’Anno della Fede: è un anno di grazia e non lo dobbiamo sprecare vivendolo con distrazione e superficialità. Possiamo dire – ricordando la voce dei 262 Padri Sinodali provenienti da tutta la terra – che il terreno di base per vivere l’Anno con frutto è la meditazione della Parola di Dio e la catechesi, la confessione e la Santa Eucaristia. È questa la terra buona dove la fede può essere nutrita e portare frutto. Prima di fare qualche breve considerazione, vorrei con voi ringraziare il Signore per il grande dono della fede. Forse dovremmo farlo tutti di più! Purtroppo ci abituiamo alle cose, anche le più belle e importanti, e non vi diamo più peso così come fanno i bambini capricciosi; oltre a non essere giusto, è dannoso. La fede, infatti, ci salva: chi sente oggi la necessità di essere salvato? Forse desideriamo essere liberati da una malattia, dall’indigenza, dal rischio di perdere il lavoro o un affetto: tutte cose giuste e buone, ma la fede va più in profondità. Ci salva da che cosa? Prima di tutto ci salva dall’insignificanza nostra e dell’universo: ha uno scopo il nostro essere nel mondo? E poi, ci salva dall’indegnità morale che più o meno ci contamina tutti; quell’indegnità che rende più difficile guardare noi stessi e accettarci con serenità. Infine, la fede ci salva dalla prospettiva che la morte coincida con il nostro annientamento, prospettiva che già ora renderebbe vani i nostri atti perché, se viviamo per andare a finire nel niente, viviamo già adesso per niente! Sentiamo noi veramente il bisogno di essere salvati?

2. In questo orizzonte, la commemorazione dei Defunti ci invita a riflettere su due verità che il Credo apostolico esprime in modo incisivo: credo la risurrezione della carne e la vita eterna. É da notare che la vita eterna è l’ultima affermazione del credo; infatti deriva dalle altre, e per certi aspetti le compendia. Essa è la meta di un lungo e tormentato cammino che inizia con la creazione, prosegue con la redenzione di Gesù, continua nella vita della Chiesa, e si compie nella vita eterna che è la comunione beata con la Trinità Santa. L’anima immortale, varcata la porta del tempo, subito si presenta al cospetto dell’Altissimo, come racconta il Vangelo, per rendere conto della sua vita che si vede nella verità e nell’amore di Dio, e sperando di sentire le parole di Cristo: “Vieni, servo buono e fedele, entra nella casa del tuo signore”! Ma questa non è ancora la pienezza della vita eterna in cui la fede della Chiesa crede. Infatti, nel credo, prima confessiamo la risurrezione della carne. Sì, il nostro corpo mortale non è un accessorio dell’anima, ma qualcosa di suo proprio: insieme hanno vissuto, insieme hanno scelto e operato il bene o il male. Insieme devono vivere la vita eterna, quando – alla fine del mondo – i corpi risorgeranno come è risorto il corpo del Signore. È allora che sarà il cielo nuovo e la terra nuova di cui parla l’Apocalisse, cioè una realtà che non possiamo immaginare ma solamente credere: credere non perché evidente all’intelligenza, ma perché Dio stesso lo dice, e questo basta. La novità del Regno, che Gesù è venuto ad annunciare ed ha iniziato, risplenderà e “non vi sarà più notte/ e non avranno più bisogno di luce di lampada/ né di luce di sole/ perché il Signore Dio li illuminerà/ e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22, 5).

3. Cari Fratelli e Sorelle, non ci sarebbe vita eterna se l’anima non fosse immortale e il corpo non risorgesse. Crediamo all’esistenza dell’anima? vi pensiamo? dedichiamo a lei l’attenzione e la cura necessarie? Oppure viviamo appiattiti sull’immediato presente, senza prospettiva eterna, succubi di una mentalità materialista che ci spinge a consumare cose, affetti, persone, tempo? Basta guardare il miracolo del volto con le sue molteplici espressioni, e della parola con le sue sfumature: rivelano un mondo interiore che ci affascina, fatto di pensieri, di emozioni, di sentimenti, di ideali, di forza misteriosa che non è quella del corpo. Un mondo che non può essere ridotto a qualche reazione chimica. Un mondo che è di un ordine diverso da quello materiale, e che l’intuizione ci fa certi che non potrà mai essere annientato, finire nel nulla. È lo splendore evidente dell’anima. Curiamo la vita spirituale, cari Amici, dedichiamoci tempo ed energie: gli impegni della vita sono molti e pressanti, è vero, ma trascurare la vita interiore riduce anche la nostra capacità di vivere il presente. I defunti ci raccomandano anche questo: prenderci più cura del nostro spirito immortale come preludio della risurrezione del corpo per la vita eterna con Dio.
  • Angelo Card. Bagnasco
    Arcivescovo dell'Arcidiocesi di Genova
    Commemorazione dei Fedeli Defunti, Cattedrale 2 novembre 2012
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  • Il tempo che ci è dato
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Sono venuto a trovare i miei coetanei, ha esordito. E poi tutte le parole lasciate da Benedetto XVI ieri in una casa per anziani di Roma hanno avuto il colore di un ritrovarsi fra vecchi compagni, discutendo fra loro di ciò che i giovani, ancora, non sanno. Uomo fra gli uomini nei passi lenti degli ottant’anni, il Papa ha detto una cosa audace: che essere vecchi è bello, per chi si sente amato da Dio. Bello, in un’accezione che non è contemplata dai manuali per sane, atletiche e spensierate vecchiaie, come cominciano a circolarne in Occidente – mirati a vecchi possibilmente benestanti, e promettenti consumatori. Invece Benedetto ha parlato del fatto che a quell’età si fa l’esperienza del bisogno dell’aiuto degli altri; bisogno, ha detto, che lui pure sperimenta. Quella necessità di aiuto è una naturale condizione di chi invecchia; ma, ha aggiunto, «è anche un dono, nella grazia di essere sostenuti e accompagnati».

Ora, che la vecchiaia con la sua zavorra di acciacchi e la graduale erosione della autonomia possa essere "dono" proprio per quel dover domandare all’altro, è una prospettiva alquanto insolita, che, scommettiamo, non troverebbe alcun consenso in un talk show dei nostri di ogni sera. Un dono l’aver bisogno di altri per camminare, poi per mangiare, magari anche infine per lavarsi? Che cosa assurda. Anzi non è forse proprio la nostra più grande paura, insieme alla solitudine, l’immaginare di non poter più badare a noi stessi? Di dover aspettare una badante semplicemente per due passi sotto casa – su quella stessa strada che da ragazzi facevamo di corsa e ora, cos’è stato?, si è fatta lunga, e faticosa come fosse diventata una erta salita.

Che cose strane, davvero, dice il Papa: e sembra quasi parli di mondo capovolto, in cui la realtà è altra dall’apparenza su cui tutti concordiamo. Ma allora questo dono, cosa sarebbe? È l’imparare, almeno a ottant’anni, «che nessuno può vivere solo e senza aiuto», spiega Benedetto. (C’è chi lo impara molto prima, e chi mai, finché non ci è costretto). E’ l’imparare, come dice un verso di Holderlin, che «noi siamo un colloquio». Cioè non monadi tese a realizzare solo se stesse, come ci viene comandato di questi tempi, ma inesorabilmente tesi al rapporto con l’altro. E forse più radicalmente ancora, quel bisogno della vecchiaia ci riporta alla nostra origine: creature, e dunque figli di un Creatore. Intollerabile insegnamento, se ci si è creduti per tutta la vita i padroni di sé (è questa in fondo la vertigine di paura che spinge per la prima volta l’Occidente verso l’eutanasia, come estrema prova di autodeterminazione).

Eppure, insiste il Papa dai suoi ottantacinque anni, quel bisogno di aiuto portato dalla crescente debolezza, è davvero un dono. Perché ci riporta alla verità di ciò che profondamente siamo, a un’impronta che abbiamo addosso. Figli. Da giovani, è quasi naturale che ce ne dimentichiamo, nell’età forte dell’innamoramento, dei sogni, del mondo immenso davanti; e del fascino del denaro, e del potere. Ma viene un tempo di impotenza e povertà, che, testimonia Benedetto, è in realtà tempo di misericordia. Tempo per ritornare ciò che siamo.

Come quella vecchia signora incontrata in un grande ospizio di Milano, un giorno, sola, in un corridoio. Una donna esile, fragile, gli occhi chiari, limpidissimi; e smarrita nella demenza senile. «Scusi – ha chiesto a me che, sconosciuta, passavo – sa a che ora viene a prendermi la mamma?» E io non sapendo proprio cosa dire mi sono seduta lì accanto. Lei continuava a ripetere, fiduciosa, che la mamma certo sarebbe arrivata, prima di sera, a prenderla. Che abbia ragione lei, mi sono chiesta, con quei suoi occhi, misteriosamente di nuovo infantili? Che abbia ragione, il Papa? Forse davvero novant’anni sono il tempo che ci è dato, per poter tornare infine come bambini.
  • Marina Corradi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer nov 21, 2012 3:08 pm


  • La parola che resta
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Se un libro è anche ciò che te ne resta quando, dopo averlo chiuso, al mattino ti svegli e ne hai, più forte delle altre, in mente una parola, allora del libro di Benedetto XVI ciò che te ne resta, quella parola, è: «Di dove sei tu?». Che è l’esordio del primo capitolo, e un verso del Vangelo di Giovanni. Quello in cui Pilato, interrogando lo sconosciuto prigioniero, d’improvviso come preso da una inquietudine gli lancia questa domanda: di dove sei, da dove vieni, tu che ti dici un re, e però «non di quaggiù». Cose assurde queste, certo, per un assennato giudice romano; che però di fronte a quell’uomo non riesce a sottrarsi a un turbamento.

«Di dove sei tu?», incipit dell’ultimo volume della trilogia su Gesù di Benedetto XVI, è la domanda che tacitamente percorre queste pagine. A 85 anni Joseph Ratzinger continua a inseguire Cristo nei passi della sua storia terrena, da esegeta attento a ogni sfumatura della lingua e delle Scritture - e come ostinatamente sulle tracce di qualcuno di molto amato. Di un uomo però che, pure nato e passato dentro la storia, non è riducibile nemmeno solo a testimonianze, luoghi, parole, ma ha sempre ancora qualcosa di misterioso, di oltre; per cui occorre continuarlo a cercare.

Perché nemmeno la lunga genealogia della stirpe di Davide che apre il Vangelo di Matteo basta a rispondere davvero a quel «di dove», se poi, scrive il Papa, Maria è un inizio totalmente nuovo, e il suo concepimento un evento che supera ogni umana eredità. Di dove sei tu? La domanda qui si arresta nell’istante sospeso al "sì" di una giovane ebrea, l’attimo di cui San Bernardo scrisse: «L’angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l’ha inviato» - come immaginando terra e cieli immobili, in ascolto.

Ma oltre al «di dove» un’ altra tensione percorre le pagine del Papa, e riguarda ciò che accade, e ciò che era annunciato. Giacché, spiega Benedetto, quel che avviene tra l’annuncio a Maria e l’incontro con Elisabetta, e il parto, e l’adorazione dei Magi, è tutto in un inseguirsi di profezie pronunciate anche centinaia di anni prima, come in Isaia: «Ecco la vergine che concepisce e darà alla luce un figlio, e gli porrà nome Emmanuele...». E Sofonia, e Michea, e poi ancora, nell’ora di Erode, Geremia, col pianto di Rachele per i figli perduti. Profezie antiche che, dice il Papa, erano come «parole senza padrone», come rimaste dormienti nei secoli: aspettando il kairos, l’attimo per inverarsi, in un momento preciso del tempo e della storia, in un istante eternamente atteso.

