All'ombra del sicomoro...

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 08, 2010 5:43 pm

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  • Non cediamo al grigiore: viviamo davvero!
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È, questo, l'editoriale più difficile da scrivere, collocato com'è su un crinale da cui si diramano gli orizzonti di due anni. Da un lato, ci si affaccia sulla valle dei giorni ormai finiti, non di rado archiviati col timbro del pessimismo, quasi fossimo sempre in presenza di un annus horribilis.

L'ironico 'Dizionario del diavolo' dell'americano Ambrose Bierce non aveva esitazioni. Alla voce 'Anno' recitava: «Periodo fatto di 365 delusioni». D'altro lato, si allarga la pianura dei giorni futuri sui quali cade, invece, la retorica degli auguri che spargono ottimismo e certezza di felicità e prosperità. Su questo crinale mi avventuro anch'io per condividere, però, coi lettori solo poche e semplici riflessioni.

Lo spunto della prima me lo offre un cantautore che tutti conoscono, Claudio Baglioni: «A volte più che di un mondo nuovo, c'è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo». Siamo spesso afflitti da una sorta di daltonismo spirituale; il nostro sguardo non è più abilitato a cogliere la ricchezza dei colori; indossiamo lenti scure che ci mostrano solo l'ombra della storia, immaginandola soltanto sotto il segno del male, della perversione, della negazione. Ignoriamo che, accanto all'egoismo, all'indifferenza e alla vacuità di molti, c'è una folla di persone che si dedicano silenziosamente ai miseri della terra, attraverso un volontariato sempre più generoso. Ci sono chiese e comunità che assumono anche su di sé il carico della crisi che attanaglia tante famiglie. È quel bene – come ha detto Benedetto XVI – sul quale non si puntano mai i riflettori dell'informazione.

C'è un altro pensiero che vorrei condividere. Essi hanno ragione di indignarsi nei confronti della corruzione pubblica e privata che anche lo scorso anno si è ben attestata sulla scena mediatica, oppure di sbuffare davanti a una politica così litigiosa e inconcludente. Certo, speriamo che un ritorno di saggezza si manifesti e si insedi nei palazzi del potere politico ed economico, anche sulla base degli appelli del presidente della Repubblica, di tanti pastori e persone stimate e oneste. C'è, però, un'ulteriore necessità primaria che riguarda quello che potremmo chiamare il ritmo del respiro della vita sociale. «Per compiere grandi passi, non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo pianificare, ma anche credere». Era lo scrittore Anatole France a suggerirlo nell'Ottocento, ma l'idea è forse più adatta alla situazione odierna in cui un po' tutti – e non solo i governanti o i protagonisti della vita pubblica – ci siamo assuefatti al piccolo cabotaggio, all'interesse privato, al vantaggio e alla sicurezza personale o di gruppo. Clint Eastwood in un suo film aveva questa battuta ironica: «Se vuoi una garanzia a tutti i costi, allora comprati un tostapane!».

Nella scuola, nella famiglia e talora persino nella religione ci si accontenta sempre più del minimo comun denominatore. Sappiamo, però, che quando ci si abitua alle piccole cose, si diventa incapaci delle grandi. Ecco, infatti, l'incombere dei luoghi comuni, il rinchiudersi a riccio nella propria cerchia, il timore per gli orizzonti vasti che si aprono, l'assenza degli ideali, la caduta della ricerca della verità e dei valori permanenti. Per essere veramente uomini e donne bisogna coltivare sempre un sogno, un progetto, una fede, non rassegnandosi alla banalità, alla bruttezza, al grigiore, alla sopravvivenza. La stessa cura del creato, generatrice di un'armonia serena, a cui ci ha rimandato ieri il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della pace, partecipa di questo respiro più alto.

Giungiamo, così, a un'ultima riflessione un po' scontata. Ogni nuovo anno è una porzione di tempo che ci è offerta. E proprio perché il tempo non è 'infinito' come l'eternità, ha in sé la stimmata della fine e, diciamolo pure (anche se questa parola è oggi esorcizzata), può avere in sé anche la morte. L'augurio che, allora, vogliamo pro­porre a noi e a tutti è quello che ci ha lasciato un grande pensatore come il cardinal Newman: «Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non cominci mai davvero».
  • Gianfranco Ravasi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 08, 2010 6:00 pm


  • Sotto il segno della torre e del povero
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Due notizie apparentemente riferite a cose lontane colpiscono in questi giorni. Ieri è stata inaugurata a Dubai la torre grattacielo più alta del mondo. La Burj Khalifa di 828 metri di altezza. Supera di gran lunga le sorelle di Taipei (508) e le Petronas malesi di Kuala Lumpur (452). Figuriamoci di quanto svetta su quei grattacielini oramai mignon che pur ci stupiscono ancora in giro per Manhattan o quelli progettati con gran sussiego a Milano. Però c’è un problema: Dubai è attraversata da una crisi profonda, e la torre che doveva gridarne la potenza economica al mondo diviene un simbolo grottesco (e per metà sfitto, visto che gli appartamenti non son per nulla andati a ruba…). E l'altra notizia riguarda il numero di coloro che sono in Europa a rischio povertà. Una cifra enorme, 78 milioni. A costoro un po' di riparo viene dai cosiddetti 'ammortizzatori sociali'. E dalla gran carità diffusa tra il popolo.

La gran torre di Dubai è stata lanciata al cielo come segno di potenza. Facevano così già le famiglie medievali nelle nostre città e nei borghi d’Italia. Tra le due torri di Bologna e questa nuova di Dubai corre un filo diretto: manifestazioni di potere e di prestigio. E l'Europa che si sta dotando di organismi politici di governo tesi a farne una potenza unica, scopre di avere così tanti suoi abitanti sulla soglia della povertà. Due potenze che scoprono di non esserlo. O di esserlo molto meno di quanto pensavano.

La torre e il povero sono due segni della nostra epoca. Forse i due principali segni della nostra epoca, si potrebbe dire come di ogni epoca. In ogni regno antico c'è stata la costruzione di torri e la plebe piangente. Così in ogni regno moderno e ora anche nella nostra epoca. Che pensa di essere diversa, che ha millantato per tanto tempo d'essere la 'moderna', la 'nuova', la 'più avanzata', e invece si ritrova come le altre: con la torre che evoca un prestigio destinato a passare, e con le folle dei poveri vicino a casa, anzi in casa. C'è qualcosa di vertiginoso nell'accostare questi due segni. Queste due notizie simbolo. Dubai con il suo mercato finanziario e immobiliare che parevano aver inserito il turbo fino a pochi mesi fa, erano visti come la nuova mecca, il futuro. E l'Europa pur tra mille difficoltà raggiungeva lo status di grande realtà politica, con un presidente, un ministro degli esteri (anche se quasi nessun europeo sa come si chiamano). Ma ecco che la grande costruzione economico-finanziaria e la grande architettura politica mostrano la loro debolezza. La loro fragilità.

La torre e il povero. La torre in rovina già all'inaugurazione e il povero che non cessa di rovinare la festa alla corte dei potenti sono il segno anche della nostra epoca. Che non è in definitiva né migliore né peggiore di quelle che i nostri avi si sono trovati a vivere. Che non è più forte solo perché si autodefinisce più moderna. Il problema di ieri è anche il problema di oggi. Come ricorda il grande poeta Eliot: c'è qualcosa che non cambia nella storia degli uomini. Una lotta che non cambia. Tra bene e male, per la quale occorre essere buoni. La torre e il povero stanno ancora lì, come in ogni civiltà a ricordarci di cercare davvero quale è la nostra forza. Il Papa in questi giorni ha parlato di sobrietà e solidarietà. Solo l'uomo che ha una vera forza è capace di sobrietà e di solidarietà. È dei deboli il ricorso al lusso e all'egoismo. Ma allora, in questa nostra epoca ancora sotto il segno della torre e del povero, da dove ci verrà la forza per costruire case per tutti e non totem, e ripari per chi ne ha bisogno? Da dove ci può venire la forza?
  • Davide Rondoni
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 14, 2010 9:36 am


  • Se «buon anno» significa...
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L'idea più buffa che attraversa la mente umana nel passaggio da un anno ad un altro è quella che il futuro possa essere migliore del passato. Così, con un colpo di bacchetta magica, a comando di uno scambio augurale: «buon anno»... «buon anno anche a te». Idea buffa, perché dimentica l'unica cosa veramente certa, e cioè che il futuro è saldamente nelle mani del presente, e che il futuro potrà essere migliore soltanto se noi ci impegniamo ad essere migliori. L'oroscopo è un'invenzione che diventa un condizionamento inutile e pericoloso: se lo leggi al mattino, e ti prevede il male, tu vivi nell'attesa di qualcosa che non verrà (o che sarebbe, comunque, arrivato) e perdi il tempo per fare il bene; se ti prevede il bene, vivi tutto il giorno con il naso all'insù aspettando che il bene cada dal cielo mentre invece nasce dal tuo cuore e dalle tue mani, e lì può nascere anche quando l'oroscopo non lo prevede.

Benedetto XVI, nell'Angelus della prima domenica del 2010, ha riconosciuto che «i problemi non mancano, nella Chiesa e nel mondo, come pure nella vita quotidiana delle famiglie. Ma, grazie a Dio, la nostra speranza non fa conto su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti. La nostra speranza è in Dio, non nel senso di una generica religiosità, o di un fatalismo ammantato di fede». Proprio così: la fede è pericolosa quando si riduce a mantello del fatalismo, e l'essere «molto religiosi» non serve a nulla se è generico e limitato scaramanticamente ai primi giorni dell'anno. C'è chi va a Messa il primo giorno dell'anno, usandola come un sostitutivo del famoso cornetto portafortuna. Ma si sbaglia. Se è vero, come ha detto il Papa, che «la storia ha un senso, perché è "abitata" dalla Sapienza di Dio», bisogna ricordare che «il disegno divino non si compie automaticamente, perché è un progetto d'amore, e l'amore genera libertà e chiede libertà». E «perciò, anche il 2010 sarà più o meno "buono" nella misura in cui ciascuno, secondo le proprie responsabilità, saprà collaborare con la grazia di Dio».

Quanto Benedetto XVI ci ha detto domenica all'inizio del nuovo anno ha una forte somiglianza con quanto diceva sant'Agostino - esattamente sedici secoli fa nel 410 - ai suoi fedeli, preoccupati per i tempi drammatici in cui si trovavano a vivere: «Sono tempi cattivi, tempi penosi! Si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. I tempi siamo noi; come siamo noi, così sono i tempi...». La storia non è una divinità che possa modificare il suo corso. Spetta a noi essere dentro la storia e cambiarla, cambiando noi stessi. Se «buon anno» significa «con l'aiuto della grazia di Dio prometto di essere buono», allora, a partire da questo presente, il futuro potrà essere migliore, almeno per quanto dipende da me. Altrimenti, ogni augurio è parola vuota.
  • don Agostino Clerici
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 21, 2010 9:43 am


  • Nel segno del nulla: oroscopi su tv, radio, internet e giornali
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È naturale e per molti aspetti scontato: comincia un nuovo anno e ci si augura che sia migliore del precedente. Questo 2009, profondamente segnato dalla crisi economica, ha avuto pesanti ripercussioni sul lavoro e, quindi, sulla vita di molte persone. Ovvio che non si veda l'ora di voltare pagina. I media nei giorni scorsi più che mai si sono concentrati sugli oroscopi per il 2010 e sulle retrospettive per evidenziare gli eventi o i personaggi che hanno segnato l'anno appena concluso.

Gli oroscopi ci sono stati elargiti più che nel passato, forse proprio per il bisogno di rassicurazione e ottimismo che in questi tempi non facili è cresciuto. Quale attendibilità possano avere le predizioni dei sedicenti esperti basta un pizzico di ragione per stabilirlo. Eppure il genere ottiene un successo crescente, al punto che in realtà i vari Branko, Paolo Fox, Horus e compagnia preveggente sono diventati presenze costanti sui mezzi di comunicazione in qualunque periodo. Alla materia negli ultimi giorni dell'anno appena concluso, le televisioni nazionali nostrane hanno dedicato addirittura intere prime serate, come se nulla di meglio si potesse proporre al pubblico. Passi per le emittenti commerciali, ma dalla Rai ci saremmo aspettati più volentieri altre trasmissioni.

Pure la carta stampata ha fatto la sua parte. I settimanali più diffusi hanno proposto inserti speciali con l'oroscopo per tutto l'anno, segno per segno. Moltissimi lettori ne hanno sicuramente fatto tesoro, conservando gelosamente queste pagine, soprattutto se le previsioni nei loro riguardi sono risultate positive o in qualche modo rassicuranti. Per non essere da meno, anche le emittenti radiofoniche hanno infarcito i loro palinsesti di oroscopi per l'anno, pur se in maniera meno invadente rispetto alle tv. In internet - superfluo dirlo - anche su questo tema l'offerta è più che abbondante. Basta digitare la parola "oroscopo" su un motore di ricerca per prendere atto di quanti siti dedicati esistano. E gli stessi quotidiani online nei giorni a cavallo fra la fine del 2009 e l'inizio del 2010 hanno abbondantemente ripreso le varie previsioni, per completare la loro offerta "informativa" (se vogliamo chiamarla così...).

Provare a indovinare quali situazioni avremo in sorte domani è per molti una curiosità naturale. Cercare negli oroscopi la risposta a questa curiosità è quanto meno ingenuo. A meno che si tratti di una sorta di gioco, che allora va interpretato come tale. In fondo si tratta soltanto di belle parole che chiunque potrebbe inventarsi a prescindere da quello che "dicono" le stelle (e non apriamo nemmeno la parentesi sull'astrologia...).

Del resto, gli oroscopi non sono mai negativi - altrimenti finisce che la gente non li vuole più - e per questo si lasciano leggere facilmente. Quanto ai contenuti, basta provare a leggere la sorte di qualche altro segno diverso dal proprio per capire quanto la genericità e la non determinatezza delle previsioni possano adattarsi perfettamente a ciascuno di noi. D'altra parte, se i media insistono su certi argomenti è perché sanno di trovare un terreno fertile nei loro destinatari.

Piccolo test conclusivo: di fronte un oroscopo pubblicato sul giornale che stiamo sfogliando, cosa facciamo? A) Giriamo pagina e lo saltiamo a piè pari; b) Andiamo a cercare il nostro segno per cercare conferma alle nostre speranze; c) Leggiamo qualche previsione a caso per farci due risate all'insegna dell'ironia.
  • Marco Deriu
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 21, 2010 9:55 am


  • Missionari, suore, volontari: quelli che non se ne vanno
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In questi giorni Avvenire ha riferito di numerosi missionari italiani presenti nell’isola, in passato 'la perla dei Caraibi' e oggi uno dei Paesi più poveri del mondo, al fondo degli elenchi dell’Onu per ricchezza, sicurezza e livello di vita. La situazione è peggiorata dopo l’apocalittico terremoto che ha quasi azzerato la capitale Port-au-Prince e Haiti è un Paese in cui è difficile persino sopravvivere.

Eppure le voci dei missionari e delle suore dicono, quasi all’unisono, che là sono e là rimangono. È un fatto che colpisce e sul quale bisogna riflettere. Perché non se ne vanno, ora che ne avrebbero 'il diritto' e la possibilità? Un operatore dell’Onu ha dichiarato: «Me ne ritorno a casa, qui è diventato un inferno e sono troppo stressato, non potrei resistere a lungo». È comprensibile. Ma perché in Haiti i missionari e i volontari che vivono e lavorano con loro rimangono? Perché sono persone innamorate di Gesù Cristo e del popolo al quale la Chiesa li ha mandati. Senza una forte carica di fede non si resta per anni e anni in certi Paesi.

La missione, prima di annunciare Gesù, è stare con un popolo, impararne la lingua, condividerne i costumi e lo stile di vita, amare quei fratelli e quelle sorelle, pronti a dare l’esistenza per loro, come ha fatto Gesù. In passato, negli istituti missionari si partiva 'per la vita'. I padri e fratelli del Pime destinati alla missione di Kengtung in Birmania, in territori pericolosi e selvaggi nel 'Triangolo dell’oppio' (fra Birmania, Laos e Thailandia), quando su una zattera attraversavano col cavallo il grande fiume Salween si inginocchiavano, baciavano la terra e leggevano una preghiera che dice: «Questa è la mia nuova patria. Signore dammi la grazia di amare questo popolo e di non tornare più in Italia». Oggi sono ammesse vacanze di alcuni mesi per salute e per studio ogni tre-cinque anni, ma lo spirito è quello di sempre: donare la vita a un popolo, per duro e ingrato che sia.

