All'ombra del sicomoro...

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 24, 2013 8:36 am


  • Il fare
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«Ciò che abbiamo di più prezioso non sono le nostre opere o le nostre organizzazioni. Ciò che abbiamo di più prezioso è Cristo e il suo Vangelo». Sono parole del Papa riprese ieri dal cardinale Bagnasco nel suo discorso introduttivo ai lavori dell’assemblea generale dei vescovi. Dove Bagnasco, partendo dal desiderio della Chiesa italiana di «pulsare col cuore del Papa», ha posto al centro la questione di come questa Chiesa possa essere vista da tanti che attendono «uno squarcio dal cielo»; da tanti che, in un momento storico di difficoltà e paura, domandano ai credenti di dare ragione della speranza che è in loro.

Come una Chiesa può "far vedere" la fede, si è chiesto il presidente dei vescovi di uno dei Paesi di più grande tradizione cristiana. Quasi incalzato egli stesso, e i suoi, dalla domanda posta giorni fa da Francesco: «Come sono io fedele a Cristo?». (Perché questo Papa che seduce e affascina i lontani, continuamente per i credenti è una provocazione. Come se ogni mattina da Santa Marta chiedesse: credi tu, ami tu Cristo, davvero?).

E l’ansia di una Chiesa che "faccia vedere" la fede è il filo del discorso di Bagnasco, che cita Mounier, quando esorta il cristiano perché «metta la vela grande dell’albero di maestra, e salpi verso la stella più lontana senza badare alla notte che lo avvolge». Ma come si alza questa vela, e quale vento la spinge? Il rischio di cadere nel volontarismo, nella tenace applicazione dei propri anche ottimi progetti, è così umano. Ognuno di noi tendenzialmente, nel suo fare, parte da sé, dalla propria logica, e volontà, e potere. Ma ciò che Francesco da due mesi ripete, in cento occasioni, è in sostanza una cosa: è invece Cristo che opera, attraverso gli uomini, è Lui che fa.

Così che il discorso di Bagnasco potrebbe stare tutto nella espressione di Ambrogio ricordata due mesi fa dal Papa, e ieri dal presidente della Cei: mysterium lunae. Ambrogio paragonò la Chiesa alla luna perché come la luna la Chiesa non vive di luce propria, ma del riflesso di quella di Cristo. E quindi non di ottime opere e di efficienti apparati e di provate competenze: ma solo in quanto davvero rispecchi quella luce.

La vera luce che la Chiesa può mostrare a chi cerca in lei una speranza, non è sua; è Cristo riflesso nella faccia di uomini e donne che si lascino trasformare da Lui. E dunque perché la nostra fede possa essere "vista", dice Bagnasco, «è necessario innanzitutto arrendersi» a Cristo (e non è facile, per quella istintiva tendenza umana a dire, a pensare sempre, prima di tutto: io posso, io voglio, io so). Poi, aggiunge il cardinale, dobbiamo vincere l’individualismo e l’indifferenza che «corrodono il cuore».

E questo non ce lo vediamo forse addosso, guardandoci allo specchio, e magari di più se siamo cresciuti cristiani? Ci si può abituare anche a Dio, o almeno alla immagine che di Dio ci facciamo. Ci si può lasciar coprire da una crosta di apparente buonsenso, di garbato cinismo. Si può anche finire col confondere l’esser cristiani con l’onesto civismo di chi si dice perbene. Ma la fede non è cosa che si possa custodire come un oro di casa; se la si trattiene, la si perde. Si rafforza invece, dice Bagnasco, guardando fuori da noi stessi. (Perché una Chiesa che non esce da se stessa, va ripetendo da due mesi Francesco, si ammala).

La Chiesa italiana vuole seguire il Papa in quella radicalità evangelica che insieme spaventa e innamora; nella tensione a Cristo, come centro di sé e del proprio fare. Centro profondo, che da fede si fa naturalmente opera, mano tesa – come è da secoli qui da noi – a chi ha bisogno. Perché, per dirlo come Paolo VI nella chiusura del Concilio, per conoscere l’uomo bisogna conoscere Dio; ma per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. La fede, e le opere. Ma cominciando da Cristo. Intaccando quel nodo di incredulità che tutti, ha detto il Papa ieri, abbiamo dentro. Crediamo, sì, ma non rischiamo troppo, non ci affidiamo del tutto: «È il cuore chiuso, il cuore che vuole avere tutto sotto controllo», ha aggiunto. E ha esortato a pregare come il padre argentino che implorò tutta la notte la Madonna per la sua bambina, davanti al grande santuario di Lujan chiuso. E il miracolo accadde. Pregare dunque con coraggio, perfino con pazzia. Che poi vuol dire ancora la stessa unica cosa: sapere che è Cristo, il solo che, davvero, fa.
  • Marina Corradi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 30, 2013 2:14 pm


  • Autostima e allegria l’eucaristia di Bergoglio
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In una omelia del 25 giugno 2011 per la solennità del Corpus Domini, Jorge Mario Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, offriva una riflessione suggestiva sul mistero dell’Eucaristia e della sua centralità nella vita della Chiesa.

La riflessione partiva da sant’Agostino, dall’antifona agostiniana ripresa nell’Ufficio delle letture per la festività del Corpus Domini: «Mangino il vincolo che li mantiene uniti, per non disgregarsi; bevano il prezzo della loro Redenzione, per non sminuirsi» (Sermone 228 B). Il futuro Papa Francesco definiva quest’antifona agostiniana molto hermosa e di aiuto per meditare sul gesto del Signore che invita a nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue. E tutta la sua omelia, avendo come riferimento il Sermo 228 di Agostino, s’incentrava sull’Eucaristia come fonte di unità e anche come sorgente della nostra vera autostima. «Fissate quello che dice Agostino: il Corpo di Cristo è il vincolo che ci mantiene uniti, il Sangue di Cristo, il prezzo che pagò per salvarci, è il segno del nostro valore.

E allora mangiamo il Pane della Vita che ci mantiene uniti come fratelli, come Chiesa, come popolo fedele di Dio. Beviamo il Sangue con il quale il Signore ci mostrò quanto ci vuole bene, ci desidera. E così manteniamoci in comunione con Gesù Cristo, affinché non ci disgreghiamo, non sminuiamo il nostro valore, non ci disprezziamo». In quest’omelia, il cardinal Bergoglio riprendeva anche un aspetto messo in rilievo da Benedetto XVI nel suo libro su Gesù. Il Papa allora regnante aveva sottolineato che negli Atti degli apostoli, per indicare lo stare a tavola di Gesù Risorto coi suoi discepoli, l’evangelista Luca aveva usato l’espressione synalizomenos, «mangiando con loro il sale». Nell’Antico Testamento – spiegava Ratzinger – unirsi a mangiare in comunione pane e sale, o a volte solo sale, serviva per suggellare solide alleanze (Nm 18, 19). «Il sale – sottolineava Bergoglio – è garanzia di durata. Questo mangiare il sale di Gesù Risorto è segno della Vita incorruttibile che egli ci porta.

Questo sale della Vita, sale che è pane consacrato condiviso nell’Eucaristia è segno dell’allegria della Resurrezione. Come cristiani condividiamo il sale della vita del Risorto, e questo sale impedisce che noi ci corrompiamo, ci disgreghiamo e ci disprezziamo». «Allora, come dice Agostino, mangiamo il Pane della vita: è nostro vincolo di unione. Beviamo il Sangue di Cristo che è nostro prezzo per non considerarci da poco. Che bella maniera di sentire e di gustare l’Eucarestia!».

È per questa via che l’Eucaristia può diventare, secondo Bergoglio, anche sorgente di una salutare stima di se stessi. Essa libera il cuore degli uomini dalle insidie uguali e contrarie dell’auto-demolizione e dell’auto-esaltazione, perché «il Sangue di Cristo, quello che versò per noi, ci fa vedere quanto valiamo.

A volte noi – continuava l’arcivescovo di Buenos Aires, riferendosi ai suoi concittadini porteños – ci valutiamo male. Prima ci crediamo i migliori del mondo e poi passiamo a disprezzarci, e così andiamo da un estremo all’altro. Il Sangue di Cristo ci dà la vera stima di noi stessi, la stima di sé nella fede: valiamo molto agli occhi di Gesù Cristo. Non perché siamo di più o di meno degli altri, ma perché siamo stati e siamo molto amati». Insieme al dono di una stima di sé emancipata da ogni ripiegamento sul proprio io congestionato, il nutrirsi del Corpo e del Sangue di Cristo fa fiorire anche il miracolo di una unità tra gli uomini tanto attesa quanto irraggiungibile con le sole forze umane.

«La presenza di Gesù – aggiungeva Bergoglio nella sua omelia per il Corpus Domini del 2011 – sempre contagia di allegria. L’allegria del Vangelo, l’allegria del perdono, l’allegria della giustizia, l’allegria di essere commensali del Risorto! Quando lasciamo che lo Spirito ci riunisca insieme nella mensa dell’altare, la sua gioia scende nel profondo del nostro cuore e i frutti dell’unità e della stima tra i fratelli germogliano, scaturiscono spontaneamente in mille forme creative».

L’omelia termina infine con la preghiera a Maria «che non guardi alla piaga delle dispersioni e del disprezzo», che per Bergoglio «sono frutti agri di cuori tristi», e «che ricordi a Gesù le volte che "non teniamo vino", perché la alegria di Cana inondi i cuori della nostra città, facendoci sentire quanto preziosi siamo agli occhi di Dio».
  • Stefania Falasca
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 07, 2013 9:25 am


  • Rifugiati e migranti forzati, la sfida dell'accoglienza
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Non sempre è facile, nel sentire comune, distinguere tra migranti e rifugiati, tra chi lascia il proprio Paese e chi è costretto a partire a motivo di guerre, persecuzioni, disastri ambientali o perché vittime di tratta per lavoro o per sfruttamento sessuale.

È una distinzione, invece, importante, che richiede un differente approccio culturale e politico, sociale e pastorale. È una distinzione, però, difficile, per la complessità e la molteplicità di fenomeni della mobilità umana che oggi interessano oltre 200 milioni di persone. A questi mondi in cammino si accompagnano anche gli apolidi – che in Italia nel decennio appena trascorso sono passati da 35.000 a 70.000 –: persone riconosciute come cittadini da nessuno, senza una città. Per conoscere e orientare l’accoglienza dello specifico mondo di almeno 50 milioni di persone costretto a mettersi in cammino forzatamente, il Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti e Cor Unum hanno voluto pubblicare gli Orientamenti pastorali «Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate», quale segno della sollecitudine della Chiesa per l’unica famiglia umana di cui tutti sono parte (n.9).

Gli Orientamenti invitano a non dimenticare la dignità umana (n.25) e l’attenzione alla famiglia dei profughi, richiedenti asilo e rifugiati, delle vittime di tratta (n.27); fanno appello alla carità e alla solidarietà dei cristiani (n.28), ma soprattutto alla cooperazione internazionale, perché la situazione drammatica non perduri a lungo (32); invitano a non dimenticare l’accompagnamento religioso e spirituale delle persone in fuga (n. 37). Una parola tra tutte guida gli Orientamenti: protezione. Protezione sociale e umanitaria, nelle diverse forme indicate dalle Convenzioni internazionali e anche in nuove – come nei Centri di detenzione –, per andare incontro alla complessità dei fenomeni, sono gli strumenti di tutela delle persone rifugiate e richiedenti asilo, sfollati, vittime di tratta, apolidi. Nessuno, soprattutto se donne e bambini, famiglie vittime di forme nuove di schiavitù, può essere dimenticato.

