All'ombra del sicomoro...

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 25, 2010 2:36 pm


  • Chiediamo perdono per i peccati di omissione
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I peccati sono brutte bestie. Di alcuni sentiamo più doloroso il morso, altri, invece, riescono a sfiorare appena la coscienza. La bestemmia, menzogna, la calunnia, fanno inorridire un animo cristiano e civile. Le opere, belle o brutte, sono sotto gli occhi di tutti. È l’omissione il peccato su cui facilmente si sorvola.

Omettere, far finta di non vedere, tralasciare, farsi gli affari propri. In fondo – diciamolo – è scomodo per tutti ritrovarsi impelagati in tristi storie di sangue, di povertà, di camorra. Se hai visto, sei chiamato a farti avanti, a intervenire, a prendere posizioni, a uscire allo scoperto, a sporcare le tue mani.

Sul ciglio della strada qualcuno è stato malmenato e sanguina. Forse ne avrà per poco se il soccorso non arriva. Da lontano sembrava essere solo un sacco di letame, invece è un uomo, un uomo per il quale Gesù Cristo è morto. Ti guarda, implora aiuto. Siete voi due, soli, nessuno vede e tu sei terribilmente libero. Libero di procedere, ingrossando la folla di tanti che non lasceranno tracce, o scendere dal cavallo e calarti nella polvere. Non erano cattivi i due che non vollero vedere. Avevano solo molta fretta. Impegnati in cose religiose, dimenticarono che Dio è presente là dove un suo figlio si lamenta e soffre. Se non ti fermi, questa notte morirà. Certo tu non lo hai ammazzato, ma neanche lo hai salvato. Avevano paura di fare tardi, i due, e in ritardo arrivarono all’appuntamento con la vita. Un altro uomo passa. È un samaritano, uno straniero e parla un’altra lingua, ma che importa? È uno di quelli che hanno conservato la pietà. Si ferma. Deve fermarsi. Se non lo fa sente di non essere più uomo.

Fermati anche tu, fratello, e guarda.

Guarda chi ti cammina accanto e geme.


Poni attenzione a chi in questo tempo triste, perdendo tutto ha creduto di perdere la stessa dignità. Vedi quanti, depressi e addolorati, continuano a decidere di togliere il disturbo? Si lasciano morire in modo atroce, abbandonando i loro cari alla disperazione e ai sensi di colpa. Avevano tante volte chiesto aiuto. Con le parole, le facce tristi e allungate, le barbe incolte. Non sono stati compresi. Altri si incattiviscono e si incamminano per strade senza uscita. Si allontanano. Recuperarli, dopo, sarà sempre più difficile.

Amicizia. Sentimento nobilissimo, non molto frequentato. Amico, chi ti trova è ricco. Fa’ che io possa oggi piangere sulla tua spalla, metterti nel cuore l’angoscia che mi opprime l’animo, lasciami riposare questa notte alla tua ombra. Poi riprenderò le forze, ritroverò il coraggio per continuare a combattere la battaglia della vita. Fallo, e nel giorno senza fine, il Padre ti chiamerà benedetto e ti inviterà a mangiare con Giacobbe e con Abramo, mentre Gesù, indossato ancora una volta il grembiule, passerà a servirti e riasciugherà le lacrime.

Susetta ha già tre figli, ma un quarto ha preso a sussultarle in grembo. Impaurito, il marito, lascia tutto e si rifugia dalla mamma. Susetta è sola, con i suoi dubbi e il suo tormento. Intorno tutto tace, mentre il cuoricino invisibile batte. Unica compassione riservatela: l’aiuto a eliminare l’intruso. Tutto è già pronto mentre intorno tutto ancora tace… La gente compra e vende, organizza le vacanze e vede la partita. Ci avvisano. Corriamo. Siamo poveri anche noi, ma offriamo ciò che abbiamo: un pane, un abbraccio, la promessa di non lasciarla sola. Susetta crede che diciamo il vero, e una nuova vita ancora nascerà. Se femminuccia porterà un nome tanto caro a noi e a papa Benedetto: Fatima.

Domenica, a Messa, nel confessarci in pubblico, chiediamo perdono per i peccati di omissione.
  • Maurizio Patriciello
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 02, 2010 2:18 pm


  • Per non ridurci ad alberi invecchiati
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Nel fondo della crisi più dolorosa Benedetto XVI ha scelto la vigilia della festa di san Pietro e san Paolo, e il luogo della tomba dell’Apostolo delle genti, per rendere pubblico il progetto che da tempo gli stava a cuore: un dicastero per una nuova evangelizzazione delle terre delle «Chiese di antica fondazione». Annuncio ambizioso e umile: giacché afferma a chiare lettere che l’eredità cristiana in molto dell’Occidente è profondamente erosa. Avversata, o semplicemente accantonata in una distratta eclissi di Dio. Occorre, dice il Papa, riportare la fede in Cristo nelle nostre città secolarizzate. C’è un filo lungo e forte di continuità tra questo annuncio e la voce della Chiesa negli ultimi decenni, dalla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI alla «nuova evangelizzazione » evocata per la prima volta da Wojtyla nel 1979 a Nowa Huta, la città operaia polacca che sembrava essere stata costruita per escludere la presenza di Dio fra gli uomini. E dunque la sfida lanciata oggi da Benedetto viene da lontano; da un testimone passato da una mano all’altra, nelle crescente consapevolezza che l’Europa innanzi tutto, e più ampiamente il Primo Mondo, si stanno dimenticando della loro origine, e dunque anche di sé.

Ratzinger stesso, prima della elezione, aveva scritto di una Europa «svuotata dall’interno» proprio nell’ora del suo massimo successo; di un cedimento di forze spirituali portanti, di «una strana mancanza di voglia di futuro», di un oscuro «odio a sé». Il confronto con l’Impero romano al tramonto, aveva ammesso, si poneva. Come se l’Occidente andasse esaurendo il suo slancio vitale. E pensosamente il futuro Papa esaminava le tesi di Oswald Spengler, lo storico secondo il quale ogni civiltà, come un organismo, nasce, invecchia e muore. Ma le ultime righe di quel saggio del cardinale Ratzinger contraddicevano questa inesorabile ipotesi biologica: i cristiani, si diceva, devono concepire se stessi come «minoranza creativa» che riporti all’Occidente la sua eredità.

Era il 2004. Pochi mesi dopo Ratzinger sceglieva come nome quello di Benedetto, il patrono d’Europa. Poi pubblicava la Spe salvi, dove evocava gli Efesini del tempo di Paolo, «senza speranza e senza Dio nel mondo»: e ne parlava come se quella gente di duemila anni fa ci somigliasse. Infine domandava apertamente: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?».

Già: perché il Vangelo o è «comunicazione che produce fatti e cambia la vita», come scrive il Papa, o non è niente. E allora questa Europa e questo Primo Mondo «svuotati», che han paura dei figli e del futuro, tesi al successo o impegnati a non pensare, si palesano come «terra di missione»<. Dove il cristianesimo è nato, cresciuto, dove ha alimentato gli uomini e le città e l’arte e intriso di sé la memoria, occorre di nuovo evangelizzare. Con umile coraggio, ricominciare a annunciare Cristo.

Chi ha amato le parole della Spe salvi, e quella provocatoria domanda – ma, il cristianesimo è ancora speranza che sorregge la vostra vita? – ritrova lo stesso accento nell’annuncio di ieri. La stessa sfida. Credete voi in Cristo? E com’è possibile allora che le vostre case e città siano così spesso smarrite, sfiatate, tristi, e i vostri figli si chiedano cosa fare di sé? La profezia secondo la quale i mondi e le loro culture inevitabilmente decadono e muoiono, come alberi invecchiati, urta con la pretesa cristiana, diversa e unica. Il cristianesimo non finisce; se decade, perfino se sembra avviato a un naufragio, ricomincia. Non è pensiero, filosofia di uomini, che muore come ogni nostra cosa. È altro, è quel Figlio che è nato fra noi, è morto e ha vinto la morte. Per chi ha fede in questo, il cristianesimo «produce fatti e cambia la vita».

Dal sepolcro di Paolo una domanda lanciata a noi della parte 'giusta' del mondo, nelle nostre comode case e pretese e garanzie. Domanda a noi, cui non manca quasi nulla. Davvero questo vi basta? Siete felici, davvero? Ma lo sapete infine, ha detto Benedetto XVI, che «c’è una fame più profonda, che solo Dio può saziare».
  • Marina Corradi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar lug 13, 2010 7:23 am


  • Stavolta a Cuba lo spiraglio c’è
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Tutti coloro che hanno a cuore la libertà e la difesa dei diritti umani da ieri possono riconoscersi in un nuovo eroe, uscito vincitore dal lungo braccio di ferro con una delle più repressive dittature del mondo. Il dissidente cubano Guillermo Fariñas ha vinto la sua battaglia, iniziata 135 giorni fa con il totale digiuno della fame e della sete, per la liberazione dei detenuti politici in stato di malattia. Il regime di Raul Castro ha deciso il rilascio di 52 prigionieri, il doppio dei 26 che chiedeva Fariñas. E il primo a essere sorpreso dell’incredibile risultato è lui, disteso su un lettino dell’ospedale di Santa Clara a un passo dalla morte, ed ora deciso più che mai a vivere e a sperare.

Un risultato reso possibile dalla mediazione della Chiesa cattolica che l’arcivescovo dell’Avana ha saputo condurre con pazienza e fermezza. Sfidando lo scetticismo diffuso anche in vari ambienti della dissidenza cubana, il cardinale Ortega s’era incontrato due mesi fa con il presidente Raul Castro ponendo a tema i diritti umani così poco rispettati nell’isola del socialismo tropicale.

Tra Chiesa e regime prendeva il via «un dialogo di tipo nuovo e diverso», come lo definì lo stesso cardinale dell’Avana, deciso ad ottenere la liberazione di tutti i prigionieri politici, 167 persone secondo i calcoli della Commissione per i diritti umani presieduta dal dissidente Elizardo Sanchez. Il rilascio di 52 detenuti costituisce la più grande amnistia degli ultimi anni, dopo quella concessa da Fidel nel 1998, all’indomani della storica visita di Giovanni Paolo II a Cuba.

Secondo il ministro degli Esteri spagnolo Moratinos, che assieme al cardinale Ortega ha forzato il regime al grande gesto, «è l’inizio di un’era nuova». Ed è comunque significativo che un ministro del governo Zapatero porti avanti un’azione comune con un presule della Chiesa cattolica. Che sia anche l’alba di una nuova epoca di libertà per Cuba resta tutto da vedere. Certamente si tratta di uno spiraglio che può aprire una breccia nel muro dell’ultimo Paese comunista dell’emisfero occidentale.

Una buona notizia che resta avvolta nella tipica ambiguità del regime castrista. Non è chiaro ad esempio se i detenuti che saranno scarcerati (cinque nelle prossime ore, gli altri nei prossimi tre mesi) dovranno obbligatoriamente andare in esilio o potranno scegliere la loro sorte. E anche la tempistica del rilascio sembra rispondere alla vecchia strategia che usa i prigionieri 'di coscienza' come moneta di scambio per ottenere sostanziosi vantaggi politici. C’è da temere che da qui a settembre Raul Castro calibrerà la liberazione dei dissidenti in base alle aperture della comunità internazionale, in particolare dell’Unione Europea, nei riguardi di Cuba. In gioco c’è la modifica della 'Posizione comune', il documento di condanna del regime castrista che la Ue ha adottato nel 1996 e che potrebbe abolire fra tre mesi, quando tornerà a discuterne. La Spagna spinge per una politica della mano tesa e il ministro Moratinos ha già dichiarato che «non c’è più ragione di mantenere quel documento».

Adelante con juicio!

ci viene da dire. Cuba vive una gravissima crisi economica che sta mettendo a dura prova le timide riforme di Raul e provoca ogni giorno sommovimenti all’interno del partito. Ogni apertura di credito esige l’effettiva liberalizzazione politica da parte di un regime sempre più in difficoltà.

Resta valido, oggi più che mai, l’invito rivolto da Giovanni Paolo II nel corso della sua visita all’Avana: «che Cuba si apra al mondo ed il mondo si apra a Cuba!».
  • Luigi Geninazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 16, 2010 8:06 am


  • Quei bambini del lebbrosario…
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É uscito in libreria il mio libro CATERINA. diario di un padre nella tempesta” (Rizzoli). Qua sotto anticipo la prefazione dove spiego il perché mi sono messo in questa impresa...
  • Tante persone – scrivendo al mio blog – hanno continuato, nel corso dei mesi, a chiedermi come sta Caterina e come si evolve la sua situazione. Alcuni mi parlano delle proprie afflizioni, delle prove che devono vivere e mi domandano come riuscire a non restarne schiacciati.

    Ho scritto questo libro per loro e per ringraziare i moltissimi che hanno pregato e pregano per Caterina. Ma oso (sfacciatamente) mendicare ancora preghiere ardenti perché restiamo nella tempesta o – almeno – siamo ancora in cammino. Un cammino lunghissimo, drammatico e pieno di pericoli e incognite.

    Questo libro vuole essere anche un atto di fede in Gesù che ci esorta a pregare come se avessimo già ottenuto ciò che chiediamo. E quindi un atto di ringraziamento.

    Insieme vuole essere il mio ringraziamento a Dio per averci dato Caterina. Lo ringrazio di averla creata e fatta cristiana. Lo ringrazio di averla fatta così buona e bella, anche nell’anima.

    Lo ringrazio dello splendido popolo cristiano in cui è cresciuta e che l’ha sostenuta nella terribile prova presente. A questo popolo chiedo, con gratitudine, ancora preghiere per la nostra principessa…

    Voglio testimoniare infine ciò che ha sostenuto me finora, ciò che mi ha dato conforto, coraggio, forza e anche gioia, pur fra le lacrime. Perché forse può essere un conforto e un abbraccio per altri che si trovano nella prova.