La catastrofe di Haiti ha messo in rilievo una realtà di cui poco si parla nelle cronache quotidiane: in questa nostra Italia che viene raccontata, e in parte certo è, in crisi di umanità e di vita cristiana, ci sono famiglie e parrocchie che ancora e sempre 'generano' uomini e donne capaci di dare la vita per gli altri e a diventare con loro 'noi'. L’Italia è molto migliore dell’immagine negativa che ne danno stampa e televisione.

Nel 1976, nella diocesi di Moundou in Ciad, fui al fianco per due giorni di padre Jean, cappuccino canadese che a bordo della sua moto mi fece visitare i villaggi in cui esercitava la sua missione. Gli dissi che mi sembrava eroico vivere da vent’anni in mezzo a quella popolazione così povera e analfabeta, in quei villaggi di fango e di paglia. Lui mi rispose con una risata: «Ma cosa dici? Tu vedi gli aspetti esterni di questa mia gente, ma qui c’è una ricchezza di umanità e di fede che ti consola, ti dà gioia. Invece in Canada la stiamo perdendo». E io pensai: «Ecco un missionario autentico che testimonia e trasmette la fede in Cristo con la vita».

Per concludere, due considerazioni. Primo: missionari, suore e volontari sono i migliori rappresentanti del nostro popolo, in Haiti e in molti Paesi del Sud del mondo. Secondo: perché stampa e televisione, scuole e famiglie, trascurano la testimonianza di questi 'eroi positivi' di cui i nostri giovani hanno tanto bisogno per un’educazione all’amore del prossimo e alla gioia del vivere?
  • Piero Gheddo
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer gen 27, 2010 5:12 pm


  • Ma nelle scuole si legge ancora il Diario di Anna Frank?
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Sono quasi coetaneo di Anna Frank; e ne ho letto il diario appena è stato tradotto in Italia. «Dieci anni dopo la guerra farebbe un curioso effetto se noi raccontassimo come hanno vissuto qui otto ebrei», Anna scrive. E pone una domanda che dura: quale "curioso effetto" fa rileggere le sue pagine? Ora che sono passati non dieci ma più di sessant'anni. E nel frattempo Anna Frank, colei che io avrei potuto avere compagna di scuola, è cresciuta: senza invecchiare. È cresciuta restando «la ragazzina» (lei diceva) di sempre, «che ha tanto bisogno di divertirsi». La sua età è diventata a poco a poco quella d'una mia figlia; poi d'una mia nipote. Però non la sento figlia o nipote. Mi rimane inesplicabilmente coetanea - col triste senno del dopo. «Coraggio e gioia», continua a dire di sé, assistita da una straordinaria grazia; più che un'esortazione è una constatazione.

Così il punto focale si sposta: da una condizione collettiva - l'atroce destino di una gente - a un caso di specie; dal dolore e dalla morte di un secolo, alla felicità, malgrado tutto, d'un essere vivente. E così - restando spesso fuori dallo sguardo, però immanenti - dolore e morte del secolo ci vengono restituiti, veri e grandi. È (anche) una splendida - involontaria, naturale - operazione letteraria: il cui senso viene dalla prospettiva defilata, dall'obliquità del taglio; dal fatto che tutto ciò che è davvero terribile non viene mostrato: succede dietro le quinte o quando la rappresentazione è finita. Ed è proprio la ricchezza, la piccola incommensurabile ricchezza della vita resa ai suoi battiti quotidiani, a dare la dimensione della tragedia: difficile pensare a una più severa testimonianza a carico; da sempre avevamo capito che il diario è un lungo atto di resistenza. Ma adesso, alla rilettura, passati tanti anni, sono i modi di questa resistenza a imporsi, con la loro leggerezza e il loro tepore umano, per sempre perduti e per sempre vivi, dentro il libro come nella memoria.

Anche se poi si tratta di cronaca, non di fiction. L'obliquità dello sguardo, che lambisce il genocidio da un rifugio fragile, non è un'invenzione letteraria, viene imposta dalle cose. E sono le cose a decidere la conclusione non scritta: non scritta e che però da al libro il suo grande senso, illuminando d'una luce altissima ogni parola e ogni attimo di vita raccontato. Certo, si tratta d'un pugno di ebrei davvero "incatenati", per oltre due anni, a quelle povere stanze nascoste, nel tentativo di scampare a una morte orribile: e con essi la loro cronista quasi bambina. E davvero da quel rifugio poi vengono strappati; e davvero sette - sette su otto, compresa l'adolescente cronista - trovano la morte, nelle strade del genocidio. Si può aggiungere che forse Anna Frank sarebbe stata Anna Frank anche senza il diario; e comunque è possibile esista una ragazza come lei - investita di quella grazia - che non sappia scrivere. Ma a noi Anna Frank rimane, noi la conosciamo solo perché scrive, racconta: il diario salva i segni esemplari della sua vita, per i superstiti e per tutti coloro che verranno.

La segregazione è una lente d'ingrandimento, dal grande spessore morale: e rivela ogni vibrazione di vita. Fatti e atti in apparenza futili, comuni, casuali acquistano un'intensità incredibile; niente, anche di ciò che è più effimero, si perde. Ma perché a notte, quando termina la sua preghiera («Ti ringrazio, mio Dio, per tutto ciò che è buono e caro e bello»), Anna è sempre «piena di gioia»? Perché Peter, l'adolescente amico e compagno di prigionia, le dice: «Mi aiuti già sempre», spiegandole: «Con la tua gaiezza»? Da dove le viene questa sua parte di luce, che ne rende straziante la chiacchiera ginnasiale?

La madre di Anna vuoi insegnare "l'arte di vivere". Ecco, se diamo all'espressione un significato diverso da quello cui la signora pensa, dobbiamo concludere che forse quest' "arte", questa capacità di accettare la vita, sempre, di considerarla un dono, è il dono che Anna ha ricevuto: e affida al suo diario, e offre ancora a noi. «Respiro l'aria dalla fessura di una finestra chiusa...». Così lei ha proprio i suoi anni, i tredici festeggiati all'inizio del diario, poi i quattordici e i quindici compiuti e sempre salutati con festa - con povera e vera festa -nelle stanze dove un pugno di ebrei si nasconde alla persecuzione dei nazisti. Lei ha e vive quei suoi anni, di adolescente, di ragazza (ai sedici non arriverà): non diversamente da una qualsiasi ragazza della sua età, intelligente e amabile. Insieme però è adulta: l'unica fra quegli otto reclusi, ha osservato Natalia Ginzburg. Adulta in un modo tremendo e lieve, misterioso; che la assegna a una dimensione di solitudine: «Navigo da sola e vediamo dove vado a finire». La guardiamo procedere, con equilibrio innato, su un filo sospeso: non ne cadrà mai, davanti ai nostri occhi.

Si legge ancora il diario di Anna Frank nelle scuole della repubblica italiana? Ne sono state fatte innumerevoli edizioni, anche scolastiche; mentre di tanto in tanto il titolo ricompare nelle classifiche dei più venduti. Ma con crescente perplessità continuo a domandarmi se i ragazzi di adesso leggono questo diario, che - divertente e vivo com'è - sembra scritto per loro. Per loro, proprio perché i tempi lo rifiutano, chiudendosi nella propria sufficienza: e nulla sembra più lontano del mondo di Anna Frank e della casa segreta. Mentre dovunque si ripetono stermini, si fanno prove di genocidi: dei quali nessuno, proprio nessuno, potrà più dire: «Non sapevamo».

«Dio del perdono, non perdonare»: la preghiera di Elie Wiesel ad Auschwitz vale anche per tutti i lager, tutto il sangue e tutta la disperata fame del mondo; si estende all'intera mappa del pianeta e ai nuovi giorni, i nostri. E il peccato imperdonabile è quello che non si consuma, che non diventa mai cenere e rinasce da se stesso, uguale a se stesso: «contro lo Spirito». Però nemmeno merita perdono chi se ne rende complice: chi sta a guardare e con le sue omissioni consente. E mai come oggi il peccato di omettere si è risolto nel fare cose diverse. È per queste cose diverse da quelle dovute, per tanto spreco e multicolore vanità, che saremo giudicati e condannati. Per aver scelto vite prive di memoria, accecate. (In questa scelta noi rappresentati e i nostri rappresentanti ci incontriamo, concordi anche se animati da fini differenti: è la piattaforma morale dell'impero di cui diventiamo cittadini).

Così Anna Frank, Anna, muore due volte: ed è (spesso io temo) proprio come non ci sia mai stata la sua resistenza paziente e gaia, nella casa segreta. (Ma adesso penso alla sua morte vera, vera e ignota, di più di sessantenni fa. «Chi sa che un giorno non resti ancora più sola di quanto desidero», aveva annotato nel diario. E dopo, molto dopo: «Dio non mi ha lasciata sola e non mi lascerà sola». Speriamo - speriamo con tutto il cuore - che la sua certezza abbia avuto ragione).
  • Alessandro Mannuzzo
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 29, 2010 9:26 am


  • Le parole in tedesco del Papa come un rotolo di preghiera nel filo spinato di Auschwitz
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Il rotolo della sua preghiera, contro l’orribile crimine «che la megalomania disumana e l’odio razzista dell’ideologia nazista portarono in Germania», Papa Benedetto XVI l’ha incastrato – in lingua tedesca – nel filo spinato di Auschwitz, i cui cancelli furono dolorosamente aperti, 65 anni fa, sul dolore che vi era stato rinchiuso. Rinchiuso per un tempo infinito che non finirà mai di passare, finché ci sarà storia di uomini.

Papa Giovanni Paolo II, il rotolo della condanna e della supplica lo aveva silenziosamente introdotto nelle ferite del Muro del Pianto, a Gerusalemme. Il suo, Benedetto XVI lo ha fatto idealmente risuonare dalla spianata del luogo che, nella parlata più comune dei popoli, è il nome-simbolo della Shoah, dell’orrore per il quale non si hanno abbastanza parole. Lo ha fatto nell’idioma e nei suoni della lingua in cui quell’orrore ha trovato parole per concepirsi, comunicarsi, pianificarsi: e questa lingua è la sua propria. Un simbolo forte, al quale il Papa si è coraggiosamente esposto, con quello stile sobrio e diretto che gli è proprio.

Le parole, a volte, sono anche più potenti e irrevocabili dei gesti. Quello stesso idioma, che ha plasmato la memoria ferita, nomina ora la violenza di quella ideologia sterminatrice come una concentrazione assoluta del male. Siamo colpiti, in questa rinnovata proclamazione dell’orrore, senza reticenze, da un’impressione il cui insegnamento ammonisce e trafigge, con dolorosa esattezza, l’irresponsabile svagatezza del nostro presente. Una lingua materna (materna!) poté essere sfigurata fino a tal punto. E fino a tal punto essere indotta a corrompere e contraddire il senso della generazione all’umano: che proprio l’affettuosa parlata della madre, insostituibilmente, rende umana.

D’improvviso, siamo dolorosamente avvertiti: ogni lingua materna può entrare in questa terribile contraddizione con se stessa. Non ci sono lingue razziste, non ci sono popoli maledetti. Ma le lingue materne possono essere stuprate dalla perversione del cuore e dalla presunzione della mente: rendere familiare persino l’assuefazione al sacrificio dell’inerme, nobilitare l’indecenza dell’ostilità razziale, rendere politicamente corretta la mediocre prepotenza del branco. E lungo questa via, spianare, per intere generazioni, la strada di un 'conflitto di civiltà' che interpreta il genocidio come pulizia etnica e soluzione finale. È terribile soltanto doversi esprimere, con queste parole. Eppure bisogna esporvisi, proprio per dare forza alle opposte parole che, nella stessa lingua, devono ostinatamente richiamare il senso autentico dell’idioma materno: il quale è ferito nell’intimo, con danni irreparabili, tutte le volte che dimentica la fraternità dell’umano che dà senso alla generazione. Una natura umana, comune e condivisa, nella quale siamo generati sin dal grembo materno, esiste. Contraddirla, conduce presto o tardi all’orrore incontenibile e innominabile. I sofismi del superuomo civilizzato, che si fa da sé, si misurino con la memoria dei cancelli di Auschwitz, se gli regge il cuore.

Neanche per un giorno, manchi di risuonare, in ciascuna lingua, la parola «dell’assoluto rispetto della dignità della persona e della vita umana». Perché l’orrore che acceca il mondo e ferma la storia incomincia dalla selezione degli umani. Perché questa non è un’esagerazione della profezia, è il racconto del grande buco nero che si è aperto appena ieri. Fino a che ci saranno padri e madri i quali («persino a rischio della vita») daranno testimonianza della necessità di opporsi a simile 'follia', ciascuno nella propria lingua, la storia di tutti non proseguirà invano. E la generazione non rimarrà a tal punto priva di senso, da non poterlo più ritrovare.

In questo giorno, va detto, per tutti i giorni del mondo. In questa lingua va pronunciato, per tutte le lingue materne del mondo. Compresa la nostra.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 05, 2010 10:11 am


  • Addio a De Piaz, «gemello» di Turoldo
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Secondo di Corsia. Di certo padre Camillo De Piaz non ha mai considerato disonorevole essere citato come l'«ombra» di Turoldo: lo era, in effetti, anche se il suo sparire dietro la figura allampanata del facondissimo confratello non è stato per niente questione di proporzioni morali o intellettuali. Padre Camillo valeva infatti di suo (era coltissimo, di letture teologiche e letterarie assai aggiornate e scriveva molto bene, per alcuni persino meglio dell'amico) e, se ha accettato un ruolo defilato eppure fedelissimo accanto a padre David, non fu per difetto di talenti e nemmeno di carattere – al di là della sua leggendaria pigrizia di scrittore che all'amico Luigi Santucci faceva dire di lui: «Padre, perdonagli perché non sa quel che non fa»...

No: come in natura esistono certi uccelletti «inseparabili», che cantano solo quando sono in coppia altrimenti deperiscono e muoiono, così dev'esser stato anche tra i due religiosi, il lirico e la sua robusta spalla (è noto del resto che il poeta teneva in altissima considerazione i pur laconici giudizi del collega, al punto da buttare nel cestino un testo già pronto se lui non era d'accordo con la pubblicazione...). De Piaz se n'è dunque andato a 18 anni di distanza dal compagno, anche lui però nel gelo dei «giorni della merla». Una cosa quasi normale per due montanari quali erano entrambi: David del Friuli, classe 1916; Camillo valtellinese, del 1918.

Luoghi e anni aspri, petrosi e di confine – «Di fame noi ce ne intendevamo», spiegava talvolta il secondo – ma anche innervati di cristianesimo convinto e addolciti da un forte sentimento mariano (non per niente De Piaz ha passato l'ultimo mezzo secolo accanto alla Madonna di Tirano, storico santuario sondriese). Si erano conosciuti ginnasiali, nel seminario vicentino dei Servi di Maria, e praticamente non si sono più abbandonati. Padre Camillo ricordava persino il giorno esatto: l'11 settembre 1929. E forse fu la loro stessa diversità (che in molte occasioni si trasformava peraltro in complementarietà) e persino lo scontro dei caratteri a unirli indissolubilmente.

«È più facile far tacere Davide che far parlare Camillo», si diceva a Milano ai tempi i cui i due religiosi erano i dioscuri della Corsia dei Servi: la vulcanica officina di cultura cattolica e di fermenti ecclesiali che negli anni Cinquanta e Sessanta dalla chiesa servita di San Carlo emanava le sue proposte – la «Messa della carità», la predicazione in Duomo, i cineforum, le conferenze e altre iniziative anche provocatorie o contestative – in tutta Milano, nella Lombardia e oltre. Giovani e promettenti sacerdoti, De Piaz e Turoldo erano nel capoluogo fin dalla guerra, inviati a studiare alla Cattolica; e lì avevano partecipato alla rete clandestina della Resistenza insieme ai comunisti Elio Vittorini ed Eugenio Curiel ma anche con i cattolici Mario Apollonio e Gustavo Bontadini, fondando il giornale L'Uomo: ovvero il ten-tativo di «ritrovare la dimensione umana in un periodo di manomissione dell'uomo». Un titolo che già era un programma di non confessionalismo, di disposizione a lavorare con tutti i fronti ideologici. «Le nostre vite, le nostre scelte – disse una volta padre Camillo – sono imprescindibili dalla Resistenza. In realtà per noi essa era una condizione esistenziale del cristiano» . E in effetti a una certa «resistenza» anche nell'ambito ecclesiale (o meglio clericale) è stata sempre improntata la loro esperienza, eccezion fatta per «l'età d'oro» del Vaticano II: «Noi ballavamo intorno al Concilio – ha dichiarato a proposito De Piaz in un'intervista –, era come vedere che quello che credevamo si avverava».