Ogni persona, ogni Stato deve sentirsi responsabile di ogni persona e famiglia costrette a una migrazione forzata. Ogni «Chiesa locale deve impegnarsi pastoralmente con le persone in mobilità. Il suo interesse deve essere visibile nei servizi forniti da parrocchie territoriali o personali, da "missiones cum cura animarum, congregazioni religiose, organizzazioni caritative, movimenti ecclesiali, associazioni e nuove comunità» (n.89), oltre che da forme nuove di collaborazione tra le Chiese di partenza e di arrivo dei migranti. In particolare, si richiama l’importanza «innanzitutto e soprattutto» della parrocchia che può così vivere in modo nuovo e attuale la sua antica vocazione di essere «un’abitazione in cui l’ospite si sente a suo agio», come aveva ricordato il beato Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata del migrante e del rifugiato del 1999. «Operatori di pace», conclude il documento, sono coloro che camminano a fianco di coloro che sono rifugiati e vittime di tratta, riconoscendo in essi il volto di Cristo, meglio, «la carne di Cristo», come ha ricordato Papa Francesco.
  • Giancarlo Perego, direttore generale Migrantes
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio giu 13, 2013 1:38 pm


  • Parlare ai figli assetati d'amore
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La «compassione» di Cristo, ha detto Papa Francesco, «è l’amore di Dio per l’uomo, è la misericordia». E ha aggiunto che il termine biblico «compassione» richiama le viscere materne: «La madre infatti prova una reazione tutta sua al dolore dei figli. Così ci ama Dio, dice la Scrittura». L’immagine non è nuova. «Come una madre consola il figlio, io vi consolerò», si legge in Isaia, e ripetutamente nell’Antico Testamento torna il concetto di un Dio che ama anche «con viscere materne»...

Una vedova piange la morte del suo unico figlio. I suoi passi a Nain, in Galilea, si incrociano con quelli di Gesù, che posa su di lei il suo sguardo. «Vedendola, il Signore fu preso da una grande compassione», riferisce l’evangelista Luca. Non sembra, benché siano passati duemila anni, di poter vedere anche noi quell’istante? Una donna china sul corpo del figlio morto, sola nel suo abisso di dolore: è la scena della Pietà di Michelangelo, ma quante altre infinite volte replicata, ogni giorno, nella storia del mondo. Anche oggi, in questo momento, certamente delle donne piangono i loro figli come la vedova di Nain. Ma quante, e quanti, anche cristiani, non sanno, o hanno perso la memoria di com’è lo sguardo di Cristo, sul loro dolore. Per questo forse il Papa domenica all’Angelus ha insistito su quelle due righe del Vangelo.

La «compassione» di Cristo, ha detto, «è l’amore di Dio per l’uomo, è la misericordia». E ha aggiunto che il termine biblico «compassione» richiama le viscere materne: «La madre infatti prova una reazione tutta sua al dolore dei figli. Così ci ama Dio, dice la Scrittura». L’immagine non è nuova. «Come una madre consola il figlio, io vi consolerò», si legge in Isaia, e ripetutamente nell’Antico Testamento torna il concetto di un Dio che ama anche «con viscere materne». Una espressione evocata con forza da Papa Luciani e ripresa da Giovanni Paolo II («Le mani di Dio sono di padre e di madre nello stesso tempo»); mentre l’allora cardinale Ratzinger notò come nella Scrittura la pietà di Dio è espressa «con un termine gravido di corporeità, "rachamim", il grembo materno di Dio». E magari ci sarà qualcuno che nella frase di Francesco andrà a cercare indicazioni per cavillare sul "gender" di Dio. Ma quanto è più grande ciò che ha detto il Papa. Francesco ha ridetto a quelli che, vicini e lontani, lo ascoltavano, quanto immenso è l’amore di Dio. Forse perché, da uomo che ha vissuto in una metropoli e ne conosce le solitudini, non dà affatto per scontato che gli uomini di oggi sappiano che c’è un Padre, che li ama. In una "nuova evangelizzazione" che gli viene istintiva, Bergoglio non perde occasione di dire a chi lo ascolta, magari anche per caso, semplicemente da una radio accesa, che l’amore di Dio non è astratto, e tantomeno riservato ai "buoni"; che è un abbraccio gratuito, e incondizionato.

Ma, come spiegare questo tipo d’amore? Ciò che più nella nostra esperienza ci si avvicina, è l’amore di una madre. Che non smette di amare il figlio neanche se è un assassino o un bandito – perché quel figlio è scritto nel suo sangue e nel suo cuore, e lei non può scordare che occhi aveva, quando era un bambino. Ed ecco allora le «viscere materne» richiamate dal Papa, nell’urgenza di un nuovo annuncio che Francesco sembra sentirsi sempre addosso: annuncio a chi non sa, o a chi sapeva, ma ha dimenticato. Quanto Dio poi sia anche madre, è un tema per le disquisizioni dei dotti. A noi basta il Catechismo, che dice: «Egli non è né uomo né donna, egli è Dio». Con quali parole allora si potrà dire l’Altro da noi, l’infinito – i cui pensieri, ci è stato detto, non sono i nostri pensieri? Davvero, la sola alternativa a un algido non detto, di fronte a questa immensità, è il ricordo di ciò che abbiamo vissuto da bambini: l’amore che una madre dà ai figli. E, dal suo primo giorno sul soglio di Pietro, Bergoglio insiste con potenza sulla misericordia di un Dio, che tutto perdona. Da conoscitore di anime certo sa che questa promessa affascina, che questa bellezza opera più di mille severi e afflittivi sermoni. Non è forse ciò che al fondo vogliono tutti, gli uomini, l’essere amati?

Allora l’immagine di una madre è quella che più carnalmente dice quel tipo di amore senza condizione. È questa in fondo l’eco di urgenza che torna e ritorna in ogni parola di Francesco: l’annuncio di un amore. Di quel tipo di amore che non è degli esseri umani; ma, dovendo dare, per capirsi, una misura allo smisurato, ciò che più gli somiglia è l’abbraccio di una madre: che ama comunque, e non dimentica mai.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio giu 20, 2013 2:29 pm


  • Il tocco di Dio
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Immaginate di trascrivere, in un volumetto agile e succoso, di ampia divulgazione, ma anche di acuta dottrina, "la prima lezione di ecclesiologia" di Papa Francesco. Cento pagine, un argomento essenziale, molti esempi. (È una ricostruzione non autorizzata, la mia, della quale mi assumo il rischio, sperando che sia utile. E gli esempi non sto a ricordarli, li abbiamo visti tutti, stupiti e lieti, giorno per giorno). La mia percezione è che il tema si potrebbe indicare così. La prossimità di Dio si vede, si ascolta, si tocca persino, nella prossimità di Gesù. E dunque, il primo comandamento della Chiesa è questo: «Va’ e fa’ lo stesso» (Lc 10, 37).

Il primo atto, la prima impressione, la prima emozione che deve accompagnare l’incontro con la Chiesa, è l’immagine della prossimità di Gesù. E la traccia indelebile che dovrebbe rimanere associata a questo incontro, dovrebbe essere quella di un contatto con Dio che rimane segnato nella memoria del corpo, fino a persuaderti che non te lo sei sognato, non te lo sei immaginato, non te lo sei costruito da te nella tua mente. Il primo tocco di Dio è quello che non si scorda mai più. Leggi il vangelo seguendo questo filo d’oro della prossimità di Gesù, in cui si forma l’apprendistato dei Discepoli: in presa diretta con la "fisicità" del contatto fra Gesù, i singoli, le folle. Segui le sue parole, ma anche i suoi toni di voce, i suoi sguardi, i suoi gesti, le sue traiettorie e le sue fermate, il suo modo di mettersi in mezzo e di ritrarsi con discrezione. Segui le sue mani, come si sporcano di terra a scrivere l’inconfessabile, che riporta ognuno all’umiltà del suo limite e del suo giudizio; o come fanno un piccolo impacco di fango che puoi lavare tu stesso, per riacquistare la vista e ogni altra liberazione dal male. Segui il suo corpo, come fa barriera contro il disprezzo per il pubblicano e contro l’avvilimento della donna; come si raccoglie nella preghiera, come sta sereno nella tempesta, come si offre al posto dei discepoli nell’orto del tradimento, del fanatismo, delle lotte di potere. Seguilo e impara come si scrive la parola di Dio nell’anima, lasciando nel corpo il segno della sua giustizia. Seguilo e impara come si annuncia il giudizio di Dio sul mondo, nel segno di una prossimità misericordiosa che non lascia nessuna scusa al risentimento: perché quel giudizio prende anzitutto su di sé i pesi del suo peccato e delle sue ferite.

Per farsi occasione e tramite di questo tocco della prossimità di Dio, la Chiesa non ha che da esporsi essa stessa, in primo luogo, alla prossimità del Corpo del Signore. E scegliere la via del segno più diretto e meno enfatico che esista per renderla trasparente agli abitanti delle periferie di questa moderna città dell’uomo, così piena di sé e così vuota di misericordia. Nessun talento prezioso sarà sprecato, se verrà giocato e speso per la trasparenza di questa eredità. Nessuna sacra dignità sarà ferita, se si farà un punto d’onore della sua conversione a questo stile del ministero. Se quando si dirà "Chiesa", ciò che prima di tutto verrà alla memoria della mente e del cuore sarà il ricordo del tocco di Dio, il Servo di tutti i servi di Dio, per primo, troverà qui la sua ricompensa migliore. E noi tutti – «minimi e peccatori» come dice l’antica liturgia – scopriremo di poter essere veramente, per pura grazia, un sacramento del tocco di Dio. Una Chiesa che ha bisogno di spiegarsi e di giustificarsi troppo è una Chiesa che ha perduto l’efficacia del tocco di Dio, del quale è tramite. Nessuna rendita di posizione può supplire lo svuotamento di questa prima icona. Nessuna strategia di comunicazione può colmare la mancanza di questo primo amore. Ricorda, Chiesa, come si muove il Corpo del Signore. E fa’ lo stesso. La lezione di ecclesiologia dei primi cento giorni è questa.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven giu 28, 2013 10:20 am


  • Dalla parte dei piccoli
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Nell’inferno di un conflitto senza regole, in cui anche i piccoli e gli indifesi possono essere trasformati in strumenti, in macchine di morte, può accendersi una luce di speranza. Una luce che ha un unico interruttore e una sola fonte di energia: il Vangelo. In Sierra Leone, quella luce, insieme ad altri, e in particolare al vescovo Giorgio Biguzzi, l’ha tenuta alta per anni Giuseppe Berton, missionario saveriano, meglio noto come "Padre Bepi", apostolo dei "bambini soldato", che se ne è andato martedì a 81 anni. Con l’impegno su uno dei fronti più pericolosi del Pianeta, Berton ha incarnato coerentemente la missione "ad gentes", annunciando e testimoniando la Buona Notizia senza risparmio. Siamo certi che la sua morte, nella fede, è stata vinta (ancora una volta), proprio come accadeva quando generosamente riscattava quei "soldatini di piombo" che tanti lutti avevano prodotto durante la sanguinosa guerra civile sierraleonese. E lui è stato uno dei protagonisti in positivo della terribile ondata di violenza che ha devastato il Paese tra il 1992 e il 2000. Protagonista dalla parte del bene, vicino alla gente ostaggio delle violenze e degli interessi esterni che andavano ben al di là delle rivendicazioni delle fazioni della guerriglia.

Pieno di intraprendenza umana e di zelo missionario, in tutte le attività che svolse puntava ad affermare la sacralità della vita. Per lui, i bambini soldato erano le prime vittime dei "signori della guerra" e, sebbene fossero stati costretti a commettere ogni genere di nefandezze, meritavano misericordia. E sì, perché quella "gioventù bruciata", se avesse potuto, se non fosse stata costretta con la violenza ad altra violenza, sarebbe volentieri tornata sui banchi di scuola, dai quali era stata strappata. Ma le sopraffazioni perpetrate nei loro confronti, abusi che gridano ancora oggi vendetta al cospetto di Dio, non avevano soffocato la loro voglia di vivere. Per questa ragione, padre Berton si spese nel sostenere il progetto Kissy, in un luogo apparentemente incantevole, sulla spiaggia di fronte all’oceano, all’estrema periferia di Freetown. Chi scrive, lì incontrò , anni fa, "Caporal Highway", un giovane che precedentemente aveva massacrato persone innocenti sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Aveva deciso di riprendere gli studi, dopo il lungo conflitto. Era tornato a sorridere proprio grazie a padre Bepi, che gli riconsegnò l’umanità e la dignità perduta. E come il "Caporale autostrada" sono decine le storie di riscatto che il religioso dalla forte tempra illustrava nei convegni cui veniva invitato a raccontare della sua gente, del popolo di un Paese condannato dalla storia ad essere tra gli ultimi del mondo.

