All'ombra del sicomoro...

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 31, 2011 11:16 am


  • Don Bosco l'italiano
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Nelle librerie sono ormai sempre più numerosi i volumi sui 150 anni dell'Unità d'Italia. A breve, altri due illustreranno il contributo dato da don Giovanni Bosco, dai salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice a "fare gli Italiani," dopo che l'Italia era stata fatta in un modo certamente non condiviso dal santo di Torino. Sul suo apporto personale all'identità italiana non esiste, tuttavia, dubbio alcuno. Gli si riconosce di aver portato alla ribalta nazionale la "questione giovanile" e lo si colloca nella collana "L'identità italiana" volta a presentare "la nostra storia: gli uomini, le donne, i luoghi, le idee, le cose che ci hanno fatti quello che siamo".

Che la nostra identità abbia radici nel passato e che, prima ancora del carattere politico assunto con il Regno d'Italia nel 1861, da secoli abbia un suo carattere nazionale linguistico, religioso, letterario, artistico è indubitabile.

Può essere allora interessante e anche inedito vedere l'apporto di don Bosco a tale italianità già nel quindicennio precedente l'Italia unita. Del resto nel 1846 indicava alla massima autorità di Torino che egli intendeva insegnare ai suoi ragazzi quattro "valori": l'amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto a ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni. Li avrebbe successivamente sintetizzati nella celebre espressione "onesto cittadino e buon cristiano".

Nel 1845 pubblica dunque un volume di 400 paginette: la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. In evidenza sono subito due dimensioni: quella religiosa e quella di taglio giovanile e popolare. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così sempre i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell'epoca.

Quella di don Bosco non ha nulla a che vedere con le storie dotte e con quelle pure similari di Antoine-Henri de Bérault-Bercastel, di Réné F. Rohrbacher, di Johann J. I. von Döllinger. L'obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico: formare religiosamente i lettori, soprattutto i giovani studenti, con una bella storia, dando spazio ai "fatti più luminosi che direttamente alla Chiesa riguardano", soprattutto ai papi e ai santi, tralasciando o appena accennando i "fatti del tutto profani e civili aridi o meno interessanti, oppure posti in questione". L'Educatore. Giornale di educazione e di istruzione primaria lo recensiva positivamente, sottolineandone il principio educativo sotteso ("illuminare la mente per rendere buono il cuore") e apprezzandone il periodare "schietto e facile", "la lingua abbastanza pura"e "la sparsa unzione, che dolcemente ti commuove e alletta al bene", Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.

Non passano due anni che don Bosco dà alle stampe un'opera analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde "giovare alla gioventù", l'autore si prone la "facilità della dicitura e popolarità dello stile", anche se con ciò non può garantire "un lavoro elegante". I modelli ancora una volta sono libriccini esistenti sul mercato. Il volume è ben accolto dalla critica. Sul citato periodico di pedagogia torinese un maestro scrive che apprezza tanto l'opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi: "I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono". Tale comprensione è dovuta, a giudizio del maestro, alla "forma di dialogo" e alla dicitura "popolare, ma pura ed italiana".

Potrebbe essere stato questo apprezzamento uno dei motivi per cui don Bosco, sul finire del 1849, avanza richiesta alle autorità scolastiche del regno di adottare come testo scolastico un suo Corso di Storia Sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento che intende "pubblicare, adorno anche di stampe, in modo acconcio per l'ammaestramento delle scuole elementari".

La domanda in un primo momento parve poter venire accolta favorevolmente, stante "l'assoluta mancanza di un libro migliore". Nel corso della seduta del consiglio superiore della Pubblica istruzione del 16 dicembre 1849 si esprimono sì delle riserve "dal lato dello stile e della esposizione", ma esse vengono compensate dalle "opportunissime considerazioni morali" e dalla "necessaria chiarezza" che fa "emergere assai bene dai fatti i dogmi fondamentali della religione". L'intervento critico e autorevole del relatore don Giuseppe Ghiringhello fa però mutare opinione allo stesso consiglio per i "molti errori grammaticali e ortografici", che rendono "meno utile quel lavoro per altro verso assai commendevole". Evidentemente le esigenze del teologo Ghiringhello docente di Sacra Scrittura nella facoltà teologica della città non erano quelle dei maestri di scuole elementari (e di don Bosco), quotidianamente alle prese con fanciulli appena alfabetizzati, che normalmente si esprimevano in dialetto. La "fortuna" dell'opera è comunque notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964.

Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d'Italia che peraltro era richiesta dall'aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855: La storia d'Italia raccontata alla gioventù da' suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d'Italia. Questa volta la narrazione, che attinge come sempre ai compendi e manualetti dell'epoca, è più limpida del passato, dal momento che l'autore è ormai allenato da un decennio a scrivere. Sono però sempre pagine di uno scrittore che si adegua all'intelligenza dei suoi lettori, di un sacerdote che vuole presentare fatti fecondi di ammaestramenti spirituali, di un educatore di giovani "poveri ed abbandonati" che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Non se ne rese conto Benedetto Croce 60 anni dopo quando - nonostante il rispettabile successo di ben 31 edizioni fino al 1907 - per la presenza di certe pagine lo definisce un "povero libro reazionario e clericale", mentre il coevo ministro cavouriano Giovanni Lanza lo encomia. Niccolò Tommaseo ne tesse gli elogi, pur notando che "non tutti i giudizi di lui sopra i fatti a me paiono indubitabili né i fatti tutti esattamente narrati", ma senza tacere che "non pochi de' moderni (...) nella storia (...) propongono a se un assunto da dover dimostrare e quello perseguono dal principio alla fine; e a quello piegano e torcono i fatti e gli affetti".

Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell'aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1° gennaio 1850). L'intento è sempre quello di insegnare in prospettiva educativa e moralistico, ma ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti. Se ne conservano i dialoghi, ma non la sceneggiatura, anche se sappiamo che "variava sempre l'aspetto delle scene, ora rappresentando una bottega, ora un'officina, ora un'osteria, ora un'aperta campagna o la casa di un fattore. Erano recati in vista, e adoperati i nuovi e vecchi pesi, le vecchie e le nuove misure; primeggiava eziandio in mezzo il globo terracqueo (...) Talora il palco aveva l'aspetto di scuola co' suoi cartelloni, il pallottoliere e la lavagna (...) Coloro che rappresentavano gli scolari erano vestiti chi da contadino, chi da brentatore, chi da cuoco, chi da signorotto di campagna e altri in altre fogge. Un mugnaio era tutto bianco per la farina, un fabbro tutto nero per la polvere e il fumo del carbone. Gli spettatori godevano un mondo di queste scene e ancor più i giovanetti".

Fu un successo, stante anche il clima di comprensibile ansietà di un'opinione pubblica scarsamente istruita che dava al lavoro una cornice di straordinaria attualità e attesa. Nel lasciare la sala dello spettacolo il celebre abate Ferrante Aporti avrebbe commentato: "Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo". "Ragazzi di strada", pressoché analfabeti, che diventano attori e docenti di una materia nuova e ostica, mezzi scenografici estremamente semplici che costituiscono il supporto per conferire all'apprendimento scolastico solidità e concretezza e allo spettacolo la naturale drammatizzazione: ce ne è a sufficienza per definire il "teatrino di don Bosco" come una scuola viva, coinvolgente, antesignana di una futura didattica partecipata e di nuovi mezzi espressivi.

Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro formazione investe sulla storia d'Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antiche dello Stato unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l'anima profonda del Paese; investe sull'italiano semplice, popolare, perché non c'è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull'arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell'educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa.
  • Francesco Motto
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 10, 2011 9:42 am


  • Centocinquantesimo, i 20 milioni di emigrati che unirono l’Italia
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C’è qualcosa che è stato notato più volte a proposito delle foto di emigranti: i corpi, i volti, gli atteggiamenti, le posture degli italiani fotografati ad Ellis Island e degli albanesi arrivati sulle coste italiane, ma anche dei maghrebini, dei curdi, dei bengalesi hanno una impressionante somiglianza. E se una facile retorica potrebbe spiegare che si tratta di situazioni simili, di una comune emergenza la cosa che rimane da spiegare è proprio perché questa somiglianza si è stampata così fortemente nelle facce, nelle mani, nelle espressioni. Pasolini avrebbe detto che si trattava di gente che aveva ancora un volto, che si trattava di un’umanità che non si era conformata a dei parametri di ottusità da benessere. Non so se avesse ragione, ma è vero che nelle facce di chi scavalca un oceano o un mare in cerca di fortuna si legge una tensione ed una apertura allo stesso tempo che hanno qualcosa di impressionante. Si legge la storia nelle facce delle persone, come se queste diventassero da sole narrazione. Poi ovviamente c’è una asciuttezza, una essenzialità di corpi non abituati agli eccessi del benessere.

Gianni Amelio aveva rimarcato la cosa nel film «Lamerica» per la somiglianza tra albanesi e italiani. Quelle facce contadine somigliavano troppo alle facce dei nostri braccianti di trenta, quarant’anni prima. Per una mostra organizzata qualche anno fa per le Cabriniane a Roma, sul tram numero 8, avevamo messo a confronto le foto degli italiani arrivati ad Ellis Island con quelle degli immigrati arrivati da poco sul nostro territorio. Alcune foto, come quelle dei bambini italiani impiegati nei bowling di New York a rimettere a posto i birilli, erano impressionanti e facevano coro con le foto di fronte di bambini cingalesi o di bambini rom.

Viene quasi da pensare che il benessere sia un modo con cui alcuni popoli riescono a travestirsi al punto tale da dimenticarsi chi erano. C’è un modo di distanziarsi dai corpi dei nonni che venivano dal campo o dalla montagna, dalla pesca o dall’artigianato, per allontanare la storia che ci ha portato fin qui. L’Italia è un Paese che ha particolarmente praticato l’oblio. In occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia occorrerebbe ricordare i 20 milioni di italiani emigrati che hanno contribuito a costruire il Paese molto di più di quelli che sono rimasti.

E occorrerebbe ricostruire tutta quella generazione di meridionali che hanno costruito il mondo straordinario della Torino e della Milano operaia, quella particolare maniera di muoversi e di parlare che fino a qualche anno fa era ancora così evidente. C’era una concretezza ed una umanità tutta meridionale in quei nuovi accenti lombardi e veneti, in quel modo di appropriarsi dell’accento piemontese per scandire la propria nuova condizione.

È solo di un Paese precipitato nell’ignoranza come il nostro l’incapacità di ammettere la straordinaria ricchezza di quest’opera di creolizzazione. Le foto degli emigranti e degli immigrati ci aiutano a capire che tipo di geografie viventi sono i corpi in transito, che tipo di capolavori di sintesi sono le narrazioni che hanno sede nei petti e nelle gambe degli emigrati. E ovviamente non è finita: solo due anni fa girando un documentario sui miei concittadini di Terrasini emigrati nei mari freddi a nord di Boston mi meravigliavo di facce che avevo lasciato bambine quarant’anni prima e di come erano state scolpite dal mare, dalla lingua straniera appresa, dai modi diversi e però continui con la propria origine. Ivan Illich parlava di 'embodiment', di incarnazione: gli emigrati sono l’incarnazione della nuova geografia del mondo.
  • Franco La Cecla
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 15, 2011 9:56 am


  • E Pio XI parlò nel microfono di Marconi
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L'11 febbraio 1929, con, la firma e la ratifica dei Patti Lateranensi nacque lo Stato della Città del Vaticano. Se si deve moltissimo a Papa Pio XI per aver conseguito la soluzione della "questione romana" mediante la conciliazione, moltissimo si deve al medesimo Papa, nato a Desio, per la saggezza e la capacità con cui ha organizzato il piccolo Stato Vaticano. Come noto, si tratta del più piccolo Stato del mondo, ma di non piccola importanza, perché assicura la piena sovranità e indipendenza del Papa. È piccolo come Stato, ma la sua missione è universale.

Con la celerità e il dinamismo che gli erano propri, Pio XI emanò immediatamente la legge fondamentale dello Stato Vaticano e, in pari tempo, stipulò convenzioni con l'Italia per il collegamento del Vaticano con le ferrovie italiane, fondò l'ufficio postale, l'ufficio telegrafico e l'ufficio telefonico e attuò le relative convenzioni e collegamenti con l'Italia.

Pio XI pensò subito anche a dotare il nuovo Stato del Vaticano di una stazione radio, ispirato in questo dal desiderio di poter disporre di uno strumento che permettesse al Papa di far giungere la sua parola a tutti i popoli della terra, grazie a quelle che in quel momento erano le ultime meravigliose conquiste del progresso tecnico.

Pio XI teneva molto ad avere una propria radio e desiderava che fosse la più potente possibile in quel momento; lo voleva per motivi di evangelizzazione; desiderava valorizzare ciò che le scienze e le tecniche moderne mettevano a disposizione per annunciare il Vangelo. Ma vi era in lui anche un'altra motivazione: come studioso aveva partecipato a vari incontri culturali e aveva stretto e mantenuto rapporti con specialisti di varie scienze e, pertanto, apprezzava di avere un mezzo di comunicazione quale la radio, che superasse le distanze e permettesse di far giungere informazioni e messaggi anche a persone lontane. La radio sarebbe servita per informazioni e messaggi religiosi, ma riteneva che potesse essere utile anche a scopi di studio e di comunicazione. Voleva che la stazione del Vaticano fosse la più perfezionata e potente possibile. Pertanto affidò l'incarico a Guglielmo Marconi in persona e la fece costruire all'interno del Vaticano, dando disposizioni perché fosse offerta a Marconi tutta la collaborazione necessaria.

Quattro giorni dopo la ratifica dei Patti Lateranensi, Pio XI ricevette per un colloquio Marconi e subito dopo l'allora monsignor Confalonieri accompagnò il grande inventore nei giardini Vaticani per il primo sopralluogo dove collocare le antenne e la sede della trasmissione. Per il personale che doveva poi far funzionare la radio, pensò che fra i gesuiti si potessero trovare le persone meglio preparate per questa nuova attività; affidò così il tutto alla Compagnia di Gesù. La Radio che in quel momento era l'ultima parola della scienza e della tecnica, fu inaugurata il 12 febbraio 1931, esattamente ottant'anni fa, con un atto di una solennità eccezionale. Nelle numerose pubblicazioni che Desio ha prodotto in questi anni, si vede sovente una foto storica che ritrae Pio XI affiancato dal cardinale Pacelli, segretario di Stato, e da Guglielmo Marconi.

L'inaugurazione avvenne con un radiomessaggio al mondo del Papa, in lingua latina, la lingua della Chiesa. Il Papa in tale radiomessaggio si rivolse all'intero creato con parole bibliche: "Udite, o cieli, quello che sto per dire, ascolti la terra le parole della mia bocca" (Deuteronomio, 32, 1). "Udite, o genti tutte, tendete l'orecchio, o voi tutti che abitate il globo, uniti in un medesimo intento, il ricco e il povero" (Salmo, 48, 1). "Udite, o isole, ed ascoltate, o popoli lontani" (Isaia, 49, 1). Si rivolse poi a Dio dicendo: "A Dio sia la nostra prima parola: gloria a Dio nel più alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Gloria a Dio, che diede, ai nostri giorni, tale potere agli uomini da fare giungere le loro parole veramente sino ai confini della terra; e pace in terra, dove siamo i rappresentanti di quel divino Redentore Gesù che venendo annunziò la pace".

La voce del Papa si rivolse poi agli uomini incominciando dai cattolici, cioè a tutti quelli che fanno parte della "famiglia e dell'ovile del Signore", e con accenti biblici il Papa si indirizzò con affetto ai cardinali, ai vescovi, a religiosi e religiose, ai missionari e a tutti i fedeli laici augurando ogni bene. Passò poi a rivolgersi ai lontani dalla fede, agli infedeli e ai dissidenti, chiedendo al Signore di illuminarli con la sua luce. Il Papa volse poi il suo pensiero e la sua parola ai governanti, invitandoli a operare per il bene di tutti secondo giustizia e carità, e ricordando loro che un giorno "a Dio dovranno rendere rigoroso conto".

Pio XI non dimenticò nessuno ed ebbe parole per i ricchi e per i poveri; per gli operai e per i datori di lavoro. Pensò anche agli afflitti e ai perseguitati. Volle abbracciare col suo saluto l'intero globo terrestre. Il microfono, costruito da Marconi, col quale il Papa trasmise il radiomessaggio, è ora gelosamente custodito fra i cimeli della Radio Vaticana.

Questo evento solenne del primo radiomessaggio trasmesso in diretta dal Papa, fu seguito immediatamente da un gesto di stima e di apprezzamento nei riguardi di Guglielmo Marconi, nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze. Tutto il gruppo di personalità che avevano partecipato all'inaugurazione della Radio Vaticana si recò nella Casina Pio IV, sede della Pontificia Accademia delle Scienze nei giardini Vaticani, dove alla presenza di tutti i membri dell'Accademia, il Papa nominò Marconi nuovo accademico, pronunciando un grande elogio e riaffermando gli scopi scientifici dell'Accademia, che era la continuazione di quella dei Lincei. Nella lapide che sta all'entrata del piccolo edificio della stazione radio vaticana, sorta nei giardini Vaticani, si legge: "Affinché la voce del Sommo Pastore - per le onde eteree - a gloria di Cristo Re e a benedizione delle anime, sia udita fino ai confini dell'Orbe".

Qualche mese dopo la Radio Vaticana partecipò agli esperimenti compiuti da Marconi per lo studio delle microonde. Due anni dopo (1933), nella ricorrenza dei Patti Lateranensi, nei locali della Radio Vaticana fu inaugurato il primo sistema stabile di comunicazione a onde cortissime, tra il Vaticano e Castel Gandolfo, realizzato sempre da Guglielmo Marconi.

Quel giorno l'indirizzo di omaggio al Papa fu letto al microfono in Castel Gandolfo dal vescovo ausiliare di Albano che parlava a nome di quelle popolazioni, e Pio XI lo ascoltò in Vaticano dall'altoparlante. Il Papa volle che tutte le nunziature e delegazioni apostoliche sparse nel mondo fossero fornite di un apparecchio radio ricevente, di facile manovra. La Radio Vaticana provvedeva anche a trasmettere informazioni e notizie non segrete alle Nunziature da parte della Segreteria di Stato o di altri Dicasteri della Curia Romana. Era anche fissato un orario (due volte alla settimana) in cui nelle Nunziature, soprattutto in Paesi importanti, si doveva stare in ascolto sulla lunghezza d'onda della stazione vaticana per informazioni o notizie che potevano essere utili. Fu anche questo un collegamento vantaggioso, seppure incompleto in quanto, allora, le nunziature non disponevano a loro volta di una stazione trasmittente, ma soltanto di un apparecchio ricevente.

Nel giugno del 1932 Pio XI poté dal Vaticano parlare in diretta con la folla riunita a Dublino per la celebrazione del Congresso eucaristico. Da quel momento i radiomessaggi diretti del Papa si moltiplicarono. Nel 1935 rimase famoso il messaggio che i pellegrini a Lourdes poterono ascoltare in diretta. Profonda impressione destarono il Messaggio natalizio del 1936, che il Papa trasmise dal letto dove per malattia era trattenuto, e quello del 2 settembre 1938, lanciato da Castel Gandolfo come suprema invocazione di pace, mentre nei cieli d'Europa si infittivano le nubi foriere di guerra.

Pio XI volle che la Radio Vaticana cercasse di mantenersi al passo con la storia e col progresso. Quando il 9 febbraio 1939 Papa Ratti morì, la Radio Vaticana già trasmetteva in nove lingue e le sue apparecchiature erano migliorate.