Ma poi ci fu da pagare il conto e – a dispetto di ciò che comunemente si crede – finì che venisse chiamato a farlo quasi più il «gregario» De Piaz che non il prim'attore Turoldo, forse «protetto» dalla sua stessa notorietà: infatti già nel 1957 il sacerdote valtellinese dovette lasciare il convento di Milano a causa delle collaborazioni con i comunisti, in seguito alle quali aveva accettato incautamente l'incarico di consigliere della Casa della Cultura diretta da Rossana Rossanda. Del resto Camillo era più «intellettuale» di Davide e dunque, come contraccolpo della sua continua lotta contro il «potere» che schiacciava i poveri, più esposto agli eccessi o alle semplificazioni dell'ideologia. Cominciò così per lui una sorta di «esilio pendolare» tra Tirano e la metropoli, che non gli impedì peraltro di partecipare alla sua maniera – cioè dietro le quinte – ai fermenti dell'epoca; per esempio con traduzioni di testi «profetici» (compreso l'originale italiano della Populorum progressio, che Paolo VI aveva fatto scrivere in francese) e consulenze «religiose» con varie case editrici, ma senza dimenticare impegni apparentemente «minori» come la fondazione di un Museo etnografico e di un centro giovanile in Valtellina. Un'appartatezza gemella – ma ancora una volta così diversa – a quella contemporaneamente condotta da Turoldo a Fontanelle di Sotto il Monte nel segno di un altro imprescindibile punto di riferimento dei due serviti: Papa Giovanni.

Così avanti fino agli anni Novanta e alla morte di padre David nel 1992 e oltre, sempre restando di sentinella sul «crocevia»: una parola e un concetto che piacevano molto al sacerdote valtellinese, tanto da metterlo a titolo di uno dei suoi rari libri. No, non sembrava proprio soffrire di complesso d'inferiorità, padre Camillo: «Ho dovuto far da contrappeso a chi faceva, e parlava, troppo – confessava anzi –. Ma stavo bene, maledettamente bene all'ombra di David». Forse adesso gli «inseparabili» potranno di nuovo cantare.
  • Roberto Beretta
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 05, 2010 10:26 am


  • I ragazzi e lo spazio digitale
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Su Internet non esiste una frontiera fisica davanti alla quale la colonizzazione si possa arrestare. Il «sesto continente» digitale, come l’ha ribattezzato Benedetto XVI, si espande nell’inseguimento inesauribile tra le prestazioni della tecnologia e le nostre esigenze comunicative, spontanee o indotte. Lo stadio dei social network al quale siamo giunti – la galassia di bit nella quale l’opinione di chiunque, il video artigianale, la petizione su qualsiasi causa, rimbalzano tra migliaia o milioni di utenti – è solo un crocevia provvisorio: altro seguirà a questa nuova esplosione creativa nella quale chi naviga coincide con chi dà motivo agli altri di navigare, i contenuti sono scambiati in orizzontale, parole e immagini vengono immesse a ciclo continuo sul Web, reso contenitore nel quale ogni scoperta, contatto, iniziativa sembrano possibili. Libertà e sperimentazione, relazione impalpabile e sintonia profonda: le reti sociali sono ambienti vivi, animati dal chiacchiericcio insonne di un popolo senza età e passaporto. Nulla conta quanto ciò che si comunica.

Schiusa la porta di questo pianeta immateriale, i più giovani restano fatalmente abbacinati. La persuasione che di colpo tutto diventi plausibile li fa credere invulnerabili, al riparo da qualsiasi contatto indesiderato, come se bastasse spegnere la macchina per estinguere un mondo ormai pervasivo e influente quanto quello tangibile. L’annuale monitoraggio dell’Associazione Meter di don Fortunato Di Noto mostra invece come di anno in anno all’espansione della galassia digitale corrisponda l’ampliarsi di una zona buia dove si muovono veri criminali. Pedofilia e devianza sono reati che Meter segnala alle autorità di polizia perché provvedano a neutralizzare le aree infette dentro il magma delle reti sociali, restituendo il Web alla sua funzione originaria.

Ma c’è una regione sempre più indistinta dove il limite tra normalità ed eccesso, controllo sociale e assenza di norme si fa inafferrabile. A volte basta davvero un clic in più per trovarsi dentro ambienti e situazioni dove non esiste più filtro. Qui l’adolescente – o il bambino – si trova da solo a fronteggiare codici comportamentali e linguistici che lo proiettano dentro un contesto non suo, e dal quale nel mondo reale viene tenuto alla larga. Genitori e figure educative sembrano invece credere che oltre lo schermo si svolga nient’altro che un indecifrabile videogioco, dove i ragazzi possano rischiare al più di perdere molto tempo. L’attenzione verso le amicizie 'reali', talora ansiosa quando non oppressiva, lascia il posto a una svagatezza distratta per le frequentazioni online, come se Internet fosse ancora quello dei tempi eroici, una televisione più allegra, e non il Web sociale di oggi dove si allacciano incessantemente relazioni e la qualità dell’ambiente è affidata all’autodisciplina, dunque spesso all’arbitrio e alla sopraffazione dei modelli. Un’antropologia casuale, dalla quale il mondo adulto non può continuare a chiamarsi fuori per estraneità generazionale.

Occorre condividere i mondi dei propri figli, anche quelli virtuali, saperli frequentare insieme a loro, rendersi conto dal vivo delle comunità nelle quali la generazione digitale plasma nuovi scenari piantando le tende sulle frontiere future del sesto continente. Anche questa è «sfida educativa».
  • Francesco Ognibene
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 12, 2010 4:46 pm


  • Maschere: nascondere o farsi vedere?
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«Ti conosco, mascherina!»... Ma chi davvero può dire di conoscere una maschera? E non solo perché – ovviamente – si tratta di un oggetto che per natura nasconde, cela l’identità, protegge; ma anche per il fatto che uno strumento tanto ricco di storia e di significati risulta alla fine estremamente ambiguo. Ne fossimo consci, forse non caleremmo alla leggera quella visiera di cartone colorato sugli occhi dei nostri figli a carnevale: mica è roba da scherzarci, la maschera...

Un «volto artificiale» che non si sa bene se serva di più a far ridere o a spaventare, a camuffare oppure a richiamare l’attenzione. Fu così dalla notte dei tempi, d’altronde: pare che la più antica maschera conosciuta sia infatti una in selce attribuita all’uomo di Neanderthal, 32.000 anni or sono. Poi ci sono le grotte di Lascaux (Paleolitico, 15-16 mila anni fa), dove i cacciatori sono dipinti travestiti da animali: forse semplicemente per mimetizzarsi e catturarli meglio, forse invece per appropriarsi di forze magiche o poteri più «bestiali». Si passa quindi a un teschiomaschera del 7000 a. C. (e qui già si fa largo nell’interpretazione il rapporto tra morte e vita), dopodiché è un attimo scivolare sino alle stupende e preziose maschere funerarie dei sarcofagi egizi: indubbiamente destinate a offrire un volto presentabile del defunto nell’aldilà, piuttosto che ad impressionare i posteri rimasti di qua. La maschera sembra comunque uno strumento di passaggio, un ponte sul quale attraversare un momento in qualche modo pericoloso: è così per le maschere mortuarie – adottate in molte culture: dai minoici agli inca, dai cannibali ai santi –, per quelle che servono ai rituali d’iniziazione tipici dell’Africa (ma presenti in residuo anche in certi folklori europei) nonché per le semplici maschere di Carnevale; non è questa forse la festa di confine, infatti, tra tempo profano e sacra Quaresima, tra pazzia e penitenza?

Mutare identità – difendendo nello stesso tempo la propria – aiuta a superare le ansie di un cambiamento, mimetizza la paura, esorcizza i mostri dell’ignoto e insomma preserva da eventuali incerti del destino. Almeno così vogliamo credere.

La maschera dunque protegge: persino quando non è un solido elmo da cavaliere o la regolamentare visiera da saldatore, una gabbia metallica da giocatore di hockey o il cesto degli spadaccini, o persino il passamontagna impenetrabile da rapinatore. La semplice striscia di stoffa nera che difende l’identità di Zorro, ad esempio, o la bandana multicolore di altri protagonisti da fumetto è garantista della privacy non meno che tutela della forza stessa del supereroe (basta infatti che l’Uomo Ragno o Batman se ne rivestano, perché automaticamente ne acquistino i poteri). È difesa passiva tanto quanto attiva, cioè; scherma e provoca insieme. È spesso stato così, anche nel carnevale: le «bautte» veneziane servivano certamente per prolungare le licenze festaiole senza compromettere la rispettabilità di chi le portava, ma anche come esche per attirare l’attenzione. Tant’è vero che il loro lungo becco – si è scoperto – poteva servire per ospitare degli allettanti profumi, che si credevano utili tra l’altro anche ad allontanare le infezioni.

Ma la maschera può essere anche repulsiva, anzi offensiva: sono noti i casi etnologici di popoli che se ne rivestono andare in guerra, creando effetti terrorizzanti nelle file avversarie e insieme esorcizzando in chi la porta il traumatico momento del «faccia a faccia» col nemico. «Ci fu un tempo – ha notato lo scenografo inglese del secolo scorso Edward Craig – in cui la maschera serviva per la guerra, quando la guerra era considerata arte». Oggi sono rimaste semmai le maschere antigas... Sembra peraltro che le uniche civiltà che non conoscono la scultura facciale bellica siano alcune tribù polinesiane, dove la medesima funzione è svolta però dalla pittura del corpo o dal tatuaggio.

Comunque è sempre l’identica necessità di parere diversi (e migliori) da quel che si è: in fondo, un espediente psicologico non troppo distante dalla moderna enfasi sull’«immagine», allorché la «maschera» del doppiopetto blu, di una cravatta e del perenne sorriso aiutano ad affrontare la quotidiana «guerra» delle società più avanzate.

Un’altra novità dei più recenti studi riguarda invece le maschere del teatro classico, cui di solito si attribuiva una funzione di amplificazione vocale indispensabile per farsi sentire negli spettacoli all’aperto; sembra invece che fosse più decisivo il loro valore d’identificazione del personaggio (in latino, si sa, «maschera» si diceva persona ...) nonché di caratterizzazione satirica. L’attore rinunciava cioè a se stesso, si sacrificava perché emergesse – persino nel volto – un altro. E in tal senso la maschera diventa pure strumento religioso, come in effetti è stato in parecchie culture, dagli sciamani ai riti dionisiaci. Sosteneva d’altronde Eraclito che «il destino dell’uomo è di essere la maschera di un dio». Non solo: accedere – dopo opportuni riti di purificazione – a un volto segreto e forse magico potrebbe facilitare la comunicazione con il divino, nello stesso tempo proteggendo dai suoi fulmini. Da dove viene allora il significato negativo che oggi (carnevale escluso) alleghiamo alla maschera, in quanto veste metaforica della finzione e dell’inganno? La vulgata sostiene che la colpa sarebbe dei Padri della Chiesa, i quali moralisticamente si scagliarono contro il teatro classico proibendone le repliche. Ma è proprio così?

Un’altra ipotesi proviene sempre dall’ambito teologico: la maschera ha connotazione deteriore in quanto nasconde il volto dell’uomo, immagine di Dio. Senza contare che durante le sacre rappresentazioni del Medioevo si rivestiva il diavolo con una maschera orrida o grottesca (secondo le incertissime etimologie, il nome stesso del nostro oggetto deriverebbe da masca nel senso di «strega» o masc «stregone»). La maschera – se non la trance di mistici e sciamani – aiuta il transfert ; chi la indossa (è anche l’esperienza reale di molti attori) muta personalità. Non a caso nell’autore della letteratura italiana più vicino alla psicoanalisi, Pirandello, il tema è ricorrente. La maschera, l’alter ego diventa paradossalmente uno specchio – l’unico in cui è dato di riconoscersi davvero. Essa è infatti uno strumento che riduce sì la mimica (il modo umano per camuffarsi e sembrare ciò che non si è), però concentra tutta l’attenzione sugli occhi: il pozzo acqueo attraverso il quale si penetra nell’intimità più vera. Dunque in quei buchi sta forse il segreto del volto artificiale: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», firmato Friedrich Nietzsche. Ancora sicuri di mascherare i vostri figli a Carnevale?
  • Roberto Beretta
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 12, 2010 5:50 pm


  • Gratuitamente avete ricevuto
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Da mezzo secolo visito i missionari nel Sud del mondo. Tornando in Italia, racconto la mia esperienza e dico a chi mi ascolta che noi siamo i privilegiati dell’umanità, perché abbiamo ricevuto tanto da Dio e molti altri hanno ricevuto poco o nulla. Nel 1985, l’anno della siccità in Africa, ho visitato il Burkina Faso. Nella missione di Nanorò, una suora mi porta nel dispensario medico dove c’è un bambino di pochi mesi la cui mamma è morta e da diversi giorni non ha il suo latte. Le suore stanno lavandolo e poiché non riesce a bere, gli fanno una iniezione di acqua sterilizzata, ma è morto poche ore dopo. Mentre lo osservo, magro da far spavento, caro e povero ragnetto nero e nudo, mi commuovo e penso: «Perché io ho ricevuto tanto e questo bambino non ha ricevuto nulla? Non siamo tutti e due figli dello stesso Padre? Perché, Signore, tu vuoi più bene a me che a lui? Perché a me hai dato tanto e a lui niente?».

La risposta l’ha data Gesù: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). E ancora: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). L’avarizia è l’esatto contrario di quel che ha insegnato e vissuto il Signore. Nel mondo globalizzato, l’avarizia dei ricchi del mondo è il maggior ostacolo alla pace fra i popoli.

Nel 1964 il ricco industriale Marcello Candia (1916-1983) ha venduto le sue industrie ed è andato con i missionari in Amazzonia, costruendo un grande ospedale e altre opere di assistenza per i poveri. Quando i medici lo sconsigliavano di tornare in missione (dopo cinque infarti e un’operazione al cuore) diceva: «Chi ha molto ricevuto, deve dare molto». È morto a 67 anni.

Gesù non ha organizzato campagne contro la fame e la schiavitù, ma ha annunziato agli uomini il Vangelo, che è «il manuale del buon vivere» per un riscatto integrale dalla miseria morale e materiale dell’umanità.
  • Piero Gheddo
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 19, 2010 7:12 pm


  • Non riduciamo i «piccoli fiori» della volontà a uno sterile doverismo
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«Bambini – disse scandalizzata la Gigia – non vi gettate sulle castagnole in quel modo. Provate a fare un fioretto: mangiatene soltanto due a testa. Le altre mettetele via per stasera. Vedrete che così vi sembreranno ancora più gustose». Ma il grande vassoio rotondo profumava di frittura e di vaniglia: irresistibile. E nessuno di noi cinque (più un paio di cugini parcheggiati a casa nostra dalle madri) desiderava che le frittelline rotonde diventassero ancora più gustose; già ci piacevano da impazzire, e una tirava l’altra. Ben presto il vassoio fu vuoto e noi insoddisfatti andammo a cercare in cucina se la Gigia ne aveva nascoste da qualche parte, di castagnole, come spesso faceva con i dolci, ma non trovammo che un vaso di marmellata Letona di albicocche, squisita, ma sigillata in un barattolo inaccessibile.

Calava una triste sera di fine gennaio, nebbiosa. In casa non c’era nessuno, e noi ci sentivamo appesantiti e vagamente nauseati. Ci sedemmo davanti ai trenini nello stanzone, ma non avevamo voglia di farli andare, e Paola disse: «È proprio un gioco stupido, girano in tondo e sono sempre uguali», e stizzosamente rovesciò un vagoncino. Il trenino continuò a correre, ma tutti noi, incattiviti e svogliati, ci mettemmo a trafficare, a spostare i fanali e i cambi sui binari; poi Raimondo, che era sempre inventivo, riuscì a far saltare l’intero impianto elettrico. Costernati, stavamo al buio, in silenzio. Allora Carlo disse: «Il papà di arrabbierà molto se abbiamo rotto il suo trenino.