    È un gesto d’amore che voglio fare con Caterina e per Caterina, verso molti sofferenti che sono soli, che non hanno la fortuna di avere tanti amici accanto, come abbiamo noi. Vorrei che ci sentissero vicini.

    La Madonna ci esorta ad aver compassione della sofferenza di tutti come l’abbiamo per il dolore dei nostri figli. Come se fossero tutti nostri figli.

    Tentare di dare anche un soccorso materiale, concreto, è una delle cose che abbiamo deciso di fare, fin dall’inizio del dramma di Caterina.

    Abbiamo aiutato i bambini del lebbrosario di un Paese del Terzo Mondo (non posso essere più preciso perché il regime di quel Paese non tollera che si parli di lebbra: ne pagherebbero le conseguenze i missionari) che ci hanno sciolto il cuore facendoci sapere, tramite un meraviglioso missionario, di aver pregato per Caterina.

    Li sentiamo come parte della nostra famiglia e della nostra compagnia.

    Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se noi facciamo la nostra piccola parte, il possibile, al resto pensa Lei, la Madre dolce e benedetta. Anche con i diritti d’autore di questo libro, dunque, voglio continuare aiutando – finché avrò respiro – altre opere missionarie e di carità per i più poveri e abbandonati.

    Per esempio sosterremo il Meeting Point International (partner dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, AVSI) della splendida Rose Busingye che a Kampala rappresenta una luminosissima speranza per tante donne poverissime e ammalate di Aids.

    Vorremmo aiutare anche – in ricordo di Andrea Aziani (di cui parlo nel libro) – i ragazzi più poveri delle disastrate periferie di Lima in Perù, per metterli in condizione di poter studiare.

    E anche una grande opera come Radio Maria, che sta compiendo un mirabile sforzo missionario in Africa.

    Infine vorremmo aiutare, con adozioni a distanza, le povere ragazzine cristiane del Pakistan, dove essere cristiani condanna a una sorte pesantissima, a volte orrenda.

    Cosicché da un grande male che ha colpito la nostra famiglia, per grazia di Dio, possano nascere un bene e un conforto per tanti che sono sottoposti a dure prove.

    Con Caterina, offriamo le nostre sofferenze per la gloria di Gesù, perché sia visibile la sua misericordia già quaggiù e per la salvezza dell’umanità intera (a cominciare da coloro che odiano).
  • Antonio Socci
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab lug 24, 2010 7:30 am


  • Sono nostri quei figli che dicono no alla mafia dei padri
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Ci sono figli che dicono no al proprio padre, pubblicamente, e di cui ogni padre dovrebbe essere orgoglioso. Francesco, Alessandro e Dario sono i figli dell’architetto Pino Sucameli, dirigente dell’Ufficio tecnico comunale di Mazara del Vallo fino al 2007, quando viene accusato di aver favorito la latitanza di alcuni boss, di traffico internazionale di stupefacenti e coinvolto nell’inchiesta sull’eolico, attualmente in carcere.

Nel diciottesimo anniversario della morte di Borsellino, Alessandro e Dario hanno scritto una lettera al quotidiano La Sicilia. Ricordano di essere figli di un imputato per mafia e rendono onore a Borsellino, «testimoniando la nostra indignazione per lo scempio che del nostro nome ha fatto nostro padre e chiedendo scusa a quanti sono stati direttamente o indirettamente colpiti dalla sua azione criminosa». Ci sono 'figli' che il loro 'padre' ricorda con ammirazione e riconoscenza, ma sì, con affetto.

Ieri, durante i funerali di Mario Bignone, capo della Catturandi di Palermo, nella Cattedrale la vedova Giovanna ha letto una lettera del marito «ai suoi ragazzi» della Catturandi. «Ragazzi», li chiama, anche se sono giovani uomini. Li saluta, li ringrazia, li ricorda assieme ai «ragazzi di Addiopizzo e Liberofuturo, che sono il riscatto della nostra terra e la rivincita di Palermo».

Ci sono figli che oggi è bello pensare figli nostri, tutti quanti. La meglio gioventù che ha bisogno di essere incoraggiata e non scoraggiata, sostenuta e non ignorata. Neppure travolta da una colata di retorica e poi dimenticata, ma accompagnata giorno dopo giorno. Perché non è facile essere figli che rompono con la propria cattiva famiglia, cattiva ma pur sempre famiglia. E ci sarà chi li disapproverà, e diffiderà di loro. Sono quanti credono nella famiglia come idolo, nella 'famiglia mafiosa' come totem intoccabile che garantisce l’identità al clan.

Ci sono figli che come Al Pacino nella saga del 'Padrino' tra l’onestà e la mafia scelgono la famiglia, come supremo, ancestrale valore che dà un senso al loro mondo. E figli che, pur dolorosamente, scelgono la verità scritta dentro il loro cuore, diversa dall’obbedienza a cui vorrebbe obbligarli il sangue. Francesco, Alessandro e Dario scrivono la loro lettera di scuse «per dimostrare che la verità rende liberi; che l’amore e la testimonianza di uomini giusti sono in grado persino di rompere le barriere dell’omertà e il muro di quel marcio e malinteso senso dell’onore e della famiglia che tanto e tutto giustifica».

Ad Alessandro e Dario questa lettera costerà un prezzo molto alto, e loro lo sanno. Non tutti in Sicilia apprezzeranno. Sono comunque dei figli, anche se di un mafioso. E la stessa letteratura non abbonda di casi simili ai loro. Viene in mente Jessica, figlia del 'Mercante di Venezia' Shylock, che obbedisce all’amore fuggendo, con il cristiano Lorenzo, al risentimento e all’odio che travolge il padre. Viene in mente Elettra, che non può condividere le scelte della madre Clitennestra anche se non fino al punto di ucciderla, come farà suo fratello Oreste. Pochi, rari esempi della dura scelta tra due fedeltà: alla famiglia, alla verità. Nella consapevolezza che la scelta per la verità avrà un prezzo, quanto alto non si sa, ma l’avrà.

Sapendolo, Francesco, Alessandro e Dario Sucameli meritano il nostro abbraccio. E la nostra promessa di non dimenticarci di loro, né dei loro 'fratelli' della Catturandi di Palermo, di Addiopizzo e Liberofuturo, i figli della Sicilia che vuol davvero bene a se stessa.
  • Umberto Folena
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ago 02, 2010 7:47 am


  • Riflessione sulla libertà da parte di chi non va in vacanza
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Non si va in vacanza. Ci si può sentire liberi lo stesso. Più liberi forse. Ma, a proposito di vacanze “obbligatorie” e non solo, la nostra società promuove la libertà o il conformismo?

Sono amici, una famiglia: genitori e due bambini. Mi parlano di una loro decisione. Quest’anno: niente vacanze: i soldi diminuiscono e quelli che restano è meglio impegnarli diversamente. Chiedo se sentono la fatica della rinuncia. “Non proprio”, mi dicono, “ci si accorge che si può vivere bene anche senza il mare o la montagna”. Lo “stacco”, mi spiegano, lo si può trovare anche a casa. Il papà, che è un po’ filosofo, spiega che, in fondo, lo stacco è più una questione di testa che di chilometri percorsi. Ci si guarda, si sorride. Ci siamo capiti: siamo bravissimi di trovare sempre un modo per giustificarci. Anche la giustificazione, soprattutto la giustificazione, è una questione di testa.

Il fatterello mi fa venire alla mente una semplice domanda: quanti comportamenti sono davvero necessari e quanti invece sono indotti da tutto il battage che ci sta attorno? Se nessuno andasse in vacanza, chi andrebbe in vacanza? Qualche stravagante, forse. Perché, in quel caso, la stravaganza sarebbe partire e la norma sarebbe restare.

Tutti g li uomini moderni sono orgogliosi della loro libertà e, da figli lontani dell’Illuminismo, sono convinti che nessuno è mai stato libero come lo si è oggi. Eppure mai la società ha avuto a sua disposizione mezzi così potenti per condizionare tutti. È evidente che per poter togliere la libertà senza correre pericoli bisogna convincere tutti che si è liberissimi.

Un mio vecchio parroco mi diceva che l’arte ultima e più raffinata del demonio non è far commettere del male, ma rubarne la coscienza a chi lo commette. Che stia avvenendo qualcosa di simile anche oggi? Non è che tutti sono convinti di essere liberi solo perché non si accorgono di essere schiavi?
  • Alberto Carrara
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven set 03, 2010 3:17 pm


  • Sì, è tempo di ritrovare limiti: ma il cuore non rientri del tutto
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Ormai si sta consumando il grande rientro. La fine delle vacanze. Il rientro nei luoghi di dimora, di lavoro. E tra un po’ in quelli di scuola e di studio. Vorrei però che gli italiani non rientrassero del tutto. Sì, insomma, mi piacerebbe che il rientro non fosse un completo rientro. Che qualcosa rimanesse ancora fuori, in un certo senso. Che esorbitasse. Che non accettasse di rientrare nei soliti limiti e schemi. Nella routine. Mi auguro che mentre si rientra e ci si adegua nuovamente alle solite cose, qualcosa di insolito resista.

Intendo il cuore, quella cosa che durante le vacanze ci si è mossa dentro per una bellezza di panorama, per una dolce e allegra compagnia, per una tenerezza verso i figli. Quel cuore che durante le vacanze ha cercato – a volte confusamente – uno spazio di felicità, di miglioramento dei rapporti, di gusto. Vorrei che il cuore non rientrasse del tutto nei limiti che gli imponiamo o che accettiamo siano altri a imporre. Così come durante le vacanze il nostro cuore ha cercato di essere felice – profittando di un maggiore spazio, di un vacuum rispetto a impegni e limiti – vorrei che ora, mentre ci accingiamo a riempire di nuovo lo spazio con obblighi di vario genere, vorrei – ecco – che il cuore continuasse a volere, a desiderare, a cercare una strada per colmarsi di bellezza e gioia.

Il rientro non sia il momento in cui chiudere le imposte del cuore, e chiuderlo a morire perché ora, eh sì, ora abbiamo da fare. Come se le facce nei luoghi di lavoro non fossero le stesse di coloro che, appena ieri, durante le vacanze, si godevano le ferie in cerca di un po’ di bene per sé e per i cari. Le facce che – uguali alle nostre in questo senso – giravano per spiagge e monti con un simile desiderio di bellezza. Rientriamo, sì, ma lasciamo che il cuore non rientri del tutto nei limiti che pensiamo debba avere. Troppe volte, quasi in modo paradossale, facciamo rientrare la parte più profonda di noi stessi e la mettiamo sul tavolo tipo un pc al proprio posto.

Anzi meno, perché le nostre aspirazioni, il nostro desiderio di felicità non servono nemmeno come un tastiera digitale, sono apparentemente meno utili. E allora le lasciamo in quegli spazi di minivacanza che sono i weekend o altre inserzioni di dopolavoro di vario genere. Come se i luoghi normali del vivere non dovessero essere investiti dal desiderio del cuore.

Come se dove si lavora e ci si occupa di cose serie, no, qui il cuore non serve. Lo si fa dunque rientrare alle dimensioni mute, minime, asettiche. Che non disturbi. Che non crei strani moti. Lo si mette in un cassetto. Al massimo lo si onora con una cartolina attaccata alla base del pc. O una foto sul desk.

Minimi indizi del fatto che un cuore ci batte dentro.

No, il rientro non sia un rientro totale. Una nuova sottomissione. Una nuova commedia, un po’ disumana. Non rientrare del tutto significa lasciare ancora spazio al desiderio di libertà nel senso più vero del termine. Rientriamo, ok, si deve, ma con qualcosa che non ci faccia rientrare del tutto. O meglio: rompiamo gli schemi di ciò in cui si rientra.

Il vero desiderio di libertà, il cuore, non si lascia fuori dall’uscio quando si ricominciano le cose obbligatorie, ma si porta dentro alle opere e i giorni.

Solo così li fa più umani.
  • Davide Rondoni
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven set 10, 2010 3:55 pm


  • Riaffermiamo la base razionale di valori e diritti inviolabili
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È certamente una buona notizia che ci fa tirare un respiro di sollievo: le autorità di Teheran hanno sospeso la condanna a morte di Sakineh, la donna iraniana divenuta simbolo della terribile condizione in cui versano i diritti umani in Iran. Ma restano le brutte notizie che riguardano i processi farsa e, più in generale, la repressione feroce portata avanti dal regime degli ayatollah. Non c’è purtroppo alcuna garanzia che tutto questo abbia fine.

L’impressione sconfortante è che la buona notizia duri il tempo di un respiro, mentre le cattive notizie s’addensano senza un attimo di tregua. Sarà un caso ma proprio negli stessi giorni in cui in Europa e nelle Americhe si dà prova di rara unità e di grande compattezza mobilitandosi a favore di Sakineh in nome della dignità della donna e dei fondamentali diritti umani, ecco che nelle sue retrovie si apre una falla imbarazzante e vergognosa. Il Burn a Koran Day, la Giornata in cui bruciare copie del Corano proclamata dal pastore di una chiesa protestante in Florida in occasione del prossimo anniversario dell’11 settembre, è un’iniziativa che sembra fatta apposta per screditare quel che resta dell’Occidente con la O maiuscola.