Di fronte alla stampa laica e alle radio che passavano sotto silenzio l'attività, della Chiesa, e le persecuzioni contro i cattolici che vi erano in alcune nazioni, la Radio Vaticana diede a Pio XI e alla Chiesa la possibilità di farsi sentire dall'opinione pubblica. Fece così conoscere la sollecitudine del Papa per l'annuncio del Vangelo, per la conservazione del patrimonio della fede, per la coraggiosa difesa del popolo di Dio dagli errori nefasti del suo tempo (fascismo, nazismo e comunismo), la difesa della libertà, della giustizia e dei diritti umani.

Pochi mesi dopo la morte di Pio XI, allo scoppio della seconda guerra mondiale (settembre 1939), la Radio Vaticana si rivelò un mezzo prezioso di libera informazione, nonostante le intimidazioni che dovette subire. Sembra ormai assodato storicamente che il bombardamento che ebbe luogo in Vaticano la sera del 5 novembre 1943 intendesse colpire proprio la stazione trasmittente della Radio Vaticana. Furono sganciate cinque bombe. Una cadde a dieci metri dalla sede della Radio Vaticana e le altre tra i cento e i duecento metri dall'emittente. Una non scoppiò. Non vi furono morti, ma vari danni specialmente al laboratorio dei mosaici. Le schegge di una bomba ruppero tutti i vetri dell'appartamento di monsignor Tardini, che così per un paio di settimane fu ospitato da monsignor Montini, mentre venivano riparate le finestre e soprattutto i danni arrecati allo studio.

I giornali italiani accusarono del bombardamento gli anglo-americani. La notizia vera è quella che circolò tre giorni dopo. L'aereo era un Savoia Marchetti 79, partito da Viterbo su incarico del gerarca fascista Roberto Farinacci. Si voleva far tacere la Radio Vaticana. Un altro tentativo vi fu cinque mesi dopo, il 1° marzo 1944, ma fallì, perché l'aereo volò basso, urtò contro un contrafforte del Gianicolo, per cui scaricò subito le bombe (fuori dalle mura del Vaticano), e il velivolo precipitò. Il pilota morì. I suoi resti, assieme a quelli del velivolo, furono subito portati via.

Nel gennaio del 1940 nacque presso la Radio Vaticana l'Ufficio informazioni, che lanciava appelli per rintracciare civili e militari dispersi e trasmetteva messaggi delle famiglie ai prigionieri: mediante Radio Vaticana dal 1940 al 1946 furono inviati 1.240.728 messaggi pari a 12.105 ore di trasmissione.
  • Giovanni Battista Re
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 23, 2011 9:12 am


  • Educare all’ascolto della vita
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Riflettendo sul senso dell’educare, mi sono visto io per primo sempre bisognoso di educazione; sì, per il semplice motivo che ogni giorno mi viene incontro la vita con la sua carica di novità e di sfide, di luci e ombre. Essa chiede a qualunque età di essere guardata, compresa, accolta con responsabilità. Possiamo dire che educare significa aprire alla vita: vuol dire incontrarla e dialogare con lei. Ogni giorno, infatti, devo incontrare la vita che mi raggiunge inesorabile: devo mettermi in dialogo con essa e accoglierla così come mi si presenta, senza illusioni e senza evasioni o pretese da parte mia. Accoglierla veramente non significa subirla, ma guardarla in volto, parlare con lei, lasciarmi interpellare, portare qualcosa di mio, corrisponderle, così da far diventare le giornate e gli eventi non un peso che mi capita addosso e che devo subire passivamente, ma qualcosa di personale, che faccio mio, che abbraccio e che mi appartiene: la mia storia. È questa la maturità umana che anche la fede cristiana ci chiede. La vita esige serietà, ed è questa serietà che porta la gioia e, comunque, la serenità e la pace: «'Fare sul serio' - scrive Romano Guardini non consiste nel dire parole sonore e fare a gara nell’esprimere grandi esigenze. Agisce seriamente colui che vede i compiti dove essi sono in realtà: nella vita di ogni giorno, nell’ambiente più vicino a lui. Agisce seriamente chi pone mano decisamente a questi compiti e li porta a termine giorno dopo giorno» (Romano Guardini, Lettere sull’autoformazione, Morcelliana 1999, pag. 57).

In questo prendere la vita seriamente – che non vuol dire in modo cupo e serioso – l’uomo, qualunque sia la sua età, si sviluppa e procede nella realizzazione di se stesso: se si lascia provocare dalla vita in tutte le sue stagioni egli si conoscerà sempre meglio e caverà da sé risorse impensate, dimensioni e significati sconosciuti. Veramente l’educazione è accompagnare l’uomo nel dialogo con la vita, sapendo che l’uno ha bisogno dell’altra: questa con le sue improvvisazioni liete o tristi, l’uomo con le sue potenzialità e i suoi limiti, limiti e risorse che solo in dialogo con essa può conoscere ed esprimere. Solo così ogni persona costruisce il suo capolavoro.

Se ogni età chiede lo scalpello o il cesello educativo, è anche vero che le generazioni più adulte hanno maggiore responsabilità verso i più giovani. Nessuno è mai 'arrivato', ma gli adulti devono avere qualcosa da dire a chi si trova all’inizio della parabola: qualcosa da dire con le parole e da testimoniare con i fatti.

Tenendo presente una verità: se educare è aprire alla vita - dialogare con essa e portarla con responsabilità - , è chiaro che, nella misura in cui accompagno un altro sono chiamato in causa io stesso, chiamato in gioco dagli stessi che ho il dovere di educare. La luce si accende solo con la luce, la vita solo con la vita, la libertà solo con la libertà. Se non sono io per primo un uomo luminoso, libero e vivo interiormente, non potrò accendere nulla e nessuno. Se io, anziano, ho rispettato i miei anni, devo poter essere un riferimento educativo per i più giovani, altrimenti faccio della demagogia e mi defilo - «siamo tutti in ricerca», «non ho nulla da insegnarti» - oppure recito. Comunque, avrei perso anni che non torneranno più. L’autorevolezza, indispensabile per l’esercizio dell’autorità e per ogni atto educativo, si nutre di competenza e di esperienza, ma si fonda sulla coerenza della propria vita e del coinvolgimento personale.
  • Gesù e gli apostoli
Il riferimento, come sempre, è Cristo. Dio, nell’Antico Testamento, educa il suo popolo attraverso una pedagogia adatta alla situazione: a volte in modo paziente e misericordioso, altre volte esigente e severo. Il Signore Gesù poi, all’inizio della sua missione, sceglie dodici uomini e li educa per farne degli Apostoli.

Erano uomini adulti, avvezzi a una vita di sacrificio e di responsabilità: possiamo dire: erano 'uomini formati'. La vita li interpellava ogni giorno ed essi rispondevano alle sue chiamate: il lavoro, la famiglia, gli amici, la fede ebraica, la società di appartenenza, il villaggio... Ogni giorno vivevano provocazioni che mettevano a prova, e insieme arricchivano la loro maturità di uomini e di credenti. Ora Gesù si inserisce nella loro vita e questa loro vita l’avrebbe cambiata alla radice, ne avrebbe fatto dei testimoni: li avrebbero attesi, infatti, accoglienza e insuccessi, gloria e tradimenti, lusinghe e persecuzioni. Il divino Maestro voleva formarli, educarli a incontrare la loro nuova esistenza. Come? Basta scorrere i Vangeli e vediamo che la sua scuola è fatta di parole e di silenzi, di gesti quotidiani e di miracoli, di rimproveri e di tenerezza, di esigenza e di pazienza, di fatica e di preghiera, di compagnia e di solitudine. Sempre di amore e fiducia verso questi poveri uomini, semplici e quasi tutti incolti, che si sono trovati all’improvviso di fronte al mistero, in un’avventura più grande di loro. Le parabole, i grandi discorsi della montagna oin riva al mare, i miracoli, la gloria di Gerusalemme e l’abiezione dolorosa del Calvario, l’intimità misteriosa del cenacolo, l’alba della risurrezione e il distacco fisico dell’ascensione al cielo, la Pentecoste...: tutto era grazia di salvezza per il mondo e, per loro, anche cattedra che li educava a un nuovo futuro. Sarebbero così diventati capaci di affrontare la nuova esistenza, che ogni giorno li avrebbe incontrati e sfidati a misurarsi con situazioni inedite e difficili. Gesù, però, non è solo il maestro perfetto, ma anche il modello pieno e affascinante da guardare per educare ed educarci: è l’unità di misura del vero umanesimo. In Lui, vero Dio, scopriamo infatti anche il volto dell’uomo vero e completo, come dice il Concilio Vaticano II: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. (...) Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» ( Gaudium et spes, 22 ).

Ecco perché Gesù è l’esempio a cui ispirarsi non solo per i credenti. Lo può essere per tutti: in Lui risiede, infatti, il compimento di ogni aspirazione umana, tutte le virtù sono presenti in forma eminente, risplende la piena e nobile umanità dell’uomo, quella umanità che la nostra epoca rischia di non saper più riconoscere. Ma nello stesso tempo, in Gesù facciamo l’esperienza della sorgente della forza e della grazia senza la quale nessuno sforzo, nessuna azione o metodo sono sufficienti per diventare ciò che siamo intimamente e che Egli indica nella sua stessa persona.
  • La cultura del nulla
Purtroppo, non lo possiamo negare, la cultura contemporanea sembra non aver più nulla da dire né ai giovani né agli adulti, perché pare non credere a nessun valore: la libertà è identificata col capriccio individuale, la felicità con il successo e il piacere, il potere e il denaro; la ragione -come capacità di conoscere la verità delle cose e dei valori morali - è sfiduciata. Il senso del limite e delle regole sembra un insulto alla dignità personale: l’individuo è il centro di se stesso. La vita viene presentata come il mito dell’eterna giovinezza, dove l’efficienza è d’obbligo e la forma fisica è idolo. Sembra dover essere fatta solo di trionfi e soddisfazioni, dove tutto è facile e dovuto, dove la fatica e il sacrificio sono banditi, dove l’essenziale è apparire, essere visti e ammirati.

È la vita concepita come una 'passerella', e pur di salirvi e restarvi si è disposti a tutto! È l’affermazione del nulla: nulla di senso, nulla di valore, nulla di rapporti veri, stabili e costruttivi.

È il nichilismo. Ma la vita non è così e se non siamo educati alla vita reale - non a quella virtuale - saranno delusioni gravi e pericolose per i singoli e per la società intera. A tale cultura corrisponde, infatti, presto o tardi il disincanto, la nausea, quella che gli antichi chiamavano «taedium vitae», quella profonda delusione che non deriva da un fattore contingente, bensì dalla vita nel suo complesso. Secondo un tale modo di pensare, sarebbe questa l’unica, vera risposta alla questione decisiva che Albert Camus riteneva essere il problema fondamentale al quale ogni uomo è costretto prima o poi a rispondere: «Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta» ( Il mito di Sisifo, cap. I). In questa atmosfera diffusa, che porta a dubitare del valore stesso della persona umana, del significato della verità e del bene, della bontà della vita, la tentazione per molti è di ritirarsi e di rinunciare a ogni avventura educativa. Ma non dobbiamo dimenticare che la cultura non è una entità astratta, in qualche misura dipende da ciascuno di noi, singoli e gruppi. Possiamo dire che la cultura siamo noi: se gli stili di vita, gli orientamenti complessivi, le leggi hanno un notevole influsso sulla formazione dei giovani ma anche degli adulti! - , sia in bene che in male, è anche vero che se ogni persona di buona volontà pone in essere comportamenti virtuosi, e questi si allargano grazie a reti positive che si sostengono e si propongono, l’ambiente in generale può migliorare. Tra ambiente e persona vi è sempre una circolarità, bisogna che la persona si espanda ponendosi in rete.
  • La richiesta dei giovani
Il mondo giovanile, però, è più profondo e la bontà sempre più grande. Il Signore è fedele e lavora nei cuori suscitando la nostalgia e la ricerca del vero e del bene. Infatti i ragazzi e i giovani che vivono un cammino di crescita serio e costante sono molti: in ogni parrocchia, associazione e movimento esistono gruppi che fanno dei percorsi di formazione. Tanti piccoli numeri fanno un grande numero! Inoltre, è diffusa la richiesta di una educazione seria, che apra alla vita e che prepari ad affrontare le diverse età. I ragazzi e i giovani lo intuiscono per primi e lo chiedono, per lo meno l’attendono. Durante le visite pastorali che faccio nella mia diocesi, su invito visito anche gli Istituti scolastici di ogni ordine e grado, e gli incontri assumono il tono e lo stile di un dialogo franco e simpatico. Sempre chiedo quale sia lo scopo della scuola, e sempre la risposta - con parole diverse ma chiare - è: istruzione ed educazione! Sotto il termine «educazione» vi è la consapevolezza che per vivere, per stare con gli altri, per assumere delle responsabilità bisogna essere preparati; che ogni età della vita non è staccata dalle altre, ma tutte sono modi di un’identità unica e ricorrente; che danneggiare una fase significa danneggiare la totalità e ogni singola parte.

La vita, infatti, non è un affastellamento di parti, bensì una totalità che è presente in ogni punto dello sviluppo. Anche per questo non si può improvvisare! La vita, in certi momenti, può chiedere di improvvisare, ma l’uomo, per improvvisare, non può essere improvvisato, deve essere pronto, formato. Il tirocinio non finisce mai - in un certo senso tutta la vita è un tirocinio - ; ma è fuori dubbio che quanto più si è giovani tanto più si è sguarniti, impreparati, bisognosi di qualcuno che introduca, che accompagni con amore e rispetto, chiarezza e autorevolezza, a orientarsi nella realtà intera. Nella realtà c’è anche il complesso e affascinante mondo di sé, che richiede la capacità di valutarsi, di conoscere fragilità e risorse, reazioni e sentimenti, di acquisire un ordine interiore, di imparare la stima e la fiducia nella propria persona - oggi atteggiamenti così rari nonostante le apparenze! - , per imparare il giusto amore di sé. Tutto questo, come si diceva più sopra, avviene guardando in faccia la vita nelle sue stagioni, affrontandola. Solo così l’uomo impara a conoscere se stesso, a misurarsi nei suoi limiti e nelle sue risorse; impara ad accettarsi non per cedere all’inerzia, ma neppure per presumere e pretendere l’impossibile andando incontro alla frustrazione.
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 28, 2011 10:11 am


  • Preghiera sull’abisso
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«Mio Dio, l’hanno trovata». Cinque minuti dopo il primo flash d’agenzia la notizia già corre sulle radio private e sul web; chi ascolta telefona alla madre, o all’amica più cara: quella bambina, l’hanno trovata. L’hanno trovata, dopo averla tanto cercata, a pochi chilometri da casa; in un campo d’erba incolta, in una di quelle terre di nessuno che sono le campagne là dove le insidiano i primi capannoni industriali. Nemmeno sepolta, ma buttata tra le erbacce come una cosa, Yara con i suoi gentili tredici anni; e cresce e geme nel pensarci il sentimento di strazio e di offesa. L’hanno gettata in un campo, come un niente.

Pensi a sua madre. Fino a pochi giorni fa diceva che sentiva la figlia viva. Ma i vestiti sono gli stessi della sera della scomparsa: l’agonia forse è durata poco, e questa è l’unica povera consolazione che la ragione può offrire, in una storia feroce. A casa la sentivano viva, ma era un abbaglio del desiderio, o forse quell’invisibile legame che ci tiene vicini a chi amiamo, anche dopo la morte. Tutto probabilmente era già accaduto in una notte: tutto già compiuto. Questi tre mesi sono stati un’aggiunta ulteriore di tormento; ogni mattina a scavare più aspra la domanda, e la preghiera. Come se il male compiuto nell’oscurità non potesse venire alla luce; come in un travaglio stentato che non voleva compiersi nella sua intollerabile deformità. Quanti hanno pregato, per Yara. Non penseranno alcuni, oggi, che le preghiere sono state inutili, e un Dio lontano ha volto la faccia altrove, superiore e distante dai nostri destini? (Anche questo dubbio, che contrista i vecchi e rode i giovani, anche questo si allarga da quel campo nel Bergamasco, come un vapore amaro).

Sotto alle luci delle fotoelettriche, nel lampeggiare dei fari blu sulle auto dei carabinieri che a intermittenza schiariscono e oscurano come maschere le facce attonite dei presenti. Forse, ipotizza qualcuno, il corpo non era lì da molto, l’avrebbero scoperta prima, altrimenti, i pescatori del Brembo. Forse lì Yara è stata portata da poco, e quasi per farla finalmente trovare, tre mesi dopo; come se neanche l’assassino più sopportasse il non compiersi ultimo del suo parto maligno, come se neanche lui, in un soffio di ultima pietà, reggesse più, la sera, il pensiero di quel padre e quella madre. Forse. Ci diranno, sapremo. Sapremo poi magari anche quando, dove, e chi è stato. Ci mostreranno la faccia di un uomo come tanti, simile a noi: e quando lo interrogheranno nemmeno lui riuscirà a spiegare esattamente cosa è stato e perché, quella sera. E quell’uomo, verremo a sapere, ha come tutti una madre e una famiglia, e magari dei figli, e ancora meno riusciremo a capire come ha fatto, e come ha potuto.

L’ultimo mistero di Brembate non è nemmeno il nome dell’assassino, ma è cosa lo abbia ghermito una sera e fatto diventare così feroce, da non riconoscere in quella bambina una che somigliava a sua sorella. L’ultimo mistero è questo male che abbiamo addosso, e tanto più quanto ce ne crediamo salvi; e quanto possa sugli uomini, e di che sia capace. Amiamo dimenticarci, del nostro originario male. Dimenticarcene fino a non capire più che bisogno c’era di un Dio che morisse in croce per salvarci. L’abisso aperto su un campo in questo freddo inizio di primavera ci ricorda quanto profondo è il male. E non capiamo e pretendiamo di capire, e dubitiamo di Dio davanti a una bambina uccisa. Servisse almeno, questo strazio, a suscitare una disarmata preghiera, parole umili di figli che i nostri figli non devono disimparare: liberaci, Padre, dal nostro male.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 04, 2011 9:14 am


  • Le sorprese del linguaggio di Gesù
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Gesù parlava in parabole. Basta scorrere le pagine dei Vangeli per averne la prova. E dobbiamo presumere che non lo facesse raramente, a giudicare dal numero di parabole che gli evangelisti ci hanno trasmesso. Alcuni passi inducono addirittura a pensare che Gesù non parlasse alla gente in altro modo che in parabole. Si ha l’impressione che Gesù considerasse questo modo di esprimersi come il più adeguato alla capacità di comprensione degli ascoltatori e quindi il più adatto a trasmettere efficacemente il suo messaggio.

Ma perché privilegiare questo tipo di linguaggio? Per quale ragione preferirlo al linguaggio diretto e esplicito? E quali sono le sue caratteristiche specifiche? Quali gli obiettivi che consente di raggiungere? Chi sono, infine, i destinatari di questo parlare in similitudini? Interrogativi come questi aprono la strada a una riflessione di ampio respiro. Noi ci limiteremo a suggerire qualche considerazione di carattere generale, alla luce dei testi evangelici. Una cosa, in ogni caso, è opportuno precisare sin d’ora: quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta. Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi.

Il mondo occidentale sente fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti e orizzontalisti, tradizionalisti e progressisti, si formulano giudizi che, alla luce del Vangelo, risultano perlomeno inadeguati. Da qui il bisogno di approfondire, di mettersi alla scuola di Gesù, di lasciarsi guidare da lui alla ricerca di un linguaggio capace di «dire Dio». Come, dunque, Gesù parlava di Dio? E perché di solito ne parlava in parabole? Il fine ultimo del ministero di Gesù fu l’annuncio dell’evangelo del Regno, la manifestazione efficace della benefica sovranità di Dio, annunciata dalle Scritture, preparata dalla storia di elezione di Israele e destinata a tutte le genti.

«Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete all’evangelo» (Mc 1,15): con queste parole il Messia di Dio si presenta pubblicamente a Israele e al mondo. Ci attenderemmo a questo punto una descrizione chiara, accurata, aperta, luminosa del regno di Dio e di Dio stesso. Come non ipotizzare una predicazione di Gesù esplicita, ordinata, strutturata e proprio per questo convincente? La lettura dei testi evangelici non smentisce queste attese, ma neppure le soddisfa pienamente. Il modo con cui Gesù proclama l’evangelo agli uomini ci riserva qualche sorpresa. Anzitutto, la figura di Gesù appare caratterizzata principalmente dall’agire. In primo piano stanno le azioni di Gesù, il suo operare efficace, potente, carismatico: pensiamo soprattutto alle guarigioni, agli esorcismi, agli interventi straordinari in favore di persone in difficoltà. Il parlare di Gesù accompagna il suo agire e lo interpreta: la signoria di Dio è dimostrata attraverso le opere e illustrata attraverso le parole.

Quanto alla predicazione vera e propria, essa non è sempre diretta e chiara; al contrario, non di rado appare come velata. Il passo più sconcertante al riguardo è certo quello di Mc 4,11-12, in cui Gesù giustifica il suo parlare in parabole proprio con la necessità di nascondere la rivelazione del Regno, di impedire un accostamento immediato e diretto. Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, «non apertamente», attraverso il velo delle similitudini: egli diceva e non diceva, svelava e nascondeva, manifestava e occultava. Questo è precisamente il punto che ci interessa: perché Gesù usava un simile linguaggio? Perché non era più esplicito, non diceva apertamente e accuratamente tutto quello che sapeva? Potrà sembrare strano, ma per annunciare autenticamente il Vangelo è necessario in qualche misura velarlo.

La constatazione che Gesù non facesse seguire alle parabole la spiegazione (solo i discepoli ne erano in alcuni casi beneficiati, ma sempre in privato) ci impedisce di considerare le parabole strumenti didattici, esempi che conducono l’ascoltatore a un insegnamento espresso poi in termini più concettuali. La parabola di Gesù non sfocia in una spiegazione piana ed esplicita, magari introdotta dalla formula: «Questo racconto ci insegna che...».

La parabola di Gesù mantiene tutta la sua carica di enigmaticità, lascia all’ascoltatore il compito di comprenderla, lo interpella e lo costringe a interrogarsi, lo coinvolge in prima persona e lo impegna alla ricerca del senso. L’esortazione che spesso risuona infatti è la seguente: «Chi ha orecchie per intendere, intenda», cioè «chi è in grado di capire, cerchi di capire». Gesù racconta parabole non certo obbedendo a schemi prefissati ma, al contrario, sull’onda della sua emozione interiore, sospinto dal bisogno di comunicare il mistero di Dio a coloro che gli stanno davanti.

Le parabole sorgono dal cuore di Cristo, dalla sua passione per Dio e dal suo amore per l’uomo, dal bisogno impellente di svelare adeguatamente il volto del Padre, il segreto della sua opera di salvezza, la potenza del suo Regno e le conseguenze per la vita degli uomini. Abbiamo così toccato il punto essenziale. La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo. Nessuno più di lui è abilitato a rivelare il volto di Dio, la sua potenza, la sua volontà; ma come non tenere conto delle disposizioni d’animo di chi ascolta, della situazione personale degli uditori, della loro fatica a capire, della loro tendenza a fraintendere? Quando consideriamo le circostanze in cui Gesù racconta le parabole, ci accorgiamo di quanto egli sia attento ai suoi uditori.

Da un lato, dunque, le parabole sono un vero insegnamento; esse parlano di Dio, della sua opera, delle conseguenze per la vita degli uomini, della risposta che Dio si attende; dall’altro, le parabole sono un atto di cortesia, di rispetto della libertà degli uomini, di condiscendenza, quasi di tenerezza. Gesù è un vero maestro anche per questo. Egli conosce il cuore degli uomini e perciò non ha fretta, sa adeguarsi al passo dell’ascoltatore, accetta anche che questi faccia fatica a capire, attende che si ricreda e che riveda alcune posizioni. Intanto si ingegna di offrire un insegnamento che per lo meno susciti degli interrogativi, che faccia breccia in cuori induriti e che dia un orientamento sicuro ai cuori incerti e smarriti; un insegnamento, insomma, che permetta di compiere un primo passo e disponga a un cammino successivo. I ritmi della conoscenza che proviene dalla fede sono lenti.

Per questo la rivelazione va anche nascosta, velata. La libertà dell’uomo non è in grado di reggere tutto il peso della rivelazione di Dio. Così le parabole sgorgano dal cuore di Gesù sotto la spinta incalzante dell’urgenza dell’evangelo; esse sono spontanee, non artificiali, nascono dalla vita stessa. Le parabole sono, in questa prospettiva, uno dei frutti più belli del mistero dell’incarnazione, la frontiera cui il linguaggio viene spinto dal Figlio di Dio, affinché risulti adatto a comunicare il mistero del Regno nel rispetto della concreta situazione dell’uomo.
  • Carlo Maria Martini
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mar 10, 2011 4:06 pm


  • Oltre obesità e delusioni
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«Non è un rito del passato». Il Papa dice questo del Battesimo. Ma vale anche per la Quaresima, con le sue liturgie e le sue pratiche.

Non è un rito del passato la Quaresima. È un rito del passaggio. L’approssimazione alla soglia. Il cammino – esercizio dello spirito e del corpo – che porta a destinazione ogni volta, per ciascuno, l’energia dell’avvento di Dio. Evento che ha dato una scossa definitiva al mondo: quel mondo che si richiude su se stesso, e su di noi, come «un sepolcro senza futuro».

Dall’imboccatura della vita volano via, ogni volta, enormi pietre: effetti delle rovine che la generazione che precede lascia, senza alcuna grazia, sul campo della generazione che viene. Il messaggio di quelle rovine – esperimenti di «vita migliore», ci avevano detto – è desolante: «non c’è via d’uscita», c’è scritto, sulle pietre che ci hanno lasciato. Effetto estremo della presunzione, alla quale gli umani non sanno rinunciare nemmeno quando affondano. Non contenti di metterci in croce con i loro errori, non rinunciano a imporci la loro delusione come un comandamento. E guai a chi non si adegua. Vi rendete conto in che mani siamo caduti, nel momento in cui abbiamo incontrato uomini che, finalmente prendono in mano il loro destino (e il nostro)?

Non è un rito del passato, il Battesimo. È un sacramento che riapre il tempo alla grazia della sua destinazione. Sbarra la strada ai deliranti esperimenti dell’autorealizzazione e toglie argomenti alla disperazione dell’essere generato all’illusione. Lungo il solco, segnato dall’acqua e dallo Spirito, prendono sostanza e peso tutti i segni, tutti i gesti, tutte le parole, tutti i legami ai quali affidiamo le parti migliori di noi. Il Battesimo apre la strada nel campo minato della storia degli uomini e la lascia segnata per i cuccioli di chiunque. Esiste un passaggio. «Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia».

Non è il rito della malinconia, la Quaresima. Il detto proverbiale sui toni e sulle facce 'quaresimali' sbaglia di grosso: dobbiamo fare di tutto per restituirlo alla sua futilità.

La Quaresima, oggi, è anche rito dell’ironia: che sorride in faccia ai gufi della fine della storia. È la riapertura della storia, in favore di una civiltà che segna il passo e si scava la fossa. Le facce quaresimali, ormai, stanno impresse sulle maschere del godimento. Non è più una tesi filosofica: ce lo si legge proprio addosso. L’obesità delle nostre abitudini pigre e insaziabili ci rende insensibili a tutto. Il nostro tono di voce è perennemente alterato, il nostro gesto isterico, il buco nero della nostra rassegnazione è pieno di rughe sotto gli occhi. Il naso è spiaccicato sul cellulare, non vediamo più niente. L’ambiente è totalmente sonorizzato: non sentiamo più niente. La riflessività della vita non ha più neanche un varco piccolo così per arrivare al cervello.

Il digiuno affila la mente. La rinuncia rende acuto lo sguardo. L’esercizio dello spirito ingentilisce il gesto. L’eleganza del distacco ridona sensibilità all’essenziale. La silenziosa lotta con il male rende affidabili. Il credente transita così, con gesto sobrio e discreto, attraverso le anime flaccide e sepolcrali delle nuove divinità d’Occidente. Impara ad abitare coraggiosamente la disperazione della vita che vive per niente. Insegna a morire per qualcosa di enorme che riguarda tutti. Segna la soglia del mistero. E ci rende capaci di varcarla. Perché la generazione che viene esca dall’incantamento che l’istupidisce preventivamente: a caro prezzo. E ritorni sveglia per l’attrazione della vita che sta oltre la barriera. Deve finire questo paese dei balocchi: e deve ritornare, infine, il senso della vita come storia. Altroché, se deve.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 14, 2011 10:33 am

  • Più coscienti del Mistero
Come formiche. Laboriose, geniali. Ma formiche. Tutta la tua vita di uomo o di donna – amori, dolori, ricordi, fatiche – spazzata via in un istante. Il terremoto e il maremoto giapponese ci riportano con il febbrile succedersi di immagini e di titoli sempre più inquietanti una verità di cui da sempre l’uomo parla. Lo diceva il poeta dei Salmi, l’antico greco come il latino. Il nostro Leopardi, il nordico Ibsen: di fronte alla potenza della natura siamo quasi niente. La potenza che si dispiega a volte in spettacoli vertiginosi di bellezza. O altre volte in rasoiate tremende di morte. E allora di fronte a questa verità da profeti e da breakingnews, che grida e mormora in libri antichi e nei nostri video accesi, si possono prendere vari atteggiamenti. Perché tutti, sì, siamo come formiche, esseri quasi confusi con il nulla, come diceva Leopardi. Ma questa verità che riguarda tutti può essere affrontata in vari modi personali.

In questi giorni spesso anche forzando si sono lodate la 'freddezza dignitosa', la compostezza del popolo giapponese. Si è visto il deposito di una millenaria sapienza che vive i colpi del destino come un fato da accettare compattandosi in una forza collettiva, superando il destino di dolore individuale e trovando risorse per rimettersi in moto come nazione. Una dignitosa accettazione dell’essere fragili e minimi, pur se ideatori di alcune prodigiose macchine che hanno resistito alla distruzione. Un operoso fatalismo, una dignitosa sconfitta.

Ti basta questo? chiede a ognuno di noi il terremoto. Oppure c’è chi solo dispera. Chi cambia canale, cerca evasione dall’imponente evidenza di precarietà. Chi disperando del tutto spera solo nella fortuna. Spera di scamparla, in un modo o nell’altro. E divide il mondo in fortunati e no. La dea fortuna (lo vediamo da quanta pubblicità è dedicata a lotterie) gode ottima reputazione tra di noi. Ma, appunto, è il regno di una specie di disperazione: ci si affida al caso, ci si augura che la malasorte colpisca qualche chilometro più in là. Oppure c’è chi di fronte e dentro a questo evento naturale (e umano) trova una provocazione a vivere più coscientemente il senso del limite. L’uomo religioso da sempre chiama queste cose: un segno.

Tendiamo a dimenticare. Troppi pensieri di banale sufficienza, di autodeterminazione albergano nelle nostre menti. Fino a che la luce dura della tragedia non ci ricorda: sei quasi nulla. Noi cristiani ce lo siamo sentiti ripetere nel Mercoledì delle ceneri. L’uomo religioso riflette sul limite della condizione umana. Non conosce la sorpresa ipocrita ed egoista di chi si scandalizza o disperando si affida a una dea cieca. Tutti diciamo anche 'ti amo da morire', oppure 'sei bella da morire' perché in ogni esperienza umana – di dolore come di gioia – si tocca il nostro essere limitati.

E sempre dobbiamo aprirci appunto a una misura più grande per comprendere il mistero dell’amore. Del dolore. Del reale vivere. Leopardi diceva che il segno più netto della nostra grandezza è questo senso di piccolezza, d’essere un 'quasi niente' che però abbraccia il mistero infinito del reale, essendone cosciente e ponendo domande: che fai tu luna in ciel? Siamo 'quasi' niente, e quindi no, non siamo pari a niente. Ogni uomo, pur disperso come in un soffio dagli elementi è differente (anche ora, nell’ora della morte) dal niente. La sventura giapponese o ci lascia più coscienti del mistero o ci sarà inutile. O lascia più attenti a cercare quale sia il volto di questo mistero, o sarà qualcosa da cui voltare il capo. Da cui sperare di proteggere noi e i nostri piccoli come fa una cagna, impaurita, incosciente.
  • Davide Rondoni
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mar 18, 2011 11:58 am


  • Il Bel Paese in carne e ossa
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Si avvicinava il 17 e, essendo per la scuola giorno di vacanza, si stava per consumare una delle dimostrazioni di autoreferenzialità (in gergo calcistico: autogol) della scuola. Un giorno in cui si è 'pieni' di una storia, si riduceva, me connivente, a un giorno di 'vuoto' (vacatio, vacanza); un giorno di appartenenza a un giorno di inappartenenza. Solo chi appartiene a qualcuno si appartiene e desidera che qualcuno gli appartenga. Questa è l’origine di ogni genuina pietas (la cura verso coloro ai quali apparteniamo): chi non cura la sua appartenenza diventa 'spietato' (senza pietà) verso i suoi stessi cari. Chi non appartiene a una famiglia, a una città, a una patria non si appartiene e non riesce ad accogliere, perché non sa cosa dare. Può solo prendere e pretendere e, se non ci riesce, recrimina o fugge.

Ma Edoardo, uno dei miei alunni, mi ha risvegliato, come accade quando mi adagio su soluzioni comode: «Prof per i 150 anni dovremmo fare una lezione speciale». Farò lezione sul testo di Petrarca «Italia mia, benché il parlar sia indarno». Il poeta – già allora e più di oggi – la scorge vulnerata nel suo «bel corpo» e chiede a Dio: «che la pietà che Ti condusse in terra / Ti volga al Tuo diletto almo paese». Petrarca chiede rinnovata pietà e i miei ragazzi negli scritti che ho chiesto loro per l’occasione parlano di «cura».

Proprio il dramma dell’inappartenenza spinge dei liceali a parlare dell’Italia in modo che non mi aspettavo: il coraggio di rimanere anziché fuggire, per prendersi «cura» di quel «bel corpo». La «pietà» invocata da Petrarca e la «cura» indicata dai ragazzi sono la stessa cosa. Ancora una volta passato e futuro si stringono e mi costringono a rinascere, anche in mezzo al disfattismo dilagante. Per poter essere 'originali' bisogna avere delle origini: solo chi appartiene può appartenersi e scoprirsi.

Alcuni dei miei ragazzi sentono il dramma dell’inappartenenza e invece di starsene a guardare, paralizzati dalla malinconia stanca degli adulti, propongono la terapia: prendersi cura dell’Italia. Non vogliono esserne figli disamorati, ma padri innamorati. Ne avranno la possibilità solo attraverso il lavoro, teso a costruire non solo il bene privato, ma soprattutto il bene comune: quel lavoro che è servizio e che, da professore, vivo, provando a prendermi cura dei ragazzi, il mio Bel Paese in carne e ossa.

Mi è così tornato in mente che la letteratura che insegno comincia con il patrono (padre e protettore), di questa nostra terra: Francesco. Un vero sognatore, innamorato di Dio, della realtà e degli uomini. Di padre umbro e madre straniera, il santo e poeta inventa il primo testo che accomuna tutti gli italiani: un canto di lode che, attraverso il sole, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra, gli uomini e persino la morte, resi fratelli e sorelle, si leva fino al Padre di tutta la realtà. Lo compone nella sua lingua madre, la lingua che la sua terra gli ha insegnato, un volgare di marca umbra purificato da eccessivi dialettalismi, capace di raggiungere ogni tipo di pubblico. Un pubblico che ancora non si sapeva popolo, ma che quel canto in versi ritmati, impreziosito da moduli retorici letterari e da elementi linguistici latineggianti, strinse tutti al calore dello sguardo di un unico Padre. Così Francesco inventava l’Italia.

A questo giovane intrepido cavaliere e giullare innamorato, attraverso il suo Cantico, chiederò il 17 il dono della pietà/cura di un Paese che lui ha sognato. Solo se, come Francesco, avremo il coraggio di dimenticarci del nostro orticello e di rimettere al centro della nostra esistenza il bene comune, questo Paese potrà ritrovare sé stesso: le sue origini e la sua originalità, senza accontentarsi di miti di fondazione che suscitano comode e passeggere emozioni, ma non faticose, quotidiane, esaltanti trasformazioni.
  • Alessandro D’Avenia
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mar 23, 2011 11:29 am


  • Quando si fa quel che si odia
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Uno degli aspetti oggi più disattesi della vita cristiana è certamente quello della lotta spirituale, elemento fondamentale in vista dell’edificazione di una personalità umana, prima ancora che cristiana, salda e matura. Il relativismo etico e l’imperante cultura dell’et-et , che fanno sognare la possibilità di uno stile di vita esente dal rischio e dalla fatica della scelta, sembrano rendere 'fuori luogo' e 'fuori tempo' la riflessione sulla necessità della lotta interiore.

Eppure per ogni cristiano – non solo per i monaci – la lotta spirituale è più che mai essenziale. Si tratta del combattimento invisibile in cui l’uomo oppone resistenza al male e lotta per non essere vinto dalle tentazioni, quelle pulsioni e suggestioni che sonnecchiano nel profondo del suo cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva, fino ad assumere il volto di tentazioni seducenti.

L’uomo può contrastare le lusinghe della tentazione, ma non annientarle definitivamente, e per questo il cristiano prega ogni giorno di non soccombere di fronte alla tentazione (Mt 6,13). Davvero, secondo l’acuta sintesi di Origene, «la tentazione rende l’uomo un martire o un idolatra». Purtroppo quanti conoscono oggi quest’arte della lotta, che ancora la mia generazione ha ricevuto in eredità da comuni e non rare guide spirituali? Vittime di tale ignoranza, molti cristiani si sono assuefatti a soccombere alle tentazioni, convinti che contro di esse non ci sia nulla da fare, perché nulla hanno mai imparato al riguardo. Ebbene, la lotta contro le tentazioni è durissima, ma senza di essa il cristiano si arrende alla mentalità mondana, cede al male; egli comincia con il far convivere in sé atteggiamenti religiosi e alienazioni idolatriche, in una sorta di schizofrenia spirituale, per poi giungere a svuotare del tutto la fede.

Quando infatti si inizia a non vivere come si pensa, si finisce per pensare come si vive! Occorre dunque prendere sul serio tale combattimento: chi ride di abba Antonio, oppresso nel deserto dagli spiriti malvagi che gli appaiono «sotto forma di belve e di serpenti», è un superficiale che non si conosce, oppure è una persona costantemente vinta dalle tentazioni, al punto da non accorgersene più. Va però detto con chiarezza: non è possibile l’edificazione di una personalità umana e spirituale robusta senza la lotta interiore, senza un esercizio al discernimento tra bene e male, in modo da giungere a dire dei 'sì' convinti e dei 'no' efficaci: 'sì' a quello che possiamo essere e fare in conformità a Cristo; 'no' alle pulsioni egocentriche che ci alienano e contraddicono i nostri rapporti con noi stessi, con Dio, con gli altri e con le cose, rapporti chiamati a essere contrassegnati da libertà e amore. Riprendere questo tema non significa pertanto né cadere in un dualismo spirituale, secondo il quale per affermare Dio occorrerebbe negare l’umano, né ripiombare in un atteggiamento pietistico e individualistico. Equivale invece ad affermare l’essenzialità umana e cristiana di una ascesi – parola che, non lo si dimentichi, significa 'esercizio' –, di una lotta per pervenire a una vita piena e compiuta: la vita cristiana, vita «alla statura di Cristo» (Ef 4,13).