E poi era meglio fare il fioretto, che così avevamo anche il dolce per stasera». Nessuno ebbe da obiettare a quella limpida constatazione, e dopo un po’ ce ne andammo, i cugini a casa e noi nelle nostre stanze a fare di malavoglia i compiti. Ci sentivamo sconfitti e infantili. 'Fare un fioretto' era a quel tempo un esercizio di volontà, molto raccomandato dai genitori (e a noi dalla Gigia, semianalfabeta geniale e autoritaria, che teneva a memoria i conti dell’intera casa e ci faceva filare senza problemi). Ci veniva presentato sì come un atto devoto, gradito ai santi, alla Madonna e a Gesù, ma anche e soprattutto come un ottimo sistema per farci capire che la fede era una cosa seria e forte, che esigeva azioni oltre che preghiere: e dipendeva da noi esercitare la nostra volontà, e diventare così più 'grandi' e indipendenti. «Chi sa controllare se stesso, controlla il mondo», sentenziava zio Francesco, sorridendo sornione, e aggiungeva: «E chi non si controlla, fa la pipì per terra». Noi ridevamo, sentendoci quasi adulti.

Perché c’è una vena di austerità situata in profondità nelle persone giovani, un bisogno di sfidare se stessi e il mondo che le circonda, di provarsi di fronte alle difficoltà, qualsiasi difficoltà: e fare dei 'fioretti', lungi dall’essere solo una devozione per femminucce e beghine devote, spesso per noi diventava proprio una sfida. Il significato profondo era altamente competitivo. E chi sapeva privarsi di qualche cosa, un cioccolatino un film un appetitoso dessert, o accettare con pazienza la telefonata di un’amica noiosa (ma si trattava sempre di piccole cose: 'fioretto' è pur sempre un diminutivo!) poi teneva conto, accuratamente, di averlo fatto, a riprova del fatto che nessuno è perfetto, e alla fine del tempo previsto contava i suoi meriti e se ne vantava, come di un vero successo.

Oggi, non è vero che fare fioretti non usa più, anzi, se ne fanno continuamente, ma ahimé senza nobili scopi: per restare in forma o per dimagrire, figli come siamo di uno sterile doverismo invece che di un gioioso altruismo.
  • Antonia Arslan
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven feb 26, 2010 6:45 pm


  • La cultura del bene comune: guardare al meridione con il coraggio di «pensare insieme»
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Con la pubblicazione del documento Per un Paese solidale, il Mezzogiorno torna al centro dell’attenzione della Chiesa italiana. Frutto di un’ampia riflessione collegiale, esso si inserisce con l’autorità morale dei vescovi in un dibattito sulle emergenze del Sud che negli ultimi tempi, a partire da ottiche differenti e secondo sensibilità politiche e culturali articolate, è di nuovo attuale.

La Chiesa invita a guardare al Mezzogiorno «con amore», a condividerne i bisogni e le speranze. Fa appello all’intelligenza, alla creatività, al coraggio di un «pensare insieme », all’assunzione di una responsabilità nuova, riponendo grande speranza nei giovani del Sud. Sono proprio loro, in qualche modo, i protagonisti del documento, sollecitati continuamente al duro ma necessario compito del riscatto da modelli di pensiero individualisti e nichilisti e da strutture che sfruttano e abbruttiscono il territorio. Sono loro a essere stimolati a valorizzare il patrimonio morale e religioso che il Mezzogiorno, nonostante tutto, sa ancora esprimere, incoraggiati a speri­mentare nuove strade nello sviluppo economico, chiamati a favorire «un cambiamento di mentalità e di cultura» per vincere «i fantasmi della paura e della rassegnazione » (n. 16). Lo spettro di osservazione del documento è ampio, perché tocca mali antichi come il fatalismo, emergenze moderne come la questione ecologica, e tematiche recentissime come il federalismo, sul quale il giudizio dei vescovi è chiaro: esso non deve accentuare le distanze tra le diverse parti d’Italia ma saper essere « solidale, realistico e unitario» (n. 8), senza che lo Stato rinunci a proteggere i diritti fondamentali di tutti gli italiani.

Il male più oscuro del Mezzogiorno continua a essere la criminalità organizzata: le «mafie – viene detto in modo chiaro e perentorio – sono strutture di peccato»; esprimono «una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione»; rappresentano «la configurazione più drammatica del 'male' e del 'peccato'» (n. 9). La condanna è netta, senza ombre né esitazioni: riecheggiano le parole forti di Giovanni Paolo II ad Agrigento e a Napoli. Oltre che nei giovani, la speranza dei vescovi è riposta nelle comunità ecclesiali e nella loro capacità di essere luogo e laboratorio di idee e fatti concreti, come dimostrano le cooperative e le aziende promosse grazie al Progetto Policoro. Da tempo la parte migliore delle Chiese del Sud si è allineata con la parte migliore della società civile per combattere ogni forma di illegalità, per promuovere una mobilitazione morale, dimostrando quanto le strutture ecclesiali siano profondamente calate nella realtà meridionale e di quale potenzia­le di cambiamento esse dispongano.

All’orizzonte del Mezzogiorno non c’è solo l’esigenza di un’economia sana. È necessario dare spazio anche alla cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e dell’impresa nel rifiuto dell’illegalità. Sono valori etici, culturali e antropologici non da porre in alternativa alle regole dell’economia, ma da intendere piuttosto come motori per lo sviluppo integrale del Sud: davvero ci vuole «coraggio e speranza» (n. 20). La Chiesa, in questa emergenza educativa, rivendicando «un ruolo nella crescita del Mezzogiorno» (n. 16), mette in campo il suo patrimonio religioso, morale e culturale, puntando sull’associazionismo laicale, sui movimenti e soprattutto sulle parrocchie. Molto dipenderà dal livello di ricezione di questo documento nelle Chiese del Sud come in quelle del Nord, cioè dalla capacità delle comunità ecclesiali di farne non solo oggetto di studio, discus­sione e confronto nel breve periodo, ma di considerarlo come mappa orientativa del decennio che si sta aprendo. Decisivo, in questo senso, sarà il grado di coinvolgimento di tutte le diocesi e la loro disponibilità a confrontarsi e collaborare in prospettiva nazionale. «Ogni Chiesa custodisce una ricchezza spirituale da condividere con le altre Chiese del Paese» (n. 15): non è una sfida di poco conto.
  • Vittorio De Marco
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 05, 2010 3:08 pm


  • I cileni e noi, sfidati a vivere in «condizione tellurica»
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Trema anche il mio cuore con il Cile che il terremoto sconvolge fin nel profondo ma che tiene alto lo sguardo e stringe i denti di pianto e resistenza. Trema a ogni terribile scossa: e sono ormai più di duecento i morsi e gli scuotimenti del mostro che ha addentato con ferocia la Regione del Maule e ha stritolato Concepción e metà Paese, maciullando vite e case e cose, mortificando grandi opere costruite con fatica e ingegno. Trema di dolore, di umanissima paura e di orgoglio, vedendo che il sisma immane digrigna ancora e invano davanti a una selva di edifici alzati, negli anni, per reggerne l’urto. Trema come il cuore dei cileni che nascono e crescono nella consapevolezza di essere uomini e donne in «condizione tellurica», tenaci cittadini di quel «malfermo, sottile balcone di pietra e roccia» appeso tra le Ande e il Pacifico che Roberto Ampuero ha tratteggiato da par suo su 'Repubblica' di domenica scorsa.

Conosco bene il Cile. Conosco la sua gente amabile, la sua natura splendida e i suoi spigolosi sussulti di terra. Lo conosco come conosco mia moglie che anche del Cile è figlia. E lo amo di un amore vero, il più simile a quello che ho per il mio Paese. Quest’Italia che sta appesa tra le Alpi e il Mediterraneo, ponte malfermo e sottile, gemmato di noncurante bellezza, tra l’Europa e l’Africa. E so, come dovremmo sapere tutti, che anche noi viviamo in «condizione tellurica», che anche noi siamo affacciati a un parapetto affascinante e rischioso.

Non c’è, come all’altro capo del mondo, la Placca di Nacza a incalzare noi italiani, ma c’è la Placca Africana. Non c’è una straordinaria e ruggente catena di vulcani andini, ma ci sono la ciclica ira dell’Etna e dello Stromboli, il sonno nervoso di Vulcano e il silenzio ogni giorno più minaccioso del Vesuvio. E se non c’è neanche la certezza dei cileni di dover sperimentare «almeno due volte» nella propria vita terremoti devastanti, ci sono o ci dovrebbero essere la memoria e le cicatrici di scrolloni forse meno rabbiosi ma comunque distruttivi e assassini. Nella mia vita di italiano, ancora colpito dalla tragedia d’Abruzzo, mi sono toccati sinora anche i terremoti del Belice, del Friuli, dell’Irpinia e dell’Umbria (ben tre volte e le ho 'vissute' tutte, visto che è la mia regione d’origine).

Non pensate a un parallelismo impossibile. O un po’ sentimentale. Non è così. Tutto è diverso e niente lo è del tutto sulla faccia della terra. E ciò che scuote i continenti e i giorni della famiglia umana, anche se avviene lontano, deve svegliarci. Deve tornare a scolpirci nella mente una semplice verità: per vivere e costruire qualcosa che duri e abitare nei luoghi che amiamo, dobbiamo conoscerli davvero e rispettarli e interpretarli con lucidità e saggezza.

Noi italiani, dopo il sisma del 1980, abbiamo imparato a rimediare con efficienza ai grandi guasti: ci siamo decisi a fare protezione civile, sul serio. Fino a diventare bravi, generosamente ed esemplarmente bravi nel gestire le emergenze (e nessuno scandalo vero o presunto, può sminuire o addirittura negare questa realtà). I cileni, inseguiti come i giapponesi e i californiani dai mostri implacabili che sconvolgono il loro immenso mare comune e Pacifico solo di nome, hanno invece imparato a costruire bene. E hanno dimostrato, persino nell’attuale terrificante prova, che quest’arte è il cuore possibile di una vera politica di prevenzione dei disastri. Tanto da far sembrare pochi, a fronte della potenza dell’evento tellurico, centinaia e centinaia di morti e due milioni di sfollati. Pochi non sono, e il dolore e l’angoscia e il danno sono enormi, ma avrebbero potuto essere decine di migliaia le vittime, avrebbero potuto essere tre volte di più i senzatetto. E questo vale immensamente. Questo dice, ci dice, qualcosa che va capito e davvero fatto. L’altra metà della lezione che apprendemmo definitivamente nel 1980: costruire bene.

I cileni ricominceranno a farlo, dolenti e tenaci. Si rimboccheranno le maniche e il mondo – e l’Italia col mondo – dovrà saper essere al loro fianco. Le case e le strade dell’uomo riprenderanno forma, ancora e meglio. A sfidare il mostro, che certo tornerà. E sempre di più dovrà digrignare invano.
  • Marco Tarquinio
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 12, 2010 11:46 am


  • Un dramma senza confini
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All'indomani dell'8 marzo, si è svolta a Roma una giornata dedicata al dramma della tratta mondiale degli esseri umani. Organizzato dall'Ambasciata del Canada in Italia e dalla Delegazione del Québec a Roma, il convegno "Il traffico umano, dramma senza confini" è stato voluto per sensibilizzare l'opinione pubblica su un argomento duro e crudele che riguarda l'intera comunità internazionale, e che vede tra le sue vittime in particolare le donne.

La tratta di esseri umani è un fenomeno dalle molte facce, una moderna forma di schiavitù che priva milioni di persone della libertà, della dignità e di tutti gli elementari diritti che noi diamo ormai per scontati. È un dramma che coinvolge tutti i paesi del mondo, siano essi la terra di origine, di transito o di destinazione delle donne, degli uomini e dei bambini che vengono sfruttati sessualmente, resi servi domestici o sottoposti ai lavori forzati. Si stima che 2 milioni e mezzo di persone siano vittime di questa piaga, l'80 per cento donne e giovani ragazze, il 5 per cento delle quali minorenni. Proprio per le dimensioni e le intricate corresponsabilità del fenomeno, urge una risposta transnazionale, come è stato più volte ricordato nella giornata romana.

Non vi è solo la povertà tra le cause della tratta. Un ruolo non marginale lo svolge anche la mancanza di prospettive esistenziali, che possono andare al di là dell'aspetto economico. È il caso del Nepal, da cui partono molte vittime del traffico, che però non provengono dalla zona più povera del paese, ma da quelle in cui vi sono pratiche tradizionali molto discriminatorie verso le donne, come poligamia, stupri etnici, divorzi unilaterali, conflitti armati o normative misogine (le femmine, ad esempio, non hanno diritto all'eredità, alla proprietà o all'istruzione). Diverse ricerche hanno infatti dimostrato come la discriminazione tra i sessi induca molte ragazze a cercare altrove una possibilità di riscatto. E questo spiega perché le vittime, una volta liberate, non vogliano tornare nella terra di origine, atteggiamento che si tende a leggere solo come paura della stigmatizzazione o del disonore, ma che invece è anche il rifiuto di una discriminazione quotidiana.

Il meccanismo messo in atto da quanti gestiscono e controllano questi moderni schiavi è sottile e perverso. Privandole dell'identità, del nome e dei documenti, gettandole in realtà che parlano lingue sconosciute, popolate da gente che le sfrutta e le umilia quotidianamente, le vittime vengono piegate fisicamente e psicologicamente con estrema facilità. Se una donna italiana viene stuprata, in ospedale si attiva la necessaria e sacrosanta rete di cura, mentre se la donna è una prostituta nigeriana (vittima dei suoi protettori e dei clienti, molti dei quali, mentre ne abusano, la incolpano di essere venuta a contaminare le loro strade), la risposta può non essere altrettanto positiva.

Si tratta di un autentico mercato, retto da precise regole economiche e che va denunciato pubblicamente. A esso si può tentare di opporsi, magari anche solo segnalando gli strani movimenti che avvengono nel pianerottolo dei palazzi. Lo ha ricordato, aprendo i lavori di Roma, Isoke Aikpitanyi, la prima vittima di tratta in Italia che rischia la vita per la scelta di raccontare pubblicamente la sua storia. Nata nel 1979 a Benin City, in Nigeria, a 20 anni, spinta dalla povertà e dalla assenza di prospettive, decide di recarsi in Europa. Isoke parte con la promessa di un lavoro in un negozio di frutta e verdura a Londra e si ritrova, il 26 dicembre del 2000, forzata a prostituirsi a Torino. Dopo diversi anni, grazie anche all'incontro con Claudio, suo prossimo marito, la ragazza riesce a liberarsi dal giogo del racket. Fondatrice e portavoce dell'Associazione delle ragazze di Benin City, Isoke ha aperto ad Aosta un ricovero per le donne vittime di traffici illeciti (mentre Claudio ha formato un gruppo di persone, ex clienti di prostitute, per cercare di sensibilizzare gli attuali clienti sulla loro corresponsabilità in questo turpe mercimonio).

Un aspetto molto interessante che è emerso dal seminario romano è quello dell'impatto socio-economico che il traffico di esseri umani produce nei Paesi di origine dei moderni schiavi. La tratta, infatti, ha ripercussioni non irrilevanti in termini, ad esempio, di fuga giovanile, discrasia tra maschi e femmine, aumento delle tensioni etniche (le vittime provengono da gruppi già discriminati).

Né l'impegno dei Paesi di destinazione può cessare semplicemente con la loro liberazione. Queste persone hanno infatti bisogno di alloggio, di luoghi sicuri e anonimi, di assistenza giuridica, finanziaria, psicologica e medica (si pensi per esempio alle conseguenze degli aborti forzati cui sono sottoposte tantissime ragazze). Hanno bisogno di essere aiutate a reinserirsi socialmente, ad apprendere la lingua, a regolarizzarsi nello status di vittime. Ovviamente, giacché sono persone diverse per cultura, religione e comunità etnica, occorre tenere presente che le loro necessità sono diversificate.

Lo slogan della campagna del Governo canadese contro la tratta di esseri umani è: "Persone in vendita in Canada? La risposta ti scioccherà". Uno slogan che vale in pari grado e con pari forza per ogni paese del mondo.
  • Giulia Galeotti
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 19, 2010 12:09 pm


  • La pedagogia di Gesù
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Gesù ci ha mostrato innanzitutto una necessità: chi inizia alla fede o a essa vuole generare, deve essere credibile, affidabile. Del resto - lo sappiamo per esperienza - anche i genitori che vogliono educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili.