A testimonianza del suo impegno, nel 2001, l’allora segretario dell’Onu Kofi Annan volle incontrarlo di persona e visitare il centro di riabilitazione di Kissy. Dal giugno dello scorso anno il coraggioso missionario era in cura a Parma. Nato a Marostica (Vicenza) il 5 febbraio 1932, dal 1973 fino alla vigilia della morte, padre Berton ha vissuto in Sierra Leone, dedicandosi ai più poveri, a coloro che "non fanno notizia". E anch’egli (con tre confratelli) venne rapito nel 1999 dai ribelli che fecero dei bambini-soldato i carnefici di tanta umanità dolente. Da allora aveva intensificato i progetti che hanno permesso di recuperare almeno duemila ragazzi e ragazze, restituendoli alla vita e alla società.

Padre Berton è stato un autentico "casco blu di Dio", testimone di una Chiesa, "piccolo gregge", a servizio della verità e della pace.
  • Giulio Albanese
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven lug 05, 2013 9:07 am


  • Le tre prime volte di «Uno di noi»
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La raccolta delle firme per l’iniziativa europea «Uno di Noi» ha raggiunto quota 700mila. Il traguardo è un milione di firme e il termine è il 1 novembre prossimo. La campagna è in pieno vivo, accesa dal forte sostegno di tutte le associazioni pro-life dei 28 Paesi dell’Europa, rinvigorita dall’impegno del mondo cattolico, in sintonia profonda con quanti difendono la vita.

L’Italia è in prima fila. Nell’estate si prevedono nuovi giorni intensi di comunicazione, a rinfocolare questo invito positivo e costruttivo. Ci sembra di vedere un’onda che bussa alla coscienza e al cuore degli uomini, cogliendo nella crescente risposta dei popoli il segnale di una spontanea «voglia di bene» verso la vita. Il desiderio dei promotori è naturalmente di oltrepassare il traguardo, e di spingere in alto quanto più possibile la voce corale raccolta, oltre il confine della forza giuridica che le basta, in modo che l’appello investa non solo le istituzioni alle quali si indirizza, ma la comune riflessione sulla vita umana. Il tema, infatti, è la vita. La vita che nella «Costituzione europea» (se riusciamo a riassemblarne in sintesi le fondamentali radici che allacciano la Carta di Nizza al Trattato di Lisbona) è il primo dei diritti proclamati in nome della «dignità umana». Così abbiamo scritto, dignità umana, parola categorizzante, scelta definitiva di civiltà, rifiuto delle arcaiche derive di morte e di distruttività all’interno del mondo umano.

Dal momento in cui entra nel mondo umano una nuova vita, l’ala della "dignità" si dispiega e la ricopre, perché alla famiglia umana si aggiunge un nuovo essere "familiare": uno di noi. Uno di noi, bisognerebbe ripetere lentamente queste parole nel silenzio assorto del cuore che vede il miracolo della novità della vita. L’uomo frattanto ha messo le mani sulla vita, e fabbrica figli d’uomo nel vetro, li impianta, li congela, li sgela, li saggia, li approva, li scarta, li usa, li saccheggia. Ha messo le mani sulla vita, ma ha perso gli occhi della vita. Le mani cieche, le mani accecate dal rifiuto di vedere il volto umano in ciò che è identico alla propria stessa familiarità e origine; che è specchio dell’identico essere e novità irripetibile dell’essere, sul piano dell’assoluto. Qui l’iniziativa europea «Uno di Noi» pianta la sua bandiera, e apre nella storia dell’Unione tre sentieri importanti.

Il primo è la sperimentazione della democrazia diretta, in seno ad una Europa in cui hanno sinora dominato mercati e mercanti, banche e banchieri, denaro e poco altro, e quasi nulla di cittadinanza diffusa. È la prima volta, in assoluto, dire vita alla vita e per i cittadini d’Europa è il primo momento di contare. La prima volta, il primo gradino. La volta prima e suprema è appunto la vita. Se i popoli d’Europa non si fanno ascoltare su questo punto non si faranno sentire su altro che importi.

Il secondo rilievo è la scossa culturale che la difesa della vita innesta nella coscienza della cultura europea. Dice che senza difesa della vita non c’è per noi un diritto condiviso, non c’è pace, non c’è futuro comune. Il nostro futuro è in quella pace trovata.

Terzo: nella iniziativa europea «Uno di Noi» c’è un’istanza che richiama la fedeltà al vangelo cristiano. Non è banale variante, se l’amore ha per origine la fede nell’Amore. Nell’Europa che stenta a ricordare le sue radici, il pensiero che allaccia dentro il crogiolo della storia dolore e speranza porta oggi alla ribalta la preziosa testimonianza di chi «aiuta la vita» nelle situazioni difficili agendo il Vangelo. C’è ancora qualche tempo per firmare, e fare massa democratica, e segnare dentro la storia dell’Europa dei popoli d’aver votato la Vita.
  • Giuseppe Anzani
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 11, 2013 8:53 am


  • Siamo noi i custodi di nostro fratello
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Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso», scriveva John Donne in una della sue meditazioni. E continuava con parole che, lette oggi, suonano di grandissima attualità: «Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa».

La prima visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola della speranza ma anche "cimitero liquido" – come è stato chiamato –, grembo di morte per tanti corpi senza volto né nome in fuga dalla disperazione e in cerca di un futuro, ci richiama al senso di queste morti. Che non concludono tragicamente solo qualche vita sconosciuta, ma aprono una ferita nel corpo dell’intero genere umano. Noi stessi popolo di migranti, non possiamo cadere nell’oblio della nostra storia e pensare che queste morti, o le vite fragili tenute da un filo sottile di chi riesce a sbarcare, non ci riguardino. Con le sue "enunciazioni spaziali" più eloquenti di tanti discorsi, il suo "camminare verso", il suo avvicinarsi, ascoltare, toccare, Papa Francesco ridefinisce la prossemica della relazioni umane e rende di nuovo visibili i veri confini della fratellanza: che non sono esclusivi (noi/loro) ma inclusivi. L’unico messaggio che conta veramente, la «buona notizia», è un messaggio per «tutto l’uomo e tutti gli uomini», come ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in veritate (55).

Nessun universale astratto, ma la singolarità irripetibile e irrinunciabile di ogni essere umano, qui e ora. Senza il quale tutti siamo impoveriti; come quando, in una famiglia, muore un fratello. Ama il tuo prossimo come te stesso, è la consegna che abbiamo ricevuto. E chi è il prossimo? Colui, e colei, su cui posso posare la mano, ha scritto lo psicanalista Luigi Zoja, in un libro sui disagi della società contemporanea, significativamente intitolato La morte del prossimo. Il prossimo non è l’oggetto della mia attenzione, del mio interesse, della mia benevolenza. È chi posso toccare e che a sua volta mi tocca, dato che il tatto – che abolisce ogni distanza – è il senso per eccellenza della reciprocità. Gesù si faceva vicino agli "inavvicinabili" e toccava gli intoccabili. Questo è farsi prossimo. Trasformare l’altro straniero, l’altro lontano, in chi posso toccare con la mano. E che grazie a questo contatto, che è un riconoscimento della sua umanità, può avere una possibilità di rinascita. Papa Francesco ci insegna un metodo che non passa dalle parole, ma dai piedi e dalle mani, da quel corpo che è la nostra interfaccia col mondo, il nostro primo medium/messaggio, il sigillo della nostra singolarità.

Camminare verso l’altro, accoglierlo, abbracciarlo. Gesti così semplici e insieme così difficili, in un mondo dove ci si insegna continuamente che «ogni uomo è un’isola», che l’individuo ha bisogno del suo spazio e ha i suoi diritti. Dove ci si tiene sempre a una certa distanza da chi ci parla, specie se è sconosciuto. Il diritto alla speranza è, tra i tanti che oggi vengono evocati, quello meno considerato. Eppure è quello più universale. E riconoscerlo, come un diritto di tutti, ci rende più umani. Con il suo viaggio, semplice e simbolico, in quest’isola della speranza/disperazione Papa Francesco ci ha testimoniato ancora una volta, senza tante parole ma con la capacità di indicarci la direzione praticandola per primo, cosa significa oggi, nel villaggio globale e digitale, essere fratelli nel nome di Gesù. Alla domanda, che ci viene spontanea, «sono forse io il custode di mio fratello?» possiamo e dobbiamo ora avere il coraggio di rispondere "sì".
  • Chiara Giaccardi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio lug 18, 2013 3:17 pm


  • La fede si fa luce e illumina la ragione
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Il rapporto tra fede, ragione e verità è un tema portante dell’enciclica Lumen Fidei, come dice già il titolo: la fede come luce. Per contro, nell’epoca moderna – soprattutto a partire dagli illuministi, fatte le debite eccezioni – si è pensato che la fede «potesse bastare per le società antiche, ma non servisse […] per l’uomo diventato adulto». La fede è stata infatti considerata o «un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco», o tuttalpiù come una conoscenza che però è solo soggettiva, che dunque «non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune» per rischiarare il cammino di ogni uomo, oppure come malattia infantile di un’umanità che la doveva debellare per essere adulta e uscire dallo stato di minorità, oppure come «oppio dei popoli», come annebbiamento della ragione, una falsa consolazione utilizzata per mantenere rendite di potere, per occultare la verità. In molti modi, dunque, la fede è stata dissociata dalla ragione e dalla verità oggettiva.

Sennonché, è emerso che «la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza», perciò l’uomo d’oggi «ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande», e «Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male». In sostanza, qui si allude al percorso che ha portato dall’Illuminismo all’Idealismo (con un certo ruolo anche dello scientismo), con quest’ultimo che asseriva la possibilità per l’uomo di squadernare, prima o poi, tutta la verità, senza soccorso di una divina rivelazione e senza lasciare alcun margine di mistero. Per diversi motivi, in particolare per reazione a questa superba pretesa, si è poi gradualmente generato il relativismo odierno (menzionato nel paragrafo 25 dell’enciclica). Se del relativismo ci sono molteplici accezioni, quella considerata da Francesco è la versione che nega la possibilità per l’uomo di conoscere una verità oggettiva, in particolare su Dio, sullo scopo della vita umana, sul bene/male. Infatti, se non è possibile conoscere la verità, non è possibile giudicare oggettivamente gli atti umani, nemmeno le azioni che siamo soliti considerare estremamente crudeli e malvagie.

Inoltre, se la fede «si riduce a un bel sentimento, che consola e riscalda», diventa un aspetto della vita «soggetto al mutarsi del nostro animo» e «incapace di sorreggere un cammino costante». Piuttosto, come dice l’enciclica, l’incontro tra il cristianesimo e il pensiero filosofico del mondo antico è stato «un passaggio decisivo affinché il Vangelo arrivasse a tutti i popoli» ed è cruciale in ogni tempo che il credente nutra e consolidi la sua fede con ragionamenti e con argomenti, perché perfino alcuni grandissimi santi (come Giovanni della Croce o Madre Teresa) hanno sperimentato periodi, anche molto lunghi, di aridità interiore. Tali argomenti consentono di perseverare, di non abbandonare la sequela del Maestro, di restare saldi. Consentono inoltre di proporre Dio anche a chi non condivida già la fede cristiana, a chi non si sia mai af-fidato alla Chiesa. Perciò il rapporto tra filosofia e rivelazione è cruciale e ha ricevuto la trattazione di un’intera enciclica – la Fides et ratio di Giovanni Paolo II, richiamata da Papa Francesco – e di tanti interventi di Papa Ratzinger.

Alla base di tutto sta il fatto che fede e ragione non sono due facoltà umane distinte: esiste un’unica ragione, che talvolta conosce da sola, talvolta invece conosce af-fidandosi ad altri, configurandosi come «ragione credente» (Lumen fidei, 27 ).
  • Giacomo Samek Lodovici
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 29, 2013 8:54 am


  • Vita e Chiesa sono relazione
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Come sono lontani i tempi in cui i soliti profeti di sventura prevedevano che la Gmg non sarebbe sopravvissuta al suo inventore, Giovanni Paolo II. E invece Benedetto XVI prima e Francesco ora ne hanno accresciuto la già notevole eredità. Lo abbiamo visto in questa settimana che volge al termine e che avrà oggi il suo momento culminante nella messa finale sul lungomare di Copacabana. In attesa, dunque, delle parole che il Papa dirà a suggello dell’evento, non è fuori luogo provare a tirare le prime somme di un’esperienza che per numeri, entusiasmo, partecipazione e contenuti appare largamente in attivo.