Quello della lotta spirituale è un tema che, saldamente radicato nel messaggio biblico, è stato affrontato e approfondito in numerosi testi della tradizione patristica e della letteratura ascetica, soprattutto monastica, sia in Oriente sia in Occidente. Gli scritti di Evagrio Pontico (345-399) e di Giovanni Cassiano (360 435); il Combattimento cristiano di Agostino (396); Il manuale del soldato cristiano di Erasmo da Rotterdam (1503); il celebre trattato di Lorenzo Scupoli (1530-1610) Il combattimento spirituale, che, tra l’altro, fu tradotto in greco da Nicodemo Agiorita alla fine del XVIII secolo e, tramite questa versione, raggiunse anche la Russia dove fu rielaborato da Teofane il Recluso alla fine del XIX secolo: sono solo alcune tra le più significative opere espressamente o in buona parte dedicate al nostro argomento.

Questa eredità che i grandi spirituali del passato ci hanno lasciato deve oggi più che mai essere riscoperta e valorizzata: la vita secondo lo Spirito (Rm 8,5; Gal 5,16.25), cui ogni cristiano è chiamato, comporta infatti una conoscenza di sé e dei meccanismi che presiedono alla tentazione, un discernimento della propria peculiare debolezza per poter combattere con vigore contro il peccato. Il peccato (hamartía) è una potenza personificata che opera nell’uomo e per mezzo dell’uomo, contro l’uomo stesso e la sua volontà, come acutamente rilevato da Paolo: «Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che odio» (Rm 7,15).

Tutti gli uomini sperimentano la realtà del peccato (Rm 3,23; Gal 3,22), una potenza deformante che si oggettiva poi nei singoli peccati, i quali sono tutti, pur con manifestazioni diverse, forme di relazione negativa e distruttiva nei confronti dell’umanità dell’altro, a partire da quel primo altro che è l’io di fronte a se stesso. In profondità tutti i peccati sono dunque riconducibili a un unico grande peccato: la negazione dell’alleanza e della comunione, ossia la rottura con cui l’io, da 'io con gli altri', si perverte in 'io contro gli altri'. Questa realtà mortifera è il vero, grande nemico contro cui lottare. E solo chi entra nella logica di questa lotta può custodire la fede con perseveranza fino alla fine, fino ad affermare: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).

Le radici della riflessione sulla lotta spirituale si trovano nella Scrittura. Fin dalle prime pagine della Genesi, l’Antico Testamento conosce il comando a dominare l’istinto malvagio che abita il cuore umano: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua brama, ma tu dominalo» (Gen 4,7); «l’istinto (jezer) del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza» (Gen 8,21). Questa lotta è talmente necessaria che nemmeno Gesù vi si è sottratto, e il suo confronto nel deserto con il Tentatore ce lo mostra chiaramente (Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Anzi, come Gesù, subito dopo essere stato battezzato da Giovanni, ha conosciuto l’assalto di Satana, così ogni battezzato dovrà attendersi una dura opposizione da parte dell’Avversario, che cercherà di distoglierlo dal suo cammino di sequela. Per il cristiano, dunque, la lotta spirituale è un’esigenza insita nel battesimo e concorre a definire la sua stessa identità di fede: «Con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, a indossare cioè quelle che Paolo chiama 'armi di giustizia' (Rm 6,13-14) e 'armi della luce' (Rm 13,12)».

Sviluppando queste istanze, il Nuovo Testamento si sofferma a più riprese sulla descrizione della vita cristiana come lotta. Non si tratta di una lotta contro altri uomini, bensì contro le dominanti del male e del peccato (Ef 6,10-17): è la «lotta della fede» (1Tm 6,12), che cioè nasce dalla fede e a essa tende (2Tm 4,7); è una lotta interiore che il credente deve mettere in atto per opporsi alla «legge del peccato che fa guerra alla legge di Dio» (Rm 7,22-23), alle «passioni che combattono nelle sue membra» (Gc 4,1), ai «desideri della carne che fanno guerra all’intera vita» (1Pt 2,11).

Questo combattimento ha come avversario «il peccato che ci assedia» (Eb 12,1); le cosiddette «potenze dell’aria» (Ef 2,2), indicate con nomi diversi (Ef 6,12); «il diavolo» (Ef 6,11), «il Maligno» (Ef 6,16): in una parola, tutte le forze malefiche, interne o esterne al cristiano, che cercano di ricondurlo alla sua condizione pre-battesimale di idolatra.

La lotta spirituale ci chiede di predisporre ogni fibra del nostro essere all’azione operata in noi da Dio: «La cosa peggiore, nella tentazione, è credere che noi combattiamo da soli. No, Dio ci tende la mano, combatte per noi e con noi». È una lotta che ha Cristo stesso per protagonista, è lui che possiamo invocare con le parole del salmo: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Sal 43,1; 119,154). Questo è l’insegnamento lasciatoci ancora una volta dal grande Antonio: «Ciascuno di quelli che così combattono può dire: 'Non io, ma la grazia di Dio che è con me' (1Cor 15,10). Scacciare i demoni, è un dono del Salvatore». Solo Cristo, che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. In definitiva, questa lotta ha come unico scopo quello di 'rivestire il Signore Gesù Cristo' (Rm 13,14), fino a poter ripetere in verità con Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Certo, quello della lotta spirituale è un tema che necessita oggi di essere riformulato, ripensato alla luce delle categorie antropologiche e delle conoscenze psicologiche che i contemporanei – a differenza della Scrittura e dei Padri – possono vantare; occorre cioè decodificare il linguaggio della Scrittura e dei Padri.

D’altra parte, anche se l’uso stesso delle parole 'lotta' e 'combattimento' può suscitare più di una perplessità, ritengo tuttavia che sia opportuno attenersi a questa terminologia tradizionale: essa infatti, nella sua durezza e impopolarità, ha il vantaggio di mettere in chiaro da subito l’asprezza che caratterizza la lotta di cui parleremo e, di conseguenza, costituisce un chiaro invito a prenderla sul serio. Scriveva Martyrios, un padre siriaco del VII secolo: «La lotta interiore, il combattimento per fare fronte ai pensieri e la guerra contro le passioni, non sono forse tanto duri quanto le guerre esteriori contro i persecutori e le torture fisiche? A me pare che siano ancora più duri, come è vero che Satana è più crudele e malvagio degli uomini malvagi. Finché ci sarà soffio nelle nostre narici, non cessiamo dunque di combattere; non lasciamoci abbattere né mettere in fuga, ma perseveriamo nella lotta contro Satana fino alla morte, per ricevere dal Signore la corona della vittoria, nel giorno della ricompensa» (2Tm 4,8).
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 28, 2011 9:39 am


  • Quell’ansia luminosa
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Sommersi sempre da un fiume di parole. Dal primo radiogiornale del mattino alla televisione al web, camminiamo ogni giorno come dentro una selva di parole. Noi giornalisti, poi: con questo schermo davanti agli occhi su cui scorrono allineate falangi di parole, e quasi sempre parole di sconfitte, di violenze, di torti; oppure vacue e inutili e chiassose parole, che non dureranno un giorno. Dentro a questa selva ogni tanto però passano rare parole pesanti. Come facce care, tra una folla estranea e distratta.

Ciò che ha detto Benedetto XVI venerdì alla Penitenzieria apostolica, per esempio. Parlava ai confessori: conoscere e visitare l’abisso del cuore umano, ha detto, alimenta la certezza che «l’ultima parola sul male dell’uomo e sulla storia di Dio, è della sua misericordia, capace di fare nuove tutte le cose».

Provate a rileggerla, questa frase breve come un dispaccio d’agenzia. Soppesatela: non è inchiostro, ma materia più densa e più antica. L’ultima parola sul male e sulla storia è la misericordia di Dio, che rinnova ogni cosa. Il Papa parla di ciò che avviene nella Penitenza, sacramento oggi desueto e quasi generalmente avversato già per il suo stesso nome. Penitenza? E di che? Noi rivendichiamo, protestiamo, accusiamo – preferibilmente, gli altri – ma quanto ci suona antiquato e sgradevole questo termine che indica un ripensamento su di sé, un’umiltà – un inginocchiarsi. Senonché in questa ostilità epidermica dimentichiamo l’altro lato, e il più grande, del sacramento. Che è la misericordia di Dio; che fa nuovi gli uomini e le loro anime lise.

Questo aspetto ricreatore della misericordia, nell’oblio di molti e anche credenti, a leggerlo nel discorso del Papa si mostra come un motore potente e silenzioso della storia d’Occidente. Perché la storia degli uomini è stata segnata da ogni male: ferocia di assedi e guerre, persecuzioni, stupri. Noi non sappiamo che cosa c’è fra le pietre di ogni nostro augusto palazzo, e cosa hanno visto i selciati e i ponti delle strade millenarie. Ma se sapessimo, potremmo rimanere atterriti; e per reazione diventare disperati, oppure, più facilmente, cinici.

Il fatto è però che sempre ha agito in fondo alla storia dell’Occidente cristiano quel motore occulto e forte: del domandare perdono a Dio, e averne la grazia di ricominciare. Sappiamo bene che molte delle nostre più splendide cattedrali sono sorte anche con donazioni di briganti e di ladri. Ma contemplando Chartres o la cattedrale di Strasburgo, e pensando che sono state fatte con le mani e con gli ori di poveracci come noi, sembra di vedere incisa nella pietra la misericordia di cui parla il Papa; misericordia che crea e rinnova ogni cosa. Che trae, afferma Tommaso, dal male un bene più grande.

Quale grande motore abbiamo avuto, possente, silenzioso, nelle fondamenta, mentre costruivamo la civiltà occidentale e le città che oggi ammiriamo stupiti, senza saperle rifare così belle. Questo tesoro avevamo: come la misericordia di una madre, come la forza di un padre che ogni volta ripete: non disperarti, io ti do la grazia di andare oltre. Ora che ci affermiamo invece creature autonome e senza bisogno di alcun padre, il grande motore gira piano. Gli manca quell’acqua cattiva, direbbe il poeta Charles Peguy, da cui trarne di pura, quell’acqua vecchia da cui trarne di giovane: l’acqua che trasformi le 'anime calanti' in 'anime sorgenti'.

Sarebbe bello in questa Quaresima ritornare a fidarsi, semplicemente, di ciò che è promesso. Noi superinformati, noi complicati, noi orgogliosi e diffidenti: fidarci ancora, semplicemente.

Basta guardarsi e vedersi, e riconoscere il nostro male, e chiedere perdono. Il resto è grazia, è la misericordia di un Dio che non ripaga secondo la nostra misura, ma ricrea. E sua è l’ultima parola sulla storia, non nostra, non atterrita dalla nostra miseria. Fidarsi ancora, bisognerebbe; e rimettere in moto quel possente motore che, in tutto il nostro male, ricostruisce ogni volta, e afferma un’ansia irriducibile di vita, di un destino buono.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 04, 2011 8:57 am


  • La morte che «viene da lontano» e le morti che sembrano non contare
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Dopo l’iniziale e pressoché corale sostegno all’«intervento umanitario» in Libia, dal mondo cattolico sono provenuti, a più riprese, alcuni segnali di inquietudine. Non sono rimaste senza eco le riflessioni del cardinale Bagnasco, le preoccupazioni del Vicario apostolico di Tripoli, le aperte prese di distanza di intellettuali e di gruppi pacifisti cristiani. Si moltiplicano, dunque, gli interrogativi su questa nuova «guerra di Libia» che, per l’Italia, si verifica esattamente a un secolo dall’altra: per quest’ultima è ormai da tempo in atto un processo di demitizzazione di un’impresa rivelatasi cruda espressione di un colonialismo, quello italiano, forse meno spietato di quello di altri Paesi («italiani brava gente»…) ma tutt’altro che esente – come la storiografia ha ampiamente dimostrato – da brutalità, nefandezze, prevaricazioni. È augurabile che tutto questo sia solo passato, un passato che non ritorna.

Due sono i punti critici di questa vicenda, per quanto si può valutare allo stato attuale delle cose: e ad essi corrispondono altrettanto interrogativi.

La prima domanda riguarda il carico di morte che, inevitabilmente, accompagna l’azione in atto, autorizzata dall’Onu, e motivata col dovere di scongiurare le vittime civili della repressione ordinata dal regime gheddafiano: non vi è dubbio che, per quanto "intelligenti", le bombe non possono avere millimetrica precisione e dunque occorre mettere in conto un numero, forse non marginale, di vittime civili (il loro numero non lo si conoscerà mai). Ma anche limitatamente alle vittime militari, si tratta pur sempre (cosa che certi entusiasmi bellicisti sembrano del tutto dimenticare) di persone, di volti, spesso di padri di famiglia, frequentemente di "povera gente" illusa (com’è capitato, anche in altri tempi, in Germania e in Italia) dal fascino del dittatore di turno o indotta al "mestiere delle armi" dalla corruzione del denaro, o anche soltanto dall’istinto di sopravvivenza. Nessuna pietà, dunque, per i militari e i loro fiancheggiatori?

Il secondo interrogativo concerne questo particolare tipo di guerra fra diseguali: di qui una raffinatissima tecnologia di morte, di là la rassegnazione alla morte che piove dal cielo. Vengono alla mente le riserve, le proteste, talora le denunzie dei teologi medievali sull’intrinseca immoralità di una morte – quella procurata dalle prime armi da fuoco – che "veniva da lontano", che non consentiva più il "faccia a faccia" fra i contendenti, che perdeva la sua antica natura di "duello" fra uomini che potevano guardarsi negli occhi e sapevano, nello stesso tempo, di potere uccidere e di potere essere uccisi. Questa guerra dall’alto è invece impietosamente impari: da una parte vi è chi rischia tutto, dall’altra chi non rischia nulla e può uccidere senza timore alcuno di essere ucciso. Vi è da domandarsi se il pressoché unanime consenso dell’opinione pubblica vi sarebbe se, condotta la guerra ad armi pari, vi fossero morti da una parte e dall’altra.

Ora, invece, i morti sembrano non più contare. Ve ne è abbastanza, dunque, per domandarsi se non sia venuto il tempo di stabilire una tregua, di premere perché si avviino negoziati, dando spazio a una mediazione, che sarà comunque necessaria, non potendosi ragionevolmente ipotizzare il permanere di una guerra civile che rischia di procurare, nel tempo lungo, un gran numero di morti: magari non caduti in battaglia e però certamente vittime delle miserie che la guerra sempre produce. In questa azione per la mediazione – a favore della quale si è autorevolmente espresso, a più riprese, lo stesso papa Benedetto – i credenti dovranno essere in prima fila. Che tutte le armi tacciano e, finalmente, la parola passi alla mitezza della ragione.
  • Giorgio Campanini
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 18, 2011 9:57 am


  • Come doglie di parto
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La scena è stupenda e dolorosa. Due corpi che si abbracciano, si avvinghiano, per non lasciarsi più. Lei, Chiara, la mamma, è una donna ancora giovane. Lui, Emmanuele, ha sedici anni appena: l’età dei primi appuntamenti, del primo amore. È sfinito, stravolto, stanco. Lotta da anni con la leucemia. Alla fine il corpo a corpo lo ha stremato. Sembrava che avesse vinto la battaglia, come un fiume carsico invece, la iena è ritornata.

Ha combattuto con la grinta di un leone, insieme ai genitori e ai fratellini. Oggi la sua voce è un rantolo, e gli occhi già non vedono. Arde per la febbre che gli brucia nelle carni. Si lamenta, stringendo tra le mani la corona del Rosario; sul comodino il Bambinello gli tiene compagnia. Sotto il guanciale l’immaginetta del Crocifisso con la preghiera tante volte ripetuta: «Gesù crocifisso, sempre ti porto con me. A tutto ti preferisco. Quando cado, Tu mi risollevi. Quando piango, Tu mi consoli. Quando soffro, Tu mi guarisci…». Ieri l’abbiamo pregata insieme, oggi non riesce nemmeno a sussurrarla. La croce si è fatta più pesante e il sentiero è ripido e tortuoso. Emmanuele tenta di salire; arranca, si trascina, ma barcolla e cade. Come Gesù.

Come Maria, la sua mamma gli sta accanto. Se lo stringe al petto. Col suo corpo lo ripara dalla morte che sente aggirarsi per la casa. Sta in agguato come una leonessa. L’aspetta per invocar pietà, per offrirsi al posto del ragazzo. Lo bacia mille volte. Come un’ape appollaiata sulla rosa, vuole succhiarne il nettare. Non piange: Emmanuele capirebbe. Domani, forse… Oggi deve rassicurare il figlio: «Sta’ sereno, Manu… Non ti preoccupare, non è niente... Mamma tua sta qui, vicino a te. Passerà anche questa volta, vero? Come il mese scorso in ospedale… Ricordi? Il dottore sta per arrivare. Guarda Emmanuele, guarda chi è venuto a farti visita…». Non sempre la bugia è peccato. A volte nasconde un amore senza limiti.

Le guance si accarezzano, si sfiorano. Quelle scavate della mamma e quelle paffute, gonfie del cucciolotto suo. È divenuta una cosa sola con il figlio, questa donna coraggiosa e fragile. Come quando lo portava in grembo. Vive dei suoi respiri. Prega. Non inveisce mai. Ritorna la domanda antica: «Dio dove sei?». Bisogna resistere alla tentazione di dare risposte improvvisate. Niente deve andar perduto di questo tesoro acquistato a caro prezzo. Il Signore è lì che soffre insieme a loro. Discreto, attento, silenzioso, non li ha mai lasciati soli.

Il dolore gli uomini non lo sconfiggeranno mai. Hanno invece il dovere di alleviarlo. O di assumerlo. Come Gesù che prende su di sé i peccati e le pene di tutti gli uomini di tutti i tempi. Come Chiara che ha fuso la sua vita con quella del figliolo. Dobbiamo farci cirenei per caricarci sulle spalle una croce che non è nostra; per risollevare chi non può rialzarsi; per accogliere chi, dopo tre notti passate su un barcone malandato, teme di essere ricacciato in mare.

Occorre ridare fiato alla pietà: fiamma capace di riaccendere gli stoppini fumiganti di tante vite spente. Occorre farla circolare per le brutte e malfamate periferie del mondo e per le città opulente e contraddittorie; piantarla nei campi che fioriranno a primavera.

Quanta solidarietà attorno al piccolo Emmanuele; quante lacrime, quanta fede. Quanto amore, quanta preghiera. Emmanuele è un maestro e il suo giaciglio una cattedra eloquente. Accanto a lui non c’è posto per l’ipocrisia; la menzogna tace e l’odio mostra il suo volto sciocco e inopportuno.

A questa scuola s’impara a vivere e a morire. Pasqua è alle porte. Cristo ci chiama a risorgere con lui. Emmanuele sta per accogliere l’invito. La sua mamma soffre le doglie del parto per aiutarlo a rinascere alla vita. Alla vita vera che non muore più.
  • Maurizio Patriciello
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 26, 2011 8:36 am


  • Niente finisce in niente
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Dovete volerci bene anche soltanto perché da qui, nonostante tutto, noi non arretriamo.

Con tutto quello che succede ogni anno. Con tutte le piaghe dalle quali, anche noi, siamo coperti. Con tutta la rassegnazione che ci ammala invisibilmente, come la radioattività nell’aria. Con tutta la rabbia per le implacabili mortificazioni della vita, per le ottuse indifferenze della morte, che ci farebbe mandare tutto all’aria: ciascuno per sé, e per l’amor di Dio, più nessuno per tutti, che ne abbiamo avuto abbastanza.

Con tutto che siamo più pochi, e nemmeno tutti i migliori. Con il fatto che non sappiamo neppure bene che cosa inventarci, per farvi volare alto: almeno voi, perché noi ci siamo impegnati anche per i pulcini con le ali spezzate. Con la sensazione di spenderci all’osso per l’essenziale e di essere poi comprati per le cose di complemento: come per un atto di beneficenza – almeno una volta all’anno. Con le lacrime agli occhi per tutti i figli che chiedono pane e ricevono rospi, sognano aria pulita e devono scegliere fra gli abiti dismessi. Con il groppo della nostalgia per le avventure dell’anima che scoprono mondi e creano bellezza, quotidianamente sbeffeggiate dai volenterosi carnefici del rendimento.