La credibilità di Gesù nasceva principalmente dal suo avere convinzioni e dalla sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Non erano solo le sue parole che, raggiungendo l'altro, riuscivano a vincere le sue resistenze a credere; non era un metodo o una strategia pastorale a suscitare la fede: era la sua umanità contrassegnata da una pienezza di grazia e di verità (cfr. Giovanni, 1, 14). Grazia e verità che dicevano l'autenticità e la coerenza di Gesù, non lasciando alcuno spazio tra le sue convinzioni e ciò che egli diceva e viveva.

Incontrando Gesù, tutti percepivano che non c'era frattura tra le sue parole e i suoi gesti, i suoi sentimenti, il suo comportamento. Ed è proprio da questa sua integrità che nasceva la sua autorevolezza, che spingeva gli uomini a esclamare con stupore: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorevolezza!" (Marco, 1, 27).

Nella pedagogia, nell'educazione alla fede, l'iniziatore deve dunque essere affidabile. Certo, per noi non è possibile raggiungere la coerenza vissuta da Gesù, quest'uomo in cui traspariva Dio; ma anche per noi l'essere affidabili dipende dalla nostra coerenza, e la nostra affidabilità è decisiva nell'educare alla fede e nel trasmetterla.

Un'altra caratteristica di Gesù, che emerge dai suoi incontri, è la sua capacità di accoglienza verso tutti. In primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto della buona notizia, del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo e Giuseppe di Arimatea; gli stranieri come il centurione e gli uomini giusti come Natanaele, o i peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola.

Com'era possibile questo? Perché Gesù sapeva non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l'altro potesse entrare senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Sulle strade, lungo le spiagge, nelle case, nelle sinagoghe, Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e l'altro che veniva a lui o che lui andava a cercare; si metteva sempre innanzitutto in ascolto dell'altro, cercando di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno.

Mi si permetta di dire: Gesù non incontrava il povero in quanto povero, il peccatore in quanto peccatore, l'escluso in quanto escluso. Ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l'altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l'altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l'altro in quanto uomo come lui, membro dell'umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell'incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato. Solo avvicinandoci all'altro nel modo insegnatoci da Gesù, anche noi possiamo vivere un incontro ospitale, un incontro all'insegna della gratuità e teso alla comunione. E così possiamo giungere a fare spazio non solo all'altro che vediamo davanti a noi, ma all'Altro per eccellenza, Dio, che allora ci può veramente parlare.

Gesù era capace di compiere un terzo passo per iniziare, per educare alla fede. Nel rispondere a chi incontrava, Gesù cercava la fede presente nell'altro, come se volesse risvegliare e far emergere la sua fede. Egli sapeva infatti che la fede è un atto personale, che ciascuno deve compiere in libertà: nessuno può credere al posto di un altro! Gesù sapeva che a volte negli uomini c'è l'assenza di fede, atteggiamento che lo stupiva e lo rendeva impotente a operare in loro favore (cfr. Marco, 6, 6); era anche consapevole che ci può essere una fede non affidabile nel suo Nome, suscitata dal suo compiere segni, miracoli: "Molti, vedendo i segni che faceva, mettevano fede nel suo Nome; ma Gesù non metteva fede in loro" (Giovanni, 2, 23-24), perché l'uomo diventa rapidamente religioso, ma è lento a credere.

Gesù cercava invece in chi incontrava la fede autentica, e quando essa era presente poteva dire: "La tua fede ti ha salvato". Si noti che Gesù non ha mai detto: "Io ti ho salvato", bensì: "La tua fede ti ha salvato" (Marco, 5, 34); "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Matteo, 15, 28). Ecco come Gesù rendeva possibile la fede, ecco come faceva emergere la fede già presente nell'altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge.

Ha scritto Benedetto XVI nel prologo dell'enciclica Deus caritas est: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro (...) con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva". Purtroppo noi dimentichiamo questa verità e rischiamo così di rendere sterile la nostra missione e il nostro sforzo per comunicare il Vangelo. Proprio perché il Vangelo è buona notizia, esso vuole raggiungere l'uomo nel suo cuore e suscitare in lui in primo luogo la fede nella bontà della vita umana, in modo che egli possa intraprendere l'avventura dell'esistenza credendo all'amore. È in questo senso che Gesù insegnava che nulla resiste alla fede, anche quando essa è nella misura di un granello di senape, "il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra" (Marco, 4, 31).

Infine, va messo in rilievo come l'educazione alla fede da parte di Gesù tenda all'annuncio del regno di Dio, alla buona notizia che Dio regna. Gesù non faceva riferimento a se stesso, ma nell'opera di evangelizzazione appariva sempre decentrato rispetto a Dio, al Padre che, con fiducia assoluta, chiamava: "Abbà, Papà" (Marco, 14, 36).

Di più, con l'intera sua vita, fatta di azioni e di parole, Gesù cercava di raccontare Dio, di rendere il Dio dei padri una buona notizia, distruggendo tutte le immagini perverse di Dio elaborate dagli uomini. Gesù parlava di Dio soprattutto nelle parabole, narrando vicende umane, mostrando come il regno di Dio sia buona notizia per uomini e donne, buona notizia nelle loro storie quotidiane, reali. Attraverso la sua vita umanissima, da vero uomo, l'autentico adam voluto da Dio (cfr. Colossesi, 1, 15-16), Gesù ha raccontato e annunciato Dio; ha mostrato come Dio regnava su di lui e, regnando, combatteva e vinceva la malattia, il male, la sofferenza, la morte. È per averlo visto vivere in questo modo che Giovanni ha potuto scrivere: "Dio nessuno l'ha mai visto, ma proprio lui, Gesù, ce ne ha fatto il racconto" (cfr. Giovanni, 1, 18).

Con la sua umanità piena e non segnata dal peccato, Gesù è dunque riuscito a raggiungere l'intimo dell'uomo e a generarlo alla fede in un Dio che ama per primo, un Dio il cui amore ci precede sempre, un Dio il cui amore noi non dobbiamo meritare, perché è il suo stesso essere: "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 8.16). Ciò che Gesù chiedeva, o meglio destava in chi incontrava, era nient'altro che la possibilità di credere all'amore. Ecco il fulcro della fede cristiana: credere all'amore attraverso il volto e la voce di questo amore, cioè attraverso Gesù Cristo.

Educare alla fede è per la Chiesa il compito primario; ma nel tentativo di riuscirvi possiamo imboccare molte strade, alcune decisamente sbagliate, altre poco efficaci. Tutto dipende in verità, e non può essere diversamente, dalla nostra capacità d'assumere la stessa pedagogia vissuta da Gesù nell'incontrare gli uomini e le donne.

Anche oggi la fede può essere generata, destata, fatta emergere da chi, volendosi testimone ed evangelizzatore di Cristo, sa incontrare gli uomini in modo umanissimo; sa essere una persona affidabile, la cui umanità è credibile; sa essere presente all'altro e sa fare il dono della propria presenza; sa, in un decentramento di sé, fare segno a Gesù e, attraverso di lui, indicare Dio, il Dio che è amore.

Può darsi - come molti affermano - che oggi il discorso su Dio lasci gli uomini indifferenti: io stesso penso che questa osservazione contenga del vero. Può darsi che oggi "la Chiesa" - come scriveva quarant'anni fa in Introduzione al cristianesimo il teologo Joseph Ratzinger - "sia divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede". Ma rimane vero che gli uomini sono sensibili all'avere fede o al non avere fede nell'amore, al credere o non credere all'amore, perché da questo dipende il senso dei sensi della vita.

Resto convinto che ancora oggi molti ci chiedono: "Vogliamo vedere Gesù!" (Giovanni, 12, 21), perché sentono che la sua umanità li riguarda, li intriga, li interroga.
  • Enzo Bianchi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 26, 2010 11:50 am


  • Nel mondo e tra la gente per missione
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Trent’anni fa moriva monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso a sangue freddo mentre celebrava la Santa Messa vespertina nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. E proprio nel giorno in cui il popolo salvadoregno è chiamato a fare memoria dell’estremo sacrificio del suo pastore, la Chiesa Italiana celebra la XVIII Giornata di preghiera e digiuno in ricordo dei missionari martiri e di quanti sono caduti, in varie circostanze, nell’adempimento del loro dovere evangelico. Si tratta di un’iniziativa promossa come ogni anno dal Movimento giovanile missionario della Fondazione Missio.

Nel 2009, secondo il computo redatto dell’agenzia Fides, sono stati 37 i missionari che hanno perso la vita: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Il numero complessivo è quasi doppio rispetto al 2008, ed è il più alto registrato negli ultimi dieci anni. Umanamente parlando, si tratta di un fenomeno davvero inquietante che genera cordoglio, dolore, turbamento, talvolta anche rabbia. Sì, per tutte le vicissitudini e angherie che avvengono nelle periferie del mondo e di cui sono testimoni queste sentinelle di Dio. Eppure il perdurare della violenza nei confronti dei giusti rappresenta paradossalmente, alla luce del Vangelo, uno stato di grazia e una forte provocazione per le coscienze. Non foss’altro perché l’identità cristiana, basata essenzialmente sulla con­sapevolezza dell’impronta divina presente nell’animo umano, ha sempre spinto i missionari a incarnare lo 'spirito delle beatitudini', offrendo le sofferenze vissute per l’edificazione di una società nuova, rispettosa dei diritti fondamentali della persona.

Ecco perché la vita di monsignor Romero e di tanti apostoli del nostro tempo ci induce a una sorta di discernimento sulla nostra quotidianità, nella consapevolezza che essi rappresentano il valore aggiunto del cristianesimo. Sappiamo che nel cuore dell’uomo ci sono anche meschinità e crudeltà e sappiamo che gli esseri umani sono capaci di compiere crimini indicibili contro gente indifesa; tuttavia, il seme del bene è presente nell’anima di ogni persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Vi sono infatti uomini e donne che si sacrificano per gli altri nella società contemporanea, senza chiedere nulla in cambio, facendosi per la famiglia planetaria testimoni di speranza, in prima fila sul fronte della lotta alle prevaricazioni e alle ingiustizie.

In un mondo mercantile e globalizzato, regolato dalla scriteriata ed egoistica ricerca del profitto a tutti i costi, i nostri missionari sono davvero un segno di contraddizione, testimoniando il più grande comandamento sociale della storia: quello dell’amore. Un precetto divino che rispetta gli altri e i loro diritti. Esige la pratica della giustizia e ispira una vita che si fa dono di sé, nella consapevolezza che «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17,33).

Insomma, se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo uscire da noi stessi, fermamente convinti che il segno intangibile della gratuità sta proprio nella parresia intesa come coraggio di osare, di criticare i soprusi, l’assenza di solidarietà, l’odio, la guerra e ogni genere d’egoismo nella storia. È questa la discriminante tra una pratica religiosa, algida e disincarnata, asettica rispetto alle vicende umane, e la coraggiosa franchezza di coloro che, come i missionari di cui oggi facciamo memoria, vivono la militanza nel nome di Dio.

E quando per ignavia, stanchezza o delusione, noi cristiani del cosiddetto Primo Mondo, avessimo la tentazione di gettare la spugna rinunciando ad agire per il futuro, dovremmo avere l’umiltà di imparare da loro, martiri del Terzo Millennio. Sovvengono allora quasi istintivamente le parole del vescovo Romero: «La mia vita appartiene a voi». A un popolo da servire fedelmente. La scelta di illuminare o oscurare l’esistenza è nella condotta dell’uomo e non fuori di lui.
  • Giulio Albanese
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 01, 2010 8:20 am


  • Non mi vergogno di essere prete
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Anche nei giorni dell'accusa e del dileggio mediatico, non mi vergogno di dire che non mi sono vergognato d'essere prete.

Alcuni preti sono stati incolpati di pedofilia? Una vergogna, ed è giusto fare pulizia dove c'è sporcizia. L'espressione, presente già nell'Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger del 1968, è stata usata, per la prima volta riferita alla Chiesa, dal cardinale Ratzinger durante la Via crucis al Colosseo, suscitando sorpresa. E ora vorrebbero coinvolgere anche lui. Ma non lo avevano chiamato "pastore tedesco", per la sua inflessibile disciplina?

Detto questo, non mi vergogno di appartenere a una "categoria" di persone che ha dedicato la propria vita a preparare i ragazzi e i giovani alla vita, che ha avuto il coraggio di promuovere con la parola e con l'esempio - sì, proprio con il buon esempio - l'ideale d'una vita pulita, seria con sé e con gli altri, rispettosa, generosa. Penso in questo momento agli ottimi sacerdoti che mi hanno educato, a quelli che ho conosciuto nel mio lungo ministero, che hanno vissuto per gli altri, ponendo la dignità della persona - specialmente dei bambini e dei giovani - alla base del loro servizio pastorale.

Penso anche ai casi di vere e proprie calunnie, che hanno distrutto delle vite innocenti. E di fronte a questo infuriare mediatico non posso non vedere anche l'avidità di chi - e non sono certo le vittime - sfrutta il caso a suo vantaggio; penso a conduttori di programmi televisivi deleteri, che irridono a ogni ideale e che oggi fanno gli scandalizzati. Penso alla buona occasione per infangare la Chiesa e svalutare la sua dottrina che resiste all'andazzo generale, non piegandosi ad accondiscendere a confondere il male con il bene, il pulito con lo sporco.

Penso ai santi preti, che non sono pochi, e a quelli onesti, che sono molti, ricordando i quali, mi sento spinto a guardare avanti con fiducia. Non sono così cieco per non vedere le cose che non vanno, prima in me e poi negli altri. Ma il bene maggiore non è di abbassare l'ideale, ma di innalzare il livello della mia vita, di sentirsi tutti più umili, più uniti nella Chiesa, di non lasciare troppo soli i nostri preti, di pregare per loro, di sostenerli con il nostro calore umano. Soprattutto a non scagliare troppo facilmente la prima pietra.

No. Non mi vergogno d'essere prete. Mi vergogno solo di non essere un santo prete.
  • padre Pier giordano Cabra
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 09, 2010 10:56 am


  • I credenti e la 'notizia': chiamati a dare voce all’inaudito che il mondo non sa accettare
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Nel Lunedì dell’Angelo, in quell’ 'ottavo giorno' della settimana pasquale che ci riconsegna alla feriale quotidianità, Benedetto XVI ha voluto ricordarci chi davvero, quest’Angelo, sia.

Angelo, letteralmente 'messaggero', per i primi autori cristiani è Cristo stesso: l’annunziatore, colui che doveva portare al mondo 'il disegno del Padre per la restaurazione dell’uomo'. Annunziatore di quella Resurrezione che ha modificato ha detto il Papa il giorno di Pasqua – l’orientamento profondo della storia, «sbilanciandolo una volta per tutte dalla parte del bene».

L’Angelo del Lunedì pasquale è dunque il Messaggero, colui che testimonia la vita nuova. Ma poiché noi da Cristo siamo stati mandati, ha aggiunto Benedetto XVI, siamo anche noi 'angeli', annunziatori della Resurrezione. In modo particolare, attraverso l’ordinazione, lo sono i sacerdoti. E però tutti i cristiani sono chiamati a essere messaggeri.

Messaggeri di cosa, ci potremmo chiedere. Nella inflazione nostra quotidiana di parole, magari inerti o ottusi di fronte a questa: 'angeli'. Oppure così avvezzi fin da ragazzi ai riti della Pasqua, da avere perduto – pur 'sapendo' tutto – la coscienza della straordinarietà dell’annuncio. (Ma, se dovessimo spiegarlo a un bambino, sapremmo ancora dirgli perché è formidabile, la 'buona novella'?).

Il fatto è, come ha detto il Papa a Pasqua, che se Cristo non fosse risorto il destino nostro e del mondo intero sarebbe inevitabilmente la morte. Il destino nostro e di quelli che amiamo, dei padri, e dei nostri teneri figli bambini, sarebbe alla fine solo la morte. Più niente di loro, dopo l’ultimo respiro. Solo Cristo, solo quella pietra tombale rotolata nella notte di Pasqua ha sradicato questa legge; ha promesso che chi crede vivrà per sempre. È la vittoria sul male più grande; sulla morte che apparentemente ci riduce in polvere, ma anche sulle sue avvisaglie, e compagne: la malattia, la sofferenza, il dolore. L’annuncio di cui i cristiani sono messaggeri, 'angeli', è questa rivoluzione, questa inclinazione diversa e opposta dell’asse attorno a cui gravita l’universo.