Appare, infatti, lampante che fin da questo prima Gmg, Papa Bergoglio abbia impresso nell’incontro con i giovani di tutto il mondo la propria cifra stilistica, anzi la propria ecclesiologia. Un insieme di parole e di gesti che affiorano dai discorsi e dagli appuntamenti di questi giorni e che, se da un lato appaiono perfettamente in sintonia con le linee portanti di questo inizio di Pontificato, dall’altro conferiscono alla Giornata mondiale un volto nuovo che risulta dalla somma di più elementi.

L’ecclesiologia di Papa Francesco, appunto. Quella visione di Chiesa dinamica e missionaria, tratteggiata ieri anche nell’incontro con i vescovi brasiliani, che è chiamata a "uscir fuori" per portare Cristo verso le "periferie". Una Chiesa che non deve aver paura, ha detto il Pontefice, di pescare nelle acque profonde di Dio e che deve recuperare la sua capacità di «scaldare il cuore» (altra parola chiave del viaggio), evitando così il rischio che siano in molti ad abbandonarla perché da essa si sentono abbandonati e non visti.

Questa ecclesiologia ha dei riflessi concreti anche per la Gmg in quanto tale. «Nessuno è un’isola», ha ripetuto il Papa ai ragazzi che venerdì hanno pranzato insieme con lui. «Abbiamo bisogno gli uni degli altri». Parole che fanno il paio con una notazione in chiave personale inserita nel discorso di giovedì, durante la festa dell’accoglienza: «Sono venuto per confermarvi nella fede, ma anche per essere confermato dall’entusiasmo della vostra fede».

Come dire che egli applica per primo a se stesso la consapevolezza di un’identità relazionale. Il volto degli altri contribuisce a costruire il mio volto. Perciò, se nessuno è un’isola, neanche la Gmg può esserlo. Non una kermesse di categoria, non un evento chiuso in se stesso, ma una rinnovata Pentecoste dello spirito che deve spingere i giovani all’incontro anche intergenerazionale. Francesco lo ha detto chiaramente a più riprese. Le nuove generazioni devono entrare sempre di più in rapporto con il mondo dei "grandi", devono mettere in atto con i nonni, i genitori, le famiglie (più volte citati nei discorsi della Gmg), insomma con gli adulti in genere, quello scambio di doni che è necessario per la loro crescita e per il futuro stesso dell’umanità.

Gioia, entusiasmo, freschezza della fede da un lato. Saggezza ed esperienza dall’altro. Carismi non contrapposti, ma da condividere. L’immagine del Papa che entra nell’umile casa della favela di Varginha e seduto in mezzo ai suoi ospiti si informa su tutte le età e i rapporti di parentela presenti in quella famiglia, traduce forse meglio di ogni altra parola questo modus operandi (e docendi) di Francesco. Potremmo dire, in conclusione, che questa è stata la Gmg in cui il Papa ha invitato tutti a cambiare il proprio punto di vista. Con gli occhi degli altri si vedono cose che noi non vediamo. Comprese le necessità dei poveri, degli ammalati, dei carcerati (non a caso tre tappe fondamentali di questo viaggio). Se poi il nostro sguardo coincide con quello del Cristo, che come avviene qui a Rio de Janeiro, abbraccia tutti dall’alto, allora davvero sarà possibile cambiare il mondo. Questa è la Gmg di Papa Francesco. E questa Gmg, come ha detto ieri durante la veglia egli stesso, vale infinitamente di più della Coppa del mondo.
  • Mimmo Muolo
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 02, 2013 8:46 am


  • Educare alla custodia è educare alla vita
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«Viviamo in un giardino affidato alle nostre mani», ricordarlo è difendere la vita stessa, è rendere grazie al Signore del creato. Un impegno che riguarda ogni uomo e che obbliga il credente a dare ragione della propria fede amando e custodendo ciò che gli è stato dato in consegna. Custodire piuttosto che salvaguardare, il passaggio non è da poco, parola nuova e antica scelta dai Vescovi nel messaggio per l’ottava giornata del creato: "La famiglia educa alla custodia del creato". Custodire più che salvaguardare, rimando alla pagina biblica dell’origine: l’universo e il mondo, l’uomo e le creature, tutte sono famiglia di Dio. Custode è l’uomo e, nella missione che gli è stata affidata, il suo ruolo non è di padrone.

Coltivare la terra, proteggerla, difenderla (cf. Gn 2,15) è dare spazio all’armonia del dialogo con i diversi vissuti, non solo è affondo di aratro e tenuta di briglie ma è dialogo intraumano. È permettere all’uomo, difendendo il suo ambiente vitale, di restare tale. Per questo da tempo il Magistero della Chiesa lega imprescindibilmente l’ecologia ambientale all’ecologia umana e tenta di far passare nella pastorale dell’annuncio, nella catechesi e nella formazione adulta della comunità cristiana che la salvezza del creato, la sua tutela, è questione non secondaria, ma di fede: credere in Dio è amarlo in ciò che ci dona. Tema che rende fecondo il dialogo ecumenico perché il punto di partenza di ogni dialogo è ciò che interessa l’uomo, il suo vissuto quotidiano, e diventa anche straordinario annuncio di Vangelo con nuovo linguaggio per parlare fuori dal tempio.

Papa Francesco, nell’ultima giornata dell’ambiente, affermava: «Custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino… Noi, invece, siamo guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare». La lotta per la bellezza, per conservare intatta l’opera di Dio, si è dimostrata titanica: l’uomo deve lottare perfino contro un perfido ingranaggio di autodistruzione messo in moto dagli egoismi più perniciosi. Lotta quotidiana che si aggiunge a quella che deve mettere in atto per la difesa del creato. I cieli e i mari ridotti a immondezzai: piogge acide, inquinamento atmosferico, rifiuti tossici aggrediscono ogni giorno il giardino di Dio. Gli animali della terra, compagni di viaggio dell’uomo, seviziati in ogni modo.

La bramosia di potere che ha creato le mille Babele dell’incomprensione ha ridotto il mondo in spazzatura. E come conseguenza di tutto questo i custodi sono diventati gli avidi soppressori delle cose che avrebbero dovuto custodire. E tra di loro si è organizzata un’aspra contesa di chi ha più diritti, di chi deve avere più spazi, di chi deve possederne più parti, di chi deve appropriarsi di più beni. La più bella delle creature, imbastardita dalla bruttezza dell’avidità, rischia di perdere i connotati dell’umanità che rimanda ai tratti del divino. Tuttavia, la speranza di salvare il mondo non è persa: lottare per un mondo diverso è possibile partendo dalla famiglia. Il dovere più cocente di ogni genitore è educare, è passare il testimone della propria storia, quello dei figli di rilanciarlo nel futuro. Educare alla custodia del creato è educare alla vita stessa. Percorso faticoso, ma esaltante, che vede insieme diverse generazioni a riscoprire la bellezza del creato nella gratuità come libertà in tempo di odiose schiavitù, la reciprocità che permette di sentirsi parte e disponibili all’incontro in tempo di contrapposizioni violente, riparazione dal male che si oppone a ogni fatalistica rassegnazione che il mondo non possa cambiare. La famiglia protagonista di rinnovata avventura, la famiglia, speranza e futuro per la società italiana, come ribadirà la 47ª Settimana Sociale dei cattolici italiani a Torino, la Chiesa, famiglia di famiglie, per ricordare al mondo che solo insieme possiamo rendere bella la nostra straordinaria casa.
  • Gennaro Matino
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio set 05, 2013 2:10 pm


  • A tutte le famiglie
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Carissimi, l’invito di Papa Francesco a una giornata di preghiera e di digiuno per la pace in Siria e in tutte le nazioni toccate dal dramma della guerra chiede di essere accolto con grande serietà e impegno da tutti noi.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo e le continue tragiche notizie interpellano il nostro cuore, la nostra intelligenza, la nostra fede. Per questo motivo vi invito ad accogliere la proposta del Papa e a vivere anche a casa vostra un gesto di digiuno e preghiera.

Cari genitori, non abbiate paura di proporre ai vostri figli un pranzo austero e minimo; sarà l’occasione per spiegare loro cosa sta accadendo nel mondo e come questi fatti terribili non possono lasciarci indifferenti. Insieme alla durezza della cronaca non dimenticate di comunicare la speranza della pace offerta da Gesù risorto che ha riconciliato il mondo non con gesti violenti e vendicativi ma con il dono di sé.

Non dimenticate di invitare i nonni e gli anziani a questo pranzo fatto di poco cibo e molte parole; se qualcuno di loro ha sperimentato momenti di guerra, racconti cosa significa vivere sotto le bombe e nell’incertezza del domani e quale era il senso del loro pregare in quei giorni.

E voi ragazzi e giovani, non lamentatevi se sabato non ci saranno grandi piatti sul tavolo, ma ringraziate i vostri genitori per quello che vi stanno proponendo anzi, esigete da loro spiegazioni e motivi per cui vale la pena continuare ad abitare questa terra segnata troppo spesso da lutti e violenza.

Insieme, a tavola, pregate! Per le famiglie della Siria, per i bambini che muoiono ogni giorno per l’odio e la fame, per i governanti chiamati a trovare soluzioni di pace e non violente. La recita di un salmo, la lettura di una pagina evangelica, una decina di Rosario, alcune libere preghiere espresse ad alta voce, un semplice canto; ogni famiglia scelga il modo che più conosce per intercedere, ovvero per mettersi in mezzo tra il mistero del male che segna la nostra storia e il Dio della pace che la sana e la salva.

Grazie!

  • + Vincenzo Paglia
    Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia
    Città del Vaticano, 4 settembre 2013
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar set 10, 2013 9:24 am


  • Siria, uno spiraglio per avviare la trattativa
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Il tweet del Papa è arrivato a mezzogiorno, ora italiana: «Chiedo d’intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato». Meno di 24 ore prima era stato rilasciato il giornalista Domenico Quirico, da cinque mesi ostaggio dei ribelli, e sabato sera si era levata da piazza San Pietro e da innumerevoli altri luoghi di preghiera nel mondo l’invocazione per la pace. Ieri pomeriggio, sulla scia di questi eventi e di una diplomazia sotterranea, cui ha probabilmente contribuito la Santa Sede, il primo segnale incoraggiante nel buio tunnel della drammatica crisi siriana (centomila vittime e milioni di profughi, intere comunità cristiane costrette alla fuga: numeri e fatti che non vanno mai dimenticati).

Lo spiraglio si è aperto con il "sì", tutto da confermare e rendere operativo, dato dal regime di Assad alla proposta russa di aderire all’Organizzazione per il divieto delle armi chimiche e di porre il proprio arsenale non convenzionale sotto controllo internazionale. Un’opportunità colta al volo da Mosca dopo che il segretario di Stato americano, in mattinata, aveva fatto intendere che la rinuncia ai gas da parte di Assad potrebbe essere sufficiente all’America per desistere dal progetto di raid punitivi (affermazione poi parzialmente smentita). Troppe volte abbiamo visto astuti annunci di governi sotto ultimatum per credere di essere davanti a una svolta definitiva. Tuttavia, l’ipotesi sul tavolo in queste ore potrebbe essere una fragile soluzione di compromesso, sufficiente a scongiurare a breve una potenzialmente devastante escalation del confitto in Siria. E impedire un indomabile incendio in tutta la regione mediorientale vale certamente una via di uscita che permetta, almeno temporaneamente, di salvare la faccia a tutti (o quasi) gli attori. Un gesto di buona volontà toglierebbe il leader di Damasco dal ruolo di spietato carnefice del proprio popolo e gli restituirebbe margini di manovra militare e diplomatica, nel momento in cui anche l’opposizione armata mostra i suoi molti volti, tra i quali alcuni feroci e impresentabili (e sarebbero proprio i ribelli i più "danneggiati" dall’eventuale intesa). La Russia ne uscirebbe come il perno politico di una stabilizzazione dell’area, capace di resistere ai diktat americani e di ottenere il consenso di Assad, alleato indotto a seguire una linea più ragionevole. Un provvisorio cedimento del regime servirebbe anche a togliere Obama da una posizione sempre più scomoda e scivolosa. Con il persistente "no" dell’opinione pubblica a un attacco missilistico e, di conseguenza, un Congresso che tentenna nel dargli luce verde, il presidente americano rischia una clamorosa sconfessione, che lo indebolirebbe gravemente anche nei tre lunghi anni che gli restano per il secondo mandato. Per uscire dall’angolo in cui si è chiuso da solo tracciando la "linea rossa" sull’uso delle armi chimiche, il capo della Casa Bianca potrebbe ora accettare l’offerta del regime, rivendicando la minaccia dei raid come vero motivo del cedimento di Damasco.