Con tutto questo, e col fatto che non siamo, noi per primi, all’altezza dell’inaudito, noi sciogliamo le campane e ripetiamo “Gesù Cristo è risorto”. E che non c’è niente che finisca in niente. Dio ha bruciato le sue navi e non vuole ritornare da solo oltre la barriera. E noi siamo la compagnia destinata.

Noi. Noi umani, che a dispetto di tutto, siamo anche capaci di svenarci per un figlio, e di commuoverci per la pura essenza della fede che ci viene incontro con lo sguardo di qualcuno che ci pensa capaci di voler bene. Ebbene, noi siamo stati elegantemente anticipati da Dio. Imperterrito, ha abitato le nostre frivolezze indecenti e le nostre odiosità insopportabili, e ne ha fatto fascine. Ha stretto un legame irrevocabile anche per un bicchier d’acqua. Non si è perso nessuno dei nostri inferni, per strapparci dalle grinfie quelli che ci avevamo chiuso dentro: perché non erano dei nostri, perché non c’erano risorse, perché la civiltà dell’uomo emancipato aumenta i diritti, estingue i doveri, impone a tutti di pensare alla salute.

”Gesù Cristo è risorto”. Il cielo è abitato da uomini, donne, bambini. Non solo angeli. L’intimità di Dio è un uomo come noi. Milioni hanno già trovato. Miliardi, troveranno. E saremo riconosciuti se ci riconosceranno. E saremo protetti, se abbiamo protetto. Il pensiero dell’uomo occidentale si è fatto fine. L’annuncio è in circolazione da un bel po’. Bisognerebbe aggiornarsi. Il racconto è commovente, ma l’epilogo fuori portata. Gli atomi non vanno contraddetti – se non lo sappiamo noi! Li abbiamo interrogati: non ne sanno niente. D’accordo, ognuno ha gli oracoli che si merita. Noi comunque non ci aggiorniamo. Non cambiamo. Ci commuoviamo come il primo giorno. Le donne hanno più fiuto di noi. I discepoli l’hanno visto, e non l’hanno più abbandonato. È in quel momento che, a noi uomini, ci è cambiato Dio. Non era più il faraone celeste, l’imperatore supremo, il divino motore. E voleva noi. Ha imparato la nostra lingua, ha patito i nostri affetti, ha sostenuto il nostro odio. Ha voluto noi e niente ha potuto fermarlo.

”Gesù Cristo è risorto”. A pensarci, grazie alla cocciuta fedeltà di questa testimonianza, oggi anche noi ci sentiamo migliori. E anche voi, vi vediamo meglio. Con tutto che siamo così imperfetti (e così terribili, persino), grazie all’indomita ostinazione di quell’annuncio, incominciamo a vederne così tanti di esseri umani che tengono in vita il mondo, che certo non lo meriterebbe, da commuoverci di quanti sono. Questo popolo delle beatitudini, dico, ostinato come Dio, che ci tiene in vita, anche quando non lo meritiamo. Vedo che molti sono dei nostri, li riconosco. Ma la stragrande maggioranza vengono da tutte le parti, e Gli vanno incontro. Ve lo dicevo che con la risurrezione di Gesù Cristo ci è cambiato Dio, a noi uomini. E anche noi ci troveremo cambiati, prima o poi. Noi non smettiamo, finché ce ne sono, di uomini. “Gesù Cristo è Risorto”.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 29, 2011 10:00 am


  • Se la pietra non rotola
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La domenica di Pasqua partecipavo alla messa nella mia parrocchia e don Luciano ha iniziato l'omelia soffermandosi sul nostro bisogno di risurrezione per liberarci dall'aria incattivita che respiriamo a cominciare dall'atteggiamento verso gli stranieri. C'è stato chi, in mezzo all'assemblea, ha storto il naso.

So che a questo punto le mie parole sono già state da qualcuno incasellate nella dicotomia destra-sinistra che è divenuto lo schema di pensiero dominante. Ed è uno dei motivi per cui l'Italia sta subendo un imbarbarimento. Si possono avere visioni diverse sulle politiche migratorie, ma sugli stranieri come persone no. Nessuna appartenenza politica giustifica il disprezzo e l'odio verso qualcuno, né umanamente né cristianamente parlando. É una cosa che dovrebbe andare oltre la destra e la sinistra.

Eppure, oggi il disprezzo e l'odio sono stati sdoganati, sono tranquillamente esibiti nel discorso pubblico come se fosse la normalità. E ci sono politici che si dicono vicini alla Chiesa cattolica che accettano questi discorsi o mantengono un silenzio che diventa complice per interessi di partito.

Tutto questo ha molto a che fare con la Pasqua. Non è solo il sepolcro di Gesù a essere chiuso da una pietra. É anche il nostro cuore. Il nostro cuore è chiuso da una pietra, quando è indurito e il nostro spirito bloccato (Mc 6,52;8,17;Gv12,40;Ef 4,18). É insensato e tardo a credere (Lc 24,25), ottenebrato (Rm 1,21). Tutto questo avviene quando disprezziamo e odiamo qualcuno, a maggior ragione se ciò avviene per la sua origine. E di fronte a questo non conta niente quanto frequentiamo la chiesa o quanto osanniamo il papa.

Ma forse ancora peggio è il sentirsi esenti. Ci sono indurimenti del cuore più sottili, meno evidenti, ma altrettanto gravi e reali che toccano la quotidianità. Non è questione di opinioni politicamente corrette...

É Pasqua quando scopriamo che la pietra è rotolata dentro di noi (cf. Mt 28,2), ma non per opera nostra.

"La vita nuova - scrive Andrè Louf - sgorga in noi come acqua e di colpo riempie in modo traboccante lo spazio che il silenzio ha liberato. (...) Pregare è essere il letto di un fiume, scrive una poetessa fiamminga. Colui che ha scavato in sé questo vuoto è anche riempito dall'esperienza interiore dello Spirito. Nel suo cuore salgono le acque del silenzio, le acque di Siloe che scorrono soltanto nella pace (Is 8,16), la sorgente che zampilla per la vita eterna (Gv 4,14)".
  • Christian Albini
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 02, 2011 9:25 am


  • Non la fama ma la croce
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Un santo non è un divo. Un santo non somiglia a un uomo di successo. I cri­stiani lo sanno. E sanno che c’è una bella differenza tra il successo nelle cose del mondo, e quello nelle cose del cielo. Che poi sono quelle della terra ma vissute, per così dire, in modo centuplicato, in modo più vero. In modo senza fine.

Perché è scritto così nel Vangelo. Ed è scritto nella vita di tutti i santi, quelli noti e quelli meno noti. Gente che ha vissuto nel mondo. Come se non finisse tutto nel mondo. Gente che ha sperimentato e fatto vedere agli altri l’infinito nelle cose finite. Il cielo dentro la terra, il centuplo quaggiù, che è una ricchezza di senso. Una ricchezza incalcolabile.

La beatificazione di Giovanni Paolo II non è l’apoteosi di un divo. Anche se certe apparenze, anche se certe parole enfatiche – usate spesso da chi non sa cos’è il cristianesimo – vorrebbero farlo credere. Come se fosse un divo dei nostri tempi. Che si può esaltare (o criticare) come un divo, secondo le categorie dell’uomo di successo a partire dai canoni, dalle idee che oggi prevalgono per decretare il successo di un uomo.

Il divo, come insegnano l’arte e la letteratura dell’umanesimo e del rinascimento che riprendevano ideali pre-cristiani o anticristiani, è l’uomo che cerca compimento nel somigliare a un dio. Allargando il suo potere, provando a determinare la propria fortuna in tutto e per tutto. Il divo è chi sembra possedere il proprio destino. L’uomo che in fondo non ha bisogno di Dio, poiché basta a se stesso: la fama acquistata con le imprese che l’epoca ritiene degne di gloria e il potere che ne consegue sono la sua realiz­zazione.

Il santo è tutta un’altra faccenda. Una faccenda di cielo mischiato alla terra. Spesso di nessuna riuscita, nessuna fama. Sono santi uomini oscurissimi, di nessuna notorietà pubblica. O, come nel caso di Giovanni Paolo II, è una faccenda che riguarda ciò che è noto e ciò che è segreto nella vita di un uomo. Ciò che è stato visibile alle folle e ciò che è stato visibile a pochi te­stimoni o solo a Dio. Non c’entra la fama. C’entra la croce. Non si fonda sul successo, ma sul sacrificio di sé. E sull’amore a Cristo. Tutte cose – specie l’ultima – che non sono necessarie, anzi non sono proprio richieste, per essere divi dei nostri giorni. I divi odierni sono spesso ammantati di aura morale.

Oggi va di moda l’uomo 'buono' o meglio 'corretto'. E in un certo senso è un bene, anche se spesso si tratta di una morale tagliata su misura sui valori esaltati dai media e delle classi al potere. E i media e le classi al potere sono disposti forse ad accettare Giovanni Paolo II come un divo, ma non del tutto. Perché non sta del tutto dentro la immagine di divo comune. Ha certe cose che non tornano. Che sono poi le cose che lo fanno santo. Le classi dominanti – ma diciamolo: la mentalità che domina anche in noi – è disposta a esaltarlo come divo, ma parzialmente. E di più: vorrebbero che la santità coincidesse con il loro rilascio di patente di divo. Che il divo coincidesse con il santo. E dunque che se qualcosa non funziona nel­l’immagine del divo, allora si deve mettere in discussione anche la realtà del santo. Ma i cristiani lo sanno: non sono per nulla la stessa cosa.

A Roma ci rechiamo in tanti a festeggiare un uomo speciale, a pregarlo. Un uomo vivo e operante nella santità dei secoli dei secoli. Non a esaltare un divo morto. Guardiamo un uomo santo come a un esempio per le nostre pene e ferite. E per il nostro amore a Cristo. Non invidiamo acidamente la sua fuggente fortuna – come accade coi divi – ma gli affidiamo dolcemente la nostra povera esistenza, deponendola ai piedi della sua paternità senza fine.
  • Davide Rondoni
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 09, 2011 9:39 am


  • Siamo liberi di Dio. E mai sopraffatti
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Nel libro Gesù di Nazaret Benedetto XVI formula un interrogativo cruciale, che si sono posti filosofi e teologi di tutti i tempi, e che affiora nella coscienza di ciascuno di noi. Perché la conoscenza di Dio, della sua volontà, non è immediata, di evidenza indiscutibile? La domanda nasce dalla risurrezione di Gesù, dalle parole di Giuda Matteo: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?» (Gv 14,22), perché, prosegue il Papa, «non hai con vigore inconfutabile dimostrato loro che tu sei il Vivente, il Signore della vita e della morte? Perché ti sei mostrato solo a un piccolo gruppo di discepoli della cui testimonianza noi dobbiamo ora fidarci?». La domanda, aggiunge, «riguarda l’intero modo in cui Dio si rivela al mondo».

La risposta del Papa è semplice: «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di 'vedere'». La spiegazione conclusiva è più forte: «Non è forse proprio questo lo stile divino? Non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore». Si tratta di una risposta che approfondisce il rapporto dell’uomo con Dio, ed evoca in qualche modo il filosofo tedesco Karl Jaspers per il quale se la trascendenza si presentasse in tutta la sua grandezza all’uomo lo schiaccerebbe, lo costringerebbe ad adeguarsi alla sua volontà. In questo modo, non saremmo protagonisti attivi della nostra salvezza, ma soggetti passivi, senza volontà veramente autonoma. Con l’azione sommessa nell’interiorità personale, Dio delinea la libertà come carattere essenziale del cammino dell’umanità verso il bene. Forzato dalla presenza abbagliante del divino, l’uomo sarebbe coartato all’obbedienza. Spinto dalla coscienza e dall’accettazione di Gesù egli può scegliere il bene, ma anche il male realizzandolo a proprio danno.

La presenza di Dio si manifesta con lo stupore per la vita, e la più elementare psicologia ce ne offre prove tutti i giorni.

La ragione e la coscienza danno gli impulsi primordiali a chi viene al mondo con le immagini della bellezza e della varietà, con il sentimento dell’amore, gli fanno dono della curiosità che è la finestra della conoscenza. In quel fluire della vita di cui parla Henry Berson, la coscienza si evolve facendo intravedere il male, il dolore, i limiti che non possiamo superare, proponendo le domande sul bene e il male, sulle scelte che siamo chiamati a compiere: sembra quasi che l’essere umano si trovi tante volte nelle condizioni di Adamo ed Eva, a dover optare tra le cose buone e quelle cattive che la vita ci mette davanti di continuo. Infine, la piena conoscenza di sé, con il desiderio del proprio futuro, provoca le domande decisive che riempiono il pensiero filosofico e religioso, sulle grandi scelte etiche, il significato della vita, l’aspirazione al compimento pieno oltre l’esperienza terrena.

In questo sviluppo della mente e del cuore, Dio parla sempre in modo sommesso, si propone alla coscienza, pone dei semi, offre scenari tra cui scegliere. Insomma, Dio si fa sentire mille e mille volte, ma sempre lasciando libero l’uomo di ascoltarlo o non ascoltarlo. L’avvento di Gesù costituisce l’intervento decisivo di Dio nella storia perché, sempre con dolcezza e senza potenza esteriore, egli offre l’incontro personale con l’uomo, indica i princìpi etici che superano i secoli e le contingenze, i valori spirituali che danno senso allo scorrere della vita, alla gioia, alla finitezza temporale che svanisce con la prospettiva della risurrezione.

Nell’orizzonte della libertà cristiana, all’uomo è data un’altra possibilità, quella di ricredersi, di cambiare strada, pentirsi, perché agli occhi di Dio nulla è irreversibile, il male non è irreparabile, solo la sua misericordia è infinita. La parola sommessa di Gesù può trasformare l’uomo, perché egli è il Dio della responsabilità, non della rassegnazione, della scelte per il bene non del grigio fatalismo, della vita eterna non della ineluttabilità della morte che produce solo una mestizia senza prospettive. Per queste ragioni la libertà è essenziale, ma non appaga, essa si realizza appieno quando raggiunge la fede che costituisce il vero compimento dell’uomo.
  • Carlo Cardia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 16, 2011 8:53 am


  • La spinta dell'indignazione e la ri-costruzione della polis
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«In questo mondo esistono cose intollerabili. Per accorgetene occorre affinare lo sguardo, scavare. Ai giovani io dico: cercate e troverete. L'indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti, dire: "lo che ci posso fare, mi arrangio". Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell'umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l'impegno che ne consegue»: queste parole sono tratte da Indignatevi!, che si sta affermando tra i giovani, prima di Francia e ora d'Europa, come un nuovo "libretto rosso" (e proprio rossa è la copertina dell'edizione italiana). L'autore è Stéphane Hessel, 93enne ex partigiano, uno degli estensori della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948.

Poche, dense pagine di un appello ai giovani a "levarsi in piedi", a scuoterei dalla apatica rassegnazione a una società del danaro, del consumismo di massa, del disprezzo dei più deboli e della cultura, dell'amnesia generalizzata e della competizione a oltranza, di tutti contro tutti, che sempre più si allontana dalla realizzazione della giustizia e della libertà, della democrazia e della pace, dal riconoscimento effettivo dei diritti umani, dal rispetto della libertà di stampa. Un appello a indignarsi e a farei mettere in moto verso un atteggiamento di nuova Resistenza, che permetta una rinnovata creazione della convivenza umana, mediante rapporti nonviolenti, come sintetizza il motto conclusivo «Creare è resistere. Resistere è creare».

Molti editori rifiutarono il breve testo di Hessel, convinti che non avrebbe trovato un sufficiente pubblico di lettori. Ma i giovani hanno percepito la freschezza di questa voce di anziano, la novità del leggere il presente alla luce della memoria, l'assoluta trasparenza morale dell'autore e delle sue intenzioni. E hanno risposto, in modo che a molti è apparso sorprendente e miracoloso, che certamente apre il cuore alla speranza: 10 edizioni e più di 600 mila copie nei primi due mesi, seguite dal moltiplicarsi delle traduzioni.

All'appello di Hessel ha recentemente fatto eco un altro giovanissimo anziano (96enne): l'ex Resistente e presidente della Camera dei Deputati, Pietro Ingrao, che risponde, in un altro denso libretto, Indignarsi non basta. Ingrao riconosce la imprescindibilità del moto individuale di indignazione morale, della libera responsabilità personale. Ma richiama la necessità di condividere con altri un progetto positivo perché la spinta dell'indignazione possa diventare costruzione di una polis degna dell'umano: «Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva». Le tante domande individuali «che faccio io, dinanzi al negativo che osservo intorno a me?» si possono e debbono collegare in un «che facciamo noi?», pur nella difficoltà di coniugare questo soggetto plurale con la libertà e varietà dei singoli esseri umani.

Quella che Ingrao presenta come parziale critica a Hessel può essere in realtà vista come una necessaria integrazione. Di più difficile realizzazione, giacché si tratta dello sbocco dell'indignazione nella politica: una dimensione che oggi spesso suscita - e non senza motivi - ripugnanza, ma che è essenziale giacché, come dice Ingrao, essa è «io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane» (p. 10). «Vi prego, non permettete che la domanda sull'essere umano venga cancellata»: con queste parole Ingrao aveva concluso la festa per i suoi 90 anni e certamente la passione per l'umano è il più importante tratto comune tra lui e Hessel.

Ma che significa indignarsi? Per il filosofo Kant, l'indignazione è un affetto, legato alla capacità di adirarsi, diverso dalla passione negativa che è l'odio, la sete dì vendetta, che non rispetta ogni persona umana, anche quando le sue azioni siano riprovevoli. E l'ira, in quanto intolleranza nei confronti del male e ricerca appassionata, ma sempre governata dalla ragionevolezza, della giustizia, non solo non è condannata dalla tradizione filosofo, ma non è neppure sconosciuta a Gesù. Anzi, è moralmente condannabile chi non si indigni quando vi sia motivo per farlo, giacché l'indignazione scaturisce dal commisurare una condotta non alle nostre preferenze, ma alla legge morale, guardandola con gli occhi di quest'ultima.

L'invito evangelico a non giudicare e a non scagliare pietre, in quanto nessuno è senza peccato, non si oppone affatto all'indignazione, che è l'adesione anche emotiva e affettiva al giudizio - fondamentale per ogni vita umana - che distingue il bene dal male, e che è in grado di mobilitare a decisioni e impegni coraggiosi per smascherare e combattere ciò che è malvagio. Ma ci vuole passione per l'umano. L'apatia verso tanto pubblico degrado e tante ingiustizie e sofferenze, la quasi indifferenza dinanzi a tragedie come il naufragio e la morte di centinaia di persone, solo perché si trattava di "barconi" di profughi, denunciano un agghiacciante, pericoloso sopore della nostra coscienza: non pronta a indignarsi, prossima a spegnersi.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 25, 2011 8:21 am


  • Cina, il regime reprime la Chiesa prega
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Decine di sacerdoti sono stati arrestate nel Nord della Cina; altre decine sono state bloccate ieri a Shanghai e "portate in vacanza" a spese del governo, impedendo loro così di celebrare Messa per i fedeli. Il motivo: volevano partecipare al pellegrinaggio verso il santuario della Madonna di Sheshan, che si celebra oggi, 24 maggio, festa di Maria aiuto dei cristiani. Anche il santuario, sulle colline a sud-ovest di Shanghai, è stato messo sotto assedio: centinaia di poliziotti in divisa e in borghese si muovono senza sosta come attente formiche; occhiute telecamere vigilano ogni angolo dell'area su cui sorge la chiesa; guardie controllano i documenti ai pellegrini, facendoli passare attraverso i metal detector, come se si dovesse prevenire l'infiltrazione di chissà quale pericolosissimo nemico. Il "nemico", però, sarebbe il Papa.