«Un gesto stupido e pericoloso», è stato sottolineato da alti ufficiali, uomini politici ed esponenti religiosi, preoccupati per le ritorsioni facilmente prevedibili di settori del mondo musulmano. Si teme infatti un’ondata di violenze che si riverserà soprattutto contro gli inermi cristiani che vivono nei Paesi a prevalenza islamica, come già avvenuto nel 2006 a seguito delle vignette satiriche su Maometto pubblicate da un giornale danese. Ma l’idea di un grande rogo in cui bruciare i libri sacri dell’islam è sciocca e pericolosa non soltanto per l’incendio devastante che potrebbe scatenare nel mondo, ma per il fatto che nega gli stessi ideali che chi l’ha lanciata dichiara si nutrire e sostenere. Per dirla con Talleyrand, «è peggio di un crimine, è un errore». Rispondere a coloro che bruciano le bandiere americane dando fuoco al Corano significa avere un concetto di libertà simile a quello degli integralisti islamici.

Cresce l’arroganza, si rimpiccioliscono i diritti di libertà, a cominciare da quello alla libertà religiosa. Invece «è imperativo sviluppare sia la validità universale di questi diritti, sia la loro inviolabilità». Sono parole pronunciate ieri dal Papa nel discorso rivolto ai vertici parlamentari del Consiglio d’Europa, un’istituzione internazionale chiamata a difendere e ga­rantire i valori inviolabili e i fondamentali diritti dell’uomo. Ma Benedetto XVI ha allargato l’orizzonte affrontando il problema nel contesto della società attuale, nella quale s’incontrano popoli e culture differenti. E si è chiesto cosa succederebbe «se questi diritti fossero privi di un fondamento razionale, oggettivo, comune a tutti i popoli, e si basassero esclusivamente su culture, decisioni legislative o sentenze di tribunali particolari». Se fosse così non potremmo opporci alle decisioni di un tribunale islamico a Teheran che intende condannare a morte una donna per adulterio. E non saremmo neppure in grado di controbattere alle farneticazioni di un pastore protestante che intende bruciare il Corano.

Qualcuno potrebbe essere tentato di liquidare le parole del Papa come l’ennesima condanna del relativismo. Ma la sua non è stata la ripetizione di un giudizio astratto bensì l’analisi puntuale di quanto sta succedendo sotto i nostri occhi. Benedetto XVI è in realtà entrato, con delicatezza, nel merito delle buone e delle cattive notizie di questi giorni. E ci ha sol­lecitato a dare «un terreno solido e duraturo» alle nostre battaglie di civiltà: alla mobilitazione per salvare la vita di una donna che rischia la lapidazione come alla strenua affermazione dei principi di tolleranza religiosa che sembrano vacillare perfino nei dintorni della Statua della Libertà.
  • Luigi Geninazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 20, 2010 8:53 am


  • Questo tempo per l’Europa
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C’è una costante nei viaggi 'settembrini' di Benedetto XVI, che è palese anche in questa visita nel Regno Unito. È la costante che porta il Papa a riflettere, e a far riflettere, sulla condizione attuale dell’«Europa cristiana», segnata da potenti processi di secolarizzazione e dalla rischiosa pretesa di reciderne le storiche radici religiose e culturali, mettendo in questione la stessa organizzazione sociale che da quella tradizione viva è stata ispirata e sostenuta.

Per contenuti e modalità, infatti, la visita che si conclude oggi si aggiunge a quelle in Germania (2006), Austria (2007), Francia (2008) e Repubblica Ceca (2009), tutte compiute nel mese di settembre, in cui il Pontefice teologo ha mostrato non solo la bellezza della fede in Cristo, ma anche la sua plausibilità sul piano della ragione. Una sorta di 'pellegrinaggio della rievangelizzazione', che in un certo senso parte dal grande discorso di Ratisbona, per giungere alla beatificazione odierna del cardinale Henry Newman, con esiti sempre più intensi e, per alcuni, sorprendenti. Basti pensare che ciascuna delle tappe è stata presentata alla vigilia dai media come un possibile flop, salvo poi a verificare sul campo esattamente il contrario.

In Gran Bretagna, Benedetto XVI ha fatto un ulteriore passo avanti. Tutto ciò che ha detto in questi anni lo ha riproposto attraverso la testimonianza di una figura concreta, quel Newman che oggi a Birmingham beatificherà personalmente, derogando alla regola fissata ad inizio pontificato di presiedere solo le canonizzazioni.

Il «grande Inglese» merita sicuramente tale eccezione. Anche perché Papa Ratzinger non ha nascosto di considerarlo il campione del confronto con «la dittatura del relativismo», la grande malattia spirituale che affligge l’Occidente e che - come il Pontefice ha dimostrato nella sua enciclica sociale e ribadito venerdì nell’incontro con il mondo della cultura - ha avuto catastrofiche conseguenze anche nell’esplicarsi degli effetti della crisi finanziaria mondiale.

Newman davvero può essere patrono ideale del lavoro di rievangelizzazione, al quale il Papa ha recentemente intitolato un nuovo dicastero vaticano. La lezione umana e spirituale del neo-beato riassume in sé, infatti, i punti cardine del magistero 'settembrino' di Benedetto XVI. Riaffermazione del ruolo pubblico della fede, profonda coerenza tra «ciò che crediamo e il modo in cui viviamo la nostra esistenza». E infine capacità di «pagare un prezzo» a questa coerenza. Cioè, come il Papa ha detto ieri sera nella veglia di Hyde Park, il rischio di «essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia».

Di tale prezzo, a suo tempo, il cardinale Newman non ha avuto paura. Tanto meno Benedetto XVI, che tra l’altro l’ha pagato in più di un’oc­casione in questi anni di pontificato. Ma egli, per usare le sue stesse parole, va avanti «con coraggio e con gioia». E altrettanto chiede di fare ai cattolici e a tutti i cristiani, con lo spirito ecumenico palesato anche qui a Londra. Perché la sfida portata dal relativismo non è di quelle che si possano affrontare mantenendo anacronistiche divisioni.
  • Mimmo Muolo
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab set 25, 2010 8:10 am


  • Da precario dico amen e attendo che Dio risponda
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Una stessa etimologia accomuna diverse parole: prex, preghiera; precari, pregare; precarius, precario... mettendo in evidenza proprio la «precarietà», la possibilità di ottenere o di non ottenere quanto si chiede attraverso la preghiera, ma anche la condizione «precaria» in cui si trova colui che prega. Sì, la preghiera è fondamentalmente un’azione «precaria», suscettibile di efficacia oppure no, che può essere esaudita o inevasa. Per questo chi prega inizia a farlo ponendosi, consapevolmente o meno, una domanda: «E se Dio non risponde?». Ma questa natura della preghiera è propria anche dello stesso atto del credere: la fede è un dono che porta in sé la precarietà. «E se Dio non esistesse?» non può fare a meno di chiedersi il credente. Una domanda lacerante che non può essere evasa alla leggera, anche perché la fede non sta nello spazio del sapere, ma in quello della convinzione. La fede non è un possesso definitivo, non è una certezza acquisita una volta per tutte: essa partecipa dell’insicurezza che caratterizza la libertà della persona e per questo nel cuore di ogni credente c’è una certa simultaneità di fede e di incredulità, come ci testimonia anche il Vangelo di Marco a proposito del padre del bambino epilettico che si rivolge a Gesù in questi termini: «Credo, aiutami nella mia incredulità!» (Mc 9,24). Il dubbio fa parte del credere, quindi la precarietà, l’incertezza fa parte della fede: ogni giorno la fede si rinnova vincendo il dubbio, accettando di non sapere, decidendo di acconsentire liberamente a una promessa, vivendo come pellegrini mai residenti, sentendosi non soli ma insieme ad altri, come in una carovana.

Se la fede è un dono di Dio che deve essere accolto dall’uomo, proprio perché è l’essere umano a credere, allora è anche un atto umano, un atto della libertà della persona che risponde al Dio che parla: «Non è Dio, ma l’uomo che crede», ha affermato giustamente Karl Barth. Così la fede è una scelta della persona che coinvolge tutto il suo essere, manifestandosi come un atto umanissimo e vitale, teso alla vita; è entrare in una relazione, in un rapporto vivo con un altro. Fede è dire: «Amen, è così; io aderisco, faccio fiducia, mi fido di qualcuno». Quando parliamo di fede, non dobbiamo pensare immediatamente al credere in alcune verità, in determinati dogmi (è quella che i teologi definiscono fides quae); dobbiamo invece pensare la fede come quell’atto, di cui ci testimoniano le sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul sicuro (cfr. Sal 20,8-9; 125,1; Is 7,9), nell’affidarsi come un bambino attaccato con una fascia al seno di sua madre (cfr. Is 66,12-13), sicuro in braccio a lei (cfr. Sal 131,2). La fede ritrova allora la sua dimensione di necessità umana. Potremmo dire che non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede.

Noi esseri umani, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero materno, e per venire al mondo e crescere come persone abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fede-fiducia. Riflettiamo su quante azioni della nostra vita dipendono dal nostro avere fede… È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a partire dai genitori? È possibile iniziare a percorrere una storia d’amore senza avere fede nell’altro? È possibile costruire legami solidi senza fondarli sulla roccia della fiducia nell’altro? Sì, in tutta la vita dobbiamo avere fede, fare fiducia, credere a qualcuno.

Quando accediamo alla pienezza delle relazioni, in quelle più personali e intime come in quelle sociali e pubbliche, dobbiamo fidarci, fare credito all’altro. In breve, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro. È proprio in ragione di questa «umanità» della fede, che possiamo leggere l’attuale crisi della fede come innescata dalla crisi dell’atto umano del credere, un atto divenuto difficile e sovente contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere all’altro, siamo poco disposti a fare fiducia all’altro, non osiamo credergli fino in fondo. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile la storia perseverante nell’amore? Perché così spesso soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra vita, l’atto umano del credere. E in questa situazione di estrema precarietà, come poter ritrovare una fede salda? Forse proprio ricominciando ad aver fiducia nelle più banali situazioni quotidiane, forse proprio nel porre davanti a Dio l’incertezza che caratterizza il nostro vissuto, forse nell’abbandonarci fiduciosi nelle mani di colui che Gesù di Nazaret ci ha insegnato a chiamare «Padre».
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 05, 2010 8:07 am


  • La Sicilia che respira
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Dieci ore sono bastate a Benedetto XVI per parlare al cuore più vero di Palermo, della Sicilia e dei siciliani. E tramite loro a tutta l'Italia, come ha detto nell'incontro con i giovani, l'ultimo ma che il Papa stesso ha definito "quello centrale" di una giornata davvero memorabile. In una visita che ha permesso a centinaia di migliaia di persone - forse quasi mezzo milione, comunque tantissimi, sommando i fedeli presenti alle celebrazioni e i palermitani riversatisi nelle strade di una bellissima capitale europea - di accogliere il vescovo di Roma. Che è venuto per confermare i cristiani ed è tornato a casa a sua volta confermato dalla fede e dalla speranza dei siciliani. Come ha voluto lui stesso sottolineare ancora ai giovani, lasciandosi poi abbracciare con tenerezza da tutti quelli che lo circondavano sul palco.

È stato un avvenimento importante, e certo non solo per la Sicilia. Ma la maggioranza dei media italiani sembra non averlo valutato per quello che veramente si è dimostrato, tra agenzie di stampa poco attente al suo insieme e quotidiani nazionali che magari vi hanno dedicato spazio ma non hanno ritenuto che meritasse la prima pagina (con l'eccezione di molte aperture televisive e dei richiami su "la Repubblica" e "l'Unità"). Sino al londinese "The Independent", arrivato a negare la forte condanna della mafia da parte di Benedetto XVI facendo rimpiangere l'esemplare comportamento dei media britannici durante la visita papale nel Regno Unito.

Invece a Palermo il Papa ha condannato la criminalità mafiosa più volte, sin dall'omelia durante la grande messa sul mare, e con una nettezza inequivocabile: ricordando per ben tre volte don Pino Puglisi, "ucciso dalla mafia" in un "barbaro assassinio", e ricollegandosi significativamente alla predicazione, anche attuale, dell'episcopato siciliano. Aggiungendo poi, a conclusione della visita, un gesto simbolico che resterà: nelle luci struggenti del crepuscolo sull'autostrada, l'omaggio e la preghiera silenziosa davanti alla stele di Capaci che ricorda Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, vittime dell'attentato mortale divenuto emblema della lotta contro il fenomeno mafioso.

Benedetto XVI nella capitale siciliana ha lasciato parole che non saranno dimenticate, portando "un forte incoraggiamento a non aver paura di testimoniare con chiarezza i valori umani e cristiani" e alzando la voce per scandire che "ci si deve vergognare del male, di ciò che offende Dio, di ciò che offende l'uomo; ci si deve vergognare del male che si arreca alla Comunità civile e religiosa con azioni che non amano venire alla luce!". Esortando poi i giovani, certo non solo in Sicilia, a non avere paura di contrastare il male. "Non cedete - ha detto loro il Pontefice - alle suggestioni della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo".

Ma come si possono superare le tante difficoltà, i problemi di ogni giorno, preoccupazioni sempre più assillanti? Il Papa lo ha ripetuto nei tre grandi incontri palermitani e lo ha riassunto ai giovani: andando alla radice, tenendo accesa nelle famiglie - che sono il luogo primo dell'educazione - "la fiaccola della fede che si trasmette di generazione in generazione", in una terra cristiana per antichissima tradizione e vitalità, come è la Sicilia. Che ha un futuro se si imiteranno le donne e gli uomini che l'hanno fatta crescere, magari silenziosamente. Per creare una nuova speranza, nella certezza che nessuno potrà togliere la gioia e la forza di Dio alla Chiesa. Che, al servizio di tutti, può e vuole aiutare la Sicilia a respirare.
  • Gian Maria Vian
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 11, 2010 8:40 am


  • Voce che va ascoltata
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È il cuore sanguinante del mondo i cui battiti scandiscono i ritmi convulsi della politica internazionale. È il Medio Oriente che quasi ogni giorno è sotto i nostri occhi, un dramma che dura da secoli e che spesso volge in tragedia. Ne parlano tutti in un coro rumoroso e cacofonico, ma fra tanti dibattiti e analisi manca spesso una voce. È quella dei cristiani che vivono in queste regione tormentata e più di ogni altro sono oggetto di discriminazioni e persecuzioni. Per tanto, troppo tempo, sono stati una sorta di angolo cieco della nostra visione del problema mediorientale.