Sarebbe certamente sbagliato illudersi che un accordo sia imminente e che il pericolo di un allargamento della guerra risulti scongiurato. C’è del vero in ogni possibile ricostruzione dello scenario che si va delineando. Chiunque abbia usato il Sarin contro la popolazione inerme ha innescato la fibrillazione planetaria che stiamo vivendo. La mossa degli Stati Uniti, per quanto improvvida, ha comunque obbligato anche Mosca a muoversi con più decisione. E ha rimesso la questione siriana al centro dell’agenda. La via della trattativa, unica strada di pace, ha potuto così – quasi paradossalmente, per contrasto ancora più evidente – mostrarsi come l’unica davvero praticabile nell’intrico di una guerra civile senza regole e ormai senza linee rintracciabili lungo le quali tagliare i fronti delle ragioni e dei torti. L’iniziativa lineare e realistica di Papa Francesco, questa sì priva di secondi fini e di interessi di altra natura, è diventata così il punto di riferimento più chiaro e luminoso. Niente ancora garantisce che il peggio non sia dietro l’angolo, come appariva solo pochi giorni fa. Ma una piccola speranza ora è accesa. E attende di essere alimentata dalla buona volontà di tutti, magari con un supplemento di fantasia diplomatica di un’Europa sempre troppo cautamente alla finestra.
  • Andrea Lavazza
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar set 17, 2013 8:58 am


  • Per tutti, di più per noi
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Parole inattese e infinitamente desiderate, incredibili e semplicissime, e ogni volta è così quando papa Francesco ci dice le cose di Dio e ce le mette davanti al cuore, e ogni volta qualcosa ci tocca in profondo, uno stupore, una commozione, una voglia di bene, una speranza che il bene è possibile, che il bene è per noi. Come un’acqua che penetra nei nostri interiori labirinti, con dolcezza, a lenire le arsure dell’anima.

Ma quello che ha detto ieri mattina il Papa a Santa Marta, parlando di governanti e di politica e di impegno dei cristiani ci dà un’emozione ancora diversa, perché tocca un tema "sensibile" di per sé incandescente, e soprattutto perché capovolge l’orizzonte nel quale la storia ha curvato il pensiero politico degli uomini e il loro agire. E le loro violenze. E le discordie, le lotte, le alterne spoliazioni, persin teorizzate, l’ostilità, l’idolatria del potere, il dominio come traguardo. Questo noi sappiamo bene, e ancora le cronache del mondo ci incupiscono, quando passiamo in rassegna i "potenti della terra", i reggitori di popoli, piccoli e grandi.

Il Papa di questo non dice, lo sa come noi lo sappiamo, ma disegna subito invece l’immagine diritta dell’uomo che deve governare, quasi svuotando con la prodigiosa semplicità del Vangelo gli arcana imperii della politica e dei suoi manuali astuti o violenti, che intrecciano i fili sul rovescio della tela. «Chi governa deve amare il suo popolo». È la rivoluzione che mai avremmo pensato, stretti da un doppio sussulto per la debolezza d’una ricetta d’amore rispetto allo staffile classico di odio e paura, o all’inverso per la disperazione che il potere sia capace d’amore. E invece Francesco dice proprio così: un governante che non ama, non può governare: al massimo potrà disciplinare, mettere un po’ di ordine, ma non governare. E prosegue con la stessa dolcezza, pacata e inflessibile, ad affiancare all’amore l’umiltà, così da sentire «tutti gli altri, le diverse opinioni, per scegliere la migliore strada».

Il Papa parla al mondo, a tutto il mondo. Ma chi lo ascolta, è inevitabile che faccia i conti di casa sua. E noi, di conti di casa nostra ne abbiamo una montagna. E le nostre emozioni sono spesso e lungamente di pena e di rabbia e di rivolta e di disprezzo e di scherno, e sotto sotto di pessimismo deluso. Con quale inverso coraggio si può andare nelle piazze insozzate da mille incrociate contumelie, e parlare d’amore come nostra attesa? In piazza comunque ci andremo, nella piazza intesa come "agorà", come luogo dove si discute, ci si incontra, si progetta il comune futuro, «si fa politica» restituendo alla parola la sua dignità. Lo faremo da cristiani, perché come dice papa Francesco un buon cristiano «si immischia», deve fare il meglio che può perché vi sia un buon governo.

Ma anche su questo versante è rivoluzione: il "meglio" si chiama preghiera. Il meglio passa dal cielo prima di ripiovere sulla nostra pochezza e rianimarci. Sì, è dal Dio della vita, senza il quale nessuna potestà può consistere nel bene, che il popolo invoca per i suoi governanti – tutti, e soprattutto per chi più ne ha bisogno – rettitudine e conversione. E anche questo, semplice come l’altro, e come l’altro negletto, è un amore. È un miraggio o un miracolo un cerchio politico intrecciato così? Per chi ha fede, la preghiera può darcene miglior speranza che il disprezzo e il disamore.

Giuseppe Anzani
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar set 24, 2013 8:31 am


  • Una preghiera per l'uomo
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La domenica intensissima di papa Francesco a Cagliari è come uno scrigno di preziosità da ammirare. E non solo per la splendida accoglienza che gli è stata riservata in terra sarda. La visita infatti è stata ricca di gesti teneri e parole forti, annunci di speranza e ferme denunce, sguardi di compassione e progetti di cambiamento. Coinvolgendo in egual misura la società e la Chiesa, ciascuna per la propria e non delegabile competenza, in uno scenario che se parte dalla Sardegna raggiunge e abbraccia tutta l’umanità. Nulla è stato dimenticato, perché tutto è stato ritenuto prezioso per la fede e per la ragione: la vita, il lavoro, la carità e la cultura. Prezioso è soprattutto l’uomo, qualunque sia la sua condizione, perché se la persona umana è al centro di tutto – della politica e dell’economia, ma anche della Chiesa – si può guardare con fiducia al futuro.

Quale immagine di società e di Chiesa emerge allora dagli "atti" di questa giornata? Un primo dato, che riguarda tutti e tutto: siamo oggi di fronte, dice Francesco, a una «sfida storica», che non è solo economica, ma anche «educativa, morale e umana»; nessuno può «chiamarsi fuori», fuggendo o rifugiandosi in letture «in chiave apocalittica», perché questo sarebbe la «paralisi dell’intelligenza». Il compito è quello di trasformare «il pericolo in opportunità», sulla scia di quella lettura della realtà che Gesù compie con i discepoli di Emmaus quando, mettendosi accanto a loro, li fa passare dalla disillusione e dalla rassegnazione alla speranza. La lettura culturale che il Papa compie ha la sapienza di un progetto e recupera tra l’altro il valore dell’Università come discernimento – lettura senza pregiudizi della realtà –, come cultura della prossimità e del dialogo – confronto costruttivo – e come formazione alla solidarietà, vocabolo che è ritornato spesso nei discorsi della giornata. Chi nella società è chiamato a operare questi passaggi? Emerge la necessità di persone che siano costruttrici di futuro ed educhino alla speranza. Non devono prevalere né i «parolai» di turno né i «mercanti di morte» – sarebbero i lavoratori e i giovani a pagarne le conseguenze –, piuttosto spazio a chi favorisce le alleanze tra le istituzioni e, anche, a quei politici giovani nei quali Francesco ha colto «una chiave diversa» e un’intuizione nuova per leggere la realtà e progettare il futuro.

Ma quali sono i punti fermi di una società che vuole essere solidale? L’umiltà – perché «tutti abbiamo miserie, difficoltà, fragilità e abbiamo fatto esperienze di fallimento» – ma anche il rifiuto di adorare la «dea lamentela» – «un inganno!» – così tanto in voga oggi. Subito dopo non deve mancare la denuncia «di un sistema economico che ha al centro un idolo che si chiama denaro». Per Francesco «lottare per il lavoro» è come una «preghiera necessaria», perché «senza lavoro non c’è dignità». Per il Papa una società che mette al centro l’uomo e la donna, per non «lasciarsi rubare la speranza», deve imparare ad alzare la voce, gridando: «Vogliamo un sistema giusto! Un sistema che ci faccia andare avanti tutti». Questo – sottolinea – eviterà il perpetuarsi di quella «cultura dello scarto» che cresce quanto più si afferma un sistema economico idolatrico.

Qual è allora l’apporto della Chiesa in questa società? Il punto di riferimento è Gesù, che ha aperto come uomo e come servo la via dell’amore, così come la fede che «non riduce lo spazio della ragione». Gesù «non è un’illusione», nonostante l’uomo incontri fallimenti e delusioni. Il Papa ricorda che la Chiesa non ha «impiegati» per dire «coraggio» quasi per un dovere d’ufficio, ma è costituita da persone che si fidano della parola di Gesù, che «gettano le reti» e «prendono il largo» spendendo la propria vita per il Vangelo: «Il coraggio sia il tempo musicale per andare avanti». Chi può dare questo sguardo fiducioso? Papa Francesco ha spesso richiamato il motivo principale della sua venuta a Cagliari, la visita alla Madonna di Bonaria: «Madre, donaci il tuo sguardo», ha ripetuto. Uno sguardo per scoprire nuovi orizzonti di fede e di vita.
  • Antonello Mura
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven ott 04, 2013 7:50 am


  • La santità che fa per noi
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Il test lo possiamo tentare sui figli, gli amici, i colleghi, o più semplicemente su noi stessi: quali sono le tue vere ambizioni nella vita? E una volta che le hai elencate, poche o tante che siano, avresti il coraggio di aggiungere da qualche parte anche "essere santo"? Bene che vada, ci sentiremmo rispondere "che pretese... faccio quello che posso!", nella comprensibile persuasione che una cosa è parlarne in generale – chi potrebbe negare che i credenti dovrebbero tendere al culmine della loro vocazione? –, tutta un’altra crederci al punto da considerare la meta della santità plausibile, concreta, persino a portata di mano.

Cinquant’anni alla scuola del Concilio che dispiegò davanti alla Chiesa e al mondo l’inaudito orizzonte della «chiamata universale alla santità» (Lumen gentium, capitolo V), modernissima prospettiva che ancora oggi appare come un continente pressoché inesplorato, non sono bastati per far stare a proprio agio il cardine della vocazione cristiana nella vita dei credenti di ogni ordine e grado. D’altra parte, come contraddire il realismo che ci sovrasta? La polvere e il fango del quale è impastata la quotidianità di tutti è un’esperienza così vivida e presente da scoraggiare il più nobile degli ideali decurtandolo al rango di volo pindarico, per quanto pio. Santo io? Stiamo scherzando? La santità però non è questione di autostima: se così fosse, trasformeremmo la Chiesa in un immaginario club della perfezione dal quale è bandita qualsiasi impurità. Il Paradiso in terra.

Ma «questa è un’eresia!»: lo dice – anzi, lo esclama – Papa Francesco, che tra i tanti pregi ha certamente quello della franchezza. E che ieri in piazza San Pietro davanti a 50mila pellegrini accorsi per la sua settimanale catechesi ha bollato come errore dottrinale grave l’idea di una «Chiesa dei puri, di quelli che sono totalmente coerenti», dalla quale «gli altri vanno allontanati». Una tentazione ricorrente, a ben guardare, l’eresia terra terra di credersi a posto perché si fa parte del giro "giusto", o semplicemente si sta dentro il lindo recinto delle pecore ben pettinate mentre là fuori scorrazzano i lupi.

Sul fronte opposto di questo cristianesimo egocentrico che si risolve in una «Chiesa chiusa in se stessa» c’è l’autoconvinzione che siamo troppo lontani dalla perfezione cristiana per sentirci davvero impegnati a proporcela come obiettivo plausibile. Tutt’attorno, quel che vediamo nella stessa Chiesa e che Francesco non si stanca di mostrare paternamente quasi ogni giorno come forma degenerativa dell’esperienza di fede pare confermarci che no, la santità è impossibile, togliamocela dalla testa. Nessuno è risparmiato dal tarlo mortale, tanto che è inevitabile ascoltare dentro di sé la voce che il Papa stesso fa affiorare come un grido: «Come può essere santa – s’è chiesto lui stesso ieri – una Chiesa fatta di esseri umani, di peccatori?». E per non restare nel vago, è passato a enumerare: «Uomini peccatori, donne peccatrici, sacerdoti peccatori, suore peccatrici, vescovi peccatori, cardinali peccatori, Papa peccatore... Tutti. Come può essere santa una Chiesa così?».