E dunque il Papa scrive come da dentro un tempo più grande e profondo; e che pure genera un assolutamente concreto giorno a Betlemme - una donna, il buio, il freddo, un vagito. L’avvento di Cristo da un parto verginale, annota però Benedetto, è altrettanto di scandalo al mondo che la pretesa della Resurrezione. Sono i due scogli alla razionalità davanti ai quali gli uomini si fermano, esitano, spesso sorridono - come di storie da bambini. Ma: Dio ha potere dunque anche sulla materia, si chiede Benedetto, può sconvolgerne le leggi in un sepolcro, o farvi irruzione, come nell’annuncio a Maria? Se Dio non potesse far questo, risponde, non sarebbe Dio. E però la questione è lanciata a chi legge, in attesa di un no o di un sì di ognuno. Perché, se anche una cappa di smemoratezza o sentimentalismo ci confondono l’immagine di quella notte, e se il presepe lo facciamo per far contenti i bambini, la ingombrante domanda resta. Non è meno scandalosa della Resurrezione, l’idea di un Dio che generi un figlio da una donna; come appeso anch’egli per un interminabile istante al suo "sì". Il Papa col suo terzo libro su Gesù ci porta a quel momento e poi a una notte in Palestina, a un bivacco di poveri, davanti a un bambino all’apparenza uguale ai nostri. «Di dove sei tu?». Che questa domanda ci insegua nel Natale che viene; che non ci lasci indifferenti o tranquilli.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 30, 2012 8:49 am


  • La medicina della speranza nel tempo della crisi
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Benedetto XVI il 30 novembre 2007 firmava la sua seconda Lettera Enciclica, che reca il titolo Spe salvi. Non c’è chi non veda come la riproposizione della speranza in un tempo in cui si sperimenta una grande difficoltà di futuro, fatta anche di disaffezione a esso, assuma il carattere di un vero e proprio gesto profetico. Benedetto XVI, con la sua Enciclica sulla speranza compie una 'provocazione' anche oltre il territorio cristiano, scuotendo l’uomo post-moderno irretito nel presente come un animale da selva braccato, che rifiuta il passato ed è spaventato dal futuro.

C’è stato una lunga per reticenza sul tema della speranza, che si è espressa in tanti modi, anche come silenzio sul futuro storico e sul futuro ultimo, che ha toccato la filosofia, la teologia e perfino diversi altri servizi della Parola. Si è trattato di un silenzio che, nella Chiesa cattolica, è stato felicemente interrotto nella seconda metà del Novecento, dal Vaticano II, significativamente chiamato «il Concilio della speranza», rispetto al quale Papa Roncalli parlò di «fiore spontaneo di inaspettata primavera» (4 agosto 1959). Il 'silenzio della speranza' ha continuato a tornare con il suo rattristante clima anche dopo il Concilio e la Spe salvi ha rappresentato un’altra splendida interruzione di quel silenzio.

Questa Enciclica ha avuto il coraggio di riporre dinanzi agli occhi credenti di tutti i cristiani specialmente le realtà ultime perché le meditassero con assiduità e profondità nuove. È stato osservato che la Spe salvi debba essere intesa in modo singolare come un segno della preoccupazione che Benedetto XVI ha per la crisi culturale, etica e religiosa che attanaglia l’Europa: un problema colossale per la Chiesa, sia a motivo di questa stessa policrisi, sia per quello che l’Europa ha rappresentato e rappresenta per il cristianesimo.

Può darsi che si debba dar ragione Lévinas quando afferma: «Il problema dell’avvenire dell’Europa è […] il problema dell’avvenire di tutta la terra, e di tutta l’umanità». O può darsi che si debba dissentire da questa sua affermazione, ma non a cuor leggero e, peraltro, non senza considerare, di fatto, che l’Europa è una questione cristiana.

Benedetto XVI, con la Spe salvi, ha voluto guardare in faccia la crisi di speranza in cui è caduta l’Europa. Il Sinodo dei vescovi sull’Europa, svoltosi dal 10 al 23 ottobre 1999, aveva diagnosticato la vastità e la profondità di tale crisi. Benedetto XVI ha voluto indicare nella speranza la medicina per guarire l’uomo immelanconito del nostro tempo. Intanto, non sarebbe poca cosa se dei cristiani che oggi stanno passando sul ponte di due secoli si potrà dirà che sono stati uomini di speranza alla scuola di Benedetto XVI che – sulla scia di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II – è maestro di speranza. Sotto un certo aspetto, questo è il massimo del servizio della Parola, dacché la speranza definisce il cristianesimo.

Cinque anni fa, infatti, il Papa ci ha richiamati a meditare sull’essenza della vita cristiana, poiché «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (S. Agostino, De Civitate Dei, 6, 9,5). E la speranza può esprimere da sola tutto l’essere cristiano poiché i discepoli di Cristo sono «quelli che sperano» (cfr. 1Ts 4,13). Benedetto ci spinge a un atto di coraggio grandioso perché proposto in un tempo in cui la cultura, con le sue molte suggestioni, crea solo un’attesa, disabitata dalla speranza. Ma attendere senza sapere chi e che cosa è vano.
  • Michele Giulio Masciarelli
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 04, 2012 8:56 am


  • Esser pronti e basta
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Essere pronti, dice il vangelo. Ma come? Una cosa la potremmo fare subito, e cioè tagliar fuori la chiacchiera infinita – concitata o depressa che sia – sulle previsioni del tempo che fa (e che farà). La chiacchiera su quello che dovremmo fare ci inchioda da anni ai blocchi di partenza. Ci spiegano, e ci rispiegano, che siamo in una fase di trasformazione e di transizione, di fronte a chissà quali sfide della storia: e come mai ci sentiamo come acciughine nel barile?

Mi viene da dire: guardate che il mondo che doveva succedere è successo, ha messo su casa, e noi forse non l’abbiamo neppure visto passare. Non sarebbe meglio uscire dal barile e fare le mosse giuste nel mondo che c’è? I ricami infiniti sulle previsioni del compito che ci attende tracimano dall’utile al futile con rapidità impressionante. Diventano spettacolo, che occupa gran parte della scena della vita: e ci trasformano inesorabilmente in spettatori a vita. (Non senza l’implacabile cadenza dello stacco pubblicitario, che ci tiene saldamente ancorati al vero principio di realtà, che decide tutto). Più che alta, l’acqua, ormai ce l’abbiamo alla gola. E ancora prevediamo, preveniamo, progettiamo e programmiamo. Siamo 'attori sociali razionali', come dice la Teoria che scopre i nostri bisogni e ottimizza i nostri desideri.

Ma la felicità di un animo grande, la soddisfazione del lavoro ben fatto, l’onore della parola data, la passione di generare persone buone, quando ci fu tolta? I giovani non fanno che prepararsi a un avvenire che poi non potranno abitare se non a patto di vendere l’anima (e non sarà sicuro neanche così). Ma per quello che devono essere – uomini e donne che portano valore aggiunto alle affezioni più care e più sacre dell’umano che è di tutti – chi li impegna? Noi adulti ormai siamo sempre in ricerca, non disturbateci, quando avremo trovato vi faremo sapere (o forse no, perché dirlo non è più tanto fine). Tutto è in movimento, la vita è in pausa. Nelle nostre macchinette basta premere play per farle ripartire. Nella realtà, non riparte un bel niente.

Essere pronti, secondo la parola evangelica, significa non lasciarsi ossessionare né travolgere dalle previsioni: non farsi schiacciare dall’affanno dei segni, non coltivare la dissipazione del tempo, non anestetizzare la malinconia del futuro con l’eccitazione del presente. Troppi maniaci, troppi depressi, ogni giorno che passa. Non è un buon segno, vuol dire che il tempo collettivo è drogato nell’aria, ormai. Il cielo delle nostre aspirazioni è troppo basso e l’assuefazione alle nostre illusioni troppo alta. Lo spazio del bene ricevuto attraverso le generazioni è quasi consumato. Non sappiamo più neppure che cos’altro dissipare. Un bel giorno – adesso, magari? – dovremo smettere di girarci intorno: sono i corposi passaggi di Dio nella realtà che cambiano l’aria e il tempo. Il cielo di Dio è vuoto solo per Narciso a pancia in su, che si guarda nel soffitto a specchio del suo resort, dove vede solo se stesso.

La madre di tutte le dipendenze è l’illusione di una vita che dipende solo da Sé. Il Narciso moderno si pensa come l’Unico: non vuole grazia da nessuno, non ha pietà per nessuno. È il parassita perfetto, il futuro compiuto dell’illusione (non se ne rende conto perché gli hanno insegnato che è un eroe della guerra per l’indipendenza da tutto). Dio soltanto ci riporterà alla realtà, ormai, e nessun altro. Gesù dice che quando si concentrano angoscia di popoli e paura di ciò che sta per succedere, dobbiamo risollevarci e alzare la testa: perché la nostra liberazione è vicina. Questo sì che è un atto di forza, che rompe l’incantamento. Il segnale dei passaggi di Dio si leva di nuovo, in tutte le chiese della terra che celebrano il suo avvento. Non fate troppi calcoli e previsioni. Siate pronti, e basta.
  • Pierangelo Sequeri
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 11, 2012 4:12 pm


  • Scrivo da una cella senza finestre
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Mi chiamo Asia Noreen Bibi. Scrivo agli uomini e alle donne di buona volontà dalla mia cella senza finestre, nel modulo di isolamento della prigione di Sheikhupura, in Pakistan, e non so se leggerete mai questa lettera. Sono rinchiusa qui dal giugno del 2009. Sono stata condannata a morte mediante impiccagione per blasfemia contro il profeta Maometto.

Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico delitto, in questo mio grande Paese che amo tanto, è di essere cattolica. Non so se queste parole usciranno da questa prigione. Se il Signore misericordioso vuole che ciò avvenga, chiedo agli spagnoli (il 15 dicembre, il marito di Asia ritirerà a Madrid il premio dell’associazione HazteOir, ndr ) di pregare per me e intercedere presso il presidente del mio bellissimo Paese affinché io possa recuperare la libertà e tornare dalla mia famiglia che mi manca tanto. Sono sposata con un uomo buono che si chiama Ashiq Masih. Abbiamo cinque figli, benedizione del cielo: un maschio, Imran, e quattro ragazze, Nasima, Isha, Sidra e la piccola Isham. Voglio soltanto tornare da loro, vedere il loro sorriso e riportare la serenità. Stanno soffrendo a causa mia, perché sanno che sono in prigione senza giustizia. E temono per la mia vita. Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nella mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’islam. Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. «Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto –. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui».

Due uomini giusti sono stati assassinati per aver chiesto per me giustizia e libertà. Il loro destino mi tormenta il cuore. Salman Taseer, governatore della mia regione, il Punjab, venne assassinato il 4 gennaio 2011 da un membro della sua scorta, semplicemente perché aveva chiesto al governo che fossi rilasciata e perché si era opposto alla legge sulla blasfemia in vigore in Pakistan. Due mesi dopo un ministro del governo nazionale, Shahbaz Bhatti, cristiano come me, fu ucciso per lo stesso motivo. Circondarono la sua auto e gli spararono con ferocia.

Mi chiedo quante altre persone debbano morire a causa della giustizia. Prego in ogni momento perché Dio misericordioso illumini il giudizio delle nostre autorità e le leggi ristabiliscano l’antica armonia che ha sempre regnato fra persone di differenti religioni nel mio grande Paese. Gesù, nostro Signore e Salvatore, ci ama come esseri liberi e credo che la libertà di coscienza sia uno dei tesori più preziosi che il nostro Creatore ci ha dato, un tesoro che dobbiamo proteggere. Ho provato una grande emozione quando ho saputo che il Santo Padre Benedetto XVI era intervenuto a mio favore. Dio mi permetta di vivere abbastanza per andare in pellegrinaggio fino a Roma e, se possibile, ringraziarlo personalmente.