Il male non vince, la morte non è per sempre. Quale notizia è più sbalorditiva per un’umanità incapace di pace e di giustizia, e ogni giorno assediata dalla violenza o dalla fame? O dal cinismo di chi sta materialmente abbastanza bene per sorridere della immensa speranza dei cristiani. In quella eclissi di attesa e di desiderio di vita, che segna la profonda crisi dell’umanità oggi, evocata dal Papa.

Messaggeri dunque, tutti, e in particolare quei quattrocentomila sacerdoti che 'servono generosamente il popolo di Dio' nei luoghi più remoti del pianeta, come ha ricordato a Pasqua il decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano, nel fare al Papa auguri inconsueti, forti come un abbraccio. A nome di una Chiesa che 'gli si stringe attorno', grata 'per la fortezza d’animo e il coraggio apostolico' con cui annuncia Cristo. 'Angelo' il Pontefice e 'angelo' – messaggero – anche l’oscuro giovane prete d’oratorio con la sua truppa di ragazzi attorno; il missionario in Africa, e ogni credente che – più con ciò che è, più con la speranza della sua faccia che con le parole – annuncia. Annuncia che la morte non ha vinto per sempre, che la sofferenza non è senza fine; che rivedremo il padre che ci manca, o il figlio che ci è stato tolto. Che le forze apparentemente opache e invincibili della prepotenza e della ingiustizia non prevarranno – e per questa promessa, non dimentichiamolo, il 'mondo' è radicalmente ostile al cristianesimo.

L’inaudito annuncio di cui siamo 'angeli', è che la morte è stata sconfitta. Non in una magia, come ha detto Benedetto XVI, ma dentro la concretezza carnale della storia. L’asse pesante, fino a quell’ istante inesorabilmente inclinato al male, è stato spostato in una notte – sotto a una pietra di tomba, che pretendeva d’essere per sempre.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer apr 14, 2010 8:56 am


  • Verità e preghiera, non chiacchiere
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Trasparenza e preghiera. L’intreccio tra il dovere della verità e il bisogno del gesto più autentico del credente s’è materializzato ieri, quando la Santa Sede ha diffuso una «guida» per capire le regole e le procedure nei casi di abuso, e la presidenza della Cei, appena dopo, ha chiamato la Chiesa italiana (noi tutti, uno per uno) a pregare per il Papa. Due volti della stessa preoccupazione, in un’ora aspra di prova che è riservata a Benedetto XVI ma che non possiamo non sentire anche nostra, perché nessuno di noi è una semplice comparsa nella storia cristiana.

E dunque non si può chiedere verità senza sentirsene chiamati in causa, testimoni di questa verità necessaria e doverosa insieme a tutta la Chiesa, noi stessi parte di un corpo che è mistico ma fatto di uomini, santo per natura ma fragile per costituzione. Noi allo specchio, ognuno con le proprie magagne – certo non abomìni, ma le piccole e grandi cadute della lotta di ogni giorno –, cristiani perché uomini. Vederla altrimenti equivale a parlare di una giustizia tutta formale, che non è quella evangelica radicata nella misericordia: una giustizia senza speranza, senza redenzione.

E dunque, è indispensabile legare verità e preghiera: non si può esigere la prima senza sentirsi esposti in prima persona nella seconda, nel colloquio con Dio, nell’invocazione di grazie, di forza, di perdono, per noi, per tutti. Che Chiesa sarebbe quella dove ci sono gli imputati e gli spettatori, il palco e la platea, la gogna mediatica e i curiosi? Abbiamo, per di più, davanti agli occhi l’esempio infinitamente coraggioso di un Papa che conduce per mano la Chiesa a non aver paura di fare i conti con lo 'sporco' al suo interno – in quei pochi angoli dove s’è insediato e nascosto –proprio perché ora c’è più luce per vederlo. La stessa nota vaticana diffusa ieri a uso dei non specialisti in diritto canonico sostanzialmente richiama – e non allestisce a uso dei media, avidi d’insabbiamenti presunti e di ammissioni vergognose – le norme di un motu proprio di nove anni fa e del Codice di diritto canonico che di anni ne ha ben 27. Norme piuttosto note, ma che oggi si avverte opportuno illustrare, ribadire, dettagliare, senza alcun timore, inclusa quella che prevede sia dato «sempre seguito alle disposizioni della legge civile».

Trasparenza, appunto, per una verità che non sia generico giustizialismo ma sostanziale risanamento. In quelle regole si dicono cose severe e impegnative, norme che le istituzioni civili e private dovrebbero prendere a modello per contrastare un fenomeno purtroppo dilagato in molti ambienti (il turismo come la pubblicità, per dirne due che non sembrano suscitare alcuno scandalo) e che invece, giornali alla mano, pare riguardare solo la Chiesa. Ancora ieri, la stampa liberal americana – della quale tanta parte della nostra s’è acconciata a porsi come discepola zelante e copiona – attaccava a testa bassa con l’intento sempre più scoperto di screditare a tutto campo Chiesa e Papa, e non solo in quell’America nella quale il cattolicesimo è segno pubblico ancora fortemente identitario. Con un pastore come Benedetto, però, capace di operazioni di verità come quella cui stiamo assistendo in questi mesi, il popolo di Dio non può lasciarsi impaurire. Ecco perché pregare per lui è oggi indispensabile, un’esigenza del cuore, ma anche la garanzia che l’esperienza cristiana non si lascia sgretolare da nessuna chiacchiera.

In un mondo che del verosimile e del posticcio ha fatto il suo idolo culturale, la verità della Chiesa è destinata a far sempre più 'scandalo'. Sostenerne l’incedere contro tutte le correnti, con una preghiera semplice e tenace: ecco l’impegno all’altezza di un cristiano.
  • Francesco Ognibene
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio apr 22, 2010 3:04 pm


  • Non di fronte ma dentro la sofferenza
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"Accanto al malato la speranza ha il volto della cura" affermava - a conclusione della sua relazione - il cardinale Angelo Bagnasco e, citando Cicely Saunders, fondatrice del primo hospice inglese, "la risposta cristiana al mistero della sofferenza non è una spiegazione ma una presenza". La presenza dei curanti, chiamati ad assicurare al malato quel "grembo vivo di relazioni" all'interno del quale egli possa continuare a vivere, ma anche e soprattutto "la presenza del grande Paziente, Cristo crocifisso, che abita e colma la solitudine del corpo e dello spirito in quelle fragilità così personali e profonde dove nessuna umana presenza può abitare pienamente".

Il convegno "L'uomo di fronte al mistero della sofferenza", svoltosi a Torino a margine dell'ostensione della Santa Sindone, è stato l'occasione per una riflessione profonda sul mistero della sofferenza e sui sentieri percorsi per intravedere la speranza racchiusa nel senso di questa ineludibile esperienza umana. Sebbene pronunciate a distanza di un giorno l'una dall'altra, le relazioni dell'arcivescovo di Genova e quella di Francesco Botturi - ordinario di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore - si sono intrecciate e ritrovate quasi per dialogare in più punti.

Soffermandosi in apertura sull'uomo di fronte alla sofferenza nella cultura contemporanea, il cardinale Bagnasco ha sottolineato come la società oscilli "tra rimozione e spettacolarizzazione": attraverso la "mediazione protettiva dello schermo televisivo" è possibile assistere alla "morte esibita" e al "particolare macabro" come in un rito di "esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa", quasi fosse possibile poi allontanare il tutto semplicemente "cambiando canale", senza quel pudore che, "quasi riflesso istintivo di fronte al dolore e alla morte", pare ormai assente.

Ma vi sono casi in cui prendere le distanze dal contenuto di un'esperienza ne provoca invariabilmente la dissoluzione: questo è - secondo Botturi - il caso della sofferenza: non ci si può "porre di fronte a essa" perché la si ridurrebbe a un sintomo, a un qualcosa di soggettivo ed esterno all'osservatore mentre, ha continuato il filosofo, "la sofferenza esiste solo se vissuta in prima persona". Il tentativo di rimuoverla tenendola a distanza porta solamente - afferma Botturi - all'"insofferenza per la sofferenza" e al "risentimento per la sofferenza": diviene insopportabile ciò che non si riesce a vivere, diviene insopportabile chi, con la propria immagine, ricorda ai sani che la sofferenza è parte della vita umana.

Di fronte alla non accettazione del soffrire - prosegue il cardinale Bagnasco - l'uomo moderno tenta di rifugiarsi, quando non nella "fuga dalla realtà che va dall'irresponsabilità fino alla deconnessione psichica", ottenuta mediante il ricorso a sostanze stupefacenti o all'alcol, almeno nella convinzione, "quanto meno ingenua", di poter "essere padrone pieno ed assoluto della salute e della vita". Si vorrebbe, per dirla con le parole di Botturi, che la tecnicizzazione della medicina fosse esauriente e che l'universo della sofferenza potesse essere ridotto al capitolo della terapia del dolore; ma l'atto curativo ha una portata ben maggiore rispetto alla tecnica: è uno spazio nel quale riprende senso il termine "compassione" sulla base di qualcosa che, avendo una radice comune, può essere patito insieme in quel "grembo di relazioni" citato dal cardinale Bagnasco che rappresenta l'alveo naturale dove scorre la vera relazione terapeutica.

Come uscire quindi da questo vicolo cieco di fuga e stordimento che sembra sfociare unicamente nell'angoscia e nella disperazione? "In ultima analisi - afferma il cardinal Bagnasco - la delusione per il fallimento di ogni rimedio e la mancanza di un contesto culturale e relazionale capace di confrontarsi con la sofferenza hanno l'effetto di rendere questa esperienza umana ancora più dolorosa, perché vissuta come qualcosa di assurdo e di inutile". "L'uomo che considera la propria vita priva di senso non è solo infelice ma è anche incapace di vivere" scriveva a questo proposito Albert Einstein, ma l'esperienza ci dice che, essendo la sofferenza parte integrante della vita umana, l'espressione potrebbe essere parafrasata affermando che è incapace di vivere colui che considera la propria e l'altrui sofferenza priva di senso. I due relatori concordano nell'affermare che l'umanità più vera fiorisce nella misura in cui esce da sé per farsi dono. E, direbbe Viktor Frankl, i momenti nei quali l'uomo può "essere, diventare o restare se stesso" sono proprio quelli nei quali tende a "uscire da sé" e a vivere per un altro: amare, pregare e morire.

La sofferenza, che "si riassume nel vertice della morte fisica - sottolinea il cardinale Bagnasco - sembra appartenere alla trascendenza dell'uomo e (...) la misteriosa possibilità offerta all'uomo di trascendersi mediante la sofferenza apre la prospettiva di un senso e di un compimento".

La credibilità che l'esistenza acquista quando attraversa il patire e l'autorevolezza che promana da chi ha sofferto o soffre per testimoniare un valore sono evidenze, quasi parole, del misterioso linguaggio con il quale la sofferenza ci parla di un qualcosa che ci sorpassa, di un Qualcuno in grado di colmare la nostra inquietudine esistenziale e quel "desiderio contraddetto" di pienezza e di pace nel quale è da ricercare, secondo Botturi, la radice di ogni umano patire, la spinta che fa perennemente oscillare l'uomo tra disperazione e affidamento.

L'origine del termine "sofferenza" rimanda in effetti a qualcosa da portare - dice Botturi - a un peso da caricarsi, distinguendosi in questo nettamente dal termine "dolore" che invece rimanda più direttamente a una disfunzione, a un deficit: una cultura che accetti la sofferenza, dice lo studioso, ha bisogno di conservare tale distinzione per interpretare correttamente la compassione. Ma a questo punto già lo sguardo è portato a levarsi verso la Sindone, verso l'Uomo umiliato e offeso, verso le ferite che come una scrittura incisa nel suo corpo ci svelano un senso che ci sorpassa e ci parla di eternità, un senso che ci aiuta a vivere davvero da uomini.
  • Ferdinando Cancelli
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 30, 2010 8:34 am


  • La forza di carità e volontariato è inosservata e possente la macchina del bene
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Da una ricerca condotta da Caritas e Acli emerge la tenuta e la robustezza del volontariato nel nostro Paese: quattro milioni e 400 mila volontari in Italia, il che, togliendo i bambini e gli ottantenni, vuol dire approssimativamente che una persona su dieci dà un po’ del suo tempo, gratis, a spesso sconosciuti altri. Nello stesso convegno si è ricordato che la colletta per i terremotati di Abruzzo indetta dalla Cei ha devoluto alla Caritas 27 milioni di euro: cifra tanto più considerevole se si pensa per quale anno di crisi il Paese è passato.

Notizie, verrebbe da dire, da un’Italia silenziosa, scarsamente visibile, non rilevata dai riflettori dei media, e che pure c’è. Oggi come domani i titoli più evidenti saranno per la rissa di palazzo, o per l’ultimo scandalo. Eppure sotto a questo rumore un altro Paese vive, lavora, fa del bene. Milioni di italiani, anche in un anno magro, hanno voluto dare il loro aiuto per la gente dell’Abruzzo. Milioni di persone dedicano qualche ora al mese a chi ne ha bisogno. I titoli dei giornali gridano, a volte assordano. L’esercito di pace che assiste malati o carcerati, o affida alla Chiesa la sua offerta per i senzatetto abruzzesi, procede invisibile, e non fa rumore – come non lo fa un bo­sco che cresce.

Non tutta questa Italia, certo, è riconducibile al mondo cattolico, che pure ne forma una consistente parte. Ma an­che la carità 'laica', in un Paese come il nostro, affonda le sue radici in un humus da secoli impregnato di carità cristiana – quasi naturaliter cristiano. Non era degli antichi pagani, la pietà per i figli nati storpi; e ancora oggi in certe culture tribali i folli e certi malati vivono da paria, poveri 'demoni' non degni di misericordia. Quello sguardo diverso, che dà da mangiare ai poveri e va a trovare in galera gli assassini, da noi è eredità, magari anche inconsapevole; è un respiro tramandato. Fin da quando Tertulliano, nel secondo secolo, scriveva di come la sollecitudine dei cristiani per i miserabili lasciava stupefatti i pagani. Fin da quando i moribondi, un tempo abbandonati nelle strade, venivano accolti nel Medioevo nei primi ospedali cristiani. E in questa Italia oggi così diversa, spesso dimentica delle sue radici, e così travagliata da scontri di potere, accuse e divisioni profonde, tuttavia permane e opera come una macchina possente la carità di tanti. Inosservata, generosa, indifferente al rumore, ai veleni, alla crisi, anche all’età. La ricerca della Caritas rileva come sia considerevole il numero dei pensionati che vanno a fare volontariato: come avendo capito che a nessuna età si vive per sé soli.

C’è stato chi, nell’auge del marxismo, teorizzava che in una società davvero giusta di carità non ci sarebbe più stato bisogno, quando lo Stato avesse assolto equamente ogni suo compito e dovere. Quel mondo perfettamente 'giusto', non lo si è visto mai, è utopia, idea che non trova modo di incarnarsi su questa Terra. Ma, ha scritto Benedetto XVI nella Deus caritas est , anche nella società più giusta l’amore sarà sempre necessario: «Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore».

Quell’amore che riconosce nell’altro, sconosciuto e ultimo, uno che ti assomiglia, come parte di te, generato dalla tua stessa radice – figlio dello stesso padre. In questa logica, consapevoli o magari no, milioni di uomini e donne in questo Paese ancora vivono. Senza vantarsene e senza stupirsene. In quel respiro ereditato, quotidiana abitudine al dare. Che ricchezza. Sotto alle granate degli scandali e delle risse che fanno notizia, ricchezza quasi invisibile agli occhi; caratteristica, come diceva Saint- Exupery, che è propria delle cose essenziali.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 06, 2010 9:08 am


  • Perché si accetta la pulizia «confessionale»?
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Sparare contro ragazzi che vanno all’università è raccapricciante. La misura dell’atrocità l’ha data un sacerdote: le vittime non erano soldati o miliziani, ma studenti che portavano con libri e quaderni i loro sogni di crescere e di servire il proprio Paese. Ma ad aggiungere orrore su orrore c’è la motivazione più odiosa, quella dell’intolleranza religiosa, la negazione del primo diritto umano, la libertà di professare la propria fede senza impedimenti. E senza rischiare la vita come accade ogni giorno ai cristiani iracheni, minoranza tra le minoranze, non 'degna' che di poche righe sulle agenzie di stampa quando finisce sotto il fuoco dei fondamentalisti musulmani, determinati a imporle un esodo forzato dalle terre in cui risiede da molti secoli.