Nella sua Lettera ai cattolici cinesi, Egli ha indetto una Giornata di preghiera per la Chiesa del Paese asiatico in coincidenza con la festa e il pellegrinaggio a Sheshan. L'intenzione è che attraverso la preghiera si rafforzi l'unità fra cristiani sotterranei e ufficiali e la comunione con il successore di Pietro. Da allora, Pechino "ha dichiarato guerra", per far sì che quell'unità non si avveri. Oltre agli arresti di sacerdoti sotterranei, anche i cattolici ufficiali subiscono limitazioni: è proibito andare a Sheshan nel mese di maggio; viene imposto l'obbligo di restare nella propria diocesi; sono bloccati i pellegrini stranieri. In passato, il 24 maggio decine di migliaia di cattolici ufficiali e sotterranei andavano in pellegrinaggio al santuario, in un gesto comune di preghiera e riconciliazione. Ora, soltanto qualche centinaio di fedeli della diocesi di Shanghai riesce a superare tutte le barriere e a pregare la Madre di Dio, aiuto dei cristiani.

Quest'anno, i motivi per pregare sono ancora più urgenti. Lo scorso novembre, Pechino ha fatto ordinare un vescovo a Chengde senza il permesso del Papa. A dicembre, 40 presuli, oltre a sacerdoti e laici, sono stati deportati obbligandoli a partecipare all'Assemblea dei rappresentanti cattolici, non riconosciuta dal Pontefice, per eleggere i vertici del Consiglio dei vescovi e dell'Associazione patriottica. Fra loro vi sono vescovi scomunicati. Giorni fa il presidente emerito dell'Associazione patriottica, Antonio Liu Bainian, ha minacciato di far ordinare ancora decine di pastori senza il consenso del Papa.

Di fronte a questa campagna che divide e distrugge, le già provate comunità cattoliche ufficiali e sotterranee si trovano impotenti. Proprio per questo, il 18 maggio scorso Benedetto XVI ha chiesto ancora una volta ai fedeli nel mondo, soprattutto ai cinesi, di pregare oggi per i vescovi e i sacerdoti della Cina: per quelli che «soffrono e sono sotto pressione nell'esercizio del loro ministero»; per chi ha bisogno di superare «la tentazione di un cammino indipendente da Pietro»; per quelli che «sono irretiti dalle lusinghe dell'opportunismo». L'offensiva di Pechino è fatta di controlli, divieti, arresti, minacce nei confronti dei sacerdoti e delle loro famiglie di origine. Le "armi" del Papa sono invece costituite dalla preghiera, anche per i governanti, secondo «il comandamento che Gesù ci ha dato di amare i nostri nemici e di pregare per coloro che ci perseguitano». Pur fra fatiche e dolori, sta "vincendo" il Pontefice: dopo oltre 60 anni di impegno del Partito per far nascere una Chiesa sottomessa, i cristiani in Cina rimangono ancora uniti al vicario di Cristo.

In molte diocesi cinesi, oggi sono previste celebrazioni, adorazioni eucaristiche, rosari per l'unità della Chiesa con il Papa. Un sacerdote sotterraneo di Shanghai, impossibilitato nel suo ministero, prega dalla sua stanza-prigione: «Nostra Signora di Sheshan, benedici la Chiesa in Cina. Tutti i sacerdoti possano godere della libertà di evangelizzare il nostro Paese». Questa Chiesa sofferente ha bisogno della preghiera e della solidarietà della Chiesa universale.
  • padre Bernardo Cervellera
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer giu 01, 2011 9:48 am


  • Il Vangelo, più di una buona notizia
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Fratel Enzo, i cristiani secondo la prima lettera di Pietro devono rendere testimonianza al mondo della loro speranza con mitezza. Oggi, secondo lei, i cristiani stanno rispondendo a questo invito?

Quando noi diciamo Vangelo, dovremmo in realtà pensare a una buona notizia. La parola greca euangelion significa proprio questo. Una buona notizia. Essa si attende, la si auspica , si desidera proprio perché porta felicità, gioia... E riguarda tutti.

Ma il Vangelo rappresenta per noi cristiani ancora, come indica il termine, un messaggio di gioia? La Bibbia in realtà è una “biblioteca” enorme di parole e di concetti di tutti i tipi: vi sono racconti, norme, episodi, invettive, etc. e quindi non tutta la Bibbia si può definire propriamente “Vangelo”. Se si è pensato di chiamare proprio “Vangelo” quattro piccoli libri su Gesù, allora evidentemente qualcuno ha ritenuto duemila anni fa che essi sono proprio una “buona notizia”, non prioritariamente un “insegnamento” o dei semplici cenni biografici su Gesù o ancora delle norme etiche. Semplicemente una buona notizia.

Ho purtroppo l’impressione che noi oggi non abbiamo questa idea del Vangelo e che ne abbiamo fatto piuttosto un ricettario di etica. Insomma, credo che prima esso dovrebbe risuonarci come “buona notizia” e solo poi come “comportamento”. Dovremmo sentire la gente dire: “Ho sentito qualcosa che mi interessa e che mi spinge verso la felicità!”.

E poi c’è anche un modo di dare una buona notizia: non si può darla in modo rabbioso, pigliandosela con le persone a cui la si annuncia, insomma con diffidenza. Ecco, credo che lo stile sia un po’ anche il messaggio. Forse oggi noi cristiani non sappiamo comunicare il Vangelo se non come una specie di riserva di regole morali. Oppure, come era una volta, una riserva di verità. Certo, i dogmi fanno parte della nostra fede e sono indispensabili ma c’è un primo momento in cui devo ricevere la buona notizia e solo dopo, anche con l’uso della ragione, cercherò di incarnarla nella mia vita.

Un caso concreto ci è offerto dal brano del Vangelo di Giovanni sull’adultera: alla richiesta degli ebrei di punire la donna perché colta in fragrante adulterio, Gesù si china e scrive per terra qualcosa… di cui non resterà nulla… Poi Gesù, dopo un momento di silenzio, dice la famosa frase: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Tutti se ne vanno a cominciare dai più vecchi. Persone oneste - oggi forse non se ne andrebbe nessuno - ma quello che per Gesù conta è solo la conversione della donna, che avviene perché ha sentito la “buona notizia” del perdono, insomma perché si è sentita amata.



Fratel Enzo, sugli immigrati lei ha sempre ragionato Vangelo alla mano. Cosa possiamo dire di fronte alle mille paure che abbiamo davanti a questo fenomeno?

Dobbiamo avere consapevolezza che oggi noi abbiamo paura. Anzi, abbiamo tante paure: del futuro, della vecchiaia, di un trapasso, di come la società oggi comprende l’uomo rispetto al passato...

Siamo ad esempio nuovi a questa vecchiaia così lunga, aiutata dal benessere e dalla medicina. All’inizio del ‘900 la media di età in cui si moriva era di 50 anni. Oggi grazie alla medicina viviamo tanto e tutti, me compreso, abbiamo paura della nostra vecchiaia, delle malattie che possono capitare come l’Alzheimer o di una persona anche molto cara che può diventare quasi impossibile da amare per una malattia tipica della vecchiaia in cui si perde il senno e il controllo di sè.

Ma abbiamo paura anche di un lavoro ormai sempre più precario per moltissime persone.

Infine abbiamo paura degli stranieri e anche questa paura va presa molto sul serio, anche se bisogna subito dire che essa c’è sempre stata. Una volta gli stranieri erano gli zingari. Certo la presenza di immigrati non era così estesa, quotidiana e drammatica come in certi quartieri delle nostre città. C’è poi chi strumentalizza questa paura per motivi politici e questo dobbiamo chiaramente denunciarlo.

Ma la paura va ordinata, è un sentimento da non rimuovere ma da affrontare avendo cura di usare gli strumenti più adeguati per non farsi dominare da essa come la capacità di "governance", che oggi non però non vediamo nei nostri politici. Oggi il fenomeno dell’immigrazione è forte ma dobbiamo allenarci perché la società di domani sarà sempre più plurale. Dobbiamo abituarci a fare dei cammini di ascolto, di integrazione insegnando ad esempio la nostra la lingua a coloro che giungono da lontano o comunicare loro le nostre abitudini, insomma offrendo cammini umanizzanti.

Le sacche di miseria dove si sviluppa la delinquenza nascono proprio dal degrado nel quale si trovano calati al loro arrivo da noi. Venendo alla nostra identità di cristiani, dobbiamo sempre ricordarci che noi per primi siamo stranieri e nomadi per natura. Anzi, i primi cristiani erano addirittura contenti di chiamarsi “stranieri”.

Cercare Dio significa allora cercare l’uomo e la salvezza è andare avanti verso una sempre maggiore umanizzazione di tutti, perché, anche se osiamo sperare che la misericordia di Dio toccherà alla fine tutti, chi si umanizza si salva.



Parliamo della laicità. Come vede lei il dibattito su credenti e laici nel nostro Paese?

I cristiani, senza neppure teorizzare il concetto di "laicità" hanno in realtà vissuto in un regime di laicità nei primi tre secoli dell’era cristiana. Nella lettera a Diogneto (110-160 d.C. circa) si dice che l’unica differenza tra i cristiani e i pagani è che i primi, a differenza dei secondi, condividono con i poveri e tra loro i beni, non condividono i letti, cioé sono fedeli al loro coniuge, e non espongono, cioè non uccidono, i figli, soprattutto quelli nati malformi o con difetti fisici. Per tutto il resto i cristiani condividevano in toto l’etica romana e quella greca, che sono etiche molto raffinate.

I primi cristiani avevano consapevolezza infatti che l’uomo, creato a immagine di Dio, riesce con la forza della ragione a distinguere il bene dal male. Anche senza Dio, l’uomo ha elaborato dunque bellissime etiche, come ad esempio, per venire a tempi più vicini a noi, il buddhismo. Il Cristianesimo si differenzia dalle altre etiche perché i seguaci di Cristo amano gli ultimi - anche il nemico, cosa che neanche l’ebraismo ammette -, condividono i beni con i poveri e sono fedeli al marito o alla moglie. Questa grande novità è stata portata da Cristo. Per il resto, ripeto, i primi cristiani assunsero l’etica comune, essendo leali, nonostante le persecuzioni, persino verso lo Stato, del quale osservavano fedelmente tutte le leggi. E solo se l’Imperatore ordinava qualcosa di assolutamente contrario alla fede praticavano quella che noi oggi chiamiamo “obiezione di coscienza”, rifiutandosi, ad esempio, di andare in guerra.

Poi, con l’avvento della religione di Stato nel 313 d.C. sotto l’Imperatore Costantino, lo Stato, a quel punto cristiano, a partire dal 372 d.C. comincia a perseguitare i non cristiani. In 59 anni, insomma, i perseguitati sono diventati persecutori… Sarà solo il Concilio Vaticano II, 16 secoli dopo, a dire che la libertà di coscienza deve essere rispettata da tutti e lo stesso Giovanni Paolo II lo ricordava con una lettera nel 2001 ai vescovi francesi.

Oggi il tema della “laicità positiva”, che non esclude e non ghettizza nel privato i cristiani, e quello della libertà di coscienza sono temi cari a Benedetto XVI e mi sembra la prospettiva giusta. Dobbiamo ringraziare però anche le filosofie laiche, come l’illuminismo, e i suoi derivati, come la Rivoluzione francese, che hanno introdotto nelle società moderne il fondamentale concetto di “libertà di coscienza”.
  • Stefano Stimamiglio intervista padre Enzo Bianchi, priore di Bose
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 10, 2011 8:34 am


  • Uno stile cristiano per stare nel web
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Cari fratelli e sorelle,

in occasione della XLV Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, desidero condividere alcune riflessioni, motivate da un fenomeno caratteristico del nostro tempo: il diffondersi della comunicazione attraverso la rete internet. È sempre più comune la convinzione che, come la rivoluzione industriale produsse un profondo cambiamento nella società attraverso le novità introdotte nel ciclo produttivo e nella vita dei lavoratori, così oggi la profonda trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni guida il flusso di grandi mutamenti culturali e sociali. Le nuove tecnologie non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte ad una vasta trasformazione culturale. Con tale modo di diffondere informazioni e conoscenze, sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione.

Si prospettano traguardi fino a qualche tempo fa impensabili, che suscitano stupore per le possibilità offerte dai nuovi mezzi e, al tempo stesso, impongono in modo sempre più pressante una seria riflessione sul senso della comunicazione nell’era digitale. Ciò è particolarmente evidente quando ci si confronta con le straordinarie potenzialità della rete internet e con la complessità delle sue applicazioni. Come ogni altro frutto dell’ingegno umano, le nuove tecnologie della comunicazione chiedono di essere poste al servizio del bene integrale della persona e dell’umanità intera. Se usate saggiamente, esse possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano.

Nel mondo digitale, trasmettere informazioni significa sempre più spesso immetterle in una rete sociale, dove la conoscenza viene condivisa nell’ambito di scambi personali. La chiara distinzione tra il produttore e il consumatore dell’informazione viene relativizzata e la comunicazione vorrebbe essere non solo uno scambio di dati, ma sempre più anche condivisione. Questa dinamica ha contribuito ad una rinnovata valutazione del comunicare, considerato anzitutto come dialogo, scambio, solidarietà e creazione di relazioni positive. D’altro canto, ciò si scontra con alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell’interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell’immagine di sé, che può indulgere all’autocompiacimento.

Soprattutto i giovani stanno vivendo questo cambiamento della comunicazione, con tutte le ansie, le contraddizioni e la creatività proprie di coloro che si aprono con entusiasmo e curiosità alle nuove esperienze della vita. Il coinvolgimento sempre maggiore nella pubblica arena digitale, quella creata dai cosiddetti social network, conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere. La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione ad evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo, o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di "amicizie", ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio "profilo" pubblico.

Le nuove tecnologie permettono alle persone di incontrarsi oltre i confini dello spazio e delle stesse culture, inaugurando così un intero nuovo mondo di potenziali amicizie. Questa è una grande opportunità, ma comporta anche una maggiore attenzione e una presa di coscienza rispetto ai possibili rischi. Chi è il mio "prossimo" in questo nuovo mondo? Esiste il pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella nostra vita quotidiana ordinaria? Esiste il rischio di essere più distratti, perché la nostra attenzione è frammentata e assorta in un mondo "differente" rispetto a quello in cui viviamo? Abbiamo tempo di riflettere criticamente sulle nostre scelte e di alimentare rapporti umani che siano veramente profondi e duraturi? E’ importante ricordare sempre che il contatto virtuale non può e non deve sostituire il contatto umano diretto con le persone a tutti i livelli della nostra vita.

Anche nell’era digitale, ciascuno è posto di fronte alla necessità di essere persona autentica e riflessiva. Del resto, le dinamiche proprie dei social network mostrano che una persona è sempre coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali. Ne consegue che esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro. Comunicare il Vangelo attraverso i nuovi media significa non solo inserire contenuti dichiaratamente religiosi sulle piattaforme dei diversi mezzi, ma anche testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita. Del resto, anche nel mondo digitale non vi può essere annuncio di un messaggio senza una coerente testimonianza da parte di chi annuncia. Nei nuovi contesti e con le nuove forme di espressione, il cristiano è ancora una volta chiamato ad offrire una risposta a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui (cfr 1Pt 3,15).

L’impegno per una testimonianza al Vangelo nell’era digitale richiede a tutti di essere particolarmente attenti agli aspetti di questo messaggio che possono sfidare alcune delle logiche tipiche del web. Anzitutto dobbiamo essere consapevoli che la verità che cerchiamo di condividere non trae il suo valore dalla sua "popolarità" o dalla quantità di attenzione che riceve. Dobbiamo farla conoscere nella sua integrità, piuttosto che cercare di renderla accettabile, magari "annacquandola". Deve diventare alimento quotidiano e non attrazione di un momento. La verità del Vangelo non è qualcosa che possa essere oggetto di consumo, o di fruizione superficiale, ma è un dono che chiede una libera risposta. Essa, pur proclamata nello spazio virtuale della rete, esige sempre di incarnarsi nel mondo reale e in rapporto ai volti concreti dei fratelli e delle sorelle con cui condividiamo la vita quotidiana. Per questo rimangono sempre fondamentali le relazioni umane dirette nella trasmissione della fede!

Vorrei invitare, comunque, i cristiani ad unirsi con fiducia e con consapevole e responsabile creatività nella rete di rapporti che l’era digitale ha reso possibile. Non semplicemente per soddisfare il desiderio di essere presenti, ma perché questa rete è parte integrante della vita umana. II web sta contribuendo allo sviluppo di nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa. Anche in questo campo siamo chiamati ad annunciare la nostra fede che Cristo è Dio, il Salvatore dell’uomo e della storia, Colui nel quale tutte le cose raggiungono il loro compimento (cfr Ef 1,10). La proclamazione del Vangelo richiede una forma rispettosa e discreta di comunicazione, che stimola il cuore e muove la coscienza; una forma che richiama lo stile di Gesù risorto quando si fece compagno nel cammino dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35), i quali furono condotti gradualmente alla comprensione del mistero mediante il suo farsi vicino, il suo dialogare con loro, il far emergere con delicatezza ciò che c’era nel loro cuore.

La verità che è Cristo, in ultima analisi, è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunione e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai vari social network. I credenti, testimoniando le loro più profonde convinzioni, offrono un prezioso contributo affinché il web non diventi uno strumento che riduce le persone a categorie, che cerca di manipolarle emotivamente o che permette a chi è potente di monopolizzare le opinioni altrui. Al contrario, i credenti incoraggiano tutti a mantenere vive le eterne domande dell'uomo, che testimoniano il suo desiderio di trascendenza e la nostalgia per forme di vita autentica, degna di essere vissuta. È proprio questa tensione spirituale propriamente umana che sta dietro la nostra sete di verità e di comunione e che ci spinge a comunicare con integrità e onestà.

Invito soprattutto i giovani a fare buon uso della loro presenza nell’arena digitale. Rinnovo loro il mio appuntamento alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, la cui preparazione deve molto ai vantaggi delle nuove tecnologie. Per gli operatori della comunicazione invoco da Dio, per intercessione del Patrono san Francesco di Sales, la capacità di svolgere sempre il loro lavoro con grande coscienza e con scrupolosa professionalità, mentre a tutti invio la mia Apostolica Benedizione.
  • Papa Benedetto XVI, 5 giugno 2011 - XLV Giornata delle Comunicazioni Sociali
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab giu 18, 2011 9:58 am


  • Antidoto all’idolatria
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Riflettendo sulla figura e sulle vicende del profeta Elia, ieri il Papa ha affrontato, in particolare, il tema dell’idolatria, dicendo che è un atteggiamento non solo di alcuni antichi, ma anche di diversi uomini contemporanei, credenti e non credenti. Gli idoli degli ultimi due secoli e/o di oggigiorno, sono per esempio, la Razza, il Comunismo, il Nazismo, la Natura, la Scienza, la Politica, ecc., cioè le varie divinità a cui le diverse ideologie costruiscono altari, oppure il piacere, il sesso, la droga, il successo, i soldi...

Ora, poiché Dio non è manipolabile e i suo doni li concede per grazia, il credente talvolta cerca «qualcosa […] che si può gestire con le proprie forze», e si illude di poter «servire a due padroni», laddove invece «all’assoluto di Dio, il credente deve rispondere con un amore assoluto, totale, che impegni tutta la sua vita, le sue forze, il suo cuore».

Quanto al non credente, ha proseguito Benedetto XVI, «dove scompare Dio» spesso «l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato […] i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l’uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano»: si pensi, in particolare, alle dipendenze dalla droga e dal sesso. Insomma, senza generalizzare ma non raramente, è vero ciò che hanno rilevato diversi filosofi e teologi, e tra questi ultimi ciò che ha detto con efficacia Karl Barth, secondo cui «quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli».