Penso alla mia famiglia, lo faccio in ogni momento. Vivo con il ricordo di mio marito e dei miei figli e chiedo a Dio misericordioso che mi permetta di tornare da loro. Amico o amica a cui scrivo, non so se questa lettera ti giungerà mai. Ma se accadrà, ricordati che ci sono persone nel mondo che sono perseguitate a causa della loro fede e – se puoi – prega il Signore per noi e scrivi al presidente del Pakistan per chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari. Se leggi questa lettera, è perché Dio lo avrà reso possibile. Lui, che è buono e giusto, ti colmi con la sua Grazia.
  • Asia Noreeen Bibi - Prigione di Sheikhupura, Pakistan

Numerosi lettori ci hanno scritto chiedendo come dare corso al suo appello. Dato che l’indirizzo dell’ambasciata fornito sabato si rivela inaffidabile, da oggi «Avvenire» si fa intermediario dalla raccolta: è possibile scrivere all’indirizzo e-mail asiabibi@avvenire.it per aderire all’iniziativa, rivolgendosi, nel testo del messaggio, al presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, sollecitando un intervento a favore di Asia Bibi, inserendo i propri dati anagrafici completi. Il giornale, raccolte lettere e firme, le trasmetterà in blocco secondo i canali diplomatici appropriati. QUI DI SEGUITO UNO SCHEMA DI MESSAGGIO, PER CHI VUOLE INCOLLARLO SULLA MAIL


  • Io sottoscritto NOME COGNOME CITTA' aderisco all'appello per la liberazione di Asia Bibi.
    Chiedo al presidente del Pakistan Asif Ali Zardari di intervenire a suo favore.

    I, the undersigned, adhere to the call for the release of Asia Bibi, a young woman sentenced to death in Pakistan with a specious charge of blasphemy and now in jail because of her faith.
    I ask the president of Pakistan, Asif Ali Zardari, to act in her favour.&#8203;
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 08, 2013 10:06 am


  • L'impensabile sintesi
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L’Oriente non è più quello di una volta, ma nemmeno l’Occidente se la passa tanto bene. Le ombre inquietanti della divisione e della collera, dell’invidia e della separazione - per ragioni essenzialmente materiali di beni e di dominio – li rendono molto simili. L’Epifania cristiana del Figlio è celebrata come un mistero di luce che viene dall’Oriente. Quale luce? Il suo Natale illumina tradizionalmente l’Occidente, animando di futuro l’orizzonte della generazione. Quale futuro?

Il cristianesimo dell’incarnazione di Dio – l’unico per tutti i punti cardinali – ha messo a dimora un punto di sintesi che non solo non esisteva, ma era anche impensabile. Dio ha messo su casa in un piccolo lembo sporgente dell’Oriente, con destinazione verso l’Occidente. Raccoglieva lo spirito di attese e promesse accese da un passato immemorabile, sulla via del sole. La casa, si fa per dire, fu messa su con mezzi di fortuna. Infatti non doveva rimanere semplicemente lì, Dio. La stella che viene da Oriente ha esaurito il suo compito: ora è il Figlio, lui stesso, la luce da seguire. La casa della nascita era per diventare come noi, muoversi con noi, rendersi visibile e amabile nel passaggio delle generazioni e nella dislocazione degli insediamenti. Così che, dove abitano umani, il Dio della loro creazione e della loro fratellanza potesse essere incontrato e riconosciuto nell’irrevocabile umanità del Figlio in cui tutti siamo amati e destinati: per un’esistenza che si forma nel grembo stesso di Dio.

La nuova Europa – non quella del mito, quella dell’umanesimo – nacque così. Mille volte fraintesa, mille volte tradita, persino da coloro che ne dovevano ispirare la religione e la filosofia migliore, essa ricevette di qui la sua vocazione migliore. Transitare la generazione del Figlio da Oriente a Occidente, dal passato al futuro, incessantemente arricchendola d’oro, di incenso, di mirra, e di ogni bellezza. Non nacque certo, neppur essa, la casa Europa, per diventare una dimora permanente: e trasformarsi nella città di Dio sulla terra. Se peccò per questa presunzione (e Dio sa che lo fece, e anche noi, ora), non prolunghi il suo errore e si converta seriamente. Ma se ora è tentata di peccare per omissione, e ignavia e indifferenza all’avvento di Dio, pensando a rinchiudersi nell’improbabile rendita (e ora sappiamo anche questo) del suo materiale benessere e della sua ottusa cura di sé, è tempo che si converta risolutamente anche da questo. Un bel giorno dovrà rimettersi nella sua testolina dura questa idea: la sua capacità di trarre dall’incarnazione di Dio doni per l’Oriente e per l’Occidente fu la stella della sua nascita, il genio delle sue imprese e delle sue felicità migliori. Proprio quelle che, in ogni tempo e in ogni luogo, ci rendono orgogliosi di essere umani. Dalle altre, di qualunque segno, possiamo congedarci fin d’ora risolutamente. Siamo stremati dal tignoso calcolo delle responsabilità, che non muove una foglia e ci lascia come Giobbe fra i cocci di tutto.

L’Europa ha da imparare, guardando alla piccola dimora della Luce sulla quale, una volta per tutte, si è fermata la stella di Dio. Il segreto della sua uscita dall’oscurità e dal declino si illumina proprio in quel punto. Il suo destino è affine a quello della capanna accogliente di Betlemme: credeva di ospitare una famiglia in difficoltà, accese il punto­luce cruciale di tutta la storia degli esseri viventi. I credenti non dovranno temere di riscaldare con la loro fede autentica, e rinnovando essi stessi l’amore della loro prima ora, l’indifferenza che la cultura dominante ci assegna come un compito. Basta. Deve passare la nottata. Non dire niente a Erode, non perdere tempo con i suoi esperti di immagine e con i suoi giochi di palazzo. Segui la stella dei Magi. Usciranno dall’oscurità a migliaia, commossi - finalmente - dalla scia luminosa di Dio, che rimette in moto l’alleanza dei figli d’uomo, da Oriente a Occidente.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 18, 2013 10:03 am


  • Moderni, emancipati e creduloni
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Vuole un Gratta e Vinci?”. “No grazie, per carità, basta tasse!”. Ogni qualvolta la cassiera dell’Autogrill sull’autostrada cerca di sbolognarmi, assieme al classico “menù mattina” (cappuccino, brioche e spremuta d’arancia), qualche tagliando di lotteria o gioco a premi, la risposta ce l’ho lì già subito pronta: “basta tasse, le ho già pagate!”. Sì, perché, a ben guardare, tutta la ciclopica macchina di giochi e lotterie dell’Erario pubblico, che cos’altro è se non una forma di tassazione? Un numero striminzito di vincitori plurimilionari fa da contrappunto a una legione immensa di piccioni, sedotti dal sogno di una vincita faraonica, e poi regolarmente abbandonati con le tasche più leggere di qualche spicciolo, malinconicamente finito ad arrotondare l’importo complessivo di tasse e balzelli.

Sappiamo bene quanto il gioco legalizzato, da simpatico diversivo paragonabile a un’allegra partita a bocce con gli amici, si sia trasformato in uno dei più golosi business del mondo occidentale. Ci sarebbe da sorridere, se non fosse che il fenomeno, ultimamente, ha raggiunto dimensioni tali da essere rubricato fra le nuove patologie della società dei consumi. Si è coniato anche un nuovo vocabolo: “ludopatie”, cioè, letteralmente, malattie da dipendenza ossessivocompulsiva nei confronti del gioco. Con effetti devastanti sull’igiene mentale delle persone, nonché sui rispettivi portafogli e sul contesto biografico (famiglie sfasciate, crisi coniugali, amicizie tradite…). Pare che il brivido di raschiare una schedula, che potrebbe nascondere la formula numerica della (presunta) felicità, sviluppi più endorfine del cioccolato fondente. E che la vista di una roulette, o di un tappeto verde da poker, contenda il primato al meglio dell’immaginario erotico, quanto a capacità di stimolare l’amigdala cerebrale. E la sessantenne in abito da sera che si avvinghia, con frenetica voracità, alla slot-machine del Casinò, non è più solo una leggenda metropolitana. Genitori ed educatori, ma anche mogli e mariti, sono sull’avviso. E del governo Monti, che, pur di far cassa, si è voltato dall’altra parte rispetto ai rischi sociali del gioco a pagamento, ricorderemo, fra le peggior cose fatte, l’aver incentivato il business delle ludoteche, speculando di fatto sulle debolezze di vulnerabili cittadini.

Ma c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Nel nostro mondo, che sembra non aver più interesse per la fede cristiana, impazza la credulone ria. Mettete insieme Lotto, Gratta e Vinci, Lotteria Italia, scommesse, gioco d’azzardo, slot machine, insieme al prosperare di oroscopi, smorfia napoletana, maghi, santoni, guaritori, indovini, cartomanti e fattucchieri, e ne avrete proprio un bel quadretto. La fede nella Trinità è irrazionale, mitologica e pre-scientifica, ma in compenso le più ridicole panzane mietono adepti da ogni dove. La Provvidenza è un’ingenuità indegna dell’homo technologicus, ma in compenso abbondano i seguaci della Dea Bendata. E mentre si fa il vuoto a quell’assurdo e tribale rito magico che è la Messa della domenica, i botteghini delle lotterie scoppiano di devoti obbedientissimi e zelanti. Che dire? Beh, mi rimetto in macchina e riparto dall’Autogrill. La strada corre diritta davanti a me, e brulica di traffico. A proposito: il benzinaio vendeva i cornetti anti-malocchio da affiggere sul cruscotto della macchina… che ne dite di un po’ di prudenza e una preghiera all’Angelo custode?
  • Angelo Riva
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 21, 2013 9:27 am


  • Il monastero invisibile
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Un libro, un dolce, una bottiglia di vino. Quando si va a trovare una persona cara è buona abitudine portare qualcosa, dove ciò che conta non è il valore del dono ma il tanto di noi stessi che ci mettiamo dentro. Una regola d’amore che a maggior ragione vale quando alziamo gli occhi al cielo, ai piedi di quell’altare sul quale offrire quello che siamo. Un gesto che ripetiamo ogni domenica all’offertorio, un invito che viene rilanciato con forza da Michea: «Il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene e quello che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio». Proprio il passo del profeta è il tema guida della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Ogni anno tutti i seguaci di Gesù, anche se separati dalla storia e dall’ecclesiologia, benché divisi dalla dottrina piuttosto che dall’etica, sono invitati a rivolgersi insieme all’unico Signore per domandare il dono della piena comunione, nei tempi e nei modi che Egli vorrà. Ai discepoli è chiesto di liberare il cuore dalle loro inutili certezze e di incamminarsi verso il monte di Dio, pellegrini sullo stesso sentiero di vita, solidali con ogni altro uomo, specie il più bisognoso ed emarginato. Giustizia e pace, ricorda il profeta, sono l’àncora dell’alleanza tra Dio e l’umanità, l’humus in cui germoglia la vera salvezza, quella che trova alimento nella santità di vita, che si nutre di fraternità e condivisione. Non è un caso allora che a preparare il sussidio per le celebrazioni della Settimana sia stato chiamato lo Student christian movement in India, un’organizzazione ecumenica impegnata nella salvaguardia e nella promozione umana degli ultimi tra gli ultimi, dei più poveri tra i poveri. Nella rigida organizzazione dell’immenso Paese asiatico, l’identikit ha il volto e i tratti dei Dalits i fuori casta, cui appartiene quasi l’80% dei cristiani locali. Oggi come ai tempi di Michea, il popolo di Dio è chiamato ad affrontare l’oppressione e l’ingiustizia, che alberga fuori ma anche all’interno della stessa comunità cristiana. Le parole del profeta, contemporaneo di Isaia, suonano allora quanto mai attuali là dove in nome della religione e della purezza si giustificano discriminazioni e intolleranza.