L’attacco di domenica a Mosul contro un convoglio di universitari siro-cattolici, nel caos politico di un dopo-elezioni particolarmente tormentato, non ha meritato nemmeno un messaggio di solidarietà da parte delle autorità di Baghdad. Silenzio anche nell’Occidente tanto solerte per altre cause, pur altrettanto nobili, ma selettivamente distratto quando si tratta di difendere i cristiani presi di mira in quanto tali. Qualche lodevole eccezione nel panorama italiano, ma le ripetute sollecitazioni partite da Roma non trovano echi a Bruxelles, dove nessuno sembra troppo preoccupato della sorte degli iracheni fedeli alla Chiesa. E si sa che l’apatia e l’indifferenza sono i migliori alleati dei carnefici. In sette anni di guerra e di travagliato post-Saddam sono stati centinaia i cristiani uccisi, decine di migliaia quelli costretti alla fuga, prima da Baghdad verso il Nord e poi all’estero, nei Paesi confinanti o in Europa, America e Australia. I loro spazi di manovra sempre più ridotti: luoghi di culto distrutti, attività economiche soffocate, violenze e minacce diffuse. Tutto denunciato e documentato; tutto spesso ignorato e regolarmente sottovalutato.

L’attentato agli studenti è avvenuto nel breve spazio di un chilometro, tra due posti di blocco, uno delle forze americane e irachene, l’altro della polizia locale curda: una dimostrazione che per la minoranza più perseguitata c’è soltanto una 'terra di nessuno', in cui si può impunemente colpirla senza che vi sia una doverosa mobilitazione per la sua sicurezza. Il convoglio dei ragazzi aveva, in testa e in coda, un paio di vetture di scorta, poca cosa per la forza e la feroce determinazione degli estremisti musulmani contrari a ogni forma di tolleranza e di convivenza. Ieri il vescovo Casmoussa ha invocato l’intervento di un contingente delle Nazioni Unite per la protezione della mese dopo mese più esigua presenza cristiana. Non si ripeterà mai troppe volte che un Iraq liberato dalla dittatura ma privo di una delle sue componenti religiose e sociali più antiche testimonierebbe la sconfitta di un progetto democratico che doveva estendere la sua influenza anche ai Paesi vicini. Al contrario, il contagio di una 'pulizia confessionale' implicitamente accettata potrà diffondersi pure oltreconfine, in una regione dove gli estremismi non sono certo sopiti.

Se per qualche inconfessabile pregiudizio anti-cristiano si rinunciasse alla difesa attiva dei fedeli che ancora resistono nel Paese, non solo si verrebbe meno a un dovere di giustizia, ma verrebbero aperte le porte al fanatismo. Quello che, poi, ci indigna e ci spaventa quando raggiunge le nostre nazioni e le nostre città. Pensiamoci, il tempo a disposizione per i cristiani iracheni continua drammaticamente a diminuire.
  • Andrea Lavazza
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 14, 2010 2:07 pm


  • Per imparare di nuovo a custodire il nome di Dio
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Non ci si deve limitare a proteggere l’albero dalla tempesta. Lo si deve curare, tagliando i rami secchi. La lettura odierna del 'messaggio' di Fatima, ha spiegato il Papa, va dritta al cuore dell’odierna passione ecclesiale: «Non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal pec­cato che esiste nella Chiesa».

La Chiesa sa come fronteggiare il male che avvilisce la comunità degli umani e ogni singolo, con la stessa nettezza con la quale sa di doversi battere con il peccato che la insidia e la ferisce nell’intimo. Lo sappiamo e lo riconosciamo da sempre, certo. Ma oggi «vediamo in modo realmente terrificante che la più grande persecuzione alla Chiesa non viene dai nemici di fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa». Non è un fatto così consueto che la franchezza di questo duro riconoscimento appaia così ispirata dalla dignità e dalla grazia di un’autentica testimonianza: da fare tutt’uno con essa. In un solo gesto, di umile trasparenza, la Chiesa confessa (è il dono speciale del ministero di Pietro, sin dall’inizio) la propria vulnerabilità alla contraddizione del peccato e la propria certezza nel soprassalto della grazia.

Nessuna vischiosità, nessuna dissimulazione. Cercare perdono e giustizia, secondo verità, come deve essere. I venditori di almanacchi registrino anche questo. E i credenti si disincantino. Lo sanno che non devono aspettarsi niente che non tocchi a loro fare. Lo facciano. Giuda non fermò Gesù. Gli evangelisti raccontano con sobria e franca semplicità tutta la storia, per filo e per segno. La tradizione degli Apostoli autorizzò e incoraggiò la circolazione di questi testi fondatori, riconoscendo in essi la parola di Dio che – indisgiungibilmente – ci ricorda la loro e la nostra vulnerabilità. In questo modo si affermò in tutto il mondo, e per tutti i tempi, senza ipocrisia alcuna, la splendida ostinazione della grazia di Lui: che incalza i suoi, trasformando la loro confessione in testimonianza per tutti. Noi, che dobbiamo espiare anche per i nostri peccati, abbiamo un doppio motivo per abbandonarci al suo perdono e alla sua giustizia. E proprio così, abbiamo la possibilità di restituire onore alla tenacia dei molti (moltissimi) contro gli avvilimenti che l’assuefazione al peccato cerca di trasformare in rassegnazione all’ipocrisia. Il pregiudizio ostile alla buona testimonianza – Dio sa se esiste! – si smaschera, in ogni modo, con l’abbandono di ogni ipocrisia. Simulare e dissimulare, giurare e spergiurare, è lavoro dei gazzettieri. Noi non giuriamo né sul trono, né sull’altare, per dare più forza a ciò che conviene: a noi tocca «dire sì, se è sì, dire no, se è no» (Mt 5, 37). Il resto è roba per i potenti di questo mondo, e viene dal maligno. Punto.

Il segreto più impensato e trasparente di Fatima infine è questo: «Dai piccoli nasce una nuova forza della fede, che non si riduce ai piccoli, ma che ha un messaggio per tutto il mondo, in tutta la storia, in tutto il suo presente e illumina questa storia». Per il resto l’autentico credente si mette in mezzo, a suo rischio, fra Giuda e i suoi 'piccoli' discepoli, drammaticamente increduli di sgomento e di smarrimento, perché imparino di nuovo – quando verrà la loro ora – che cosa vuol dire custodire in nome di Dio.

Dio ti benedica, Papa.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 21, 2010 10:31 am


  • Soltanto la fede viva e limpida ci fa superare le peggiori tempeste
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Per la Chiesa gli ultimi mesi sono stati mesi di sofferenza, di riflessione, ma anche di forte guida spirituale e pastorale di Benedetto XVI, il quale rivolgendosi ai giovani durante la Messa al Terreiro do Paço di Lisbona ha chiesto loro di cercare Gesù, di non dubitare mai della sua presenza, e ha aggiunto: «Vivete la vostra esistenza con gioia ed entusiasmo, sicuri della sua amicizia gratuita, generosa, fedele fino alla morte di croce. Dite (ai vostri coetanei) che è bello essere amico di Gesù e vale la pena di seguirlo».

La fede e il rapporto con Gesù sono capaci di sciogliere le angosce, le ansietà, i dubbi, che in una fase critica hanno coinvolto molti fedeli, e il richiamo del Papa evoca la forza vera dei credenti, contro la quale né il peccato né le sue strumentalizzazioni possono imporsi e vincere. Nell’incontro di domenica, Benedetto XVI è tornato sul tema del peccato, ovunque si compia, l’ha messo al centro della scena per indicare che questo è il vero nemico dell’uomo e della Chiesa.

La fede e il peccato sono rispettivamente la forza e il rischio per gli uomini di ogni tempo. La fede in Gesù è la prima e definitiva risorsa per chi vuole orientarsi, capire come il peccato si è insinuato anche nella Chiesa – perché questa vive nella storia e nella realtà di tutti giorni, e ne resta coinvolta ma non contaminata, ne subisce i contraccolpi ma non vi si piega –, capire perché i cattolici di tutto il mondo stanno confermando la fiducia nella comunità dei credenti e nelle loro guide spirituali, le quali hanno accettato e proposto la penitenza, invece del silenzio o della difesa corporativa, e sono andate incontro alle vittime per dare loro giustizia e conforto.

Senza la fede tutto è possibile, anche farsi imbrigliare dal male, con la fede in Gesù la roccia resta salda e la coscienza più intima di ciascuno di noi si sente rasserenata nel proseguire il cammino di testimonianza nella società che ci circonda.

Ancora in Portogallo, Benedetto XVI ha detto un’altra cosa che forse non è stata compresa adeguatamente nei commenti di questi giorni. Egli ha osservato che «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzione; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?». È un richiamo che ci riguarda tutti, perché in qualche modo tutti noi siamo condizionati dalla mentalità e della cultura che ci sono vicine, che spingono a mettere fra parentesi la fede, avvolgendola in un involucro nel quale l’utilità, la convenienza, i riflessi esteriori (anche ecclesiali) prendono il sopravvento e offuscano una coscienza che deve invece restare legata alla fonte primaria della spiritualità cristiana.

Mantenere viva e limpida la fede porta alla coerenza degli atti e dei comportamenti, induce all’umiltà e al riconoscimento delle colpe, alla loro riparazione, spinge a considerare la Chiesa come la comunità dei credenti che testimoniano la verità, non una realtà organizzativa con proprie leggi e propri interessi, pure legittimi. Benedetto XVI sta svolgendo in questo periodo la sua funzione di pastore universale con una forza e una capacità profetica che anche i critici della Chiesa cominciano a riconoscere, e ciò conferma la centralità della funzione pontificia che anche nei momenti critici aiuta, conforta, indirizza, coglie i punti essenziali dei problemi, impedisce che ci si scoraggi di fronte al male, ci si pieghi a tempeste che possono sembrare per un istante più grandi di noi.

Non esistono tempeste che possano intaccare la fede, è Gesù stesso che illumina un cammino che resta nella storia, ma non si confonde con essa, chiede impegno ma anche riconoscimento della realtà amara e dolorosa del peccato, apre il cuore alla speranza e alla fiducia anche quando queste sembrano appannarsi. Forse non è un caso che il viaggio a Fatima sia stata l’occasione per il Papa di assolvere con tanta forza e sicurezza la sua missione di guida della Chiesa. Maria, e tutto ciò che essa rappresenta nel cuore di ogni cattolico e cristiano, costituisce oggi più di ieri un rifugio spirituale, una fonte di ispirazione che alimenta il magistero della Chiesa e rafforza la fede di tutti i credenti.
  • Carlo Cardia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

ALICE
Messaggi:9872
Iscritto il:ven feb 19, 2010 12:26 pm
[phpBB Debug] PHP Warning: in file [ROOT]/vendor/twig/twig/lib/Twig/Extension/Core.php on line 1266: count(): Parameter must be an array or an object that implements Countable

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO

Messaggio da ALICE » ven mag 21, 2010 1:01 pm

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO
I. Dono dello Spirito e fedeltà nell'accoglierlo
Padre che ci doni lo Spirito,

Tu non rifiuti mai lo Spirito Santo a coloro che te lo chiedono,

Perché tu sei il primo a desiderare che lo riceviamo. Concedici dunque questo dono che riassume e contiene tutti gli altri,

Questo dono nel quale racchiudi tutti i segreti del tuo amore, tutta la generosità dei tuoi benefici,

Questo dono che è il dono stesso del tuo cuore paterno, nel quale tu ti offri a noi,

Questo dono che ci comunica la tua vita intima per farne vivere anche noi,

Questo dono destinato a dilatare il nostro cuore fino alle dimensioni universali del tuo,

Questo dono capace di trasformarci da cima a fondo, di guarirci dalle nostre debolezze e di divinizzarci,

Questo dono della tua energia onnipotente, indispensabile per adempiere la missione che ci affidi,

Questo dono della tua felicità, nel fervore dell'amore, poiché con lo spirito viene a noi anche il dono della gioia e la gioia del dono.

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 27, 2010 9:16 am


  • Impegni ai quali non si può venir meno
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Densa, come sempre, la prolusione del cardinale Angelo Bagnasco alla 61ª Assemblea Generale della Cei. Le parole che egli ha pronunciato si muovono tutte nell’orizzonte della speranza: non la speranza, a volte dolce, ma ingenua di chi cerca di rimuovere le sofferenze del presente, augurando a sé e agli altri un generico futuro 'migliore', ma la speranza cristiana, di chi sa che sperare in modo autentico significa mettere alla prova se stessi con un serio e fiducioso operare nel mondo.

Molteplici i temi trattati nella prolusione. A molti apparirà predominante, e non a torto, quello della pedofilia, affrontato dal cardinale in modo limpido ed esplicito e soprattutto in stretta connessione con le indicazioni che provengono dagli insegnamenti e dalle indicazioni pastorali del Papa. Il tema è conturbante, ma la Chiesa non deve esitare ad affrontarlo; non è del mondo che il cristiano deve aver paura, ma del peccato e delle sue tragiche conseguenze, nella consapevolezza che la più autentica risposta che è possibile dare al peccato, cioè la penitenza, appartiene anche essa all’ordine della grazia. Più che sulla pedofilia, sembra però opportuno soffermarsi oggi su altri due temi, non perché siano più rilevanti di questo, ma perché in essi, più ancora che in quello della pedofilia, siamo messi in grado di percepire la specificità dell’approccio ecclesiale a questioni che possiedono una rilevanza non solo antropologica, ma più spiccatamente 'civile'; questioni, cioè, per le quali alcuni potrebbero pensare che un intervento da parte della Chiesa debba essere ritenuto inessenziale, se non addirittura superfluo. Non è così.

La prima questione è quella demografica. Il presidente della Cei non rinuncia ai toni che gli sono propri, caratterizzati da una pacata fermezza. Ma non è possibile sottovalutare la forza di un’affermazione che egli fa, quella secondo la quale l’Italia sta andando «verso un lento suicidio demografico». All’affermazione seguono le cifre che le danno sostanza: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli; tra quelle che ne hanno, la metà ha un figlio solo; solo il cinque per cento delle famiglie con prole ha tre o più figli. Il cardinale non usa molte parole per spiegare il significato antropologico di questi dati: se viene meno la coscienza del valore che ha l’aver figli viene inevitabilmente meno la percezione del valore della vita stessa. I figli, dice Bagnasco, sono «doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani»; essi sono, in altre parole, il segno che la vita ha un senso e che ha un senso lottare per darle un senso. Il necessario e doveroso impegno dello Stato nel sostegno delle famiglie non va visto quindi solo in chiave economico-politica, ma in un orizzonte più ampiamente antropologico.

L’altra grande questione affrontata è quella dell’ormai prossimo anniversario dell’unità d’Italia: un tema sul quale, dice il presidente della Cei, è doveroso confrontarsi «da persone adulte». Che l’unità del Paese sia una conquista irrinunciabile è un dato acquisito, così come è da ritenere acquisito che l’unità non vada interpretata come il prevalere di un progetto su altri progetti, ma come il «coronamento di un processo», di un lungo processo nazionale, culturale, artistico, e soprattutto religioso; un processo di cui i cattolici sono stati protagonisti, al punto da poterli qualificare – con un’ espressione a suo modo ardita – «tra i soci fondatori di questo Paese». Anche le questioni più laceranti che hanno tormentato tante coscienze nel corso del processo risorgimentale sono ormai ricomposte: l’esplicita citazione dei nuovi accordi concordatari tra Stato e Chiesa del 1984 serve a sottolineare come, anche in questo ambito, la «pacificazione» sia ormai completamente raggiunta. Tutte queste osservazioni, avverte però il cardinale, vanno intese non come rivolte verso il passato, ma come aperte al futuro, perché il nostro «stare insieme» si radichi sempre di più nella volontà di «volersi reciprocamente più bene».