Come ha notato giustamente l’intellettuale laico francese Régis Debray, «la loro sventura è di essere troppo arabi per la destra liberal e troppo religiosi per la sinistra no-global». Trascurati, spesso ignorati anche dai cristiani occidentali. Ebbene da oggi, per due settimane, avranno una loro tribuna significativa e autorevole. Basta questo per capire l’importanza dell’assemblea che si apre in Vaticano: un Sinodo dedicato al Medio Oriente, cui partecipano patriarchi, vescovi e figure di spicco delle Chiese cattoliche ma anche delegati fraterni delle altre Chiese cristiane presenti nella regione.

È la prima volta che un Sinodo abbraccia l’intera area che va dall’Egitto all’Iran, dalla Turchia agli Emirati Arabi. La decisione di convocare un incontro sul Medio Oriente è stata presa da Benedetto XVI all’indomani del suo pellegrinaggio in Terra Santa, colpito profondamente dalle «sofferenze di questo piccolo gregge», erede della prima comunità cristiana. Una de­cisione coraggiosa con la quale il Santo Padre intende dare la massima visibilità a una fede eroica, che giunge a volte fino al martirio. Ma il Papa teologo guarda in profondità e vede in tutto questo un segno dei tempi, un’indicazione a riscoprire l’assoluta originalità di queste Chiese, radicate in tradizioni antichissime e con uno straordinario patrimonio culturale e spirituale.

Non a caso, nota fin dalle prime pagine l’Instrumentum laboris, il testo-guida dei lavori sinodali, «la situazione attuale nel Medio Oriente è per non pochi versi simile a quella vissuta dalla primitiva comunità cristiana in Terra Santa». È un testo che non fa sconti a nessuno, con giudizi molto netti che vanno dalla condanna dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi alla denuncia del fondamentalismo islamico, fino all’esplicita richiesta nei confronti dei Paesi musulmani di rispettare il sacrosanto diritto della libertà religiosa. Sarà interessante il dibattito che su questi temi cruciali si aprirà con alcuni rappresentanti dell’ebraismo e dell’islam, invitati a prendere la parola nel corso dell’assemblea sinodale.

Pesa l’inquietante interrogativo sul futuro della presenza cristiana in Medio Oriente, già drasticamente ridotta e minacciata di estinzione a causa dell’instabilità generale e dell’odio anticristiano che colpisce inermi credenti con violenza efferata. Dal Sinodo s’attendono parole di speranza e d’incoraggiamento ma soprattutto una testimonianza autentica di comunione tra le Chiese locali e con la Chiesa universale, così che ne esca rafforzata l’identità dei cristiani, spesso considerati come un gruppo etnico invece che una comunità di fede.

Il Medio Oriente ha più che mai bisogno di loro, capaci di perdono, artefici di pace ed armonia sociale. Nonostante tutto ci sono ancora tante croci che brillano in questa martoriata regione. Ce n’è una, luminosissima, che abbiamo visto in un villaggio cristiano sul confine tra Siria, Turchia e Iraq. Segno commovente di una presenza che è interesse di tutti mantenere viva.
  • Luigi Geninazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 18, 2010 9:12 am


  • Forze che non devono più nascondersi
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«Non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siano responsabili di tutti». È un passaggio notissimo della Sollicitudo rei socialis, breve, semplice ed efficace. Qui a Reggio Calabria sta riecheggiando tanto nei pensieri lunghi dei relatori, quanto nelle testimonianze, nelle storie e nelle attese che i delegati hanno portato alla 46ma Settimana Sociale dei cattolici italiani.

L’antropologia cristiana, la carità cristiana, genera solidarietà. Ne fa una delle basi essenziali della Dottrina sociale della Chiesa. E, nella nostra Italia, anche la Carta costituzionale la propone come un dovere «inderogabile», che spetta a tutti cittadini. Eppure poche parole come questa sono consumate, e a volte abusate (tanto da far dimenticare a molti le sue radici e le sue ragioni). Il bene comune per realizzarsi in pienezza ha bisogno della solidarietà, perché non sopporta che anche solo una persona o una singola famiglia ne siano escluse, pena il suo deperimento. Ed è questo un primo passaggio su cui è bene riflettere: la solidarietà non è un valore residuale, una sorta di benevolenza pelosa per mettere a posto le nostre coscienze. È necessaria per far crescere la speranza e rafforzare la dimensione di fraternità nella città dell’uomo.

Ma Papa Benedetto, nella Caritas in veritate, aggiunge un passaggio ulteriore, inedito e sconvolgente per molti. Ci dice che la solidarietà non è un valore del dopo–economia, del dopo–mercato, del dopo–profitto: è un valore che invece attraversa tutto il processo economico, lo feconda, lo fa più efficace e più duraturo nel tempo. È una sfida culturale che va assunta, nella sua ragionevolezza, nella sua praticità concreta. Non sono affatto pochi gli imprenditori che, talvolta inconsapevolmente, praticano questa verità nella conduzione delle proprie aziende investendo nella fiducia, nell’attenzione alle persone, nel dare il giusto salario, nei talenti presenti in azienda e in una flessibilità che riesca a coniugare le esigenze delle persone con quelle della produzione.

Ma non basta. La solidarietà che si fa bene comune costruisce più comunità, più coesione sociale e si fa attenta a coloro che sono affaticati, ai fragili, agli ultimi. Se non si presidia questa frontiera la costruzione di una città più giusta e fraterna si fa difficile tanto da rendere vano ogni altro sforzo. I dati di molte ricerche aiutano tutti a capire che un territorio impoverito di reti solidali che sostengono e accompagnano la vita delle persone in difficoltà, ha ben poche possibilità di sviluppo umano ed economico. Per questo è urgente una politica attenta alla famiglia e alla costruzione di un welfare finalmente comunitario in cui lo spazio della responsabilità pubblica si allarga e si arricchisce di una molteplicità di soggetti chiamati, accanto alle amministrazioni, alla gestione del bene comune.

E infine, è bene ricordarlo, la solidarietà ha bisogno vitalmente della sussidiarietà affinché essa non degeneri in assistenzialismo, in una forma ambigua di dipendenza, di sottrazione di libertà e di autonomia a coloro che si aiutano. La solidarietà che amiamo è la solidarietà che costruisce autonomia e cittadinanza attiva.

Non è un contenuto teorico, è una pratica vissuta sui territori da quella costellazione di opere, di esperienze di vita che le nostre realtà ecclesiali costruiscono giorno dopo giorno. Opere – e da coordinatore del Comitato scientifico della Settimana Sociale di Reggio Calabria mi è toccato di conoscerle a fondo in questi due anni di preparazione dell’evento – che sono un’incredibile dorsale strategica per l’Italia: qualche volta invisibile, altre riottosa a mostrarsi e farsi raccontare. Ma queste forze non possono e non devono più restare nascoste: hanno una capacità di “fare bene” che impressiona. Questo Paese ne ha bisogno per tornare a crescere come comunità di amici. E per “fare bene” anche la politica.
  • Edoardo Patriarca
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 25, 2010 8:57 am


  • La vita e la morte di sette monaci: appartenevano a un altro e parlano a tutti
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Un film umanissimo – che fin dalla sua presentazione a Cannes ha conosciuto un grande successo di critica e che in poche settimane di programmazione in Francia ha attirato milioni e milioni di spettatori – ha riacceso le luci sui monaci di Tibhirine in Algeria, toccando corde che a volte la predicazione e la testimonianza dei cristiani fatica a raggiungere e stimolare. Il regista di Uomini di Dio, in uscita nelle sale italiane venerdì 22 ottobre 2010, ha saputo sapientemente restituire la dimensione umana di quella comunità monastica, centrata sull’essenziale della preghiera comune dei salmi, sul lavoro quotidiano, sui rapporti fraterni in comunità e con i vicini musulmani. È una vicenda che parla di vita e non di morte, di pienezza di vissuto proprio nell’assunzione dell’eventualità di una morte violenta.

Nel pacato e intenso scorrere delle immagini e dei dialoghi, riemerge con forza l’impressione suscitata dai loro scritti (raccolti nel volume Più forti dell’odio appena riedito da Qiqajon): siamo di fronte a persone diversissime che giungono a poco a poco – sottomettendosi gli uni agli altri e assumendo la tragica situazione così come si va delineando – fino a un 'sentire comune' che pure si manifesta con accenti propri a ciascuno. Non è allora un caso se al profilarsi dell’ad- Dio questi monaci paiono affrettarsi a ritrovarsi insieme all’Atlas: uno vi arriva dal Marocco, pochi giorni prima, per partecipare al voto per il rinnovo della carica di priore, l’altro rientra veloce dalla Francia, arriva il pomeriggio precedente il rapimento, non ha neanche il tempo di disfare le valigie per estrarne vanghe e piantine per abbellire Tibhirine, il giardino.

E proprio la vita comune ha affinato il loro sguardo, li ha portati all’autentica contemplazione cristiana: vedere gli uomini – ogni uomo, anche il nemico – e le cose – tutte le cose, anche la morte violenta – con gli occhi di Dio. È nella vita comune autentica che si affina la sensibilità spirituale, che diventa possibile il dono del discernimento, quell’abbagliante luce evangelica che emana dal testamento di Christian: una luce che gli consente di discernere nel volto dell’«amico dell’ulti­mo minuto» il profilo di un ad-Dio. Non una fine ma un compimento: «Potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo».

Davvero, come ha scritto frère Christian a proposito di un fratello e una sorella vittime di un agguato mortale, «quelli che hanno rivendicato il loro assassinio non potevano appropriarsi della loro morte. Apparteneva a un Altro, come tutto il resto, e da molto tempo». È il caso serio del cristianesimo, quello che il film Uomini di Dio, porta alla ribalta, è il nocciolo duro della fede cristiana: la croce! Con il martirio un cristianesimo che a tanti sembra incapace di comunicare agli uomini d’oggi ritrova improvvisamente la capacità di suscitare domande e di inquietare le coscienze. In effetti, come annotava alla fine del I secolo Ignazio di Antiochia mentre era condotto al martirio a Roma, è nelle situazioni in cui il cristianesimo è odiato e avversato che emerge con forza che esso «non è opera di persuasione, ma di grandezza».

Sì, grazie a uomini di Dio come i monaci di Tibhirine è possibile a ogni vivente sulla terra credere che l’amore è più forte dell’odio, che la vita è più forte della morte, perché solo chi ha una ragione per morire può anche avere una ragione per vivere.
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab ott 30, 2010 7:58 am