Detto in altro modo, il cristiano deve scegliere tra un culto solo esteriore e l’impegno a incamminarsi sul sentiero della giustizia, a percorrere la strada tortuosa della misericordia e dell’umiltà. Il richiamo vale per ogni credente, travalica confini e latitudini. In quante caste è diviso il nostro cuore? Quali muri dobbiamo abbattere innanzitutto dentro noi stessi per rendere possibile l’incontro con l’altro? Domande solo in apparenza retoriche mentre chiamano in causa realtà e situazioni concretissime, dal disoccupato che ha smarrito la speranza, al vecchio, malato di solitudine, dalla famiglia in coda alla mensa dei poveri, al ragazzo perso in un paradiso di plastica. Soprattutto ci viene chiesto, ed è forse l’obiettivo più complicato, di rinunciare al bagaglio delle nostre sicurezze, alla superbia delle nostre frasi fatte per metterci in ascolto, per trovare l’umiltà di chiedere ciò che da soli non sappiamo e possiamo costruire: la pace, l’unità, la comunione.

Nel suo "testamento spirituale" l’abate Paul Couturier, uno dei padri dell’ecumenismo, parla di un "monastero invisibile" di cui fanno parte quelle anime «che per i loro sforzi sinceri ad aprirsi al suo fuoco e alla sua luce, lo Spirito Santo ha reso capaci di avere una profonda comprensione della dolorosa divisione tra i cristiani» contro cui combattono con il «ricorso regolare alla preghiera e alla penitenza». La Settimana ci invita a far parte di quella comunità ideale. Cristiani delle diverse confessioni, pellegrini verso la stessa meta. Uno accanto all’altro, in cammino verso un unico altare, su cui offrire noi stessi.
  • Riccardo Maccioni
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 28, 2013 9:48 am


  • Ciò che fu patito e visto. Ciò che ricordiamo
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Celebriamo oggi, per il tredicesimo anno, il Giorno della Memoria. 68 anni fa, i soldati dell’Armata Rossa, nella loro avanzata da Est, liberavano il campo di Auschwitz, in Polonia. Ce lo dipinge con grande maestria Primo Levi, nell’apertura di La tregua, il libro che prende le mosse da quella liberazione: tre soldatini russi a cavallo che si imbattono quasi per caso nel campo, poche migliaia di detenuti rimasti in vita nell’infermeria, il senso di vergogna di tutti, dei prigionieri come dei loro liberatori, il pudore, il silenzio. Non ci fu gioia quel giorno.

Ma non aspettatevi che il mondo abbia subito risuonato di quel che pur era stato visto e toccato con mano. I sovietici non avevano né il desiderio né la capacità di smuovere l’opinione pubblica del mondo. Si era ancora in mezzo alla guerra, che sarebbe durata altri tre mesi, e oltre. I campi di concentramento in Germania erano ancora in mano ai nazisti e là, in terribili marce della morte, era stata condotta la maggior parte dei prigionieri ancora in vita ad Auschwitz. Gli altri campi della morte in Polonia avevano già smesso di funzionare, e anche ad Auschwitz non arrivavano più prigionieri da quando, nel novembre 1944, Himmler aveva fermato i trasporti a causa della sconfitta militare in atto.

Ma pur nella sconfitta, i nazisti non smettevano di sterminare gli ebrei, come le marce della morte e le vicende degli ultimi mesi a Bergen Belsen, Dachau. Mauthausen, ci dimostrano. Gli ultimi mesi della guerra furono i più atroci di tutti. Ad Auschwitz, i nazisti avevano fatto saltare le camere a gas, in un tentativo di cancellare il delitto commesso che fu il preludio a quello che sarà poi, fino ad oggi, il negazionismo: mentire, negare, confutare i fatti senza vergogna. Ma, nella fretta di fuggire, avevano lasciato dietro migliaia di testimoni.

Il mondo, che pur già molto sapeva, non conosceva i meccanismi dello sterminio di massa, ciò che consentiva ancora qualche illusione. A Roma, liberata il 4 giugno 1944 dagli angloamericani, i famigliari di quanti erano stati razziati il 16 ottobre del 1943 ancora speravano nel rientro dei loro cari, che erano finiti quasi tutti nella camera a gas già una settimana dopo l’arresto. Nel Nord dell’Italia, si stava affrontando l’ultimo inverno di guerra, che fu freddo e terribile. I bombardamenti degli alleati distruggevano case e vite, ma erano accolti quasi con speranza dagli abitanti delle città che vedevano avvicinarsi la fine della guerra. Solo con la primavera giunsero l’insurrezione e la liberazione. Tutti sapevano che i nazisti avevano ormai perso la guerra. Ma, nella rabbia provocata in loro dalla sconfitta, molti altri sarebbero morti, molti altri ebrei arrestati, molti partigiani assassinati. A Milano, le bande irregolari fasciste imperversavano con torture e assassinii, come avevano fatto prima a Roma. La banda Koch, che torturava nella terribile Villa Triste, era stata arrestata dai tedeschi stessi per gli eccessi commessi, su sollecitazione anche dell’arcivescovo Schuster.

No, il mondo non era ancora preparato allora, nel gennaio 1945, a capire fino in fondo. Più tardi, il 15 aprile 1945, con la liberazione da parte inglese di Bergen Belsen, le immagini delle decine di migliaia di cadaveri insepolti e di prigionieri moribondi furono diffuse e conosciute ovunque. Ci sarebbe voluto ancora molto però perché si potesse farne memoria, perché l’inimmaginabile prendesse forma agli occhi di tutti, perché la volontà di tutti di guardare avanti, verso la vita, si piegasse al ricordo dei morti e del dolore. Pochi, tornati, cominciarono a scrivere ciò che avevano visto, e fra loro in Italia Primo Levi. Sarebbero divenuti i testimoni. Il primo tassello per ricostruire e raccontare quella storia che oggi, pur a tanti anni di distanza, non vogliamo e non possiamo dimenticare perché ha segnato per sempre il Novecento e le generazioni che sono venute dopo.
  • Anna Foa
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 04, 2013 10:39 am


  • Con la libertà del dono
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Come le stelle sono il sorriso di Dio nelle tenebre della notte, così le feste liturgiche illuminano di gioia e di speranza il pellegrinaggio dell’uomo credente verso la patria celeste. Nella sua sapiente pedagogia, la Chiesa ha voluto affidare ad alcune di queste feste una particolare intenzione, per la crescita spirituale dei suoi figli diversamente impegnati nella vigna del Signore. Così l’odierna festa della Presentazione di Gesù al Tempio è designata come Giornata dei consacrati: scelta ricca di suggestione e carica di significato. La liturgia di questa festa, mentre da una parte ci riporta al clima del Natale, dall’altra già ci trasporta in quello della Pasqua, ricordandoci la profonda unità del mistero di Cristo, di Colui che nasce per morire e muore per farci rinascere a vita nuova. Il Bambino, preannunziato dai Profeti e nato a Betlemme per la salvezza di tutti, dopo quaranta giorni, in obbedienza alla Legge, è presentato al Tempio e offerto per le mani di Maria. Nell’inno gregoriano proprio di questa festa, rivolgendosi a Maria si canta: Offer per quem offerimur, offri Colui per mezzo del quale noi stessi siamo offerti, quasi a voler dire: offri anche noi con Lui come «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

In questo nostro tempo, tanto segnato dal relativismo etico, dal dubbio, dall’indifferenza, dall’angoscia esistenziale, è urgente ravvivare la nostra fede nella partecipazione all’offerta sacrificale di Cristo per la salvezza di tutti. Ecco il cuore di quella «nuova evangelizzazione» di cui quest’anno il messaggio per la Giornata della vita consacrata chiede di farci carico in modo forte e incisivo. I consacrati sono, dunque, chiamati a prendere sempre più coscienza di essere offerti, ossia di essere chiamati a partecipare al mistero pasquale di Cristo attualizzato nella Chiesa. Oblatus est quia ipse voluit, si canta nel Triduo pasquale: Cristo fu offerto, perché Egli stesso lo volle; fu crocifisso, perché così Egli aderì pienamente al disegno salvifico del Padre. Al momento della professione religiosa – nel cuore della liturgia eucaristica – i consacrati pongono se stessi sull’altare – come il pane e il vino – per essere uniti al Cristo obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Quell’atto pubblico e solenne viene poi ratificato ogni giorno. Ogni giorno, infatti, si deve rinnovare l’offerta nella piena libertà e nella gioia del dono, per diventare eucaristici.

Lo Spirito Santo, che mosse Simeone e Anna ad andare al tempio per accogliere dalle braccia della Madre Colui che è Lumen gentium – la Luce e la salvezza di Israele e del mondo intero – spinge anche oggi uomini e donne a incontrarsi con Colui che è la Luce, così da diventare essi pure luce per illuminare le tenebre che sempre incombono sul mondo. Ciò comporta un impegno risoluto e costante nella santità, senza per questo sentirsi migliori, anzi, assumendo tutte le debolezze dei fratelli per stare con loro umilmente sotto lo sguardo del Padre misericordioso. Riflettendo sul mistero di questa festa, san Bernardo nota che l’offerta presentata al tempio è molto gracile e delicata, è tutta luce e gioia: è un bambino che dolcemente viene stretto tra le braccia, ma «verrà un giorno quando non sarà offerto nel tempio, né sulle braccia di Simeone, ma fuori della città, sulle braccia della croce. Verrà un giorno, in cui non sarà riscattato dal sangue altrui, ma riscatterà gli altri con il proprio sangue, perché Dio Padre lo inviò per la redenzione del suo popolo» (III Sermone per la Purificazione di Maria).

La presentazione di Gesù neonato al tempio è preludio del suo supremo sacrificio pasquale; per questo anche Maria, la Madre, ne è coinvolta: «Anche a te – dice Simeone – una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Così pure ogni cristiano, ma in modo speciale i consacrati, devono lasciarsi trafiggere il cuore. La testimonianza della fede comporta, infatti, la radicalità nel dare il primato a Dio in tutte le scelte, poiché a nulla varrebbe una fede soltanto teorica, staccata dal realismo, talvolta duro, della vita; un duro realismo che non sgomenta chi ha sempre davanti agli occhi la prospettiva escatologica, ossia il Regno eterno che già viene nell’umana storia e fa passare il tempo cronologico (chrónos) nel tempo di grazia (kairós). È proprio compito speciale dei consacrati affrettare per tutti il compimento del Regno lasciandosi coinvolgere dagli eventi della storia, ma sempre trascendendoli, istante per istante, nell’offrirsi in purezza di cuore e nello slancio oblativo dell’amore: «Per coloro che ti ignorano, prendimi, o Signore, affinché ti conoscano. Per coloro che ti dimenticano, prendimi, o Signore, affinché ti ricordino. Per coloro che ti insultano, prendimi, o Signore, affinché ti amino. Per coloro che ti tradiscono, prendimi, o Signore, affinché diano la vita per te» (Giuseppe Canovai).
  • Anna Maria Cànopi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 12, 2013 11:01 am


  • L’albero che cresce sempre di nuovo
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Non accadeva da secoli. E si pensava non potesse accadere. Il mondo, da un capo all’altro, sbalordito. «Ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum». L’austerità del latino rende appieno la drammaticità e l’essere già storia di quelle poche righe: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino...». Le parole a lungo ponderate in silenzio, maturate in un confronto serrato fra la coscienza di un uomo e Dio, erompono, inattese. Il web impazzisce. I potenti dichiarano.