Questo è il grande insegnamento, nello stesso tempo 'politico' e 'meta-politico' che, tramite le parole di Bagnasco, la Chiesa rivolge a tutti i cittadini: il nostro vincolo nazionale non si fonda su meri interessi, o su accordi politico- procedurali, né meno che mai sulla condivisione di sentimenti nazionalistici o narcisistici. Esso si fonda sulla consapevolezza che esiste un bene comune di noi italiani, un bene che va costantemente promosso attraverso riforme concrete e intelligenti. A questo impegno i cattolici non vogliono, né possono venir meno.
  • Francesco D’Agostino
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 04, 2010 9:03 am


  • Un destino preparato dall'eternità
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Nell'imminenza della sua morte Gesù rende i suoi apostoli partecipi del suo corpo dato e del suo sangue sparso. Così, mangiando il pane da lui spezzato e bevendo al calice da lui benedetto, entrano già in comunione con il suo sacrificio. Ma quel gesto di Cristo dovrà essere rinnovato come suo memoriale: la cena del Signore (1 Corinzi, 12, 20) è destinata ad accompagnare la vita dei discepoli. Gesù la annette alla Chiesa, designata così a condividere il suo destino consumato sulla croce, e a interiorizzare, e quasi a inghiottire, la sua immolazione.

Leggiamo Paolo: "Il Signore Gesù, nella notte in cui era consegnato, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, quello per voi. Fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, prese anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"" (1 Corinzi, 11, 23-25). E, infatti, da subito i cristiani celebrarono quella cena, nella consapevolezza che essa era per loro irrinunciabile.

Ma qual è la ragione di questa annessione dell'Eucaristia alla Chiesa? Tale ragione appare pienamente alla luce del disegno divino, che include l'eterna predestinazione del Figlio di Dio crocifisso e glorificato. Il sacrificio di Cristo non è un episodio fortuito e inatteso, o ultimamente derivante dalla volontà dell'uomo. A rimproverare la stoltezza dei discepoli di Emmaus e la lentezza del loro cuore a credere alle profezie è lo stesso Gesù: "Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Luca, 24, 26-27). Quanto a Pietro, negli Atti degli Apostoli afferma che Gesù di Nazaret è stato consegnato agli uomini d'Israele "secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio", che "lo ha risuscitato" (cfr. 2, 23-24). Nell'eterno piano divino è, dunque, contenuto il Figlio di Dio predestinato redentore.

In verità, noi non sappiamo la ragione di questo progetto che comporta l'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù: essa appartiene all'insondabile mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si dirà che la scelta divina deriva dal peccato dell'uomo e si sa che i teologi si sono chiesti che cosa avrebbe fatto Dio se l'uomo non avesse peccato. Senonché, la domanda è semplicemente improponibile, poiché l'agire di Dio non può in alcun modo dipendere dalla determinazione di una sua creatura.

Possiamo invece riconoscere - evitando di addentrarci nelle sterili vie delle ipotesi - tre cose. La prima: che l'attuale ordine voluto da Dio contiene certamente la dimensione del peccato proveniente dalla libertà dell'uomo (e dell'angelo). La seconda: che questo peccato non solo non fu capace di far fallire il piano divino, ma era, in ogni caso, "preceduto" dall'amore misericordioso. E la terza cosa: che quell'amore si è sommamente manifestato nel sacrificio di Gesù.

Secondo la prima lettera di Pietro noi siamo stati liberati dal "sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia", che "fu predestinato già prima della creazione del mondo" (1 Pietro, 1, 19-20). Questo amore misericordioso è la ragione assoluta e il "principio" del disegno creativo: Dio crea per rivelarsi come grazia. E la "grazia" originaria è l'umanità risorta e glorificata del Figlio. Detto in altre parole: il motivo della creazione è il Redentore, o il Crocifisso risorto. Non è, allora, a partire dal peccato che si capisce la redenzione; al contrario, è a partire dalla redenzione che si può "comprendere" il peccato, che trova in lui, "preventivamente", la sovrabbondanza del perdono.

Ecco perché Gesù appare segnato dalla predestinazione alla passione. Egli viene tra noi per essere "vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Giovanni, 2, 2). La sua umanità porta iscritta la morte redentiva quale condizione ed espressione della sua riuscita. Questa morte non equivale alla sua disfatta né suggella il fallimento del piano di Dio, ma, paradossalmente, ne costituisce e ne proclama il successo e l'esaltazione. L'"innalzamento" di Gesù avvera la sua gloria e lo pone nel cuore dell'umanità e di tutto l'universo (cfr. Giovanni, 12, 32).

Scrive san Tommaso: "Dio ama Cristo non solo più di tutto il genere umano, ma anche più di tutte le creature dell'universo. Né l'eccellenza di Cristo venne meno per il fatto che lo abbia destinato alla morte per la salvezza del genere umano. Che anzi, per questo egli è diventato un vincitore glorioso" (Summa Theologiae, i, 20, 4, 1m). Ora, nel cenacolo Gesù istituisce l'Eucaristia perché in essa incessantemente possiamo ritrovare l'umanità crocifissa e gloriosa del Signore. Essa è, così, il sacramento del destino del Figlio di Dio, o la presenza reale dell'iniziale disegno di Dio, avveratosi sulla croce e nella risurrezione, e incessantemente professato e donato alla memoria e all'accoglienza della Chiesa, "finché egli venga" (1 Corinzi, 11, 26). Ma l'Eucaristia, proponendo la morte e la risurrezione di Gesù, per ciò stesso disvela il destino di morte e di risurrezione che è incluso in ogni uomo.

L'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù è l'archetipo esclusivo e imprescindibile di qualsiasi umanità. Tutto è stato creato "per mezzo" del Risorto da morte, "in lui" e "in vista di lui" (cfr. Colossesi, 1, 16). Da qui l'impronta del Crocifisso glorificato particolarmente nell'uomo. Il Risorto da morte è stato scelto, "prima della creazione del mondo" (Efesini, 1, 4), quale "Primogenito tra molti fratelli" (Romani, 8, 29). Gli uomini - secondo un'espressione particolarmente felice - sono stati "compredestinati" o "impredestinati" in lui, e perciò con la vocazione a rinnovare in se stessi le vicissitudini del Crocifisso o a portare nella propria esistenza la sua immagine.

A partire dal Signore paziente trova inizio e significato la passione di ogni uomo, come comunione alla sua croce. A partire da lui risorto traspare l'esito e il traguardo di ogni morte. Nessun uomo è ideato da Dio ed è chiamato a vivere, se non perché, bevendo al calice del Figlio, rifulga eternamente di uno splendore simile al suo.

Paolo interpreta il battesimo come un essere "intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte", in vista della "somiglianza della sua risurrezione" (cfr. Romani, 6, 1-11). Il cristiano, in solidarietà con Cristo, è ordinato a condurre un genere di vita che è di con-morte e di con-risurrezione con lui, in cui si rifletta la stessa sorte del Signore, col quale "ci ha risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli" (Efesini, 2, 6). In ogni sofferenza, anche di là dalla coscienza che se ne possa avere, si rinnova e si riproduce oggettivamente il Calvario di Gesù, proteso verso il compimento pasquale: in ogni dolore e morte umana è seminato il germe della gloria del Signore. In altre parole: l'uomo viene alla luce "nativamente" designato a replicare la condizione di Cristo, e quindi a mettersi assolutamente nelle mani al Padre, come lui, quando, nell'estremo della desolazione, gli "offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime" (Ebrei, 5, 7), puramente e totalmente sostenuto dalla indubitabile speranza che, lo avrebbe esaudito, come avvenne nella risurrezione. D'altronde, non può sorprendere che questo destino sia ìnsito in ogni uomo, se, come abbiamo visto, l'umanità incondizionatamente eletta da Dio fin dall'eternità è l'umanità del Figlio risorto, la sola riconosciuta e la sola oggetto della sua piena compiacenza.

E ora siamo in grado di comprendere in pienezza la ragione dell'Eucaristia. Essa appare istituita e trasmessa alla Chiesa non soltanto come immagine sacramentale e presenza reale della passione e della morte, cioè della "sorte", di Gesù, ma anche come l'icona della sorte di tutti gli uomini concepiti a similitudine di lui, che estende a essi la sua predestinazione. Come nell'Eucaristia leggiamo la sorte del Figlio di Dio, così vi decifriamo la nostra vocazione a prender parte alla donazione del corpo e all'effusione del sangue, per diventare "consorti" del Signore. La Chiesa celebra la Cena del Signore non solo per tenere "fisso lo sguardo su Gesù, che si sottopose alla croce e siede alla destra del trono di Dio" (cfr. Ebrei, 12, 2), ma per percorrere il suo cammino, trasformando la contemplazione in imitazione.

Quello, però, che abbiamo detto sul disegno di Dio, sulla scelta eterna del Redentore, sull'umanità voluta a lui conforme, e sull'Eucaristia sacramento del destino di Cristo e dell'uomo, può essere conosciuto solo alla luce della Rivelazione e quindi unicamente per fede. La ragione è all'oscuro di tutto questo e infatti rimane allibita e sconcertata di fronte alla passione che segna fatalmente la vita dell'uomo: resta senza parole specialmente di fronte all'interrogativo sulla sorte finale dell'uomo.

Ne consegue l'urgenza per la Chiesa di predicare il "vangelo" o la "buona novella", però osservando che Dio in ogni modo e da sempre si prende cura di ogni uomo, e che nessuno mai fu lasciato in stato di abbandono, privo dall'amore del Padre e sprovveduto della grazia di Cristo. Tutti gli uomini, fin dall'eternità, sono stati voluti in questa grazia e nessuno è mai caduto dalla "memoria" di Dio, che è Gesù Cristo. Certo, lui solo conosce per quali vie ogni uomo incontri il Figlio redentore.
  • Inos Biffi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 11, 2010 2:28 pm


  • Il «rischio» del sacerdozio negli avamposti della storia
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«Non ho bisogno di mediatori». Quante volte abbiamo sentito questa sentenza che gentilmente condanna a morte la Chiesa nel nome dell’Altissimo 'puro' e impercettibile? Un contatto diretto e segreto con l’aldilà si vanta di potersela cavare senza questi funzionari di Dio che amano mettere il naso nelle faccende che non li riguardano. Ma in principio era la Parola, che non ha avuto paura di incarnarsi nelle lettere della lingua umana, questa meravigliosa mediatrice fra il nostro piccolo universo intimo e tutto il creato. Tra «le profondità di Dio», come dice san Paolo, e noi sulla terra si trova un sistema di strumenti puramente umani (segni, suoni, significati) di cui la Parola si è rivestita.

Senza tutto ciò, quale sarebbe il nostro contatto con l’Incomprensibile? Un muggito, uno slancio dell’anima assegnata al mutismo. Dio si dona alla materia scolpita dalle sue creature. E così noi l’accogliamo nel nostro vocabolario, nel nostro pensiero, nel modo di agire e, infine, nel suo stesso corpo ch’è la Chiesa. L’essere Chiesa proviene dalla più radicale conclusione che si possa trarre dall’Incarnazione. La vocazione dei suoi servitori è quella di forgiare i caratteri con i quali la Parola ci parla. Il mistero rimane insondabile, rinunciando alla propria invisibilità e incomprensibilità, per rivestirsi di tutto ciò ch’è umano, tangibile, riconoscibile.

Dio prende il coraggio di 'scendere', di offrirsi ai peccatori e ai suoi nemici. Ma anche l’uomo assume il rischio di accoglierlo nella propria esistenza terrena, di vivere e agire in Lui. Questo rischio porta il nome di sacerdozio. Nel nostro mondo troppo concreto il sacerdozio risulta essere una professione 'stolta' poiché si fonda soltanto sulla «prova delle cose che non si vedono» (Eb 11,1). Sulla certezza che, un tempo, un certo Gesù è vissuto sulla terra, ha parlato del suo Regno, è morto da uomo ed è risuscitato da Dio. La sua risurrezione ha lasciato un’enorme eredità di luce e ogni suo discepolo, soprattutto chi lo segue fino in fondo, ne rimane testimone, ma anche ospite dell’anticamera del Regno promesso.

Non è un’abitazione tranquilla, preparata per delle vacanze celesti. Essa si trova sulla frontiera, fra le cose che «si sperano» e la realtà, sempre troppo umana. Il dono del sacerdozio è quello di vivere nel mistero incarnato, di lavorare nella sua apertura, di 'investire' nei sacramenti e di continuare nella fatica dell’amore. Ma dov’è il peccato, abbonda anche la grazia. È vero anche il contrario: dove c’è la grazia, il padre della menzogna s’impegna di più, in un lavoro sporco. Parlando del rischio del sacerdozio, non intendiamo usare una figura retorica. Colui che fa una scelta totale rimane maggiormente esposto e vulnerabile: da fuori – perché la luce che è dietro di lui denuda ogni suo peccato e sbaglio – ma, anche interiormente, poiché per il diavolo non c’è bottino più appetibile di un servitore del suo Nemico. Ogni sacerdote è come un campo di battaglia, e i colpi che egli non può respingere per la propria debolezza (umana, ma a volte anche diabolica) li riceve Cristo, feriscono Dio. Non mi stupiscono i tanti scandali attorno alla Chiesa di ieri e di oggi. Il rischio era reciproco fin dall’inizio e la battaglia andrà avanti. Ma sappiamo già il nome del Vincitore.
  • Vladimir Zelinskij, sacerdote ortodosso
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 18, 2010 10:30 am


  • Il giardino segreto
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Benedetto XVI, in una lettera recentemente rivolta ai vescovi, constatava addolorato che "la fede rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata", e aggiungeva: "Il vero problema, in questo nostro momento della storia, è che Dio sparisce dall'orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l'umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più". A nessuno sfugge che questo appassimento della fede ha cause molto diverse; oserei però affermare che la causa primordiale (o quantomeno il virus che le infetta tutte) è il trascurare la vita interiore, dagli antichi paragonata a un giardino segreto, nascosto al viavai, chiuso ai rumori – hortus clausus - dove sbocciavano i fiori più profumati e rigogliosi non appena il padrone lo curasse.

Questo giardino, lasciato senza cure, non ci mette molto a ricoprirsi di arbusti e di erbacce; e quando la noncuranza arriva all'estremo dell'incuria, una macchina asfaltatrice penetra nel suo recinto, getta il suo asfalto letale e lo trasforma in una spianata dove non maturano più i frutti della fede, orfani di radicamento e di nutrimento. Questo abbandono della vita interiore è forse il tratto distintivo della nostra epoca, dedita con vigore disorientato e frenetico a ciò che in questo libro viene ripetutamente chiamato "attivismo", che altro non è se non il barcollare senza meta di un gallo decapitato il quale, nella sua fuga in preda al panico, cerca occupazioni che lo sottraggano all'angoscia di sapersi morto all'unica cosa che davvero importa.

I nostri corpi sono "templi dello Spirito", ci ha insegnato san Paolo. Ma da un tempio che si chiude al mistero lo Spirito finisce col fuggire; e lo stesso accade all'uomo della nostra epoca, impegnato a vivere "proiettato verso l'esterno", impegnato a smettere di vivere quando insegue futili ricompense che finiscono col rovinare la sua vita interiore. E quando smettiamo di essere "templi dello Spirito", restiamo senza il sacro: fugge da noi ciò che in noi vi è di sacro; e diventiamo - parafrasando il profeta Daniele - "abomini della desolazione", che è come essere ridotti in macerie, privati della nostra vocazione più vera, che altro non è se non quella di essere recipienti, otri di Dio.

Offuscati come siamo da questo "attivismo" scatenato che ci fa cavalcare in groppa alla fretta e al rumore, siamo infatti giunti alla strana follia di chiedere a Dio segni schiaccianti e clamorosi, alla maniera dei pagani di un tempo che chiedevano agli abitanti dell'Olimpo apparizioni teatrali che sconvolgessero le leggi fisiche. Quando invece, come sa bene chiunque vive in "intimità con Dio", le ostentazioni e gli eccessi sono ripudiati da Colui che volle farsi, per amore verso l'uomo, il più piccolo tra i piccoli.

Nessuno vive in modo tanto intenso l'"intimità con Dio" come Maria, sempre pronta a chiedere a suo Figlio quello che nessuno oserebbe chiedergli. "Non hanno vino", gli indica durante le nozze di Cana quando la celebrazione correva il rischio di finire male, pur sapendo che la sua osservazione risultava inopportuna; e quell'osservazione continua a ripetergliela ogni giorno, con l'ammirevole testardaggine che solo in una madre risulta sopportabile, ogni volta che osserva nelle otri del nostro essere la mancanza o la scarsità del vino vivificatore che fa di noi "templi dello Spirito".
  • Juan Manuel de Prada
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