Ecco il punto: dipendesse da noi, nessuno escluso, il Vangelo resterebbe semplicemente un bel saggio filosofico, che ha per protagonista un grand’uomo e indica un ideale altissimo ma non incrocia davvero la vita concreta, quella che a volte ci pare irrecuperabile tanto è appesantita dalla realtà. A rovesciare questo sguardo angusto è però il sentirci ripetere con semplicità da Francesco che è la Chiesa a essere santa, e «non per i nostri meriti» ma «perché procede da Dio che è santo», perché «Gesù Cristo, il Santo di Dio, è unito in modo indissolubile a essa», perché «è guidata dallo Spirito Santo che purifica, trasforma, rinnova». Lo splendore e la certezza di questo fondamento che sta al cuore della nostra fede è la radice della serenità e della fermezza con la quale il Papa per primo vede e affronta rughe, sbagli e piaghe, persino la «lebbra», quando e dove la vede all’opera.

La Chiesa che si sa santa non per suo merito ma per inesauribile riflesso divino non può che spalancarsi fiduciosa al mondo, diventando «la casa di tutti, dove tutti possono essere rinnovati, trasformati, santificati». Che i primi a tentare di farlo siamo tu e io, alla fine, è solo una rincuorante conseguenza.
  • Francesco Ognibene
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 15, 2013 3:09 pm


  • Formidabile docilità
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Che un Papa sia devoto della Madonna non stupisce. Fa però riflettere che questi primi sette mesi di pontificato di papa Bergoglio siano già stati largamente segnati da tappe mariane. Una peregrinatio cominciata l’indomani dell’elezione con la sua uscita dal Vaticano per rendere visita alla Salus Populi Romani (l’icona mariana venerata in Santa Maria Maggiore a Roma), che è poi proseguita oltre oceano per approdare davanti a Nossa Senora Aparecida in Brasile, ed è continuata verso il santuario mariano di Bonaria a Cagliari, fino all’appuntamento di ieri in piazza San Pietro con la Madonna di Fatima. A questi gesti compiuti in un ordine di significato si uniscono i frequenti richiami alla Vergine Maria. È un aspetto che ci conduce a un legame sensibile ed essenziale della spiritualità del Papa ancora poco messo a fuoco. Cogliere la profonda dimensione mariana di Francesco, come mostrano anche le riflessioni mariane di questi ultimi due giorni, non è secondario: aiuta a calarci nel suo sentire la Chiesa, significa soprattutto comprendere il cuore e il disegno della "sua" Chiesa.

Perché nella visione ecclesiale di papa Bergoglio «quello che si dice della Chiesa si può dire anche della Madonna e quello che si dice della Madonna si può dire anche della Chiesa», come ha sottolineato all’udienza generale dell’11 settembre. Un connubio inscindibile. Antico, certamente, ma sempre nuovo e dunque foriero di rinnovata vitalità, di prospettive aperte, di respiro. È centrale, infatti, nel magistero di Francesco l’immagine della Chiesa come madre, è un filo che percorre con singolare accento tutti i suoi interventi, e in modo inconsueto e ardito lo ha ribadito anche nelle riflessioni di ieri a commento della Mulieris dignitatem: «La Chiesa non è "il" Chiesa, è la Chiesa. La Chiesa è donna, è madre!». Nell’udienza di mercoledì aveva spiegato: «È una delle immagini più usate dai Padri della Chiesa nei primi secoli... ed è tra le immagini più belle che il Concilio ha scelto per farci capire meglio la natura della Chiesa».

Ma in che senso e in che modo la Chiesa è madre? «Anzitutto una madre genera alla vita, apre alla vita il proprio figlio, così è la Chiesa». Da qui l’identificazione con Maria, perché in Maria si riflette la vita stessa della Chiesa: «La Chiesa ci genera nella fede, per opera dello Spirito Santo che la rende feconda, come la Vergine Maria. La Chiesa e la Vergine Maria sono mamme, ambedue!». E «una madre – dice Bergoglio – non si limita a dare la vita, con grande cura aiuta i suoi figli a crescere... gli insegna il cammino della vita, li accompagna sempre con le sue attenzioni, con il suo affetto, con il suo amore, anche quando sono grandi. E in questo sa anche correggere, perdonare, comprendere, sa essere vicina sempre... come fa Maria». «Vicinanza», «prossimità», «misericordia» sono termini che ricorrono anche in riferimento a Maria. «Uno degli eventi fondanti della Chiesa è il "sì" che sbocciò da Maria... La Vergine di Nazaret ha avuto una missione unica nella storia della salvezza, concependo, educando, accompagnando e soffrendo con suo figlio fino al sacrificio supremo e poi alla resurrezione. Ma lì non termina la sua fatica, perché Gesù le affida la Chiesa nascente e da allora lei accompagna la Chiesa nascente, la Chiesa missionaria». «Dal Vangelo – afferma quindi Francesco – emerge la sua figura di donna libera e forte, coscientemente orientata alla vera sequela di Cristo».

Come sempre colpisce il lessico efficace, plastico e attuale con il quale il Papa parla della Madonna: «Lei non ha narcotizzato l’amore, coraggio e amore la definiscono»; «La Madonna va sempre di fretta... perché ha questo dentro: aiutare, Lei esce in fretta per noi, non va per vantarsi». E rievocando il primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana, ripreso anche nell’incontro di ieri: «Si vede il realismo, l’umanità, la concretezza di Maria che è attenta ai fatti, ai problemi... riflette e decide di rivolgersi al Figlio perché intervenga... e poi invita: "Fate come Lui vi dirà"».

La personale dimensione mariana di papa Francesco affonda le sue radici in quella pietà popolare che ha visto nei santuari mariani attirare le moltitudini alla riconciliazione e alla comunione con Gesù e con la sua Chiesa cui lo stesso Bergoglio ha dato voce facendosene interprete nel documento conclusivo della Conferenza di Aparecida, testo di riferimento essenziale sulla Chiesa. In uno dei primi messaggi a Santa Maria Maggiore, Bergoglio aveva sintetizzato questi tre aspetti riguardo alla Madonna: «Lei ci aiuta a crescere, ad affrontare la vita, a essere liberi». Questo sguardo di Maria su di noi e di noi a Maria, «grande donna», come ha voluto di nuovo definirla, «Madre di Gesù e di tutti i figli di Dio», «più importante degli apostoli e dei vescovi», illumina e rende dunque sempre presente la vera natura della Chiesa, per aprire continuamente il suo cammino nella docilità al soffio dello Spirito di Dio e uscire da se stessa per essere autenticamente missionaria. È una dimensione mariana che si configura perciò come il migliore antidoto contro una concezione autoreferenziale della Chiesa.
  • Stefania Falasca
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 22, 2013 2:52 pm


  • La preghiera secondo Francesco (Quella straordinaria mite promessa)
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È come un centro, attorno al quale le parole del Papa continuano a gravitare. Questo centro è la parola "preghiera". Ovvio, si dirà, la preghiera è fondante per un cristiano. Ma è come se in tanti invece vivessimo, quanto a questo, dentro a una nuvola di oblio. Chi è cristiano fin da bambino rischia di dimenticarsi lo stupore di un pregare che con l’abitudine si è come ingrigito. Chi è tornato indietro da altri mondi, atei, materialisti o semplicemente distratti, può non trovare affatto così semplice l’affidarsi a un invisibile Altro, in cui pure spera. Insomma, è un bel salto, per quanti vivono nel tacito positivismo che ammette solo ciò che si può misurare, concepire di dare del "tu" all’Infinito. (Un salto tale da parere assurdo, se non folle: il cambiamento radicale in una conversione non è certo nell’adeguarsi a dei precetti morali, ma nel riconoscersi non autosufficienti, e invece figli, e invece creature. E dunque, creature, rivolgersi al Padre). O, ancora, per alcuni pregare significa semplicemente domandare per sé, e quasi spiegare a Dio come deve avverare i propri personali progetti; inclinando però rapidamente verso la sfiducia e l’amarezza, se non si viene accontentati.

Come ben conoscendo questa nuvola di smemoratezza e di fatica, il Papa torna sulla questione della preghiera con insistenza. «L’evangelizzazione si fa in ginocchio», ha detto quest’estate, e recentemente ha preso spunto dal Vangelo in cui Marta rimprovera la sorella Maria perché non l’aiuta a servire Gesù, per lodare quella Maria che guardava Cristo «come una bambina meravigliata». E ripete, Francesco, come pregare non sia questione di parole, ma un atteggiamento del cuore. Un rivolgersi a questo Tu che sfugge ai nostri sensi, con la piena certezza con cui parleremmo a un padre carnale; avendo l’audacia di fare il grande passo oltre ciò che è fisicamente percepibile, matematicamente dimostrabile, eppure da sempre "è", e ci conosce e ci aspetta. Ma anche chi ha il coraggio di un tale abbandono può, nel dolore e nella fatica quotidiana, perdersi, e arrivare a pensare che troppo intricati sono certi nodi, perché perfino Dio li possa sciogliere; e continuare quindi a pregare in una forma vuota, coltivando in sé una beneducata disperazione. Le parole di una recente omelia in Santa Marta sono illuminanti in questo senso: «La preghiera, è aprire la porta al Signore, perché venga. (…) Pregare è questo: aprire le porta al Signore, perché possa fare qualcosa. Ma se noi chiudiamo la porta, Lui non può fare nulla».

E certo per chi è nato e cresciuto cristiano è cosa ovvia, ma per quanti sono stati dimentichi o lontani è così limpida, questa spiegazione: pregare, è come schiudere una porta rimasta a lungo sbarrata, premere sul battente per forzare i cardini arrugginiti e cigolanti. Lasciare entrare l’Altro nello spazio angusto, nell’aria viziata di un Io orgoglioso e barricato in sé. Semplicemente, schiudere quella porta tanto gelosamente presidiata dalla cultura della autosufficienza e dell’autodeterminazione, del nostro tempo il vero idolo.

Ma, cosa accadrà una volta che con coraggio e insieme paura si osi lasciare uno spiraglio a Dio? Forse non soffriremo più, o saremo guariti, o non sarà anche maledettamente faticoso, oltre che bello, lavorare, volere bene al marito o alla moglie, crescere i figli? No, non c’è affatto questa promessa nelle parole del Papa. C’è però una breve frase pronunciata giorni fa, a proposito della fede di Maria. Imitando quella fede, ha detto Francesco, «Succede come se Dio prendesse carne in noi». Che straordinaria eppure mite promessa: Dio che prende carne in noi, che in noi si fa tetto per i profughi, compagnia per i soli, speranza per i disperati. «È una cosa – ha aggiunto il Papa – difficile da capire, ma facile da constatare col cuore».

Saper pregare, deve essere proprio una faccenda di abbandono fiducioso e totale. Come Benedetto XVI nel 2010 davanti alla Sindone, nel Duomo di Torino – in ginocchio, assorto, rapito. O come un uomo che ogni sera, stanco, gravato da mille pesi, in una stanza vaticana si inginocchia, e perfino talvolta, sfinito, si addormenta; ma non importa, tanto certo è che resta, accanto, l’Altro, a vegliare.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 28, 2013 9:42 am


  • Sapersi non soli
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Ha parlato in una piazza gremita di famiglie credenti, colma di bambini e di coppie con trenta o quaranta anni di matrimonio alle spalle; di facce sorridenti, in un giorno di festa. Ma, a sentire il Papa ieri in San Pietro, si sarebbe detto che avesse in mente anche tutte le altre famiglie: quelle che mai andrebbero alla Giornata della famiglia, quelle in cui non ci si parla più, o sofferenti, divise, sole. Guardava, Francesco, la gran folla, pensoso, e sorridente a tratti a un bambinetto che gli volteggiava tenacemente attorno. «La vita – ha detto poi, prendendo la parola – spesso è faticosa, talvolta anche tragica; lavorare è faticoso, cercare lavoro è faticoso, trovare lavoro è faticoso. Ma ciò che pesa di più nella vita è la mancanza di amore. Senza amore, la fatica è intollerabile».