Ma noi credenti, noi che amiamo Benedetto XVI, che ne ascoltiamo da anni le parole e ne conosciamo il profondo amore per la Chiesa, siamo rimasti, ieri, profondamente smarriti. Tu, te ne vai? In quanti conventi e cattedrali e chiese e missioni e case e favelas in tutto il mondo questa domanda è risuonata ieri, dolorosa. Tu, Pietro, rinunci. E noi nelle nostre fatiche e sofferenze ci siamo sentiti più soli, come un esercito il cui generale, gravato dagli anni, lasci il campo. Semplicemente, dolore: un dolore filiale è ciò che milioni di fedeli hanno sentito addosso, ieri. Noi, non sappiamo. Non conosciamo in che modo la « ingravescens aetas » abbia incalzato il Papa, sempre più da vicino, e come, rodendone le energie, abbia avuto la meglio sulle forze dell’uomo. Nemmeno possiamo immaginare quale carico di responsabilità e sfide gravi oggi sul Papa. Se sapessimo, forse capiremmo. Ciò di cui non dubitiamo è che questo gesto sia ancora e sempre di amore per la Chiesa; che Benedetto abbia pensato al bene Chiesa, prima che a sé, nel decidere. Ci sono, fra le righe degli ultimi discorsi, parole che lette oggi sembrano quasi voler consolare quelli come noi, gli smarriti. «Essendo cristiani – aveva detto il Papa nella lectio divina al Pontificio seminario romano maggiore, venerdì scorso – noi sappiamo che nostro è il futuro, e che l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma albero che cresce sempre di nuovo». Pensava già anche a noi Benedetto XVI, quando scriveva queste parole?

Come un padre che avverta il declino, e al dolore dei figli risponda facendo memoria che, in Cristo, nulla muore per sempre; e che se qualcosa sembra finire, è per rinascere ancora. Dentro una immensa storia che continua possiamo farci una ragione, nel nostro smarrimento, dell’andarsene di un padre. Non lo ameremo, per questo, di meno; anzi forse di più, come quando sulla faccia di tuo padre un giorno d’improvviso vedi quanto pesano gli anni, e i dolori. E vengono in mente le ultime due pagine di La mia vita, autobiografia di Ratzinger prima del pontificato, in cui spiegava perché, nel suo stemma di arcivescovo di Monaco e Frisinga, avesse messo un orso. Secondo la leggenda, Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga, stava recandosi a Roma quando un orso aggredì e sbranò il suo cavallo. Allora il santo ordinò all’orso di caricarsi il fardello del cavallo, fino a Roma. Alla leggenda il futuro pontefice associava un commento di Agostino al Salmo 72, in cui il santo scriveva: «Sono divenuto per Te come una bestia da soma, e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a Te». Che non sia questa, si domandava Ratzinger, un’immagine del mio personale destino? Come già avvertendo sulle spalle il giogo incombente. Il libro finiva così: «Quando sarà lasciato libero l’orso, non lo so, ma so che anche per me vale: "Sono divenuto la Tua bestia da soma, e proprio così sono vicino a Te"».

L’orso ha portato un carico grande. Ora cede agli anni, e al gran peso; per ciò che ritiene il bene della Chiesa, umilmente cede. Ci resta, luminosa, quella parola sull’albero che non muore, ma germoglia sempre e di nuovo. Sotto al cielo di piazza San Pietro, grigio in una mattina di febbraio, la Chiesa continua. E invisibili si incrociano promesse e vocazioni e destini, come fili di una trama che non sappiamo; ma che attende noi, e i nostri figli, e il Papa che verrà, in un disegno buono.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 19, 2013 3:51 pm


  • Tempo di conversione
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«Convertitevi e credete al Vangelo», sono le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (1,15b). Nel quadro di significato e di compito di questo imperativo, la Chiesa ci fa iniziare e percorrere il cammino quaresimale. Esso ci viene personalmente rivolto nella liturgia delle ceneri, il primo giorno di Quaresima. Monito di significato morale, decisivo della qualità della vita. Esso chiama a una libertà più grande. Una grandezza non misurata dalla somma dei poteri di fare e degli svincoli da divieti, ma dallo spessore morale della libertà. Liberi si è per diventarlo. Si è per natura: libertà nativa di autodeterminazione. Ma per diventarlo, nell’autodeterminazione per il bene, che rende buona la vita.

L’autodeterminazione per il cristiano prende la figura della fede. Il bene la figura del Vangelo: «Credete al Vangelo». Il Vangelo è la "lieta notizia" dell’avvento di Dio e del suo Regno: «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino» (Mc 1,15a). Annuncio che precede e fonda l’imperativo della fede, quale attitudine adeguata a riconoscerlo e accoglierlo. Nell’evento di Gesù – nella sua persona, nella sua opera come nella sua parola – il Regno di Dio è venuto a noi: Gesù è il sacramento della "vicinanza" di Dio, segno escatologico (ultimo e definitivo) del suo pro nobis. Così che in lui «il tempo è compiuto». Non c’è da aspettare un altro tempo. Con il Regno è venuto a noi il tutto di Dio. E il suo tutto implica il tutto dell’uomo, della sua libertà di fronte a Dio. Libertà che ha la forma della fede: libertà per Dio, nell’umanità sacramentale di Gesù.

Ma non c’è libertà per senza libertà da: da tutto ciò che non è Dio e vuole surrogare Dio nella nostra vita, da tutto ciò che viene a noi con le pretese del regno di Dio ma è dominio dell’uomo. Di qui il nesso fede-conversione: non c’è opzione per il Regno di Dio senza conversione da tutto ciò che impedisce a Dio di venire a noi, alla sua signoria di dimorare in noi, perché occupati e dominati da altre signorie. «Io sono il Signore, tuo Dio: non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,2-3): è l’esigenza prima della legge e della conversione cui essa muove. Una conversione basilare e originaria, come liberazione da tutte le egolatrie e idolatrie che rimuovono il primato e l’unicità salvifica di Dio dalla nostra vita. Ego/idolatrie portate e alimentate dalle religioni senza Dio di una socio-cultura che immanentizza e secolarizza l’anelito d’infinito delle coscienze e delle libertà. Per ciò stesso abbandonate alla propria finitezza. Una conversione, nel contempo, permanente e attuale da tutte le ego/idolatrie del quotidiano, fatte di appagamenti e tornaconti, vanità e banalità, che allontanano il credente da Dio e dal Vangelo, involgendolo in una rete di apatie e dipendenze che gli tolgono la «libertà dei figli di Dio».

La libertà oggi soffre di un deficit di liberazione, che le preclude l’elevazione e l’espansione morale. Liberazione che il Vangelo chiama conversione. Conversione "in radice" dalla cultura dell’avere-potere-piacere che invade e cattura il conoscere e il volere. Conversione "in situazione" da quella mistura di edonismo e utilitarismo, di autoreferenzialità e meschinità che contamina e degrada il vissuto. Per questa portata antropologica di redenzione delle coscienze e delle libertà, la conversione è un appello e un’opportunità per tutti, cristiani e no. E la Quaresima è un tempo offerto a tutti. Tempo dell’anima, perché «non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). Tempo per il silenzio, l’interiorità e l’ascolto. Tempo della cura di sé: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25). Tempo di grazia, in cui la misericordia di Dio, venuta a noi con Gesù Cristo, provoca e incontra la volontà di ritorno e rinnovamento dell’uomo.
  • Mauro Cozzoli
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 05, 2013 9:50 am

  • Questa capìta bellezza
Grazie a Dio, la musica della Chiesa è per orchestra, non per solisti e primedonne. Il canto nuovo dell’Agnello che è stato immolato – l’unico che conosce alla perfezione i toni della voce del Padre – è affidato alla coralità delle voci. Il direttore, le prime parti, le file degli orchestrali, i coristi, ciascuno col proprio ruolo e il proprio timbro, sono al servizio di una musica di Dio, che solo il Figlio poteva comporre per gli uomini. E l’ha affidata alla Chiesa. Avevo appena detto, parlando di estetica della santità e della testimonianza, di un cristianesimo che deve diventare più musicale. Il Papa Benedetto XVI ha indicato al Collegio dei Cardinali, riuniti in Vaticano per il suo congedo, l’icona dell’orchestra. La più adatta a intendere il valore aggiunto della collegialità apostolica. È la metafora giusta. Non si tratta di assemblare una macchina burocraticamente efficiente, né di lavorare col bilancino delle dosi per una ricetta di successo. Si tratta del senso della fede, della giusta intonazione, dell’intesa che nasce dall’abitudine a suonare insieme e del gusto per l’accordo migliore.

Il Collegio dei Cardinali deve dare la percezione di un’orchestra dove le diversità, che sono «espressione della Chiesa universale», concorrono alla bellezza e alla ricchezza «di una superiore e concorde armonia». E tutti devono poterla sentire. Il popolo di Dio, sorprendentemente affollato di molti dei quali «neppure conosciamo i nomi», come dice il libro dell’Apocalisse, ha colto il segnale. Il Papa Benedetto ha dato il 'la' alla giusta accordatura degli strumenti, per la prova d’orchestra che deve incominciare: con un nuovo direttore. Le moltitudini hanno sentito che questo Papa, con lo storico gesto di un congedo umile e fermo dal ministero petrino, in favore della Chiesa, la incoraggia – a cominciare dalle prime parti – a inaugurare l’epoca di una nuova performance sinfonica della fede.

Gli ultimi giorni, le ultime ore, del ministero petrino di Joseph Ratzinger sono stati affettuosamente restituiti alla loro verità e alla loro grandezza, proprio da questo popolo pellegrinante. Il suo ascolto fine dei toni di voce e dei gesti profetici di Benedetto XVI è apparso di gran lunga l’interpretazione migliore. Più acuta e precisa di molte lenzuolate giornalistiche, ossessionate dalla ricerca delle note false (con le loro sussiegose deduzioni apocalittiche, più ispirate a Nostradamus che al preteso rigore teologico delle loro proiezioni). Il sensus fidei fidelium, l’istinto della fede, ha letteralmente circondato Papa Ratzinger, mostrandosi più ammirato e intenerito di un dono alto e inatteso, di quanto non fosse – giustamente – addolorato e commosso per il distacco che lo accompagna. «È bene per voi che io me ne vada». Senza potersi liberare del tutto dallo struggimento, questo popolo ha capito la bellezza dell’atto di fede che gli è stato consegnato.

L’Anno della Fede ha avuto il suo gesto profetico. Non potrà più essere una commemorazione: sarà azione della fede, o non sarà. Quanto a lui stesso, il piccolo grande uomo che ora, nei suoi ultimi gesti del ministero che conferma la fede, ringrazia tutti e incoraggia tutti, ha sentito benissimo l’intensità di questo ascolto ammirato e attento. «Vedo una Chiesa viva», ha detto, abbracciando un’ultima volta il popolo pellegrinante che lo circondava di ammirazione e di sti­ma. E li ha chiamati amici, con una frequenza inconsueta, in queste ultime ore. Tra poco, sarò «semplicemente un pellegrino che inizia la sua ultima tappa su questa terra», sono state le sue ultime parole da Papa, nel saluto finale a Castel Gandolfo.

Congedo dalla direzione dell’orchestra, non senza lo splendido atto della conferma del suo intatto significato: tra voi, ha detto Benedetto XVI ai cardinali, «c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza». Congedo dal ministero petrino della Chiesa, ma non dal servizio totalmente dedicato alla Chiesa che ne ha indelebilmente plasmato la persona. «Vorrei ancora lavorare con tutte le mie forze, con il mio cuore e la mia preghiera, per il bene della Chiesa e del mondo». Quando racconteremo tutto questo, nella Chiesa, alle generazioni che oggi non c’erano, dovremo alzarci in piedi, e chinare lievemente il capo. E tendere l’orecchio, nella speranza di poter ascoltare, insieme con loro, la musica che deve seguire.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 11, 2013 10:01 am


  • Il soffio dello Spirito e la tentazione del «mio»
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Fate largo allo Spirito Santo. Il primo, unico, autentico grande elettore è Lui, al Conclave che si apre, con la chiusura del portone della Sistina, martedì 12 marzo 2013. Stampa, tv e web possono esercitarsi quanto vogliono in elucubrazioni, deduzioni, manovre e pronostici, sulla cui eleganza è meglio sorvolare. Ma la verità indiscutibile è che le chiavi di San Pietro sono in mani sicure e collaudatissime. Quelle dello Spirito. Con un però.