E si può connettere questa riflessione del Papa con la questione dell’atto di fede. Infatti, la fede nell’esistenza e nel soccorso di qualcosa di sanante, salvifico e/o felicitante – è in definitiva questo che l’uomo cerca dagli idoli – è connaturale, anche secondo un filosofo come Kant che riteneva impossibile un discorso razionale su ciò che è soprannaturale. In questo senso, persino le culture razionalistiche hanno un sottofondo misterico (per esempio, durante l’Illuminismo si diffondono le sette esoteriche, e durante il Positivismo si diffonde lo spiritismo).

In ogni caso, gli uomini di tutti i tempi, non di rado, cadono appunto nell’idolatria. Così, aveva ragione un acuto pensatore come Chesterton, il quale diceva che il dramma dell’uomo moderno, spesso, non è quello di non credere a nulla, bensì di credere a tutto. Si pensi, in particolare, al gigantesco giro d’affari di maghi, cartomanti, ecc., a cui si rivolgono non solo persone poco istruite, bensì anche professionisti, politici e manager affermati. Insomma, l’uomo contemporaneo non di rado crede a qualcosa di soprannaturale, ma sovente trascura il Dio della Rivelazione.

Parimenti, ognuno ha in fondo il suo dio, un fine ultimo globale della propria esistenza – che a volte cambia nel corso della sua vita – in rapporto a cui organizza la propria condotta. Uno di quelli già menzionati, o altri ancora, o se stesso. Chi dice di non avere mai un fine ultimo e di voler sempre assecondare il suo umore momentaneo, ha in realtà come fine, appunto, il seguire il proprio stato d’animo del momento.

Ovviamente qui non è possibile confrontare questi fini ultimi con il Dio cristiano. Ma è almeno possibile rivolgere un invito affettuoso ai non credenti: cercate di conoscerLo, come fa chi cerca un tesoro senza sapere se esista o no. Non accontentavi della catechesi - necessariamente elementare e stringata - ascoltata da bambini, o della rappresentazione, spesso caricaturale, del Dio cristiano che viene fatta dai media.
  • Giacomo Samek Lodovici
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer giu 22, 2011 9:37 am


  • Discorso del Papa ai giovani di San Marino-Montefeltro
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Cari giovani!

Sono molto contento di essere oggi in mezzo a voi e con voi! Sento tutta la vostra gioia e l’entusiasmo che caratterizzano la vostra età. Saluto e ringrazio il vostro Vescovo, Mons. Luigi Negri, per le cordiali parole di accoglienza, e il vostro amico che si è fatto interprete dei pensieri e dei sentimenti di tutti, e ha formulato alcune questioni molto serie e importanti. Spero che nel corso di questa mia esposizione si trovino anche gli elementi per trovare le risposte a queste domande. Saluto con affetto i Sacerdoti, le Suore, gli animatori che condividono con voi il cammino della fede e dell’amicizia; e naturalmente anche i vostri genitori, che gioiscono nel vedervi crescere forti nel bene.

Il nostro incontro qui a Pennabilli, davanti a questa Cattedrale, cuore della Diocesi, e in questa Piazza, ci rimanda con il pensiero ai numerosi e diversi incontri di Gesù che ci sono raccontati dai Vangeli. Oggi vorrei richiamare il celebre episodio in cui il Signore era in cammino e un tale - un giovane - gli corse incontro e, inginocchiatosi, gli pose questa domanda: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?" (Mc 10,17). Noi forse oggi non diremmo così, ma il senso della domanda è proprio: cosa devo fare, come devo vivere per vivere realmente, per trovare la vita. Quindi dentro questo interrogativo possiamo vedere racchiusa l’ampia e variegata esperienza umana che si apre alla ricerca del significato, del senso profondo della vita: come vivere, perché vivere.

La "vita eterna", infatti, alla quale fa riferimento quel giovane del Vangelo non indica solamente la vita dopo la morte, non vuol sapere soltanto come arrivo al cielo. Vuol sapere: come devo vivere adesso per avere già la vita che può essere poi anche eterna. Quindi in questa domanda questo giovane manifesta l’esigenza che l’esistenza quotidiana trovi senso, trovi pienezza, trovi verità. L’uomo non può vivere senza questa ricerca della verità su se stesso - che cosa sono io, per che cosa devo vivere - verità che spinga ad aprire l’orizzonte e ad andare al di là di ciò che è materiale, non per fuggire dalla realtà, ma per viverla in modo ancora più vero, più ricco di senso e di speranza, e non solo nella superficialità. E penso che questa – e l’ho visto e sentito nelle parole del vostro amico – sia anche la vostra esperienza.

I grandi interrogativi che portiamo dentro di noi rimangono sempre, rinascono sempre: chi siamo?, da dove veniamo?, per chi viviamo? E queste questioni sono il segno più alto della trascendenza dell’essere umano e della capacità che abbiamo di non fermarci alla superficie delle cose. Ed è proprio guardando in noi stessi con verità, con sincerità e con coraggio che intuiamo la bellezza, ma anche la precarietà della vita e sentiamo un’insoddisfazione, un’inquietudine che nessuna cosa concreta riesce a colmare. Alla fine tutte le promesse si dimostrano spesso insufficienti.

Cari amici, vi invito a prendere coscienza di questa sana e positiva inquietudine, a non aver paura di porvi le domande fondamentali sul senso e sul valore della vita. Non fermatevi alle risposte parziali, immediate, certamente più facili al momento e più comode, che possono dare qualche momento di felicità, di esaltazione, di ebbrezza, ma che non vi portano alla vera gioia di vivere, quella che nasce da chi costruisce – come dice Gesù – non sulla sabbia, ma sulla solida roccia. Imparate allora a riflettere, a leggere in modo non superficiale, ma in profondità la vostra esperienza umana: scoprirete, con meraviglia e con gioia, che il vostro cuore è una finestra aperta sull’infinito! Questa è la grandezza dell'uomo e anche la sua difficoltà.

Una delle illusioni prodotte nel corso della storia è stata quella di pensare che il progresso tecnico-scientifico, in modo assoluto, avrebbe potuto dare risposte e soluzioni a tutti i problemi dell’umanità. E vediamo che non è così. In realtà, anche se ciò fosse stato possibile, nulla e nessuno avrebbe potuto cancellare le domande più profonde sul significato della vita e della morte, sul significato della sofferenza, di tutto, perché queste domande sono scritte nell’animo umano, nel nostro cuore, e oltrepassano la sfera dei bisogni. L’uomo, anche nell’era del progresso scientifico e tecnologico - che ci ha dato tanto - rimane un essere che desidera di più, più che la comodità e il benessere, rimane un essere aperto alla verità intera della sua esistenza, che non può fermarsi alle cose materiali, ma si apre ad un orizzonte molto più ampio. Tutto questo voi lo sperimentate continuamente ogni volta che vi domandate: ma perché? Quando contemplate un tramonto, o una musica muove in voi il cuore e la mente; quando provate che cosa vuol dire amare veramente; quando sentite forte il senso della giustizia e della verità, e quando sentite anche la mancanza di giustizia, di verità e di felicità.

Cari giovani, l’esperienza umana è una realtà che ci accomuna tutti, ma ad essa si possono dare diversi livelli di significato. Ed è qui che si decide in che modo orientare la propria vita e si sceglie a chi affidarla, a chi affidarsi. Il rischio è sempre quello di rimanere imprigionati nel mondo delle cose, dell'immediato, del relativo, dell’utile, perdendo la sensibilità per ciò che si riferisce alla nostra dimensione spirituale. Non si tratta affatto di disprezzare l’uso della ragione o di rigettare il progresso scientifico, tutt’altro; si tratta piuttosto di capire che ciascuno di noi non è fatto solo di una dimensione "orizzontale", ma comprende anche quella "verticale". I dati scientifici e gli strumenti tecnologici non possono sostituirsi al mondo della vita, agli orizzonti di significato e di libertà, alla ricchezza delle relazioni di amicizia e di amore.

Cari giovani, è proprio nell’apertura alla verità intera di noi, di noi stessi e del mondo che scorgiamo l’iniziativa di Dio nei nostri confronti. Egli viene incontro ad ogni uomo e gli fa conoscere il mistero del suo amore. Nel Signore Gesù, che è morto e risorto per noi e ci ha donato lo Spirito Santo, siamo addirittura resi partecipi della vita stessa di Dio, apparteniamo alla famiglia di Dio. In Lui, in Cristo, potete trovare le risposte alle domande che accompagnano il vostro cammino, non in modo superficiale, facile, ma camminando con Gesù, vivendo con Gesù. L’incontro con Cristo non si risolve nell’adesione ad una dottrina, ad una filosofia, ma ciò che Lui vi propone è di condividere la sua stessa vita e così imparare a vivere, imparare che cosa è l'uomo, che cosa sono io. A quel giovane, che Gli aveva chiesto che cosa fare per entrare nella vita eterna, cioè per vivere veramente, Gesù risponde, invitandolo a distaccarsi dai suoi beni e aggiunge: "Vieni! Seguimi!" (Mc 10,21). La parola di Cristo mostra che la vostra vita trova significato nel mistero di Dio, che è Amore: un Amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità! Che cosa sarebbe la vostra vita senza questo amore? Dio si prende cura dell’uomo dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza! Cristo stesso, che è andato nelle profondità della morte ed è risorto, è la speranza in persona, è la Parola definitiva pronunciata sulla nostra storia, è una parola positiva.

Non temete di affrontare le situazioni difficili, i momenti di crisi, le prove della vita, perché il Signore vi accompagna, è con voi! Vi incoraggio a crescere nell’amicizia con Lui attraverso la lettura frequente del Vangelo e di tutta la Sacra Scrittura, la partecipazione fedele all’Eucaristia come incontro personale con Cristo, l’impegno all’interno della comunità ecclesiale, il cammino con una valida guida spirituale. Trasformati dallo Spirito Santo potrete sperimentare l’autentica libertà, che è tale quando è orientata al bene. In questo modo la vostra vita, animata da una continua ricerca del volto del Signore e dalla volontà sincera di donare voi stessi, sarà per tanti vostri coetanei un segno, un richiamo eloquente a far sì che il desiderio di pienezza che sta in tutti noi si realizzi finalmente nell’incontro con il Signore Gesù.

Lasciate che il mistero di Cristo illumini tutta la vostra persona! Allora potrete portare nei diversi ambienti quella novità che può cambiare le relazioni, le istituzioni, le strutture, per costruire un mondo più giusto e solidale, animato dalla ricerca del bene comune. Non cedete a logiche individualistiche ed egoistiche! Vi conforti la testimonianza di tanti giovani che hanno raggiunto la meta della santità: pensate a santa Teresa di Gesù Bambino, san Domenico Savio, santa Maria Goretti, il beato Pier Giorgio Frassati, il beato Alberto Marvelli – che è di questa terra! – e tanti altri, a noi sconosciuti, ma che hanno vissuto il loro tempo nella luce e nella forza del Vangelo, e hanno trovato la risposta: come vivere, che cosa devo fare per vivere.

A conclusione di questo incontro, voglio affidare ciascuno di voi alla Vergine Maria, Madre della Chiesa. Come Lei, possiate pronunciare e rinnovare il vostro "sì" e magnificare sempre il Signore con la vostra vita, perché Lui vi dona parole di vita eterna! Coraggio allora cari giovani e care giovani, nel vostro cammino di fede e di vita cristiana anche io vi sono sempre vicino e vi accompagno con la mia Benedizione. Grazie per la vostra attenzione!
  • Benedetto XVI
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 01, 2011 9:09 am


  • Il sacerdozio di Benedetto XVI
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Era dal 1897, durante il lungo pontificato di Leone XIII, che un Papa non celebrava il sessantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale. E Benedetto XVI lo ha fatto, varcando questo traguardo non abituale, nella festa dei santi Pietro e Paolo - gli apostoli patroni della Roma felix cantata dai pellegrini medievali e poi dalla liturgia - in una splendida giornata d'estate. Proprio come quella del 29 giugno 1951 a Frisinga, quando il venerando cardinale Michael von Faulhaber impose le mani sul capo di Joseph Ratzinger, del fratello maggiore Georg e di altri 42 loro compagni.

Tutti quei giovani, eccetto uno, erano più anziani del ventiquattrenne Joseph: la guerra aveva rallentato il corso dei loro studi nel seminario, trasformato in lazzaretto. E con il Papa, presente il fratello, hanno concelebrato tre dei nuovi sacerdoti di allora: Fritz Zimmermann, Bernhard Schweiger e Rupert Berger, che come i due Ratzinger disse la prima messa a Traunstein l'8 luglio successivo. Altri, per l'età, non sono potuti venire, mentre la maggior parte degli amici di quel giorno vive nella comunione dei santi.

E proprio sull'amicizia – l'amicizia con Dio, l'amicizia cristiana, l'amicizia con ogni persona umana - Benedetto XVI ha modulato la sua omelia, una meditazione profonda sul sacerdozio rivolta a ogni fedele e a chiunque voglia ascoltare. Aprendo il cuore alle parole di un uomo che ha dedicato e dedica ogni giorno della sua vita a scoprire la grandezza dell'amore di Dio e a cercare sempre più la sua amicizia. Per andare avanti, oltre "i confini dell'ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio". Il Dio rivelatosi definitivamente in Gesù di Nazaret, che è "amico degli uomini" e vuole dai suoi discepoli un frutto che rimanga: l'amore, che si può seminare nelle anime.

È allora provvidenziale che questo sessantesimo anniversario del sacerdozio di Benedetto XVI, celebrato in modo così impegnativo, cada negli stessi giorni in cui il quotidiano della Santa Sede compie un secolo e mezzo. Indicando al giornale che la strada è quella di "seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo".
  • Gian Maria Vian
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 08, 2011 8:45 am


  • Può esistere una guerra giusta?
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È doveroso fare missioni di pace in zone di conflitto. Ma solo per creare condizioni di libertà, giustizia e riconciliazione. Se questo è il fine, bisogna fare attenzione al modo e ai mezzi. Tali missioni sono spesso un modo ipocrita per mantenere vivo un conflitto a spese altrui. Così si tengono in mano una nazione e le sue risorse, si sperimentano e vendono armi... Armamenti e soldati sono la spesa maggiore di ogni Stato, a detrimento della nazione, privata di risorse necessarie per servizi utili.

La guerra, sommo male, è contro il comandamento fondamentale: «Non uccidere». Dio vuole pace tra i suoi figli. Con la sua croce Gesù è venuto a distruggere «in se stesso l’inimicizia»: «Egli è la nostra pace» (Efesini 2,16.14). Il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 2307-2317) dice anche: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». Questo però a condizione che non ci sia altro mezzo, che si concluda in fretta e che ripari l’ingiustizia senza crearne di peggiori.

L’espressione «guerra giusta» è una contraddizione. Ogni guerra nasce da ingiustizie e ne genera altre. Per questa va evitata in tutti i modi. La seguente metafora mostra quanto è turpe e stupida la «guerra giusta»: «Come un eunuco che vuol deflorare una ragazza, così chi vuol render giustizia con la violenza» (Siracide 20,4).

L’accumulo di armi non dà sicurezza. Ciò che una volta poteva essere un deterrente, ora è un detonatore: ci può far saltare per aria tutti. Noi oggi siamo in grado di distruggere il mondo più e più volte. Ognuno sta su una polveriera collegata a tutte le altre. Un pazzo può provocare la scintilla che può bruciare tutti. È vero, bisogna stare attenti agli «Stati canaglia»: potrebbero usare bombe atomiche. Peccato che per ora le abbiano usate solo quelli che hanno inventato questa espressione applicandola ad altri, normalmente armati (anche) da loro.

«Se vuoi la pace, prepara la guerra»: è la più grande menzogna. Guerra genera guerra, non pace.
  • Silvano Fausti
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 15, 2011 8:30 am


  • La vittoria di Ippocrate
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Il disegno di legge sul fine vita e sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), approvato dalla Camera, sta suscitando polemiche vivacissime e assolutamente legittime, se non per i toni, spesso deplorevoli, che stanno assumendo. Che però da parte di alcuni si continui a lamentare che questo testo violi il doveroso rispetto che si deve all’autonomia della volontà dei pazienti lascia davvero meravigliati. Così come desta meraviglia sentir contrapporre al testo del disegno di legge italiano quello della Convenzione europea di bioetica (o Convenzione di Oviedo), quando contrapposizione non c’è sotto alcun profilo. Oviedo si guarda bene dall’auspicare un’obbligatorietà per il medico di applicare le Dat, ma si limita a dire che esse dovranno «essere prese in considerazione».

Esattamente quello che dice il disegno di legge votato a Montecitorio, che prevede addirittura, per favorire la loro esatta acquisizione da parte dei medici, l’istituzione di un registro nazionale consultabile via internet. Definire «pomposa» tale norma, come qualcuno ha fatto, significa non rendersi conto che questo è appunto il modo migliore per far prendere sul serio le Dat, senza giungere all’estremo – rischiosissimo – di renderle giuridicamente «vincolanti».

Su questo punto della vincolatività, da tempo su 'Avvenire' ribadiamo concetti molto semplici, su cui nessuno dei critici della legge ha però la compiacenza di riflettere (magari per criticarli). Anche per questo mi spiace registrare che alcuni critici della legge lamentino l’assenza in materia di una «discussione ampia e sincera» (con chi si può discutere, quando l’interlocutore volta la faccia da un’altra parte e si tappa le orecchie?). Ci sono ottime ragioni che inducono a non rendere vincolanti le Dichiarazioni, come bene venne spiegato a suo tempo dal Comitato nazionale per la bioetica, quando – per evitare ogni equivoco – all’unanimità preferì appunto l’espressione «Dichiarazioni » anziché «Direttive anticipate».

Riassumiamo la questione in due premesse e in una conclusione. Prima premessa: le Dat non sono, per principio, «attuali»; vengono in genere redatte diversi anni prima della loro eventuale utilizzazione. Seconda premessa: nessuno può avere «a priori» la certezza della capacità di in­tendere e di volere del sottoscrittore nel momento della sottoscrizione delle Dichiarazioni o di una sua adeguata informazione, soprattutto per quel che concerne l’evoluzione delle sue possibili patologie e delle relative pratiche medico-terapeutiche.

Conclusione: è quindi ragionevole che le Dat non siano vincolanti, ma che il medico che le acquisisce possa (eventualmente!) disattenderle, motivando adeguatamente la sua decisione. È in questo modo che si rispetta in concreto la persona umana (articolo 32, 2° comma, della Costituzione), evitando il rischio altissimo dell’abbandono terapeutico, cui potrebbero andar incontro (nel nome di un astratto rispetto della loro «insindacabile autonomia»!) soggetti che potrebbero essere molto anziani, fragili, colpiti da una varietà di gravi patologie, in stato di necessità economica o privi di sostegni familiari e la cui sottoscrizione delle Dat potrebbe essere priva di credibilità o comunque non calibrata sulla loro situazione sanitaria reale. Un’ultima osservazione.

Smettiamola di invocare, a proposito della legge sulle Dat, il principio supremo di laicità dello Stato (sul quale concordano tutti, anche e in primo luogo i cattolici). Abbiamo ripetuto infinite volte – senza tema di essere smentiti – che questa legge è ispirata non alla dottrina 'cattolica', ma ai principi della medicina ippocratica (risalenti al quarto secolo avanti Cristo), tra i quali è prioritario quello del rispetto per la vita. La medicina ippocratica non impone la difesa della vita «a ogni costo» e non ne fa un principio dogmatico, ottuso e indiscutibile: è perfettamente coerente con i suoi principi la rinuncia all’accanimento terapeutico, anche quando da tale rinuncia potesse conseguire un’accelerazione del processo del morire.