Senza qualcuno che ti abbracci alla sera è troppo dura, la giornata, e tutti sappiamo come il trovare o no una faccia cara ad aspettarci modifichi del tutto l’orizzonte. Ma il nucleo fondante dello stare insieme, la famiglia, è oggi intaccato «da quella cultura del provvisorio che ci taglia la vita a pezzi», ha detto il Papa: solo per una volta alzando la voce, ed esortando a non lasciarsene determinare. Ma, in che modo? In San Pietro c’erano, anche, i volti di tutti i dolori: profughi siriani, africani approdati a Lampedusa, ma anche la giovane coppia che si sposerà a primavera, e non sa come pagherà l’affitto. Dentro la durezza della vita come si fa a resistere alla «cultura del provvisorio», come si fa a volersi bene per sempre?

E qui il Papa con semplicità ha rispiegato la grazia del Sacramento. Quel fattore della Grazia, che ormai quasi solo i vecchi sposi ricordano; quando molti ne sono dimentichi, oppure – trattandosi di cosa che non si tocca e non si misura – pensano che sia qualcosa di inconsistente. Mentre il matrimonio, ha spiegato il Papa, non è la bella festa di un giorno, ma è soprattutto «la grazia del Sacramento che ci fa forti nella vita, che ci fa andare avanti». Quel Terzo, insomma, preso a testimone e garante di una promessa che umanamente è arduo mantenere. Quell’Altro, fra i due, che non è un pio ricordo, ma, vivo, dà nel suo nome amore e forza. Colui, ha detto il Papa, che solo è «fonte inesauribile» di amore.

Ciò che potrebbe interrogare molti di noi. Il cuore della famiglia non è in una ben disposta batteria di buoni principi morali o di seri propositi, ma invece in Cristo, nella sua persona presente. Il solo che accompagna in tutte le povertà e le miserie. E veniva in mente, guardando certi sposi di lungo corso nella folla, che forse questo era il loro cemento: il sapersi non soli, la certezza di un Dio che quel giorno aveva aggiunto, al loro sì, la sua promessa. Perchè sposarsi, ha detto il Papa, è un po’ come «il mettersi in cammino di Abramo», senza sapere quali terre si attraverseranno. Chi si affida a se stesso, facilmente desiste; la cultura dominante ordina di cogliere l’attimo fuggente, e di non fermarsi accanto a chi resta indietro. E abbandoni e tradimenti non sono perdonabili, se la promessa è solo in un "sì" romantico, negli anni lievi della giovinezza. Mentre certe facce di vecchi in San Pietro, con quattro figli e dieci nipoti alle spalle, pur segnate dalla fatica, erano coriacee nel realismo dei cristiani: che contano su quel Terzo paziente, che consente ogni sera la fatica del perdono - di tutte forse la più grande.

Alla folla di famiglie Francesco ha ricordato il motore primo, il fattore primo di una Grazia fondante. Come un maestro che ricominci dall’alfabeto, sapendo che ciò che è antico può aver bisogno di parole fresche, per essere compreso. E che tutto, e oggi più che mai, a ogni generazione va annunciato di nuovo: come quel segno della croce che il Papa ha chiesto ai bambini in piazza, guardando la folla attentamente, seguendo il gesto esitante delle mani destre; come un semplice prete all’oratorio, che sa bene che nemmeno quel segno ormai a tutti è tramandato.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 05, 2013 9:17 am


  • La chiacchiera e la parola
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Nel tempo della grande Chiacchiera, ascoltare la Parola. E a tal punto ascoltarla, come una forza che riconduce al centro delle cose della vita, da varcare la soglia della speranza e fare un passo avanti, verso la porta della fede.

Il cristianesimo ricomincia a essere scelto. Da adulti. Un evento contro-intuitivo, per gli occhiuti custodi della secolarizzazione dura e pura, che considera una vera e propria missione quella di produrre argomenti ed esempi dissuasivi. La scelta del cristianesimo non corrisponde ai criteri di omologazione vigenti, secondo i quali si è liberi quando si sta nel mercato che decide per te le offerte migliori, fra le quali puoi scegliere unicamente per il tuo piacere. E allora? Non siamo forse tutti incalzati dal comandamento di essere anti-conformisti anche nei confronti delle logiche di mercato? L’evento di un adulto che sceglie la fede non dovrebbe essere celebrato come un eccesso della libertà? Il fatto è che, nel frattempo, la logica del mercato si è inghiottita persino il nostro inconscio. E ha plasmato così in profondità la nostra mente da rendere incomprensibile una libertà che non sia quella di appartenere a se stessi, e al proprio tempo. Il tragico risvolto di indifferenza che sta nascosto in questa apparente esaltazione della libertà (che diventa quella di essere "abbandonati a se stessi") è rimosso. L’angosciante intimidazione che sta dietro il comandamento di uniformarsi alla regola imposta dai tempi ("così va il mondo, oggi", "è la modernità bellezza"), è oscurata in tutti i modi.

Intanto, però, la trionfante narrazione delle "magnifiche sorti e progressive", con la quale avevamo incominciato a coltivare, insieme con la scoperta di molti doni ricevuti da Dio, l’accumulo del nostro delirio di onnipotenza nei suoi confronti, da tempo non suona più come una marcia trionfale, ormai. La narrazione più diffusa è piuttosto quella della sua crisi, che ci affonda. Il racconto dice che non siamo più di nessuno: e se siamo di qualcuno, non si tratta certo di noi stessi. Siamo nella bolla sempre più grande di una malinconia permanente. Oscilliamo, impotenti e senza via d’uscita, fra la rabbia e la rassegnazione. Ed ecco. Un evento apparentemente semplice, non previsto dalle statistiche, sgonfia il palloncino con un botto. Il fatto che un adulto arrivi a riconoscere con gioia di appartenere a Dio, e incontri in Gesù la conferma di una figliolanza non casuale - e anzi eterna - che ci tiene saldi per la nostra destinazione, attraverso i turbini di tutte le credenze, i pregiudizi, gli accanimenti religiosi e irreligiosi della storia, è un evento che andrebbe salutato come un antidoto.

Il cristianesimo ricomincia a essere tema di conversione e di scelta. Dunque, argomento di intelligenza della condizione umana ("metanoia", letteralmente "cambio di mentalità"). E varco di libertà, nel quale riaprire personalmente la porta del proprio destino, sbarrata dalla prescrizione di liberarsi di Dio e dei suoi segni. Compresi quelli che lo Spirito attiva, indelebili, anche nel più piccolo gemito della più piccola fra le creature. Noi stessi forse, ecclesiastici e laici, ce n’eravamo dimenticati che il cristianesimo è questo, in primo luogo? Eravamo forse troppo presi anche noi dalle logiche dell’accumulazione e della clientela, cercando rendite di posizione più che di evangelizzazione?

Il segno del grande raduno mondiale dei rappresentanti dei "catecumeni", col quale si chiuderà a fine novembre l’Anno della fede, dovrà scuotere e incantare anche noi. L’anti-storia della narrazione secolarizzata - del progresso, come della crisi - si popola di nuovi soggetti. La porta della fede rimane aperta: bisognerà trovare un nuovo zelo per la pulizia del tempio, e nuova cura perché da quell’apertura siano rimosse le cianfrusaglie, spianati gli ostacoli, colmati i buchi. Il problema dei nuovi catecumeni, infatti, non è soltanto quello di provare che sono all’altezza del loro ingresso, attraverso la Chiesa. È ancor più quello di trovare una fede calda e una comunità viva per il loro legame con il Corpo del Signore. La loro accoglienza, e quella dei molti che verranno, è il segno che deve seguire: anche per i molti che abitano altrove. Perché questo è solo l’inizio della storia che sta incominciando. Dovunque.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 12, 2013 3:45 pm


  • Il miracolo della fiducia
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A guardarla attraverso le cronache e i telegiornali, questa Italia sembra logora e stanca. Nella ripetitività di scandali e accuse, e nel tenace mantenimento di vecchi coriacei interessi. Nel cinismo di chi non si fida più di nessuno, e nella amarezza di un 'bene comune' che sembra essersi eclissato dal nostro cielo. Le cifre della disoccupazione e della produttività sconfortano, e l’uscita dalla crisi è sempre qualche mese più in là. Ma nemmeno questo forse è il problema di fondo; piuttosto, lo è una inespressa domanda: abbiamo ancora voglia, crediamo ancora di voler vivere insieme e qui? Intanto, i ragazzi dai curricula eccellenti partono; e quelli che ragionevolmente non credono di poter confidare in un futuro migliore si affidano alla sorte, al gratta-e-vinci che si paga la mattina assieme al caffè. Ci vorrebbe un nuovo inizio, qualcosa da cui poter ricominciare. Ma che cosa? Ogni promessa sembra, in questo orizzonte grigio, usurata. Per questo una frase del messaggio della Cei per la Giornata della vita del 2 febbraio prossimo merita di essere sottolineata: «Si tratta – dice il messaggio – di accogliere con stupore la vita, il mistero che la abita, la sua forza sorgiva, come realtà che sorregge tutte le altre, che è data e si impone da sé e pertanto non può essere soggetta all’arbitrio dell’uomo».

Qualcosa di elementare: accogliere con stupore la vita, la sua forza sorgiva. In questi tempi amari e avari, ricominciare dal fidarsi, e dall’accogliere chi bussa alla porta. Migliaia di figli che ogni anno vengono respinti più duramente di profughi e migranti alle frontiere. Di tutti, loro, i più «clandestini». Accogliere: perfino quelli che nemmeno si affacciano, ma restano sospesi nei pensieri e nei sogni (le giovani coppie, stando alle indagini, dicono di volere – nella curiosa lingua delle statistiche – 2,2 figli, e ne avranno invece solo 1,3). Perché certo, assurdo sarebbe un altro bambino proprio adesso, e perdere, la madre, quel posto di lavoro precario per una gravidanza. Per questo la ventata di co-raggio, la folata di bella follia che si intravede in quella frase dovrebbe contagiare imprenditori, banche, datori di lavoro, insomma tutti quei soggetti collettivi e invisibili che sprangano la porta, quando un nuovo figlio presenta la sua muta domanda d’asilo. Pensate se, nella crisi di questa Italia, si osasse ricominciare da quello che già è o che potrebbe essere, se tante madri, e padri, non fossero lasciati soli. Se per dire che questo Paese vuole vivere, e continuare la sua storia, ci si voltasse insieme verso quel principio intimidito o negato, e lo si lasciasse passare con la sua forza, e col suo mistero.

A chi scrive accade, incrociando fuori da una cattedrale o da un museo delle scolaresche di bambini vocianti, di pensare per un istante, un istante soltanto, a quelli che avrebbero la loro età, e non ci sono; ai respinti senza appello e senza un nome, che pure nel loro primo inizio erano assolutamente uguali a questi, vivi. E oggi ancora, e domani mattina, di nuovo migliaia di donne sceglieranno. Molte di quelle che dicono di no, oggi, sono immigrate, o senza lavoro, e abortiscono per ragioni economiche. Pensate quanti figli verrebbero da un collettivo 'sì', da un fidarsi comunque, dal riconoscere con stupore e accogliere la vita che bussa – piano, come un mendicante. Il «miracolo del cominciamento » lo chiamava la filosofa Hannah Arendt. Il «miracolo del cominciamento», disse, è ciò che preserva il mondo. Che lo crea e lo rinnova, e lo rifà.

In fondo, i modi per tradurre concretamente questo favore alla vita si potrebbero trovare, e ancora prima questo favore si potrebbe dire, rappresentare mediaticamente. Nessuna eco del 'dare figli alla Patria' del Ventennio; invece, un aprire le porte, un abbraccio ai nostri invisibili clandestini. Una acco-glienza, invece della cultura dello scarto di cui parla il Papa («Un popolo che non si prende cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro – ha detto – perché maltratta la memoria, e la promessa»). Semplicemente, ricominciare da qui. Da un abbraccio, da una fiducia che venire al mondo in questa terra sia un bene. Ma ci crediamo noi, veramente? È un dubbio che si respira, che si sente; e che forse solo si scioglierebbe in una preghiera lucida, e grata di ciò che un uomo, un figlio, ciascun figlio, è.
  • Marina Corradi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 19, 2013 3:58 pm


  • Buone notizie dall'era digitale: nessuno è più soltanto spettatore
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Se c’è una buona notizia dell’era digitale? Che oggi nessuno è più solo spettatore: con la rete la condivisione, la partecipazione, la produzione di materiali sono alla portata di tutti. Ma questa notizia è anche impegnativa. Tutti siamo chiamati in causa, nessuno può accontentarsi di stare a guardare, o fermarsi alla prima difficoltà e arrendersi: un atteggiamento che rischia di essere irresponsabile, perché il web è quello che ci mettiamo. La diffidenza oggi non aiuta. I rischi, che pure ci sono, aumentano tanto più quanto più ci si sottrae alla responsabilità di abitare il web e renderlo abitabile. Prendere la parola non è un optional. Non prenderla, quando si ha qualcosa da dire, è una grave omissione. La tendenza alla diffidenza, peraltro, non è nuova nemmeno nella Chiesa. È indicativo il fatto che la Inter mirifica, il primo documento licenziato dal Concilio di cui ricorre il 4 dicembre il cinquantesimo anniversario, fosse proprio sui media, definiti come «meravigliose invenzioni della tecnica… che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare» (n. 1). E nello stesso tempo che proprio quel documento, a causa del suo oggetto, fosse stato anche così osteggiato. L’ambivalenza è inevitabile, ma non ci deve paralizzare.