  • Buttiamo via il cibo di una seconda Italia
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Oltre 37 miliardi di euro. L’equivalente del 3% del nostro Pil. A spiegarlo col portafoglio alla mano, lo spreco alimentare italiano potrebbe ancora dire poco. Allora servono i fatti: perché ogni anno, prima che il cibo che consumiamo giunga nei nostri piatti, se ne butta via una quantità che potrebbe soddisfare i bisogni alimentari di tre quarti della popolazione. Venti milioni di tonnellate, che sfamerebbero quasi 45 milioni di persone per un anno intero. È solo l’inizio del capogiro descritto drammaticamente da Last Minute Market, un’emanazione della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, che il prossimo 30 ottobre presenterà il primo Libro Nero dello spreco alimentare. Il cibo buttato, si badi bene, non è quasi mai scaduto, nocivo per la salute, o deteriorato. Tutt’altro: a dettare le regole della filiera dello spreco è piuttosto l’odierna economia del consumo. Che privilegia prodotti esteticamente perfetti, che vuole pronto all’uso tutto e subito, che invoca la durata pressoché infinita dei prodotti.
  • Nei campi
Inizia qui, lo spreco italiano di cibo. E vi registra il picco più spaventoso: quasi 18 milioni di tonnellate di frutta, verdura e cereali buttati via ogni anno, nel solo 2009 oltre il 3% della produzione agricola nostrana. Se si restringe il fuoco solo alla produzione ortofrutticola, l’anno scorso sono rimasti sul campo circa 7 milioni e mezzo di tonnellate. Un dato che confrontato con quello dei consumi di ortofrutta per il 2009 – 8,4 milioni di tonnellate – dice che abbiamo buttato via tanta frutta e verdura quanta quella che consumiamo: la quantità sprecata avrebbe potuto soddisfare le esigenze di una seconda Italia. Le ragioni che stanno alla radice del fenomeno sono varie, ma nessuna porta a inficiare la consumabilità del prodotto stesso: si va da quelle meramente estetiche (prodotti colpiti da grandine, per esempio) alle ragioni commerciali (prodotti fuori pezzatura) fino a quelle di mercato (costi della raccolta superiori al prezzo di mercato liquidato all’agricoltore, per cui non c’è convenienza a raccogliere).
  • Nelle cooperative
Gli sprechi purtroppo non si fermano ai campi. Altro step importante risultano essere le cosiddette cooperative di primo grado o organizzazioni di produttori. Si tratta di quelle realtà nate per la gestione delle crisi nel settore ortofrutticolo e che dovrebbero ritirare parte della produzione dal mercato per evitare il 'crollo' dei prezzi. Il prodotto ritirato in parte viene destinato al consumo di fasce deboli della popolazione che altrimenti non consumerebbero questi beni, in parte a scuo­le e a istituti di pena, quale quota aggiuntiva ai consumi già preventivati (distribuzione gratuita), in parte all’alimentazione animale, ma la stragrande maggioranza viene destinata alla distillazione per la produzione di alcool etilico, al compostaggio e alla biodegradazione. Uno spreco nella misura in cui la destinazione del prodotto è a un uso differente da quello dell’alimentazione (in Europa lo fa solo l’Italia): delle 73mila tonnellate di beni ritirati nel 2009, solo il 4,4% è stato destinato a sfamare chi ne aveva bisogno. Con i restanti – seppur “riciclati” – si sarebbe potuto coprire l’esigenza ortofrutticola di città come Bologna e Firenze per un anno.
  • L’industria
Qui il quadro dello spreco si allarga. E ai prodotti agricoli si aggiungono le carni, le bevande, i prodotti caseari. . E che per ragioni di mercato viene buttato via: date di scadenza ravvicinate, deterioramento delle confezioni, mancanza di richieste. Si tratta di oltre 2 milioni di tonnellate di prodotti: tanti quanti basterebbero per sfamare l’intero Veneto per un anno. Per fortuna proprio dalle imprese nascono anche sempre più spesso iniziative di recupero a favore del terzo settore. Una pratica che fino a dieci anni fa era del tutto impensabile e che oggi, invece, assiste alla destinazione dei prodotti ritirati, ma ancora perfettamente commestibili, a enti caritativi, ospedali, mense per i poveri.
  • La vendita al dettaglio
Presso i grandi e piccoli punti vendita (dai mercati agli ipermercati fino ai piccoli o medi negozi di quartiere) ogni anno una percentuale di ortofrutta che si attesta a circa all’1,2% viene gestita come rifiuto. Visto che nel 2009 sono passati per i mercati generali 9.134.747 tonnellate, ne risulta che 109.617 sono state sprecate. I motivi che portano alla formazione di questa quota di scarto/spreco sono, anche qui, riconducibili a questioni di mercato (che non ne inficiano la con­sumabilità). Cosa differente invece accade nella distribuzione organizzata, soprattutto quella grande: nella maggior parte dei casi i motivi che portano alla formazione dello spreco di prodotti ortofrutticoli sono legati all’eccessiva manipolazione, da parte dei clienti, che ne determina un danneggiamento estetico e che li rendono meno appetibile da parte degli stessi.
  • In famiglia
I numeri dello spreco familiare dicono che la vera grande “discarica” è e resta nei frigoriferi italiani. Ogni nucleo butta via 480 euro al mese di ciò che ha investito nella spesa, 515 se si aggiunge ciò che finisce in pattumiera a Natale, Capodanno, Pasqua e ricorrenze varie. Nell’immondizia finisce il 39% dei prodotti freschi acquistati (come latte, uova, carne), pari al 9% della spesa alimentare affrontata nell’arco di 12 mesi (i dati bolognesi combaciano con quelli diffusi dall’Adoc e Legambiente). Cui va aggiunto il 19% del pane, il 4% della pasta, il 17% di frutta e verdura. Secondo le indagini incrociate, i motivi di tanto spreco sono dovuti per lo più all’eccesso di acquisti generici (nel 36% dei casi), a prodotti scaduti o ritenuti tali (25%), all’eccesso di acquisti per offerte speciali (24%), a novità non gradite (8%) e a prodotti acquistati poi rivelatisi inutili (7%).
  • Viviana Daloiso
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 12, 2010 8:39 am


  • Siamo l’anima del mondo
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Domenica scorsa, durante la Messa, mia sorella mi ha fatto notare, incredula, una signora intenta nella lettura di una rivista dal titolo reso più ironico, se non grottesco, dalla situazione: 'Vero. Salute'. Una rivi­sta promette più verità e salvezza (ridotta a salute, e il bene ridotto a be­nessere) di quanta ne dispensi il mistero domenicale. Dentro di me ho sentito un moto di ribellione. Non verso la signora, ma verso Dio: «Dici di essere la verità, ma poi questa verità non ci conquista». Non è questione di vita o di morte. Non ci prende, non ci sorprende. Preferiamo altre verità più a buon mercato, altre salvezze, più sicure. La verità e la vita si cercano, ma non si trovano. La verità deve tornare a sedurre la vita e farle riscoprire che sono fatte della stessa pasta. La verità deve tornare a incarnarsi, perché la vita ne rimanga sedotta e conquistata. E quindi salvata.

Domenica in una chiesa di Baghdad, durante la Messa, alcuni terroristi si sono fatti esplodere, uccidendo più di 50 persone. Per quei cristiani quella Messa è stata questione di vita o di morte. Tornano alla memoria quei 50 martiri di Abitene, in Africa, che furono giustiziati durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, perché sorpresi a celebrare la Messa che era stata loro vietata. Il padrone della casa che li ospitava per la celebrazione, al proconsole perplesso di fronte a tanta cocciutaggine, rispose: « Sine Dominico, non possumus ». Senza il giorno del Signore, non possiamo. Non possiamo vivere. Non possiamo essere. Non possiamo.

«Non c’è vita senza conoscenza, né conoscenza autentica senza la vera vita: per questo i due alberi sono stati piantati l’uno accanto all’altro», spiegava agli inizi del cristianesimo un anonimo nella sua nota lettera al curioso Diogneto, pagano, sedotto dalla verità. Quale verità? La vita dei cristiani: lo incantava e ne chiedeva conto e ragione a un amico, capace di pennellare l’identità cristiana con semplicità e chiarezza rimaste insuperate. Egli spiega che Dio manda suo figlio «come Dio, quale era, e come uomo, come conveniva diventasse per salvare gli uomini, mediante la persuasione e non con la violenza». Se la verità non persuade più la vita è perché non è più vita: si è disincarnata, non ha più la carne e le ossa dei cristiani. La vita non vuole essere istruita, vuole essere ascoltata, sedotta, amata.

Dio non è un catechismo, ma vita. Spesso ci accontentiamo di una vita impoverita, sdrucita, noiosa. L’anonimo ha l’ardire di dire a Diogneto che i cristiani sono nel mondo «ciò che è l’anima nel corpo». I cristiani sono la vita del mondo, come lo spirito tiene in vita e anima il corpo. Tutti conosciamo quella sensazione di smarrimento di fronte al corpo di un caro defunto: sembra irriconoscibile, benché ogni tratto del viso ci sia assai familiare. Quando non c’è più vita, persino il corpo perde identità. Il mondo senza i cristiani è un guscio inespressivo, un corpo senza vita.

I cristiani sono l’anima del mondo. Dovremmo ripetercelo più spesso e chiederci se dove ci muoviamo, lavoriamo, riposiamo, siamo capaci di dare vita (cioè tempo e attenzione) a ciò e a chi ci sta attorno. Il cristiano è come re Mida, trasforma tutto ciò che tocca. Non in oro, ma in vita. Ma può farlo solo se ha dentro di sé l’esuberanza della vita. I cristiani possono tornare a sedurre la vita e restituirle la verità di cui ha sete, di cui ha disperato bisogno in tempi di povertà spirituali, oltre che materiali, di dipendenze asfissianti, di là da apparenti libertà assolute.

Nietzsche ripeteva che avrebbe creduto il giorno in cui avesse visto sul volto dei cristiani l’espressione di uno che è salvo. Kafka, quasi conoscesse la parole della Lettera a Diogneto, scriveva nei suoi Diari che siamo due volte separati dalla salvezza: per avere mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male e per non aver mangiato da quello della vita. Dobbiamo smettere di accontentarci di verità da edicola e tornare a mangiare dall’albero della vita, rinato al centro del mondo, all’inizio della settimana. Altrimenti moriremo ogni giorno, portando nella fossa con noi il mondo, che langue, privo d’anima.

È ora che la verità torni a sedurci. È ora di lasciarsi vincere dalla vera tentazio­ne: mangiare dall’albero della vita. Senza non possiamo. Senza non siamo.
  • Alessandro D’Avenia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 12, 2010 8:48 am


  • Pubblicità mortale
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In un Paese nel quale va pericolosamente logorandosi il principio di responsabilità, occorre sempre stare in guardia di fronte alle sparate deliberatamente provocatorie. A prima vista sembrano eccessi senza futuro, ma poi si scopre che finiscono per scavare nella coscienza collettiva producendo ingenti danni a lunga scadenza. Non ci vuol nulla a tirare un sasso nella cristalleria dei valori condivisi da un intero popolo, sperando di produrre il maggior danno possibile e di portare a casa discutibilissimi dividendi.

Ma questa attività di premeditato bullismo politico e culturale va chiamata col proprio nome, smascherandone subito l’aperta strumentalità. E chiamando chi può – e deve, per funzione istituzionale – a sopperire con la propria al grave difetto di responsabilità altrui.

L’ultimo esempio: l’eutanasia in Italia è illegale? Visto che in Parlamento quasi nessuno la vuole ammettere per legge, allora si prova a blandire l’opinione pubblica mostrandone il volto 'libertario' e 'pietoso' attraverso uno spot televisivo nel quale un malato terminale spiega pacatamente di voler scegliere come e quando farla finita. I radicali, promotori del nuovo abbordaggio a quello che chiamano «tabù» ma che è semplice senso comune (presidiato dal diritto), tentano una nuova sortita per via mediatica e scavalcano la rappre­sentanza politica, ben sapendo che solo la loro proposta di legge sul «fine vita» prevede esplicitamente l’eutanasia: dunque sono del tutto isolati, scaricati ieri persino dal loro collega nel Pd Ignazio Marino – pure sostenitore dell’autodeterminazione assoluta –, che teme un autogol parlamentare con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento ancora attesa al passaggio in aula alla Camera.

Lo spot non è nuovo alle cronache. Si tratta infatti della versione italiana dei 40 secondi televisivi prodotti in Australia da Exit – l’associazione che si batte su scala internazionale per legalizzare l’eutanasia – e bocciati a metà settembre dalla locale Authority per la pubblicità poco prima che potessero andare in onda. Rilanciato poi in Canada, lo spot viene ora adottato da una delle molte sigle della galassia radicale – l’associazione Luca Coscioni – col chiaro intento di provocare un caso, aprire una breccia e azzardare la dimostrazione del trito teorema secondo il quale il Paese sarebbe più avanti del Palazzo (e della Chiesa, manco a dirlo) nell’esigere la codificazione di nuove 'libertà', compresa quella di farsi uccidere.

È vero: gli italiani sono molto più consapevoli e maturi rispetto a come vengono dipinti, ma nel senso opposto a quello immaginato da certuni. E a poco serve sbandierare sondaggi – come succede in coda allo spot – realizzati allo scopo di dimostrare quel che si desidera. Chi soffre (e, con loro, le famiglie) non chiede di morire ma di essere aiutato a vivere. E l’acuta preoccupazione con la quale i palliativisti italiani hanno accolto ieri la /bpubblicità all’eutanasia basta e avanza per screditare questionari e campagne.

Va peraltro ricordato agli smemorati che il Codice penale sanziona con chiarezza l’«omicidio del consenziente», la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito. Permettere che si pubblicizzi un reato attraverso i mezzi di comunicazione a noi pare inammissibile: ed è lecito attendersi che l’Autorità garante delle comunicazioni, alla quale i radicali si sono rivolti per chiedere il via libera allo spot della morte, faccia il proprio dovere senza esitazioni fermando questa inutile provocazione. Sempre ammesso che non ci pensino prima l’editore o il direttore di Telelombardia, l’emittente commerciale milanese che si è incautamente prestata all’operazione. Associare il proprio nome a questo macabro gioco non serve ad accreditarsi se non presso i radicali e i loro sodali. Poca roba, a conti fatti. Anche per chi dovesse mirare solo all’audience.
  • Francesco Ognibene
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 19, 2010 9:56 am


  • Spartiacque per gli uomini e le nazioni
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Come in tante altre occasioni, anche sul caso di Asia Bibi, la giovane madre pachistana accusata di blasfemia da un gruppo di colleghe e da un imam per aver difeso la propria fede cristiana, arrestata nel giugno 2009 e ora condannata alla pena di morte, Benedetto XVI ha saputo trovare parole che segnano uno spartiacque nella consapevolezza degli uomini e delle nazioni.

Al termine dell’udienza generale, il Pontefice ha ricordato che «in questi giorni la comunità internazionale ha seguito con grande preoccupazione la difficile situazione dei cristiani in Pakistan, spesso vittime di violenze e discriminazione». E ha aggiunto: «In modo particolare oggi esprimo la mia vicinanza spirituale alla signora Asia Bibi e ai suoi familiari mentre chiedo che al più presto le sia restituita piena libertà». «Prego – ha concluso Benedetto XVI rivolto ai fedeli presenti – per quanti sono in situazioni analoghe, affinché i loro diritti siano pienamente rispettati».

È proprio quanto si erano augurati i vescovi del Pakistan, che infatti hanno subito espresso al Papa un «sincero grazie per il suo grande coraggio, per la protezione dei senza-voce, di quanti sono vittime innocenti di violenze e sopraffazioni». Sta tutta in queste due immagini così complementari (Benedetto XVI che presta la propria voce a chi non può usare la propria) la forza di quelle frasi che, in un solo paragrafo, denunciano il male e ne indicano la cura.

Le comunità cristiane perseguitate non solo in Pakistan ma nel mondo (violenze e discriminazioni sono registrate in 60 Paesi) soffrono per l’oppressione esercitata da regimi, maggioranze etniche e religiose e gruppi di pressione economica e criminale, spesso alleati. Ma non soffrirebbero così tanto se non le avessimo abbandonate a se stesse e a una capacità di resistenza sperimentata almeno in tredici secoli, cioè dal dilagare dell’islam in una vasta porzione del mondo allora conosciuto. Il governo italiano è certamente sensibile al tema, come il recente viaggio del ministro Frattini in Pakistan ha dimostrato, ma per molti altri non è un problema adattarsi ad alleanze politiche ed economiche con Paesi intolleranti della libertà religiosa (l’Arabia Saudita, per esempio) o anche solo incapaci di mantenere i buoni propositi come l’Egitto o lo stesso Pakistan.