In questa circostanza, come in innumerevoli altre, lo Spirito Santo ha bisogno di collaborazione. Gli uomini infatti sono liberi. Liberi di accoglierlo, svuotando felicemente se stessi – delle proprie paure, speranze, ambizioni – per fargli spazio e consentirgli di agire, soffiando amore e sapienza nei cuori. E i cardinali riuniti nella Cappella Sistina sono uomini di Dio, ma pur sempre uomini. Quella dello Spirito Santo è, chiedendo scusa per l’ossimoro, una «forza debole», immensa e debole. Ha bisogno di un sì generoso, di un atto di umiltà e fiducia da parte dell’uomo. Questo allora noi semplici fedeli – assieme agli uomini che, pur non considerandosi parte della comunità ecclesiale, guardano alla Chiesa con speranza e simpatia – possiamo chiedere ai nostri cardinali, per questo possiamo pregare: che lo Spirito Santo trovi cuori docili in cui possa scivolare dolcemente.

Il problema – perché un problema c’è, trattandosi pur sempre di cose umane, oltre che divine – è che se in azione è lo Spirito, in movimento è anche il Nemico. Il Diavolo esiste e attende un Conclave con lo stesso gusto con cui Napoleone attendeva una battaglia campale. Come agisca in queste circostanze l’ha descritto argutamente Clive S. Lewis, il professore oxfordiano amico di J. R. R. Tolkien. Circa 70 anni fa scriveva le Lettere di Berlicche, raccolta di consigli che un alto funzionario dell’Inferno impartisce al nipote Malacoda, incaricato di traviare un giovane londinese. Berlicche conosce alla perfezione l’animo umano e le sue possibile brecce. Così suggerisce: il senso del possesso va incoraggiato, negli uomini. Mediante la confusione attorno al significato dell’aggettivo possessivo «mio». Dalle «mie scarpe» alla «mia famiglia», i miei figli e il mio coniuge, la mia azienda, la mia patria, la mia comunità... il mio Dio. Tutti vanno ridotti al «mio» delle mie scarpe, al «mio» della proprietà privata indiscussa: «mio», ossia che mi appartiene e di cui posso disporre come mi pare. In realtà, osserva Berlicche beffardo, gli uomini si accorgeranno un giorno che nulla è realmente «loro», nemmeno la vita. Ma intanto incoraggiamoli.

La Chiesa è di Cristo, e sua soltanto. E tutti noi, laici e presbiteri, cardinali compresi, apparteniamo a Lei, non viceversa. Lo Spirito Santo, per poter soffiare come sa, ha bisogno soltanto di questo. Che la tentazione diabolica del «mio» della proprietà, esteso indebitamente, rimanga fuori, extra. La porta chiusa sia quindi una porta sbattuta in faccia a Berlicche e ai suoi scherani, comunque siano camuffati e armati (persino di titoli di giornale). E sia una porta spalancata al soffio dello Spirito. Affinché diventi Papa chi Lui vuole, Lui e nessun altro.
  • Umberto Folena
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 18, 2013 10:50 am


  • Francesco, nel nome la petrosa tempra e l’anima confidente e lieta
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Ma Francesco è anche il nome di un poeta. E la poesia autentica è antiretorica. Come è stato da subito antiretorico il saluto del nuovo Papa dalla Loggia di San Pietro, e il suo inchinarsi. Come è stato antiretorico, ieri mattina, il suo racconto ai giornalisti del modo in cui quel nome gli è «entrato nel cuore» quando lo scrutinio nel corso del Conclave lo aveva già eletto, ma non si era ancora concluso. Il nome di Francesco era, nei momenti prima dell’annuncio, quasi atteso. Come se nel disperso e confuso popolo che trovava voce in piazza o nelle tante piazze virtuali tutte collegate alla casa di Pietro, si auspicasse che chiunque fosse Papa si ricordasse di quel nome che sta nei tornanti della storia della Chiesa come un respiro, un canto, una stoffa grezza ma forte.

L’assunzione di questo nome, speriamo porti anche alla liberazione di questo nome santo dalla tanta retorica dolciastra che gli è colata addosso nei secoli, con la complicità di tanti rètori. Che si possa scoprire la durissima decisione di quell’uomo, la petrosa sua tempra, la sua anima abissale e perciò confidente e lieta. Il povero di Assisi era anche poeta, e di rara qualità. Il suo Cantico delle creature sta tra le opere matrici della letteratura occidentale. Mette in scena l’universo come motivo di lode. In questa sottolineatura di un 'motivo di lode' per la esistenza stessa delle creature si fissa uno dei punti più esplosivi rispetto alla mentalità dominante, nonché uno dei cardini del pensiero cristiano. La mancanza di capacità di 'lode' o se vogliamo usare un termine affine, la mancanza di 'gratitudine' per il fatto stesso di esistere è uno dei vuoti, dei buchi in cui affonda, come in una sabbia mobile, la possibilità stessa di pensare il mondo, di conoscerlo e di conoscere se stessi.

L’uomo arido di lode per le creature è diventato incapace di apprezzare la propria stessa esistenza. Un grande poeta del Novecento, Wystan H. Auden, ricorda che la poesia consiste nel rendere onore a quel che esiste. Chi oggi plaude all’assunzione del nome di Francesco dovrà far i conti con questa profonda radice di pensiero. Si può tornare a guardare con commossa, drammatica e radicale gratitudine l’esistenza? Si può uscire dalla perplessa e aspra considerazione della vita come una specie di arresti domiciliari? Insomma, da quel modo di pensare non necessariamente strutturato in sistema di idee, ma ramificato in tanti luoghi comuni e accenti, che considera la vita una specie di brutto tiro del destino, un luogo dove siamo capitati e dove i più fortunati sono almeno allietati da salute e successo mentre coloro che sono colpiti da insanità o sventura quasi non si capisce perché mai debbano continuare a esistere.

Francesco non aveva dubbi: essere qui, nel mondo, tra le creature, è un motivo di letizia, di lode. La sua 'perfetta letizia' non consisteva in una beota spensieratezza. Ma nasceva dal custodire in cuore un motivo invincibile di gioia: Cristo, il Dio che cammina con la croce, che muore d’amore per le sue creature e le trascina verso la vita. Come ogni poeta e soprattutto come ogni santo Francesco sapeva che nella scena del mondo c’è l’orrore, la discordia, la fatica e la sofferenza. Baciò il lebbroso, parlò con il lupo. Nel suo Cantico delle creature il poeta Francesco dice che l’uomo in questa grande scena è motivo di lode in quanto soffre e sa perdonare.
L’uomo che soffre e perdona è il culmine del creato, la cosa più vertiginosamente bella. Ciò che non è frutto di nessuna combinazione chimica o di meccanismi causa-effetto. Il santo, il poeta Francesco d’Assisi lo sapeva. Papa Francesco lo sa, e già sfida la retorica del mondo.
  • Davide Rondoni
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mar 26, 2013 3:49 pm


  • Quel «ricordati di me» di tutti noi ladroni perdonati
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La Settimana Santa, la memoria della resurrezione, i giorni dedicati al mistero dei misteri iniziano con il ricordo di un delinquente. Ieri, lunedì santo, era san Disma. Il ladrone. Quello crocefisso con Gesù. Un poco di buono. Uno che aveva meritato il supplizio da schiavo, da rifiuto umano. Uno che si è trovato a gridare insieme a Lui per i chiodi nella mano. E per il respiro che mancava, il respiro che impazziva. E che era lì – come mormora lui stesso – giustamente. Secondo giustizia. Aveva rubato, sfasciato vite, beni, aveva messo le mani dove non doveva. Come tutti noi, io penso. Che siamo un po’ tutti ladri. Di vita, di persone, di cose, di aria, di pensieri. Disma, il primo a entrare in paradiso con Gesù, il primo invitato, volle rubare anche il paradiso. Volle compiere il colpo migliore che gli poteva riuscire.

Si dice che l’occasione fa l’uomo ladro. E lui ebbe, mentre nessuno se l’aspettava, proprio la grande occasione. Migliore di tutte le altre in cui era diventato ladro. Così è diventato il più grande ladro della storia. Sul Golgota il suo cuore di cacciatore d’occasioni non lo tradì. E riconobbe che Chi gridava e ansimava vicino non era uno come gli altri. Non era come quell’altro che gridava e moriva bestemmiando. Il cuore di Disma, patrono di noi tutti ladri di vita, fu sveglio e attento alle occasioni fino all’ultimo. E fu schiantato di umiltà, di realismo, fu pieno del rimpianto di dover morire e allora fece l’ultimo furto, trasformando la rapina in invocazione, la delinquenza in mendicanza: ricordati di me... Chiese al Morente accanto a lui quel che tutti chiediamo quando diventiamo da ladri mendicanti: ricordati di me. Lo diciamo ai nostri amori, ai nostri cari, lo diciamo al vento, alla notte stellata, a Dio. Ricordati di me. Furto e supplica coincisero sulla bocca insanguinata di Disma. Perché aveva riconosciuto, pur in fondo all’orrore, che lì c’era una Presenza nuova, una santa presenza. Più forte di ogni suo male.

La Chiesa richiama il senso del peccato, non il senso di colpa. L’esempio del delinquente santo che ci accoglie alla porta della Pasqua è richiamo alla differenza che corre tra il senso del peccato e il senso di colpa, se così si può dire. La nostra è un’epoca piena di senso di colpa. Gli errori stanno come macigni a ingombrare a lungo i rapporti, le coscienze. Una certa diffusa ansia e un certo vasto cinismo hanno radice proprio nel vedere la vita propria o altrui segnata irrimediabilmente da colpe e errori. Anche il ricorso a supporti di tipo psicoterapeutico è motivato spesso dalla necessità di rimuovere macigni di questo genere. Il peccato invece non è "irrimediabile". Lo insegna Disma, ladro in croce. La sua invocazione ha per così dire traversato in un baleno ogni senso di colpa, lo ha distrutto diventando senso del peccato. Che è composto dal riconoscimento che c’è una Presenza la quale anche all’ultimo istante, anche nelle condizioni più dure e oscene – sul patibolo! –, può aprire la vita ai suoi giardini sperati. Al paradiso. A Lei ci si rivolge con una supplica senza pudore. Il senso di colpa invece blocca davanti a uno specchio.

E fa crescere ansia, rabbia, frustrazione. Disma il ladro è una spina nel fianco a ogni moralismo moderno, al tentativo di sostituire il duro fertile senso del peccato con l’angoscia arida del senso di colpa. La confusione tra i due è stata promossa dalla mentalità borghese, dalla sua presunzione di fare a meno di dover supplicare, coi risultati di ansia e di rigidità psichica che vediamo. Un uomo che non invoca perdono viene divorato dai sensi di colpa, oppure li deve sopire, a qualunque costo. Un grande peccatore che invoca vede invece schiudersi il cielo anche nella condizione più tenebrosa.
  • Davide Rondoni
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 09, 2013 3:49 pm


  • L'immensa forza
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La voce del Papa torna e ritorna sulla parola «misericordia», sulla misericordia immensa di Dio. (Già all’alba del giorno dopo l’elezione, quando scompigliando sicurezza e cerimoniale era andato a pregare a Santa Maria Maggiore, se ne era uscito raccomandando ai confessori della Basilica: «Siate misericordiosi»). E domenica in San Giovanni in Laterano è tornato su questa parola; aggiungendone di nuovo un’altra, «pazienza». Quella di Dio, ha detto è una «misericordia paziente». È, dunque, l’infinita attesa di un Dio che spera di riabbracciare ogni uomo. «La parabola del figliol prodigo mi dà sempre una grande speranza», ha detto il Papa: e sembra, a chi lo ascolta, l’asse portante di questo inizio di pontificato.