Ciò che non è coerente con la medicina ippocratica è l’eutanasia. Che tra coloro che criticano la legge sulle Dat ci siano in prima fila, e con particolare virulenza, espliciti fautori della 'dolce morte' dovrebbe dare molto a pensare a quale sia l’autentico portato bioetico di questa legge.
  • Francesco D'Agostino
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 22, 2011 10:20 am


  • L’imprevedibile richiamo del confessionale
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È domenica. La giornata si preannuncia calda e luminosa. È ancora presto, sono da solo in chiesa. Tra poco, allegri, chiassosi arriveranno i bambini per la Messa. Non l’ho vista entrare, sbuca all’improvviso una donna giovane e bella. Chiede gentilmente di confessarsi. Si inginocchia ma, per lungo tempo, rimane silenziosa. Poi, lentamente, inizia a piangere senza singhiozzare. Abbasso la testa, rispettoso. Sento che il mistero avvolge entrambi quando la signora inizia a balbettare: «Sono una prostituta... mi stavo recando a lavorare. Il mio posto è al di là della strada provinciale. Siamo in tante, per lo più straniere. Io sono italiana.

Non so perché mi sono fermata... forse la campana. Lei non può immaginare il dramma che si nasconde dietro quelle donnine falsamente allegre...». Ancora lacrime. Tante. Un fiume da riempire un calice. C’è in ogni uomo e in ogni donna una dignità, che nemmeno il peccato più oscuro riesce a cancellare. Gli rimane appiccicata addosso come la sua stessa pelle. Don Mazzolari scrive che «basta essere uomo per essere un povero uomo».

È vero anche il contrario: basta essere uomo per essere un grande uomo. La signora mi racconta la sua storia. La vita con lei è stata ingiusta e prepotente, le ha presentato un conto salatissimo per debiti mai contratti. La via di Emmaus è affollata di gente delusa e amareggiata. Occorre, però, tenere gli occhi bene aperti, perché il Risorto, discreto, silenzioso, si aggira nei paraggi. Con passo silenzioso ti viene accanto, ti tende la mano, ti tiene compagnia.

Ti svela il mistero della vita e spezza con te il pane del coraggio e della gioia. Sulla strada che scende verso Gerico, invece, insidiosi, si nascondono i briganti. Col tempo cambiano il vestito e il nome, ma il loro intento è sempre quello di poterti derubare. Anche qui, però, non mancano mai samaritani buoni e misericordiosi pronti a risollevarti dalla polvere. Una donna provata e scoraggiata è inginocchiata davanti a un prete. Una giovane che tanti hanno cercato per strappare alla sua carne un piacere avvilente e proibito. Essa piange il suo peccato sperando solo di uscire dall’inferno che la imprigiona e che qualche ingenuo – o furbo? – vorrebbe legalizzare. Nessuna donna – tranne casi di tutt’altra natura – sceglie di umiliarsi ai bordi di una strada, alla mercé di sconosciuti viziosi che bramano il suo corpo e ammazzano la sua anima. Forse tutte, inconsciamente, aspettano qualcuno che venga a liberarle dalla infernale bolgia. Il tempo scorre.

La chiesa comincia a riempirsi di ragazzi. Sono tanti e fanno confusione. La signora ne approfitta per asciugar le lacrime e prendere congedo. La benedico. Rimane per la Messa. Ripenso al sacramento della confessione, un vero tesoro, a volte non compreso. È, invece, il momento di un incontro unico e misterioso tra un cuore che si mette a nudo di fronte a un altro cuore. Cor ad cor loquitor, il cuore parla al cuore. Al cuore del Maestro certamente, ma anche a quello di chi, indegnamente, lo rappresenta. È, molte volte, il momento che vede ritornare a galla fratelli e sorelle sprofondati negli abissi del peccato e della disperazione. Si confessano gli sposi felici alla vigilia delle nozze e i moribondi prima di inabissarsi nel Mistero. Si confessavano i nostri soldati nelle trincee fetide e ghiacciate. Si sono confessati i santi. Si confessa il Papa.

Una sorella, triste e scoraggiata, domenica si è gettata ai piedi del suo Signore. Forse temeva di essere giudicata, allontanata. Come alla donna del Vangelo, invece, Gesù, fissandola negli occhi, le ha sussurrato dolcemente: «Figlia, i tuoi peccati sono stati perdonati. Va e non peccare più!».
  • Maurizio Patriciello
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 28, 2011 9:55 am


  • Quando cede l’argine
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Fino a un momento prima di arrivare a quel semaforo, il ragionier V.P. credeva d’essere un uomo tranquillo. Settantuno anni, dirigente in pensione, nessun precedente penale. Che cosa, in un pomeriggio di luglio, ha scatenato in lui una furia tale da spingerlo a inseguire e travolgere un motociclista, uccidendolo, solo per una lite su una precedenza non data? Le testimonianze concordano: volontariamente l’auto è passata sopra il ragazzo, già a terra. E tutto è successo in pochi istanti: una frenata, un insulto, uno sputo in faccia al vecchio; e una rabbia che monta improvvisa, feroce, come dal nulla; e ora è lei che tiene il volante, e preme sull’acceleratore, mentre gli occhi sono come accecati. Poi, è solo un giovane padre di una bambina di tre anni morto; e un uomo inebetito che dice: «Non volevo».

Cosa è stato dunque a Milano in via Andrea Doria, o a Roma, due anni fa, quando un padre di famiglia uccise per una banale lite su un parcheggio, o a Milano, ancora, l’autunno scorso, dove un tassista venne pestato a morte per avere investito un cane?

Restiamo attoniti davanti a queste tragedie, perché accadono fra gente fino a quel giorno inoffensiva. Per un nulla: una parola come ne vengono dette tante, senza che poi ne muoia nessuno. Sembra però che queste storie si ripetano con crescente frequenza. E senza arrivare al dramma, quante volte capita di assistere, alla cassa di un supermercato o in un ufficio pubblico, all’esplodere di una lite spropositata, se solo qualcuno non rispetta la fila. È come se un fondo di frustrazione, di rancore, albergasse in molti, benché a volte trattenuto dall’educazione; ma se improvvisamente qualcuno, con una parola o un gesto, abbatte questa sottile barriera, allora la rabbia viene fuori di getto, come dalla crepa di una diga. Come paglia, a cui venga avvicinato un cerino: e divampano le fiamme, dove tutto sembrava mansueto.

Cos’è?, ci domandiamo stupefatti. E da dove viene, questa cosa oscura che insorge e acceca uomini tranquilli? Guardiamoci: per la strada, sull’autobus, in una sala d’attesa. Non c’è nell’aria, fra molti di noi, come un’amarezza muta, un confuso malanimo verso tutti e nessuno, che appunto solo la buona educazione trattiene negli argini? Come una delusione, come se la vita non avesse mantenuto le promesse, e si fosse stati ingannati; come se gli "altri", attorno, da chi ci governa al capo ufficio, al vicino rumoroso, fossero insieme i responsabili di un’oppressione che schiaccia. E in questa frustrazione un rancore silenzioso si allarga. In mille restano arrabbiati, ma civili. Uno, a un semaforo, insultato, scatta; è un attimo, è il cerino nella paglia, la provocazione che infiamma quel fondo contenuto di rabbia.

Perché, però, sempre più spesso? Siamo forse più poveri o infelici di cinquant’anni fa? No. Siamo però molto meno educati a riconoscere, dentro l’amarezza per l’egoismo, l’indifferenza, la solitudine che avvertiamo attorno, la nostra personale responsabilità, accanto a quella degli altri. Nelle parole su un tram di Milano o di Roma cogli la stanchezza: i potenti rubano, le tasse opprimono, i medici sbagliano, i figli abbandonano. Mai però l’eco di una coscienza, in cui si riconosca che "noi" non siamo innocenti; che il male non è solo quello degli altri, ma anche il nostro. È la dimenticanza di quella vecchia abitudine che era l’esame di coscienza, la sera; l’ora in cui dire: «Anche io, perdonami».

Se il male è solo quello fatto dagli altri, il rancore sotterraneamente si allarga e preme. I più rimangono educati e equilibrati. Ma è un argine che può cedere. D’improvviso, a un semaforo. Un sorpasso, un anziano signore perbene sulla sua auto, due parole grosse. Come dal nulla, l’ira che sale, onda improvvisa da un mare piatto; e corre e acceca, e scoppia in una violenza antica.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ago 30, 2011 2:06 pm

  • La famiglia, grembo e scuola di vita
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Carissimi Fratelli e Sorelle nel Signore

1. Con gioia siamo saliti al nostro santuario dopo il tradizionale pellegrinaggio a piedi. É’ in sé una piccola cosa, ma ha un grande valore simbolico: ci ricorda che la vita terrena è un andare verso il Cielo. Se vivessimo veramente in questo orizzonte, daremmo alle cose il loro giusto peso, ed esse starebbero al loro posto nonostante le lusinghe del mondo. Scopriremmo che prendersi cura dell’anima è più importante che curare l’efficienza del corpo. Ci renderemmo conto che “la sola vera vecchiaia (oggi esorcizzata in tutti i modi) è l’egoismo” (Madeleine Delbrel).

“Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza del cuore” recita il salmo 90. Abbiamo tutti bisogno, a qualunque età, di diventare sapienti, di stare sulla strada della formazione continua, dell’educazione cristiana. Siamo, infatti, tutti insidiati da una cultura che semina menzogne e fa pensare che l’uomo vero è colui che ha potere e denaro, che le regole sono nemiche della libertà, che bisogna lasciarsi guidare dalle sensazioni più che dalla ragione, che il bene morale è ciò che conviene senza sacrificio. É un’aria che corrode il modo di concepire la vita, la famiglia, il lavoro, il senso del dovere e di Dio stesso.

2. I segnali dello smarrimento sono evidenti: chi sono? É giusto essere onesto, sacrificarmi per gli altri, farmi una famiglia, mettere al mondo dei figli? Quale futuro avanza? Come cristiani non possiamo stare a guardare. Ecco perché i Vescovi italiani hanno messo al centro del decennio pastorale l’impegno dell’educazione.

Se parliamo dell’educazione dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, ci chiediamo: a chi tocca questo affascinante e impegnativo compito? In primissimo luogo ai genitori: da che mondo è mondo, sono loro i primi e insostituibili educatori dei figli per diritto naturale. Nessuno si può e si deve sostituire quando essi ci sono. La Chiesa e lo Stato devono affiancarsi ma non sostituirsi in questo diritto-dovere insito nella generazione stessa. Il compito non è facile, non lo è mai stato, tanto meno ai nostri giorni.

Ma la grazia di Dio non manca. Essi devono accendere nei figli l’uomo e il figlio di Dio che è in ciascuno. Sì, perché concepire e dare alla luce una vita, è un “miracolo” di Dio al quale ai genitori è dato di partecipare; ma essi devono anche “dare alla luce” una persona e un cristiano. E questo è un altro miracolo che chiede la forza della grazia e una gestazione lenta, paziente, spesso sofferta, che muta negli anni e che terminerà solo in Cielo. L’educazione è proprio questo: generare l’uomo spirituale e morale, l’uomo del corpo ma anche dell’anima.

3. Vorrei, questa sera, mettere in rilievo un aspetto di fondo. Se pensiamo alla nostra famiglia, sentiamo – in un modo o in un altro - un’onda di calore. Questo calore benefico crescerà in noi quanto più andremo avanti negli anni, anche quando i nostri genitori saranno in Cielo. Forse, anche nelle nostre famiglie ci sono state difficoltà e prove, e non parlo di quelle legate a lavoro, malattie, o altre disagi; parlo delle difficoltà interne. Non sempre tutto è ideale né dei caratteri, né delle situazioni affettive: ciò nonostante, la famiglia ha tenuto duro, ha retto alle inevitabili usure e stanchezze, agli alti e bassi.

E noi, figli di ieri o di oggi, abbiamo intuito che su quella realtà, su quel piccolo nucleo, noi potevamo contare. Sentivamo che, in mezzo alle durezze dell’esistenza, c’era una zona franca, un punto certo nel quale trovare attenzione e ascolto, richiamo e incoraggiamento. Sapevamo che, in quel grembo, qualcuno aveva fiducia in noi nonostante i nostri limiti, errori, insuccessi o paure. Non era un nido dove fuggire dal mondo reale, una bolla virtuale dove ci veniva risparmiata la parola severa, le regole, o dove venivamo messi al riparo dalle difficoltà.

Al contrario! Era un luogo dove si faceva verità su di noi in modo saggio, dove si scopriva il nome giusto delle cose, la distinzione tra bene e male, tra doveri e diritti: un luogo dove l’intreccio di presenza certa e di amore solido ci ricostituiva le forze. E così, dentro a quel grembo esigente e accogliente, abbiamo imparato la fiducia in noi stessi, negli altri, nella vita. Abbiamo imparato a non avere paura delle prove, dei dolori, ma ad affrontarli, a superarli e a portarli con l’aiuto di Dio, dei vivi e dei nostri morti.

4. Quel nucleo generatore – la famiglia – non era però un nucleo dai confini cangianti e dai tempi incerti, che non avrebbe potuto darci sicurezza affettiva. Ma era un nucleo definito e stabile, su cui sapevamo di poter contare come su roccia ferma e affidabile. É questa la vera identità e la missione della famiglia che nel nostro Paese, nonostante tutto, rappresenta ancora un punto di riferimento.

Come sappiamo, esistono tendenze che mirano a snaturare il volto della famiglia, rendendola un soggetto plurimo e ondivago, senza il sigillo oggettivo del matrimonio. Si vuole far accreditare culturalmente situazioni dove i rapporti si possono fare e disfare in nome dell’autenticità dei sentimenti o addirittura del bene dei figli. Ma, ci dobbiamo chiedere: una realtà incerta e variabile può dare sicurezza? E ancora: i figli non hanno forse diritto a qualunque sacrificio pur di tenere salda la coppia e la famiglia? Non è forse questo l’atto di amore e di educazione più grande dei genitori? E anche il loro preciso dovere? E laddove questo accade, non è nata un’unione più forte e matura, e anche più bella e felice? E i figli non ne hanno forse giovato per la loro educazione?

Per questo lo Stato, che di per sé deve difendere e costruire il bene comune, ha il compito grave di salvaguardare e di promuovere il bene primario della famiglia, per cui un uomo e una donna si scelgono nell’amore e si consacrano totalmente e per sempre l’uno all’altra con il vincolo del matrimonio. Ci si sposa per se stessi in forza del proprio amore – certo! - ma anche per la comunità intera, nella quale ognuno – individuo e nucleo – vive con legami virtuosi di reciprocità solidale, e verso la quale ha diritti e doveri. Chi ha responsabilità della cosa pubblica deve saper guardare lontano, alle conseguenze delle proprie decisioni, se non vuole porre premesse disgregative della stabilità futura, sia delle persone che della società.

Cari ragazzi di Genova, si è appena conclusa la Giornata Mondiale della Gioventù, grande intuizione educativa che la Chiesa pone a vostro servizio: mentre ringraziamo il Signore e il Santo Padre Benedetto XVI, ricordate che un giorno, diventati adulti e vecchi, ripenserete alla famiglia che vi ha generati e formati, e vi sentirete investiti da quell’onda calda e benefica che continuerà a darvi coraggio e forza. Il Vangelo del matrimonio e della famiglia è anche tutto questo: grembo fecondo e scuola di umanità e di fede, piccola chiesa che vive nelle case della nostra Città. Su di voi genitori e sui vostri figli, da questo santuario invochiamo la benedizione di Maria Santissima. Sia Lei la celeste Guardiana delle vostre case.
  • Angelo Card. Bagnasco, Arcivescovo di Genova
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Messaggio da miriam bolfissimo » sab set 10, 2011 9:01 am


  • Il vero realismo
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Il mondo sembra implodere, ingoiato nel grande gorgo creato dalle sue stesse contraddizioni, e la Chiesa parla di Eucaristia. Nelle cancellerie, ma anche in tutte le famiglie, si fanno e si rifanno conti che non tornano mai, guardando preoccupati, talora disperati, a un domani prossimo di frigoriferi mezzi vuoti e di bollette difficili e persino impossibili da pagare, e ad Ancona ci viene ricordato di un pane e di un vino che ogni giorno si fanno carne e sangue di un uomo, il Figlio di Dio, e che ci sazieranno per sempre. Agli occhi di chi non crede, e anche di chi magari crede ma se n’è dimenticato, non potrebbe esserci una distanza maggiore tra "realtà" e "fede". Tra quelli che, nel pensiero corrente, sono i "problemi concreti", contrapposti alle "cose di chiesa". Un abisso paradossale. Perfino surreale, per qualcuno.

Surreale? Possibile, se quell’abisso lo si misura sulla frenesia di una vita che ci travolge rubandoci il tempo, fino all’ultimo secondo. Negando ogni spazio al dono del Figlio fatto uomo, relegandolo agli spiccioli residui di un’esistenza vuota di spirito ma piena di tutto, anche nelle agende dei nostri figli di cui, più che genitori, finiamo spesso per essere solo accompagnatori di qua e di là. Vita, insistiamo a chiamarla. Ma la sera, prima di crollare perché anche le ore di sonno si sono ridotte a troppo poche, chi non è assalito dal dubbio?

Ancona, con forza, oggi ci ripete che l’Eucaristia è vita. Vera vita. E ci racconta come essa si declini quotidianamente nei giorni dell’uomo, nel suo agire, nel suo divenire, nel lavoro e nello studio, nel tempo libero, nel gioire e nel soffrire. Non "altro" da noi, ma tutt’uno con nostro destino di figli di Dio. Un messaggio che, per i credenti, è il centro, il tutto a cui tendere, aspirare, la chiave che trasforma l’esistere in vivere. Ma un messaggio che, forse, anche chi si sente lontano dovrebbe provare ad ascoltare. Messaggio che ci parla della "lentezza" di Dio, della sua pazienza infinita per questi suoi figli perennemente irrequieti, del suo rispetto per loro. Ci attende, da sempre, e per sempre è pronto ad aspettarci. Perché Dio non ha fretta, non ci incalza, non offende la nostra libertà. Ci ama, e basta.

Questo ci dice l’Eucaristia, presenza concreta di questo amore infinito. E allora varrebbe davvero la pena, per tutti, di fare un po’ di silenzio per provare a riempirlo dell’amore di Dio. Lasciare, per una volta, fuori dalla porta il frastuono e le affannate rincorse, e fare nostra la sua lentezza, la sua pazienza. Fermarsi. Tornare a pensare. Capiremmo, allora, che quella «nostalgia di Dio» che, come ha detto Papa Ratzinger, attraversa il mondo contemporaneo, è nostalgia vera di cose concrete, di un lavoro fatto per l’uomo e non viceversa, di cene in famiglia a parlare delle nostre, piccole cose, di un gesto d’affetto per quegli amici che non riusciamo più neppure a incontrare, di una carezza ai nostri genitori ormai anziani, di stupori semplici e gioie piccole, di dolori condivisi, di momenti in cui non ci si senta più soli.

Perché questo, alla fine, è il senso dell’Eucaristia, capace di attraversare e riempire le nostre vita, spogliandole di tutto ciò che non serve. Nostalgia di Dio è nostalgia della vita vera, perché l’Eucaristia è vita vera. È i nostri giorni, le nostre ore, il nostro tempo restituito al Signore del tempo, che ogni giorno torna a riempircelo perché noi se ne faccia buon uso. Un invito a guardare in alto per non perdere il contatto col mondo e per trovare e ritrovare la forza e i valori, come ci ha di nuovo invitato a fare mercoledì scorso ad Ancona il segretario generale della Cei, monsignor Crociata, «alle minacce all’umano che lampeggiano sinistre nel nostro tempo». Il Regno di Dio siamo chiamati a costruirlo quaggiù. Surreale? Il contrario, piuttosto.
  • Salvatore Mazza
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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