È una debolezza morale e un errore culturale. In Medio Oriente, in Asia, in Africa le comunità cristiane sono il miglior tramite per stabilire un proficuo rapporto con le civiltà locali, oltre che la più efficace rappresentazione dei valori su cui è fondata la nostra civiltà. È imperativo, dunque, che l’Occidente riconosca quelle antiche e nuove comunità cristiane come realtà rilevantissime e specialmente care, diverse e profonde espressioni d’Oriente eppure parti di sé, di noi tutti. È indispensabile questo riconoscimento non formale, per proteggere sempre quelle comunità perseguitate e difenderle, quando è il caso. Al Papa sono bastate poche parole. Di che cosa hanno ancora bisogno i governi e le istituzioni internazionali?
  • Fulvio Scaglione
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 26, 2010 8:48 am


  • Alla fine, una certezza il cristianesimo dà gioia
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«Ecco, ora mi cade addosso, non ho scampo». L’uomo di Dio Joseph Ratzinger confessa di aver pensato proprio questo, nell’istante interminabile che ha preceduto la sua elezione per il ministero di Pietro. È la barca di Pietro, in effetti, non una tavola da surf. Non ci sali sopra per scivolare spensierato dove ti porta l’onda. In verità, non ci saliresti proprio, fosse per te. Se poi pensi che devi guidarla nell’attuale «costellazione mondiale, con tutte le forze di distruzione che ci sono, con tutte le contraddizioni che in essa vivono», lo choc è inevitabile.

Il papa Benedetto XVI, nel suo libro-intervista con Peter Seewald, Luce del mondo, che ora tutti potremo leggere (e andiamo davvero a leggercelo, cessando di affaticarci in pericolosi esercizi di stile sulle sue 'spulciature'), usa più di una volta la parola «shock» (all’inglese). O espressioni equivalenti. Il tono fondamentale del suo discorrere svela, qui più che in altre conversazioni analoghe, il tono emotivo del suo personale confronto con l’enormità delle sfide che devono essere affrontate e portate da un uomo di Dio che «deve fare il Papa». Qui più che altrove, Benedetto XVI ci consente di entrare nel senso di sproporzione che accompagna ogni volta il sincero riconoscimento della portata degli eventi in cui il cristianesimo deve seminare il vangelo. E in tale cornice, ci rende affettuosamente partecipi della passione con la quale gli eventi devono essere abitati e vissuti, dal credente che accetta il ministero di Pietro, per onorare la consegna ricevuta.

La sorpresa, che ci deve fare un gran bene, è proprio questa: «Anche il Papa fa questo». Anzi, il Papa in primo luogo. Il Papa attraversa lo sgomento della propria umana piccolezza, senza dissimularlo a se stesso, fingendosi un superuomo.

Il Papa accetta l’azzardo della fede e del suo migliore discernimento, sapendo che egli è il primo a doverlo onorare, perché è l’ultimo che vi si può sottrarre. Il Papa sa di avere deboli forze, proprio mentre accetta coraggiosamente il fatto che – finché ha forza – non può scaricare su altri neppure un grammo del compito che tocca a lui. Il Papa sa che nel piccolo punto del tempo e dello spazio in cui si ritrova, semplicemente umano com’è, deve riflettere, senza reticenze, la consapevolezza delle contraddizioni che abitano il Mondo e anche la Chiesa. Il Papa sa che, per questo, ha ogni genere di sostegno, nella Chiesa: dal più piccolo gesto di simpatia ai doni più grandi della collaborazione nel ministero. Ma sa anche, e lo sa perfettamente, che deve chiedere tutto questo, lui per primo, «come un mendicante» al Signore, «l’amico di antica data».

Il Papa dice e lascia scrivere queste cose: nel genere, non paludato, della conversazione all’impronta. E in questo modo ci rende 'reale' il ministero cristiano. E 'reale' il cristianesimo. Il Papa esce dal mito, ed entra nel realismo della fede. Emozionato, a volte meravigliato, a volte impressionato, a volte accorato dell’enorme responsabilità di fronteggiare le potenze mondane, a volte sorridente del suo modo di essere fedele al ministero ricevuto, per tutti noi.

La partitura di questa improvvisazione orchestrale in cui vibrano i contrappunti dell’uomo di Dio consegnato al ministero singolare del Papa, va ascoltata una prima volta – per intero – con questo orecchio sensibile. La musica di questa confessio papae è il suo insegnamento più profondo e originale per l’oggi del cristianesimo e dell’epoca.

Ha una cadenza precisa, che ne armonizza la forma, per chi saprà ascoltare. «Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto 'contro' sarebbe insopportabile». Gli infaticabili decostruttori e dietrologi di ogni cosa, si fermino per una volta. E ascoltino questa musica. Poi parliamo.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 26, 2010 8:49 am


  • La luce riaccesa dal Papa: la Verità è per le persone mai sulle persone
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Servizio della verità e attenzione alle persone sono le due polarità dell’insegnamento morale di Papa Benedetto nel libro Luce del mondo.

Trattandosi di un’intervista, l’attenzione non poteva che essere portata su questioni eticamente sensibili, come la comunione ai divorziati, l’uso del preservativo, i rapporti omosessuali, su cui s’è polarizzata l’attenzione dei media. Non solo il Papa non si sottrae alle domande, ma trae spunto dalla loro concretezza per portare luce sul vissuto difficile, spesso sofferto, da cui muovono. È la luce della verità, fatta risplendere nella sua interezza. In una socio-cultura scettica ed eclettica eclettica, sensibile alle opinioni prevalenti e alle mode correnti, succube del politicamente corretto, il Papa manifesta il coraggio – san Paolo direbbe la parresia – della verità, dicendola apertamente e facendone valere le esigenze per le libertà e le coscienze. Egli non teme di restare solo a dirla, persuaso di essere a suo servizio, per l’integrale benessere delle persone e delle comunità. Così egli afferma il significato «profondamente umano» della sessualità, irriducibile alla sua dimensione edonica; il carattere «monogamico» e «indissolubile» del matrimonio; il disordine «contro natura» delle relazioni omosessuali e l’«inconciliabilità dell’omosessualità con il ministero sacerdotale». Questo «anche se contraddice le opinioni e gli stili di vita oggi dominanti». Nella dichiarata consapevolezza che «cedere o abbassare l’indice di convinzione non aiuta la società ad innalzare il proprio livello morale». Il Papa mostra così di essere a servizio della verità, di non poterla tacere, di essere da essa illuminato e sollecitato.

Al tempo stesso egli è attento alle persone, considerandone la dignità e le situazioni in cui vengono a trovarsi. La verità non è affermata sulle persone ma per le persone.

L’unica verità si singolarizza nelle condizioni di fatto delle persone. Il maestro è nel contempo il pastore che s’immedesima con la difficoltà, la sofferenza, la prova di ciascuno. Egli sa che la verità dalla oggettività dell’enunciazione dottrinale deve essere mediata nella soggettività delle persone e delle situazioni. Per questo in presenza delle vessazioni e delle emarginazioni degli omosessuali, il Papa esige «il rispetto ad essi dovuto come persone» e la riprovazione di ogni discriminazione. L’illiceità dei rapporti omosessuali non toglie nulla alla dignità dell’omosessuale. Circa i divorziati risposati e la loro sofferenza per l’esclusione dalla comunione eucaristica, il Papa, da una parte, s’immedesima nella situazione di tanti che contraggono matrimonio senza conoscerne appieno – «nel groviglio di opinioni» di oggi – le esigenze di totalità e indissolubilità, così da far dubitare della validità della loro unione e indurre a cercare vie canoniche di soluzione. Dall’altra, fa appello alla pastorale, chiamata a «vedere come restare vicina alle singole persone e, anche nella situazione irregolare, aiutarle a credere in Gesù Cristo Redentore, a credere nella sua bontà e restare nella Chiesa».

In relazione all’uso del preservativo, il Papa mostra attenzione a casi particolari – ne cita uno, quello dei rapporti di prostituzione – in cui le persone non riescono ancora ad evitare il rapporto e per non contrarre o non diffondere l’infezione fanno uso del profilattico. Con questo egli non muta la verità del male morale della contraccezione, ma la considera in rapporto a circostanze che possono dar luogo a una giustificazione soggettiva, a «casi giustificati» egli dice.

In questa attenzione alle persone il Papa è maestro di sapienza dottrinale e pastorale: sapienza che dai livelli alti dei valori e dei principi sa farsi luce di verità nel vissuto concreto e singolare delle persone. «Luce del mondo» è più che un titolo, è uno stile e un metodo di paideia etica.
  • Mauro Cozzoli
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 03, 2010 8:28 am


  • L’uso estremo di un estremo gesto
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È stato un «estremo scatto di volontà» quello che ha portato Mario Monicelli a uccidersi? Chi può dirlo? Il suicidio è un gesto troppo tragico, troppo solitario, troppo estremo per poter essere decifrato e definito in modo perentorio e univoco. A questo si aggiunga che anche gli stati d’animo più frequenti nella vecchiaia, nella vecchiaia avanzata, come quella cui era giunto Monicelli, possono essere decifrati nelle loro molteplici valenze solo con estrema difficoltà. Di una cosa sola possiamo essere certi: tutti gli uomini sentono il bisogno di non essere lasciati soli, di non essere abbandonati; gli anziani e i malati più di tutti gli altri. Per questo il suicidio è un gesto sconvolgente, perché di norma chi si uccide lo fa in una situazione di totale e spesso disperata solitudine, attivando nei familiari, negli amici e in genere nei suoi "prossimi" la domanda angosciosa: si sarebbe ucciso se io gli fossi stato vicino?

Ecco perché utilizzare il suicidio di Monicelli come argomento per perorare l’approvazione di una legge eutanasica è scorretto e fuorviante. È scorretto, perché la legge, qualsiasi legge, per sua natura non è chiamata a regolare situazioni estreme, ma standard, ordinarie, normalmente ripetibili, valutabili con fredda pacatezza: non è questa la condizione in cui si trova un suicida, così come non sono queste le condizioni in cui si trovano i malati terminali, gli anziani colpiti da grave disabilità e più in generale i soggetti afflitti da forme depressive gravi, che alterano la volontà e possono attivare desideri patologici di morte, che è doveroso che i medici combattano.

Ma soprattutto è fuorviante pensare che possa davvero essere giusta una legge sull’eutanasia, anche la più severa possibile e immaginabile, quella cioè che legalizzi l’eutanasia solo quando questa fosse espressione dell’autonomia della persona, solo quando fosse richiesta con piena coscienza e adeguata informazione dal malato terminale. Nei Paesi in cui sono state approvate leggi del genere si è ottenuto un solo autentico effetto: quello di burocratizzare il processo del morire, incrinando profondamente la deontologia ippocratica, favorendo l’abbandono dei malati e inducendoli a proiettare sul medico l’immagine inquietante di chi è disposto, e non solo in linea di principio, a porre intenzionalmente termine alla loro vita.

Non è corretto continuare a ripetere, come si fa da parte di tanti, che il medico che pratica l’eutanasia altro non fa che rispettare la volontà del paziente, perché l’esperienza ci dimostra che questo non è vero: a parte il fatto che accertare rigorosamente la volontà dei pazienti terminali è pressoché impossibile, è un dato di fatto che, dovunque si pratica legalmente l’eutanasia, si assiste all’inevitabile e arbitraria dilatazione burocratica di questa prassi, che viene posta in essere anche quando il consenso del malato non può esserci (come nel caso dell’eutanasia neonatale a carico di bimbi malformati) o non può avere alcun valore giuridico e morale (come nel caso dell’uccisione eutanasica di malati di mente o di malati di Alzheimer).

Non è attraverso l’esaltazione di inquietanti legislazioni eutanasiche che va espresso il rispetto che tutti dobbiamo alla memoria di Monicelli. L’impegno per la vita, per la salute, per la cura di tutti i pazienti, anche e soprattutto di quelli inguaribili e di quelli terminali deve esprimersi in ben altro modo: moltiplicando l’impegno sociale, giuridico, finanziario e morale nei confronti di quegli esseri umani che sono i più fragili di tutti: i malati e gli anziani. È indubbio che la malattia e la vecchiaia costituiscano i problemi cruciali non solo del nostro tempo, ma soprattutto degli anni a venire, ma è altrettanto indubbio che a questi problemi le spinte per la legalizzazione dell’eutanasia offrono non una risposta, ma una scorciatoia intellettualmente disonesta.
  • Francesco D’Agostino
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 10, 2010 10:21 am

  • La fede afferra l’uomo intero
Pietà popolare e gioventù vanno d’accordo? I giovani, possono farsene ancora qualcosa della processione del Corpus Domini, dei pellegrinaggi mariani o della venerazione delle reliquie? Sì, possono! E c’è un bel libro, La fede dei piccoli, che ne è la prova. L’autrice, Elisabeth von Thurn und Taxis, è una giovane donna moderna. Cresciuta a Ratisbona, è andata a scuola a Londra, ha studiato a Parigi e ha vissuto a New York: nel mondo è di casa.

Tanto più positivo è il fatto che una come lei si occupi di pietà popolare. Infatti oggi si scrive ben poco su questo tema. E poi la pietà popolare è in certo qual modo messa ai margini dalla pietà liturgica. Quest’ultima è naturalmente molto importante. Ma la pietà liturgica ha bisogno di essere completata dalla pietà popolare alla quale alcuni guardano invece con una certa alterigia. Perché, invece, la devozione popolare appartiene in modo primario alla nostra fede? La risposta è molto semplice: ciò che è particolarmente bello nella fede cattolica sono gli elementi che ne sollecitano i sensi. La nostra fede non si limita alla preghiera, all’interiorità e alla razionalità. La nostra fede afferra l’uomo intero. Tutto l’uomo è chiamato alla santità, e così egli deve tendervi attivamente con tutti i suoi sensi.