Viene in mente un breve intervento nei lavori del Sinodo sulla nuova evangelizzazione, nel 2012, pronunciato dal cardinale Dziwisz, arcivescovo di Cracovia ed ex segretario di Giovanni Paolo II. L’annuncio della misericordia di Dio, aveva detto Dziwisz , «sembra quello che più tocca il cuore dell’uomo di oggi, chiuso in se stesso e in un’apparente autosufficienza, eppure in cerca di senso della vita e di motivi di speranza». Analisi evidentemente condivisa da Papa Bergoglio; certezza che il pastore argentino si è costruito in anni in confessionale, quel lavoro silenzioso e oscuro che ogni giorno costruisce i cristiani e la Chiesa.

Una misericordia paziente. Un attendere nella speranza, contro ogni ragionevolezza, con un cuore grande, neppure sfiorato dal rancore e nemmeno interessato alla povera, limitata giustizia degli uomini. Qualcosa di molto più ampio, anzi di infinito, che fatichiamo a figurarci; una "giustizia" che, anziché punire, fa rinascere.

E la pazienza? Tra noi, la pazienza non sembra neanche più una virtù. Si è uomini in quanto si decide, si agisce, si fa – senza attese che paiono solo indugio e debolezza. E Dio, invece, che resta, fedele, immobile, e spera; che è lì se un uomo torna, e lo aspetta. La straordinaria pazienza di Dio di cui Francesco continua a parlarci sta affascinando gente da tempo lontana. Gente che da quelle parole dopo anni, magari, si è sentita interpellata; quasi che quel Padre di misericordia, attraverso il Papa, si rivolgesse proprio a loro.

C’è solo un’unica, minima condizione necessaria a quell’abbraccio: «Proprio nel sentire il mio peccato, nel guardare il mio peccato io posso vedere e incontrare la misericordia di Dio», ha detto Francesco. E per spiegarlo ha citato Pietro, che per tre volte aveva rinnegato, «e quando tocca il fondo incontra lo sguardo di Gesù». Ha citato il figliol prodigo, che pure aveva sperperato tutto di sé, aveva, ha ripetuto Francesco, «toccato il fondo». La sola condizione per incontrare la misericordia di Dio è nel riconoscersi peccatori, dunque; forse perché fino a quel momento è la propria vanagloria, o il credersi "a posto", che annebbia lo sguardo. Francesco ha ricordato San Bernardo, che si chiedeva su quali propri meriti poteva contare e rispondeva, con fierezza: «Mio merito è la misericordia di Dio».

L’immenso abbraccio di cui il Papa insistentemente ci parla è per ognuno, e anche per chi si crede il peggiore. Domanda soltanto uno sguardo, per un momento, sincero. Un rinunciare alla pretesa di essere autosufficienti e padroni di sé; o anche, nei cristiani "abituati", l’umiltà di vedersi davvero e riconoscersi non migliori degli altri, e peccatori. Non è un passaggio da poco, questo, né per i lontani né per i credenti. Ma è la porta: «Nel guardare il mio peccato io posso incontrare la misericordia di Dio».

Lo ha detto Francesco ai romani, che da subito gli hanno voluto bene – come avendo in lui riconosciuto qualcuno che aspettavano. Possibile? Ma «cor ad cor loquitur», il cuore di Dio parla al cuore dell’uomo, come concludeva Dziwisz quel suo intervento al Sinodo sulla misericordia. (Era felice, il giorno dopo il Conclave, l’ex segretario di Wojtyla: «Anche questo Papa – confidava a un giornale lombardo – spalancherà porte»).
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 19, 2013 8:35 am


  • Quell’abbraccio di popolo a una presenza nascosta ma vicina
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Gli auguri come a una persona amata, irraggiungibile e però vicina. Che si fa ormai vedere poco – anzi affatto – ma di cui si rispetta la scelta di vivere ritirata. «Ti voglio un mondo di bene». «Mi manchi tanto». «Cento di questi giorni». «Un forte abbraccio». «Vorrei saper dire qualcosa di bello che la faccia sorridere, riesco solo a dirle: le voglio bene». Auguri spontanei, come a uno di famiglia. Genuini. Veri. Sembra quasi che aspettassero solo l’occasione giusta, le centinaia di persone – ormai ben oltre il migliaio – che ieri, in una manciata di ore, hanno lasciato un messaggio di auguri al Papa emerito nel giorno del suo 86° compleanno. Un "guestbook" al quale si accede dal sito internet di Avvenire, un invito semplice a rivolgere gli auguri a Benedetto XVI. E una risposta impetuosa, con post che arrivano come un fiume in piena. Segno che il silenzio aspettava solo di essere rotto, la distanza solo di essere colmata, la frequentazione di essere rinnovata. «Wish you all the best», scrivono dall’Indonesia. «Felicidades», riecheggiano dalla Spagna. E poi messaggi dalla Germania, dalle Filippine, dalla Polonia...

Benedetto è nel cuore del popolo cristiano, la separazione inaspettata ha lasciato attoniti, ma non ha interrotto il dialogo con lui. Le parole sono tracimate alla prima occasione. Come se il nuovo e travolgente affetto per papa Francesco, l’attesa e la speranza che quotidianamente suscitano le sue parole, poggiassero le radici sulla tenera amicizia e sulla comunione profonda con il suo predecessore. Come se fossero due persone della stessa famiglia. E in realtà lo sono. Hanno scritto a Benedetto persone che lo hanno visto da vicino, come una sedicenne spagnola paraplegica che ricorda con commozione l’incontro durante la Dedicazione della Sagrada Familia a Barcellona nel 2010. Persone che lo portano nel cuore per i suoi insegnamenti, i suoi scritti, «l’educazione alla pace, l’idea dell’onnipotenza disarmata», come Sergio Paronetto di Pax Christi. Semplici famiglie toccate dal coraggio di quel gesto così inedito di lasciare il Pontificato. «Grazie per averci insegnato che anche i grandi come te possono farsi umili», scrive la famiglia Innocenti da Buccinasco.

Sembra prendere corpo quello che Papa Benedetto aveva detto nel suo ultimo Angelus, domenica 24 febbraio: «Il Signore mi chiama a "salire sul monte", a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi». Continuate a sentirmi vicino, aveva chiesto. E moltissimi post arrivati a www.avvenire.it colgono a fondo la dimensione evangelica dell’esistenza ora quasi eremitica del Papa emerito: «È forte la certezza che la sua vita è dono fino all’ultimo per la sua e nostra amata Chiesa», scrive suor Teodora da Pietrarubbia. Le fa eco Giovanna, con l’augurio «che la sua preghiera sia ancora più fruttuosa di tutto il bene che ci ha infinitamente iniettato».

È come se la preghiera di Benedetto accompagnasse i gesti di Francesco, in una comunione inedita e straordinaria che coinvolge tutta la Chiesa, fino al suo più piccolo e umile componente. «Ci manca come padre e come maestro, come teologo ed esegeta – scrive Francesco da Acireale – ma sappiamo che sempre ci sarà vicino nella grande comunione della Chiesa». Piccoli, brevi messaggi, che restituiscono l’immagine di un popolo che vuol bene ai suoi pastori. E che guardandoli riscopre l’unica sua autentica ricchezza: Cristo.
  • Antonella Mariani
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 26, 2013 10:42 am


  • Caro fratello, non toglierci la tua vita
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Caro fratello che non vuoi più vivere, ti scrivo perché tu non ti tolga la vita. In questi giorni stiamo tutti sentendo brutte notizie su chi come te, per ragioni cosiddette economiche – ma non sono solo tali, tu lo sai – hanno compiuto il gesto volontario di transitare oltre il confine estremo. E ho paura di non scrivere bene perché vorrei usare parole dirette, sincere, efficaci e trovarle è difficile. La cosa che non ti dirò è che ti sono vicino, perché io e anzi tutti noi ti siamo stati lontanissimi. Abbiamo sfiorato la tua angoscia camminando per strada come se fossimo disinteressati a vederla; sicché tu, fratello, in questa vicenda di nascita e fine, di carne e sangue, di respiro e pensiero che ci accomuna tutti e ha nome vita, ti sei sentito così solo, da pensare che se ti fossi tolto di mezzo qualcuno si sarebbe accorto di te e tu avresti finalmente pacificato la mente e il cuore.

Facciamo un patto, allora: che griderai, prima. Che lo farai magari nelle forme della società mediatica, del villaggio di solitudine globale in cui viviamo, scrivendo due righe, con parole tue, a questo giornale, in una lettera intitolata: 'Vorrei morire perché…'. E ci dirai perché. Non decidere nulla da solo, chi si sente solo sta già morendo, l’ha detto uno scrittore che si chiamava Conrad e che indagava la tenebra nel cuore dell’uomo: «Si muore come si sogna, soli». Ma tu non stai sognando, hai gli occhi ben aperti sulla vita e quindi non sei solo: lascia che ti accompagniamo. Per un po’ almeno, fino a rifare i primi passi. Come quelli che ti ha insegnato tua madre tanti anni fa tenendoti per le braccine, e non vorrebbe, adesso, che tu non camminassi più.

Hanno scritto che per debiti ti avrebbero tolto la casa. Sai, abbiamo costruito un mondo spietato, sotto cui scorre un fiume di violenza e veleno, in cui il debito si sconta togliendo al debitore il suo rifugio, forse più per punirlo che per ripianare in parte il debito. Duemila anni fa Qualcuno disse: «Le volpi hanno le tane e gli uccelli i nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove poggiare il capo». Forse pensava anche a te. Ma di sicuro pensava a noi quando diceva: «amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi». Non ci siamo riusciti con te, vuoi proprio dimostrarGlielo? Dacci la possibilità di farGli vedere che per una volta l’abbiamo ascoltato.

Dacci una mano. Tu aiuta noi. Mettici in condizione di condividere: parla chiama scrivi fatti sentire raccontaci piangi se vuoi, e noi diremo le parole che il tuo cuore vuole ascoltare. Mettici al tuo fianco: lasciaci gridare insieme a te che questa società è disumana, e che c’è un’altra società, che quel Qualcuno ha indicato, già nata tra te e noi e in cui l’uomo è di aiuto all’altro uomo. Pensa a noi con tenerezza.

Noi sappiamo meno cose di te, non siamo mai arrivati al tuo baratro, tu solo hai raggiunto la tua – personale, universale – cognizione del dolore. Insegnacela. Facci guardare dentro il tuo cuore. Non precipiterai nell’abisso, ti tratterremo noi, ma tu, prima, ci avrai arricchiti di te, sicché sarà un ben piccolo prezzo continuare a darti la vita. Ecco, forse solo adesso sono riuscito a dire la frase che volevo scrivere e che non è «non toglierti la vita», ma «non toglierci la tua vita». Perché non lo sappiamo dire, ma è preziosa per noi.
  • Giovanni D'Alessandro
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 07, 2013 3:41 pm


  • Un padre che parla a tutti e a ciascuno
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A poco più di due mesi dalla sua elezione, si può dire che abbiamo ascoltato le parole di Papa Francesco come fossero rivolte a ciascuno di noi, personalmente. Sin dalla sua presentazione, e benedizione, ha parlato ai romani come loro vescovo, ha chiesto di pregare insieme per la sua missione, e ha annunciato una Chiesa che vuole vivere e agire tra la gente, senza lasciare spazi vuoti, a cominciare dalle periferie, dagli ultimi. La Chiesa che porta il suo messaggio a ogni essere umano è l’orizzonte nel quale il pontificato si va sviluppando con un magistero che tocca i grandi temi della vita, i problemi dell’esistenza, le scelte che si devono compiere, si rivolge direttamente al cuore e ai sentimenti come parti integranti dell’esperienza umana. Papa Francesco ha parlato più volte della misericordia, che muove dalla pazienza di Dio verso l’uomo, in quel tempo di attesa che dura tutta la vita e che Dio ha donato perché chiunque di noi cresca, si apra agli altri, nella consapevolezza che la Chiesa è il luogo dell’ascolto, del sostegno, della speranza, per chiunque voglia credere, migliorare, fare il bene, riparare il male.

Parlando ai sacerdoti, il tema della misericordia è stato indicato quasi come il culmine della loro missione, perché siano pastori tra la loro gente, pronti a comprenderne le difficoltà, le ansie che la vita presenta, a dare risposte alla luce della verità cristiana, a far sentire la Chiesa come la casa di tutti. Alla misericordia della Chiesa deve corrispondere la carità dei cristiani verso i propri simili, verso i più deboli e i più bisognosi, deve corrispondere quel sentimento di amore e vicinanza agli altri sulla base del quale l’uomo sarà giudicato, perché il cristianesimo vuole realizzare una rete universale di solidarietà che unisca gli uomini, li faccia sentire vicini gli uni agli altri. In questo quadro generale, si comprendono bene i richiami del Papa alla felicità che possiamo provare per la vita che si è avuta in dono e per essere cristiani, perché Gesù ha dato uno scopo all’esistenza, che non rende tristi, può solo dare gioia, spingere ad essere attivi, presenti, non passivi o esitanti. La fede che dà felicità si intreccia, nel pensiero del Papa, con la sua trasmissione attraverso i legami familiari, il fluire delle generazioni, nel rapporto diretto tra genitori e figli e nel modo di vivere cristiano che con la sua coerenza testimonia la fede, la rende forte nella nostra coscienza, le dà credibilità agli occhi di tutti.

Con speciale intensità il Papa si è rivolto più volte ai giovani, ai quali ha dedicato una lettura esaltante della parabola dei talenti per spronarli ad avere coraggio, agire per grandi ideali, non chiudersi in una vita priva di entusiasmo, a sviluppare le proprie capacità sapendo che esse sono dono di Dio, che chiede di farle fruttare. L’uomo è custode di potenzialità spirituali, intellettuali, materiali, donate dal Signore, che vanno realizzate in una concezione attiva, protagonista, dell’esperienza umana.

«Non abbiate paura di sognare cose grandi» ha concluso il Papa nell’ultima udienza, riconoscendo alla giovinezza il ruolo di fondamento e di motore della vita che deve realizzarsi. Nel cuore del giovane sono racchiuse le sue qualità, le doti, le capacità di farsi uomo, spetta a lui non sprecarle, metterle a frutto, guardando in alto, senza compromessi riduttivi perché il messaggio evangelico è rivolto all’homo faber per il quale la presenza di Gesù è reale, è sostegno della giovinezza, di ogni fase della vita. Il Papa ha parlato anche ai grandi della terra, chiedendo fratellanza e giustizia per tutti i popoli, implorando perché si lavori alla pace in ogni parte del mondo. Ha parlato alla Chiesa, con l’annuncio delle prime riforme, perché sia sempre struttura di servizio a favore degli altri.

E ha richiamato con forza la centralità dell’unità dei cristiani e l’importanza del rapporto con le altre religioni, così decisivo nel pontificato di Benedetto XVI, perché il mondo sia terra di pace nel nome della comune fede in Dio. Questa parte del programma d’azione pontificia, che si svilupperà nel prossimo futuro, è incastonata nei grandi messaggi che Papa Francesco ha voluto inviare a tutti gli uomini, anche ai non credenti, ai quali si è rivolto con particolare attenzione e delicatezza, perché la Chiesa non vuole trascurare nessuno, neppure chi sembra più lontano, intende favorire ogni possibilità di incontro e di dialogo sui temi che interrogano la profondità delle coscienze.
  • Carlo Cardia
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 10, 2013 11:23 am


  • Esseri umani sul bancone
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La grande crisi economica dalla quale fatichiamo a uscire non ha neppure lambito il mercato, enorme e profittevole, della fecondazione assistita, nel quale tutto si compra, tutto si vende e ogni cosa ha il suo prezzo, dai corpi delle donne ai figli. È un fenomeno globale, una realtà purtroppo consolidata della quale non si ha ancora – o non si vuole avere – la consapevolezza che meriterebbe. Cresce tuttavia il numero di chi denuncia questa riduzione di esseri umani a 'mercanzia', ammantata da giustificazioni scientiste o dal verbo individualista dei «diritti insaziabili», che per saziare alcuni, finiscono per togliere tanto a tanti altri. Finora anche i più convinti sostenitori di procedure come la fecondazione eterologa e la relativa compravendita di gameti, o la maternità surrogata, hanno mostrato un certo imbarazzo a parlare apertamente di 'commercializzazione' a riguardo, preferendo piuttosto espressioni come «donazione altruistica» o «atti solidali», magari con relativi «rimborsi spese».

Ma le bugie, si sa, hanno le gambe corte. Non durano: è sempre più difficile continuare a negare che quello dei figli in provetta sia innanzitutto un mercato lucroso. E quindi si comincia ad ammetterlo, con tutte le giustificazioni del caso. È il caso, per esempio, di una rivista prestigiosa come il New England Journal of Medicine, in cui recentemente in un articolo si sono discussi i pro e i contro della vendita di embrioni «fabbricati su ordinazione». «La proliferazione di fonti commerciali di gameti (cioè banche di ovociti e spermatozoi) ha aperto la porta a un’industria di embrioni fabbricati su ordinazione nei quali gli embrioni sono generati avendo in mente una transazione commerciale. Questa prospettiva di una banca profit di embrioni non è più teorica», scrivono gli autori, che, citando notizie raccolte dal Los Angeles Times, spiegano l’attività in questo senso di alcune cliniche, con un linguaggio squisitamente commerciale.

Sono proprio le cliniche, non i «clienti» a controllare gli embrioni, tagliando sui costi: «Da un donatore di ovociti e da uno di sperma si crea un singolo lotto di embrioni, che poi si divide fra diversi pazienti». In questo modo «si fanno bambini per tre o quattro pazienti mentre si pagano i donatori e il laboratorio solo una volta». Segue un dotto discettare sui vantaggi e i pericoli della donazione piuttosto che della vendita degli embrioni, e si riflette, per esempio, sul fatto che «scegliere se particolari bambini saranno o meno prodotti, è più simile alla vendita di gameti che a quella di bambini» (considerata dagli autori, bontà loro, chiaramente illecita). In conclusione si osserva la mancanza di una legislazione dedicata, e si invita a provvedere qualora la vendita di embrioni fatti su ordinazione diventi una realtà praticabile.

Molto si potrebbe dire sui toni apparentemente asettici con cui gli autori trattano l’argomento: è il metodo infingardo con cui certa accademia nasconde pesanti giudizi di valore dietro presentazioni falsamente neutrali ed equilibrate, ponendo sullo stesso piano e dando quindi la stessa legittimazione a orientamenti assai diversi. Quando si paragonano la possibilità di adozione, donazione e vendita di embrioni, come se tutte le opzioni fossero uguali, si dà un giudizio di valore ben preciso: gli embrioni possono essere ugualmente considerati persone o merce, ed entrambe le posizioni, a giudizio di lorsignori, sono ragionevoli ed accettabili. Ma l’articolo in questione rivela anche altro, e cioè quanto oramai sia diffuso e tollerato il mercato della fabbricazione dell’umano, quanto sia entrato a far parte del nostro orizzonte quotidiano. Un monito, specie per chi vorrebbe ostinatamente abbattere gli argini posti a tutto questo dalla nostra legge 40 sulla procreazione assistita: chi si ostina a voler togliere alcune garanzie, spacciandole per «limiti crudeli e antiscientifici», ammetta con onestà e chiarezza che la fiera della fecondazione assistita non lo disturba.

L’iniziativa Uno di noi, con la quale in tante parrocchie e piazze italiane domenica 12 maggio saremo invitati a chiedere all’Europa con la nostra firma la protezione giuridica dal concepimento di ogni essere umano, vuole essere un contributo anche in questo senso, contro la riduzione a merce della donna e dell’uomo, sempre e comunque.
  • Assuntina Morresi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 17, 2013 8:54 am


  • Alla ragione e alla fede
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Domenica scorsa, al Regina coeli in piazza San Pietro, Papa Francesco ha rivolto un accorato «invito a mantenere viva l’attenzione di tutti sul tema così importante del rispetto per la vita umana sin dal momento del suo concepimento», incoraggiando «l’iniziativa europea Uno di noi, per garantire protezione giuridica all’embrione, tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza». In solida continuità con il magistero dei suoi predecessori (quanti avessero auspicato o atteso un cambiamento di rotta sono rimasti delusi), il Pontefice ha fatto propria la causa del Vangelo della vita, scendendo in mezzo a «coloro che hanno a cuore la difesa della sacralità della vita umana» come un Padre, un fratello e un amico.

L’invito del Papa getta una luce preziosa sul compito che attende il 'popolo della vita' – l’espressione, introdotta nel Magistero romano da Giovanni Paolo II, ricorre otto volte nell’enciclica Evangelium vitæ – dopo la straordinaria iniziativa della raccolta di firme per l’applicazione nella legislazione dell’Unione Europea del principio antropologico, etico, sociale e giuridico che la dignità umana e il diritto alla vita riguardano ogni essere umano, fin dal concepimento. Ed è questo: una mobilitazione culturale ed educativa permanente per «mantenere viva l’attenzione di tutti», credenti e no, per risvegliare le coscienze e prevenire l’assuefazione e la rassegnazione di fronte alle soverchianti aggressioni contro la vita umana quando essa è più fragile, nascosta, incapace di difendere se stessa. La difesa e l’accoglienza dei piccoli (non solo per l’età, ma anche e anzitutto per la debolezza, come lo sono anche gli anziani, i disabili, i malati gravi e i morenti) è la difesa e l’accoglienza – genuinamente evangelici – dei più poveri tra i poveri di questa terra, che «avremo sempre con noi» (cf. Gv 12,8). Lo stile schietto, semplice e incisivo di Papa Francesco ha mostrato ancora una volta la tenace unità dello sguardo che il Vangelo getta sulla cultura e sull’educazione della persona, del credente cittadino: il «Vangelo dei poveri» e il «Vangelo della vita» non sono separabili, e, di conseguenza, l’impegno sociale e politico per la giustizia, la pace e la tutela del creato implicano la dedizione alla buona causa della vita umana (la vita è un bene fondamentale, sempre), e viceversa. Ogni separazione introdurrebbe una lacerazione nella lettera e nello spirito della vita cristiana e costituirebbe, ultimamente, un tradimento del Vangelo stesso.

Non abbiamo difficoltà a riconoscere che le iniziative dei comitati e dei centri di bioetica e le battaglie dei movimenti per la vita, delle associazioni e dei centri di aiuto alla vita non hanno solo concrete finalità giuridiche e operative, ma rappresentano un appello, una provocazione alla ragione e alla fede perché, nel loro essenziale compito educativo, introducano i giovani, gli adulti e le famiglie alla realtà totale della vita, senza censurarne alcuna dimensione. Una vita da accogliere, far crescere, custodire e difendere, una vita da amare perché «buona» in se stessa, sempre, a prescindere da ulteriori determinazioni qualitative e quantitative, cronologiche, etniche, nosologiche o economiche. La vita fisica non è solo la mera vita 'biologica' (riduttivamente intesa) dell’uomo – essa è già la dimensione radicale di ogni esistenza personale – ma manifesta anche e anzitutto un carattere antropologico, il solo capace di fondare e garantire la nostra inalienabile dignità, l’intelligenza, l’affettività e la relazionalità. La possibilità di crescita e di sviluppo individuale e sociale dipendono da essa, così come l’istruzione, il lavoro e la pace. Educare alla vita è possibile, sempre, ed è il compito che ci attende, civilmente ed ecclesialmente per contribuire alla «ripresa dell’umano», condizione imprescindibile di ogni altra ripresa sociale ed economica. Una responsabilità ancora più tenace e feconda, cui l’iniziativa Uno di noi ha dato testimonianza e il Papa incoraggiamento.
  • Roberto Colombo
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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