Molti sacerdoti aspirano ad essere 'moderni', 'al passo coi tempi ', per usare solo alcune tra le espressioni oggi più in voga. Credono che la pietà popolare sia qualcosa di superato e, passo dopo passo, la espellono dalla vita della Chiesa. Il protestantesimo ha già abbandonato questa forma di pietà. Per i cristiani evangelici la Chiesa è presente unicamente lì dove si prega e dove vengono amministrati i sacramenti. Ma così si dimentica che la Chiesa è una realtà sempre presente che riempie tutta la nostra vita e che aspira a coinvolgerla integralmente. Purtroppo una simile tendenza ha cominciato a prender piede anche tra noi cattolici. Ci accorgiamo, però, che lì dove viene praticata solo una 'religione razionale', la fede perde forza e, prima o poi, scompare del tutto.

La fede non è un fatto solamente razionale; necessita anche di espressioni semplici e veraci, presenti sin dall’inizio e delle quali l’uomo avrà sempre bisogno. Proprio per noi cristiani esse sono fondamentali.

La pietà popolare è un tesoro della Chiesa. Ed allora è tanto più importante opporsi in modo buono e appropriato alla sua rimozione. Dico questo pensando proprio ai giovani. Ben presto si accorgerebbero di cosa ha perso la nostra fede se non la si potesse più 'toccare con mano', se non coinvolgesse più l’uomo intero. In Baviera, la mia terra, la pietà popolare ha da sempre un ruolo importante. Ai bavaresi l’elemento puramente razionale importa meno. Per essi in primo piano sta ciò che è percepibile con i sensi. Per questo in Baviera la pietà popolare ha un posto particolare nella vita religiosa delle persone.

Certo, oggi a causa della grande mobilità dei singoli diviene più difficile mantenere in vita tradizioni preziose. E tuttavia, più la vita diviene frenetica, più gli uomini hanno bisogno della loro patria, dei propri riti e usi. Per questo è tanto importante che la pietà popolare continui a essere curata e alimentata con entusiasmo, così che possano goderne anche le generazioni future. La fede rimane viva solo se si rivolge a tutto l’uomo. E questo è il messaggio che rivolgo ai giovani cristiani di oggi. E così sono particolarmente contento del fatto che una giovane donna moderna, una giovane scrittrice, la voglia far conoscere e amare proprio alla sua generazione, mostrando questo: la pietà popolare ci avvicina a Gesù Cristo.
  • Georg Ratzinger
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 17, 2010 4:18 pm


  • La via maestra della civiltà
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Libertà religiosa, via per la pace. Alla fine di un anno che, come sottolinea Benedetto XVI, è stato segnato da «persecuzione, discriminazione e terribili atti di violenza e di intolleranza », la strada erta e faticosa per recuperare in tante realtà la convivenza umana e civile non può che passare dal primo dei diritti fondamentali. Le libertà di coscienza, pensiero e religione, coartate con la violenza fisica o con l’emarginazione sociale e culturale, rappresentano infatti il patrimonio più prezioso che dovrebbero custodire gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti.

La lucida analisi e l’accorato richiamo del Papa non si rivolgono infatti solo a chi ha fede nella verità della rivelazione cristiana, ma hanno come interlocutori tutti coloro che con esercizio di razionalità e onestà intellettuale si dispongano al tema. Nel suo messaggio per la Giornata della Pace, il Pontefice esorta «gli Stati e le varie comunità umane» a non dimenticare mai «che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza, ma con la 'forza della verità stessa'. In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica».

Qual è la minaccia portata dai cristiani iracheni allo Stato democratico che faticosamente cerca di emergere dalle macerie della guerra e della dittatura? Qual è l’insidia che i vescovi legati alla Santa Sede costituiscono per la Cina rampante sul fronte economico? Qual è la sfida che la presenza cattolica rappresenta nell’India diventata indipendente con l’azione pacifica del Mahatma Gandhi? Ma qual è anche il pericolo che possono rappresentare minoranze di altri credi in Paesi dove la maggioranza appartiene a fedi diverse?

Le persecuzioni cui sono sottoposti farebbero pensare a nemici della società, mentre sono, nella loro coraggiosa e ostinata determinazione a non abiurare alle proprie convinzioni, l’ultima e più preziosa fiammella della libertà. 'Dissidenti' pacifici che alzano la bandiera della tolleranza e segnalano con la loro sola presenza e, a volte, con il loro martirio, il volto oppressivo e intollerante delle nazioni in cui vivono. Sono le icone di un pluralismo che non è relativismo, di una dignità della persona che non può essere calpestata.

Nel 2010, la libertà di religione va per questo difesa con convinzione e determinazione. Anche nel mondo occidentale, dove certo laicismo aggressivo – che prende di mira soprattutto una caricatura del cristianesimo – ambisce a screditare la religione in quanto tale, negandone il ruolo umanizzante e il «contributo che le comunità religiose apportano alla società», come ricorda il Papa. L’apporto etico della religione, seppure in alcuni casi possa risultare in contrasto con morali laiche, è alla radice stessa della società e della cultura europea, malgrado il rifiuto del pubblico riconoscimento delle loro origini cristiane. Lo stesso dispiegarsi del liberalismo e della scienza moderna, che pure in passato sono entrati in urto con alcune espressioni storiche della religione, è debitore della dignità della persona e del valore della libera ricerca della verità che sono oggi invocate da Benedetto XVI, e senza le quali saremmo privati non solo di uno strumento ma di un fine che tante donne e tanti uomini vogliono continuare a perseguire.

Difendere un’autentica libertà religiosa, dunque, equivale a difendere i presupposti stessi della nostra civiltà.
  • Andrea Lavazza
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 20, 2010 9:59 am


  • Perché Gesù scelse di mandarli «a due a due»
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Due a due. Gesù manda i suoi discepoli due a due (si veda il brano del Vangelo di Luca). Perché questa necessità della coppia?

Avrebbe potuto mandarli a gruppi di tre, in segno trinitario; per dieci, come i comandamenti; per dodici, come le dodici tribù; oppure, e sembrerebbe la soluzione migliore, uno a uno, per meglio attestare l’unità e la potenza del divino. L’eroe solitario, come piace al western. Non c’è bisogno di accolito, bastano una pistola di precisione e un cavallo fedele…

Abbiamo dunque motivo di chiederci se Cristo non si sia sbagliato. Se avesse preferito il lonesome cowboy alla Clint Eastwood, o il samurai errante alla Toshiro Mifune, probabilmente i giovani e altri combattenti solitari, pieni di spirito d’indipendenza, sarebbero stati molto più affascinati dalla missione. Invece, al posto del superman, propone un numero da clown, il pagliaccio triste e quello allegro, Stanlio e Ollio, perché il duo generalmente è comico…

Del resto, qual è il contenuto della missione? A guardarlo più da vicino, c’è veramente da ridere. Innanzitutto, quando si parte per un viaggio a piedi, di solito si raccomanda di portare con sé il minimo: un po’ di soldi, un sacco a pelo, un buon paio di scarpe, un manuale di lingue se si va all’estero. Qui siamo addirittura all’imprudenza.

Il Signore fa una lista negativa: non dimenticate, soprattutto, di non portare con voi né denaro, né sacca, né sandali e – consegna più grave – non perdetevi in saluti per strada. Ma non bisognerebbe almeno soffermarsi in salamelecchi e altre cortesie, per conciliarsi i favori e rimediare così alla mancanza dei soldi e di tutto il resto? No, il nostro duo deve partire come due agnelli smarriti. Senza portare altro che sé stessi e dunque senza portare nulla. Eppure, in una missione umanitaria, si porta sempre qualcosa: un sacco di riso, dei vestiti, istruzione, fiori… Ma anche qui è il contrario. I due apostoli arrivano da voi e sta a voi dare loro vitto e alloggio gratis.

E che cos’hanno da dirvi in cambio? «Pace a questa casa», quando entrano e, quando escono per guarire gli ammalati, «il regno di Dio è vicino». Null’altro. Non divulgano un messaggio esoterico. Non vi impartiscono una lezione di morale. Se rifiutate di accoglierli, proclamano ugualmente «Il Regno di Dio è vicino» e vi lasciano la polvere dei loro piedi. Due comici, vi dico. Quale vescovo li vorrebbe per la pastorale?

E però… ecco dei discepoli secondo il cuore di Dio. Se vanno due a due e senza nulla con sé, è perché non hanno da predicare nulla se non l’incontro vivo. Un uomo solo potrebbe trasmettere un insegnamento; ma qui si tratta di testimoniare una vicinanza, la vicinanza del Regno, e come farlo se non manifestandola fin d’ora attraverso la vita, cioè essendo capaci di essere in due, in comunione l’uno con l’altro? Un uomo con un borsone pieno di soldi potrebbe colmarvi di beni materiali; ma qui si tratta di rivelarvi la ricchezza del vostro volto, e che siete voi stessi il bene che l’Eterno desidera, la perla preziosa per la quale è pronto a vendere tutto, perché il regno è arrivato fino a voi.

Ecco dunque i nostri due apostoli come due clown, a piedi nudi, a mani vuote, sicuramente maldestri, agnelli stupiti di trovarsi fra i lupi, che balbettano le stesse due frasi «Pace… Vicino…», ma che vi fanno passare dall’avere all’essere, dalla progettazione all’evento, dalla potenza alla presenza.
  • Fabrice Hadjadj, traduzione di Anna Maria Brogi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 27, 2010 11:17 am


  • Natale, ovvero la tenerezza di Dio
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Natale è il grande giorno di Betlemme. Lo è tanto che viene celebrato addirittura a tre riprese.

Iniziano, nella notte del 24-25 dicembre, le Chiese cattoliche dei diversi riti, insieme con le altre Chiese occidentali; nella basilica della Natività presiede il patriarca latino accompagnato dai frati francescani, giacché a loro appartiene, insieme agli ortodossi greci e agli armeni ortodossi, la proprietà di questo luogo santo.

Tredici giorni dopo, conformemente al calendario giuliano, è il Natale delle diverse Chiese ortodosse (salvo gli armeni); in basilica celebrano in contemporanea gli ortodossi greci, i copti ortodossi e i siro-ortodossi (questi ultimi due sugli altari prestati loro dagli armeni ortodossi).

Infine, nella notte del 28-29 gennaio (che corrisponde nel calendario giuliano a quella del 5-6 gennaio, festa del battesimo di Cristo), è il Natale della Chiesa armena ortodossa che non conosce la celebrazione del 25 dicembre, ma associa nascita e battesimo di Gesù in una sola memoria; essi celebrano quindi da soli nella basilica.

Certo, celebrare il Natale tutti insieme potrebbe essere un segno di unità fra i cristiani. Tuttavia, se si elevano voci per chiedere una celebrazione comune della Pasqua, di Natale solitamente non si parla, e non è certamente Betlemme che si farà promotrice di una tale richiesta, perché, con questa diversità di calendari, è un mese intero dell’anno che è «abitato» dalla gioia di Natale, per la più grande soddisfazione dei suoi commercianti.

Aldilà della data della nascita di Gesù - che nessuno conosce realmente perché il 25 dicembre come il 6 gennaio sono cristianizzazioni di antiche feste pagane, romana l’una, egiziana l’altra -, ciò che conta è l’evento celebrato: un tremendo paradosso. Pensate! Il Signore dell’universo, l’Onnipotente e il Creatore di tutto ciò che esiste, si riduce fino ad apparire in un neonato.

È così scandaloso che molti cristiani non vollero crederci e dissero che Gesù era, ad un certo momento, diventato Dio… E noi, non releghiamo tante volte il Natale ad una festa giusto buona per i bambini? Dio, fragile bambino, coricato in una mangiatoia, come fieno, pronto ad essere divorato dagli esseri umani. Ed è proprio ciò che avverrà. Trent’anni dopo, Gesù verrà messo a morte, crocifisso come un malfattore sul Golgota, dopo essersi dichiarato «pane vivente» che dobbiamo mangiare per aver parte alla risurrezione e alla vita eterna (cfr Gv 6).

Di questo mistero di Dio fattosi piccolo d’uomo, Betlemme ci ricorda le conseguenze. L’antica città di Davide appartiene oggi all’Autorità Palestinese, ciò che le vale di essere tagliata da Gerusalemme - che pure si trova alle sue porte - da un muro di otto o nove metri di altezza che si attraversa solo se muniti di permessi speciali e non senza severi controlli militari, a meno di essere turisti stranieri, e ancora… Città in cui, nonostante la sua apparenza sorridente, regnano disoccupazione, povertà e mendicità, città che vive soprattutto degli aiuti che arrivano dall’estero. Veramente, vi si fa l’esperienza della «impotenza» di Dio, la quale però non è altro che la «potenza» del suo amore per noi.

Può forse l’amore imporsi con la forza delle armi? Nel bimbo di Natale, Dio condivide le nostre prove e le nostre disperazioni e le illumina con la sua tenerezza. Questo mistero paradossale non vale forse che lo si celebri tre volte? Almeno finché non si sia avverata la parola proclamata dagli angeli: «Pace interra agli uomini che Dio ama».
  • Daniel Attinger
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 08, 2011 4:31 pm


  • Te Deum del cuore
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E ora che l’anno finisce, il cuore deve decidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l’esistenza, come dice la Bibbia. E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pieno di fatiche, deve decidere: lamento o gratitudine? È sempre così.

Di fronte a un anno che passa, come di fronte al viso dei propri figli, o delle persone che ti trovi accanto. Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Mille motivi per dare voce alle ferite. Alle delu­sioni. Ai torti subiti. Mille motivi per far parlare la lingua amara della rivendicazione. O la lingua stanca dell’avvilimento.

Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuore. Ma come c’è la durezza della pena, c’è anche la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine. Quella che proviamo per cose che magari sui giornali non ci finiscono. La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, come il sorriso di un figlio, l’occhiata della persona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fanno notizia, ma che ci suggeriscono una gratitudine invincibile.

E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Per la fede dei semplici, papi nel fulgore del loro ministero o ammalati nella penombra della loro offerta. Vogliamo ringraziare per tutte le madri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno notizia e fanno andare il mondo, mettendo cu­ra e pazienza in lavori senza onori apparenti. Gratitudine per la bellezza spaventosa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla operosità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitiamo e vediamo panorami per cui vale la pena essere venuti al mondo.

Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quelle che, pure facendoci soffrire, ci hanno legato di più a ciò che vale. E ringraziare per le cose da niente, i 'buon­giorno' scambiati per le scale, i 'se hai bisogno di una mano, ci sono' che ci hanno detto anche con gesti silenziosi. Vogliamo rendere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi dove tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentirlo come una ingiustizia, ma come un chiarimento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio.

Ora che l’anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vorrebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l’anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, ringrazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbracci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amore scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la speranza per questo anno che finisce. E ringrazieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo alle tenebre dell’anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell’anno che va e dell’istante che viene.
  • Davide Rondoni
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 08, 2011 4:55 pm


  • Libertà religiosa, via per la Pace
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1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.

Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell'Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.

Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.

Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.

Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale

2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana, la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.

La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 4-7).

Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli. La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Libertà religiosa e rispetto reciproco

3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, “nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune”.

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti “debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.

La famiglia, scuola di libertà e di pace

4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

Un patrimonio comune

5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.

La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia. L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è “la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani”. Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.

La dimensione pubblica della religione

6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà: i pericoli della sua strumentalizzazione

7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con “la forza della verità stessa”. In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.

Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.

Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi - purtroppo ancora disattesi o contraddetti - della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.

Una questione di giustizia e di civiltà: il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti pregiudicano la laicità positiva degli Stati

8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.

Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi - attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione - all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.

L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità, la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.

Dialogo tra istituzioni civili e religiose

9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.

Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell'armonia della società.

Vivere nell’amore e nella verità

10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di “vita buona”, favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terracome le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).

Dialogo come ricerca in comune

11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. “Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.

Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, “annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose”. Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”.

Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.

Verità morale nella politica e nella diplomazia

12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale. Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.

Oltre l’odio e il pregiudizio

13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi - come ho già affermato - forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Libertà religiosa nel mondo

14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.

Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati [...]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora “l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)”. La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.

Libertà religiosa, via per la pace

15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: “Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti”. La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali. Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello ed in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!
  • Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2011
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 15, 2011 10:17 am


  • Il male va preso sul serio come la vita (o la morte) eterna
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Benedetto XVI ha parlato del purgatorio. Di come secondo la mistica santa Caterina da Genova sia non un fisico luogo di tormenti, ma piuttosto un fuoco interiore: la sofferenza dell’anima che percepisce quanto è lontana da Dio. Non uno spazio dunque, ma una condizione. Qualcosa di simile all’immagine di Platone, ricordata dal Papa nella Spe salvi, secondo la quale un giorno le anime staranno nude davanti al giudice. Prima che condanna, il giorno del primo giudizio, quello della morte, sarebbe un vedersi finalmente, crudamente, per ciò che si 'è'.

Ci vuole un certo coraggio, per parlare di queste cose agli uomini del 2011. Perfino nelle chiese se ne predica spesso sottovoce, quasi si trattasse di miti arcaici. E chi segue una scolaresca in visita alla Cappella degli Scrovegni o davanti agli affreschi che costellano le nostre antiche chiese, potrebbe notare la curiosità quasi divertita con cui guarda alle scene di anime del purgatorio, e di bilance gravi sotto al peso dei peccati, e di oscuri demoni ansiosi di impadronirsene. Forse nulla, della tradizione cristiana, appare a noi del terzo millennio tanto irreale quanto quello scenario severo e possente, che era l’orizzonte dell’umanità medioevale.

Lo ha detto apertamente lo stesso Benedetto in 'Luce del mondo': a noi, oggi, queste cose appaiono irreali. Abbiamo da secoli nel sangue l’eredità positivista che ha sostituito la fede nel Giudizio, inteso come giorno di giustizia e di salvezza, con quella nel progresso. E, a livello individuale, siamo da almeno una generazione figli magari inconsapevoli di un’altra rivoluzione, quella freudiana, che ha sostituito il concetto di peccato con il 'senso di colpa'; che è soggettivo, labile, ed eliminabile – ci promettono – con adeguata terapia. Insomma, che davvero il giorno della morte ci si presenti un bilancio, che ci venga chiesto conto di male fatto e talenti sprecati, facciamo fatica a crederlo.

Figli di padri permissivi e distratti, tendiamo a pensare che anche Dio – se poi c’è – sia di manica larga, e di memoria corta. Su questo punto il Papa, nell’intervista a Seewald, mette gentilmente in guardia: dice che «effettivamente la possibilità di essere cacciati via» c’è, e che dovremmo prendere molto sul serio il male. Niente dell’anatema; ma un punto fermo, e una svolta. Qui come nelle frasi di ieri sul purgatorio, si coglie nel Papa un disegno mite nella forma ma audace, e netto nel porsi contro lo 'spirito del tempo'. Lui stesso ha parlato di «realismo escatologico»: cioè di riportare i novissimi, le cose ultime, nella dimensione della realtà. Ha detto che la Chiesa deve condurre le persone a guardare «oltre le cose penultime, e a mettersi alla ricerca delle ultime». Ma «con parole e modi nuovi, per sfondare il muro del suono del finito».

Già, quel 'finito' in cui siamo immersi e rischiamo di annegare, presi nella trama di necessità, urgenze, ambizioni, avidità. Attenti a tutto fuorché a ciò che è l’essenziale: cioè che la morte, nostra, e dei nostri figli e di chi amiamo, non sia per sempre. Ci importa, di questo? Presi dagli affanni quotidiani, a questa domanda ritorniamo spesso solo da vecchi, o malati, o quando un lutto lacerante strappa via tutto ciò di cui vivevamo.

Normalmente parlando, la vita eterna e dunque il giudizio sono lontani dai nostri pensieri. Insomma, ci diciamo, in ogni caso, quel giorno non sarà poi così terribile.

Infantile per noi, l’armamentario dell’iconografia medioevale di bilance, e diavoli punzecchianti. Ci occorrono altre parole. Il purgatorio come percezione della verità su di sé. Come le anime nude di Platone, o il «fuoco interiore» di Caterina – o la salvezza descritta da Paolo ai Corinzi, che verrà «come attraverso il fuoco». E sembra che il Papa faccia un grande sforzo da padre per dirci ancora, in modo a noi comprensibile, ciò che è vero da sempre. Per dirci, lui vecchio, lui ex ragazzo cresciuto.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 17, 2011 10:11 am


  • Ci ha fatto suoi
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Era già santo in vita. O almeno, era la radicalità stessa della sua testimonianza evangelica, l’abbandonarsi totalmente nelle mani del Signore, l’ansia missionaria, la capacità profetica di leggere i segni della presenza divina nella storia, e anche la sua umanità, la serenità e il coraggio nell’affrontare le prove più tragiche, ecco, era tutto questo che dava in Karol Wojtyla la sensazione di un’esistenza rivolta – come diceva Madre Teresa della santità – a fare ogni giorno la volontà di Dio.

L’amore per Cristo, in Lui, era amore per ogni donna e ogni uomo, indipendentemente dalla razza, dal colore della pelle, dal rango sociale, dal credo religioso. «L’altro mi appartiene», aveva scritto. E anche molti non cristiani, e perfino non credenti, si convinsero che il modo in cui aveva sopportato le tremende sofferenze ed era andato incontro alla morte era inscritto in un disegno superiore, e comunque non spiegabile in termini umani. E adesso, finalmente, c’è il sigillo ufficiale della Chiesa sulla esemplarità evangelica dell’avventura umana e spirituale di Karol Wojtyla.

Benedetto XVI ha messo la parola fine all’iter processuale – ultimato in tempi record, ma senza forzature – e il 1° maggio si terrà in piazza San Pietro il rito di beatificazione. È il primo passo verso un riconoscimento definitivo della santità. Ma è un passo decisivo. Tanto più che, per come si svolgerà, a Roma, nel centro della cattolicità, e presieduta dal Pontefice, la cerimonia servirà a rilanciare universalmente la grande eredità lasciata da Giovanni Paolo II.

E non si poteva scegliere una data migliore. Quest’anno il 1° maggio, prima domenica dopo Pasqua, cade la festività della Divina Misericordia, che lo stesso Wojtyla aveva istituito ispirandosi alle profezie di suor Faustina Kowalska. Ebbene, morto alla vigilia di questa festa, Giovanni Paolo II sarà beatificato nella stessa ricorrenza liturgica. Dunque, sempre sotto il segno della Misericordia divina, che lui vedeva come fondamento del rispetto della dignità dell’uomo. E c’è qui il senso profondo del “mistero” che la sua vita ha rappresentato, in una straordinaria sintesi tra esperienza di Dio e scelta per l’uomo.

È stato infatti il Papa dell’Incarnazione, strumento e interprete della paternità divina. Ha plasmato una Chiesa più spirituale, più centrata sulla parola di Dio, più laicale, ecumenica, meno moralistica, meno legata ai poteri temporali. Ha prospettato un nuovo modo di vivere oggi da cristiani. È stato il Papa che, avendo conosciuto l’orrore delle guerre, dei totalitarismi, e della Shoah, ha difeso la causa dell’uomo e i suoi diritti con una tale forza e una tale passione da rischiare di essere ucciso. Il Papa che è stato presente in ogni frammento, grande o piccolo che fosse, della storia tormentata, contraddittoria, dell’umanità contemporanea. Il Papa che ha spinto le altre Chiese e le altre religioni a ritrovare la loro vera natura, cioè ad essere costruttrici di pace.

Giovanni Paolo II, così, ha contribuito, a buttare giù muri ideologici, politici e anche confessionali. E se non tutte le imprese sono riuscite, ha comunque spalancato porte che erano ermeticamente chiuse; ha avviato dialoghi tra chi neppure si parlava; ha saputo riaccostare le nuove generazioni a un’esperienza religiosa. Insomma, ha portato in giro per il mondo il suo incoraggiamento evangelico, «Non abbiate paura!».

Ma non è questo il momento dei bilanci. È il momento del ricordo, della gioia, della preghiera. Ognuno potrà vivere questo momento nel suo cuore, attraverso l’esperienza spirituale che Karol Wojtyla lo ha aiutato a fare, nel ritrovare Dio. E quindi, nel riscoprire la grandezza del proprio essere uomo, il significato profondo del proprio agire morale.

Ed è un augurio che vorremmo rivolgere anche a quanti, il 1° maggio, parteciperanno a un’altra festa, la Festa del Lavoro, in un’altra piazza di Roma, a San Giovanni. L’augurio, cioè, di riservare un pensiero riconoscente a un Papa che non solo ha conosciuto personalmente la fatica del lavoro; ma ha contribuito a far sì che un certo mondo del lavoro ritrovasse la propria dignità, al di là delle ideologie che per tanto tempo ne avevano offuscato le idealità originarie.
  • Gianfranco Svidercoschi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 21, 2011 9:09 am


  • La Chiesa, una preghiera polifonica
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A chiusura del mese di gennaio, nei giorni che precedono la festa della Conversione di Paolo di Tarso, la Chiesa universale medita sulla sua essenza, sui fondamenti costitutivi della sua elezione. Legge il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, quello prima della Passione, ove Gesù prega il Padre in un discorso accorato che assomiglia tanto a un testamento: «E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,22-24).

Forte questo ultimo richiamo al Prologo giovanneo, al rapporto intimo infratrinitario e al tempo eterno, «prima della creazione del mondo». Qui, in questi stadi alti dell'unicità di Dio, si radica l'istituzione della Chiesa, famiglia di Dio.

Quest'anno il "tema" per la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani lo ha dettato la Chiesa di Gerusalemme, i cristiani che vivono e testimoniano Gesù in Terra Santa: ortodossi, cattolici, armeni, siro-ortodossi, evangelici e luterani, ecc. Hanno richiamato tutti noi alla riflessione di Atti 2,42: «Uniti< nell'insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera». Uniti in coro nella sinfonia delle diversità che, sotto lo sguardo< di Dio, sa trovare l'unità dell'eguaglianza: tutti fratelli.

In una società tutta celebrativa, che gode per il successo, la notorietà, il potere economico, la libertà sfrenata, questo monito risuona dissonante e atipico. Arriva troppo da lontano, dal vissuto dei cristiani del primo secolo, quelli che avevano visto "i segni" di Gesù, assistito al vento di Pentecoste che aveva trasformato Babele nella città della comprensione e del dialogo. Eppure la Gerusalemme di oggi, con le sue drammatiche tensioni politiche e militari, con le stridenti situazioni sociali e i difficili rapporti economici è, forse, il miglior laboratorio per il dialogo interreligioso. Città Santa per ebrei, musulmani e cristiani, accoglie nelle sue mura 13 cattedre vescovili di altrettante confessioni cristiane: una prima sofferta comunità sinfonica.

Il futuro dell'unità incrocia a Gerusalemme, anche se nelle tappe di avvicinamento vedremo alcuni patriarchi in San Pietro a Roma e il Papa a Westminster, a Mosca e a Pechino. Progetti comuni di evangelizzazione già avanti, risposte condivise alle sfide della civiltà moderna, tecnologica, scientista, massmediatica. Sono le immagini dei nostri sogni e possono essere le parole delle nostre preghiere.
  • Antonio Tarzia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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