Nel 2014 cadono anche i dieci anni dalla pubblicazione di Comunicazione e Missione, il Direttorio sulle comunicazioni sociali, che riconosce come a un aumento di importanza dei media debba corrispondere un aumento di vigilanza e capacità critica, e istituisce a questo scopo la figura dell’animatore della comunicazione e della cultura. Questi due anniversari ci richiamano a un’assunzione di responsabilità: in un tempo di "ubiquità del web" e di "connessione perenne" non possiamo sottrarci a un impegno attivo in questo nostro mondo ormai "misto", dove la dimensione materiale e quella digitale sono ormai inestricabilmente impastate. Il compito di alfabetizzarsi al nuovo ambiente non è facile. Ma, nello stesso tempo, non tutti devono diventare smart. Quella che è irrinunciabile, piuttosto, è la capacità di comprendere le logiche della rete, per poter comunicare con tutti e per poterle valorizzare a beneficio della nostra umanità.

Ma come fare, se si è immigrati digitali, totalmente analfabeti? L’analogia con il fenomeno della migrazione dei popoli può aiutare. Qualcuno tra gli stranieri se la cava da solo osservando gli altri, "buttandosi" con coraggio nel nuovo ambiente senza farsi scoraggiare dagli errori inevitabili, e un po’ alla volta impara a muoversi, con competenza sempre maggiore, acquistata "sul campo". Per qualcuno, invece, è necessario un "mediatore culturale", un facilitatore che conosca bene il contesto ma sappia anche entrare in sintonia con le difficoltà e le preoccupazioni dei nuovi arrivati, accompagnando un graduale ma necessario cammino di familiarizzazione. L’animatore della comunicazione e della cultura è precisamente questa figura-ponte, oggi più che mai fondamentale se si vuole evitare che il divario tra le generazioni diventi un baratro, e che tante persone di buona volontà non siano nelle condizioni di esprimere le loro capacità e disponibilità a beneficio di tutti, solo perché non riescono a capire e a parlare la lingua del nostro tempo.

Ma quali sono gli aspetti della rete che tutti possiamo impegnarci a valorizzare, e qual è il contributo irrinunciabile che la prospettiva della fede può offrire oggi, anche nel web? Intanto, la rete rimette al centro la dimensione dell’esperienza: si impara facendo, con altri. E si impara per essere capaci di fare sempre meglio. In questo processo si cresce insieme, senza una divisione rigida dei ruoli, senza una separazione artificiale tra imparare e insegnare: c’è sempre qualcuno che ne sa di più, da cui possiamo imparare, e qualcuno che ne sa di meno, a cui possiamo insegnare quel poco che sappiamo. La rete è un contesto di formazione permanente, con altri, nella comunicazione. Un contesto di interdipendenza (contro le ossessioni di autonomia della cultura iperindividualistica che abbiamo così a lungo respirato), di reciprocità non ossessionata dalla simmetria: riconosciamo la competenza, l’autorevolezza, senza che questo sia motivo di disagio o umiliazione. Ma, soprattutto, tutti possiamo, in qualche modo, partecipare se messi nelle condizioni di farlo. Dove partecipare non significa "prendere una fetta", rivendicare un diritto, ma contribuire, esercitando una responsabilità. Partecipare contribuendo. E tutti, nessuno escluso, hanno qualcosa da dare.

Ma c’è di più. L’esperienza, oggi fondamentale, è tanto più viva e capace di generare autentica conoscenza quanto più è illuminata. Chi non crede non vede, scriveva Flannery o’Connor. La luce della fede, che Papa Francesco ci ha richiamato nella sua enciclica, è ciò che rende diverso e irrinunciabile il contributo dei cattolici sul web. Perché la fede apre nella rete, che come tutti gli ambienti rischia di diventare autoreferenziale, una finestra su un oltre, su un «di più che la rete non può dare», con le parole di Benedetto XVI. Il nostro mondo, e non solo quello digitale, può sembrare buio. Ma la fede apre a un al di là, come ci ricorda Dante: «Salimmo sù, el primo e io secondo, / tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo».
  • Chiara Giaccardi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 26, 2013 4:04 pm


  • Una Chiesa dalle porte aperte
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“La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”: inizia così l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, pubblicata oggi, con cui Papa Francesco sviluppa il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, raccogliendo, tra l’altro, il contributo dei lavori del Sinodo che si è svolto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012 sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”.

Con questa Esortazione, il Papa indica alcune "vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”. Ne segnaliamo cinque. Innanzitutto, intende avviare “una nuova tappa evangelizzatrice” caratterizzata dalla gioia. E’ un accorato appello a tutti i battezzati perché con nuovo fervore e dinamismo portino agli altri l’amore di Gesù che sperimentano nella loro vita, la gioia e la bellezza della sua amicizia, in uno “stato permanente di missione”. I cristiani sono chiamati ad essere “evangelizzatori con Spirito” che “pregano e lavorano”: sulla loro bocca deve risuonare il primo annuncio o ‘kerygma’: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”.

Secondo punto: rinnovamento con creatività e audacia, a partire dal recupero della “freschezza originale del Vangelo”. Occorre “una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno”, e una “riforma delle strutture” ecclesiali perché “diventino tutte più missionarie”. Il Pontefice pensa anche ad “una conversione del papato” sulla via di una maggiore collegialità e di una “salutare decentralizzazione”. Bisogna trovare “nuove strade” e “metodi creativi”, non avere paura di rivedere consuetudini e norme della Chiesa che non sono “direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia”. Sottolinea la necessità di far crescere la responsabilità dei laici, tenuti “al margine delle decisioni” da “un eccessivo clericalismo”, e di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa”, in particolare “nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti”.

Terzo punto: una Chiesa aperta, accogliente e misericordiosa. Il Papa invita la Chiesa ad avere “le porte aperte”. La Chiesa è il luogo della misericordia non della condanna, perché Dio non si stanca mai di perdonare. “Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi”. Così, l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. La Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”. Papa Francesco ribadisce di preferire una Chiesa “ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa … rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci … è che tanti nostri fratelli vivono” senza l’amicizia di Gesù. L’annuncio del Vangelo deve avere caratteristiche positive: vicinanza, rispetto, compassione, pazienza per la fatica di un cammino di maturazione. Anche le omelie dei sacerdoti devono rifuggire da una “predicazione puramente moralista o indottrinante” ed essere positive per non lasciare “prigionieri della negatività”, ma offrire “sempre speranza”, riuscendo a dire “parole che fanno ardere i cuori”.

Quarto punto. Il dialogo e l’incontro: con gli altri cristiani (l’ecumenismo è “una via imprescindibile dell’evangelizzazione”), con le altre religioni (“condizione necessaria per la pace nel mondo”) e con i non credenti. Il dialogo va condotto “con un’identità chiara e gioiosa”: non oscura l’evangelizzazione. In particolare, il Papa osserva che “in quest’epoca acquista notevole importanza la relazione” con i musulmani. Implora “umilmente” i Paesi di tradizione islamica perché garantiscano la libertà religiosa ai cristiani, anche “tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei Paesi occidentali!”. Contro il tentativo di privatizzare le religioni, afferma che “il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti” non deve mettere “a tacere le convinzioni di maggioranze credenti”.

Quinto punto. La Chiesa sia voce profetica, capace di parlare “con audacia … anche controcorrente”. Ribadisce l’opzione della Chiesa per i poveri. Il Papa chiede “una Chiesa povera per i poveri”. Denuncia l’attuale sistema economico che “è ingiusto alla radice”. “Questa economia uccide” perché prevale la “legge del più forte”. L’attuale cultura dello “scarto” ha creato “qualcosa di nuovo”: “gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”.“Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!". Le comunità cristiane che si dimenticano dei poveri sono destinate alla dissoluzione. “Tra questi deboli di cui la Chiesa vuole prendersi cura” ci sono “i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti … Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana”. La famiglia – prosegue il Papa – “attraversa una crisi culturale profonda” che “favorisce uno stile di vita … che snatura i vincoli familiari”. Denuncia le “nuove situazioni di persecuzione dei cristiani”.

L’Esortazione si conclude con una preghiera a Maria “Madre dell’Evangelizzazione”. Guardando alla Madre di Dio “torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto”.
  • Sergio Centofanti
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 03, 2013 3:36 pm


  • Poveri bimbi
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Pauvre Belgique!, si lamentava Charles Baudelaire, povero Belgio... Anche ai poeti può capitare di essere ingiusti, specie quando espatriano in fuga dai creditori. A ripercorrerle oggi, però, le pagine indignate che un secolo e mezzo fa l’autore dei Fiori del Male dedicava ai cugini di Bruxelles qualcosa di profetico lo rivelano. Qual era, secondo Baudelaire, il difetto principale del Paese? Lo scimmiottamento del progresso, la ripetizione ossessiva di qualsiasi retorica della modernità, l’assunzione entusiastica delle premesse senza mai preoccuparsi delle conseguenze.

È quello che sta accadendo con il provvedimento ormai conosciuto – per brevità non inesatta – come eutanasia dei bambini. In sostanza si tratta di abbattere il limite di età (qualsiasi limite di età) per quanto riguarda l’applicazione della legge sul fine-vita in vigore in Belgio dal 2002. Una volta approvato in sede parlamentare, il provvedimento – che ha comunque già raccolto una significativa maggioranza nella competente Commissione del Senato – estenderebbe anche ai minori l’accesso all’iniezione letale. Purché siano rispettati i requisiti di sofferenza insopportabile, aggiungono i più prudenti, e purché siano stati espletati tutti i passaggi formali: non solo il consenso dei genitori, ma anche l’intervento dello psicologo dell’infanzia, al quale è affidato il compito di assicurarsi che il bambino abbia capito bene la situazione. Provate a immaginarvelo, il dialogo tra il piccolo paziente e l’esperto che propone le domande come da formulario, mette la spunta alle risposte, passa il foglio in amministrazione. Provate a immaginarvi la scena e di colpo l’utopia negativa di Hunger Games, con i suoi spettacolari sacrifici umani a beneficio di telecamera, vi sembrerà quello che in fondo è: una cupa visione del futuro già superata dal presente in cui ci stiamo inoltrando.

Eppure, nonostante tutto, dalla pauvre Belgique una lezione viene e va nel senso dello smascheramento. Drammatico, come è inevitabile che avvenga quando la parodia della ragionevolezza viene portata al punto di rottura. Se ci sembra assurdo (e lo è) che un bambino possa decidere della propria morte è perché, semplicemente, davanti alla morte siamo tutti bambini. Creature indifese che, costrette a misurarci con ciò che non comprendiamo e che ci sovrasta, reagiamo ricorrendo alla risorsa inesauribile e illusoria del pensiero magico. Di cui i bambini sono maestri, appunto. Sono inciampato? La colpa è del gradino. Mi spavento? Chiudo gli occhi e lo spavento se ne va. C’è il temporale? Sono io a comandare i tuoni. La morte è il mio destino? La trasformo in diritto e così ne divento il padrone.

«Più di qualsiasi altro Paese – scriveva Baudelaire nella sua furia – il Belgio è pieno di gente che crede che Gesù Cristo era un grande uomo, che la Natura insegna solo il bene, che la morale universale ha preceduto tutti i dogmi in tutte le religioni, che l’uomo può tutto e che il vapore, la ferrovia e l’illuminazione a gas provano l’eterno progresso dell’umanità». Generalizzazione ingenerosa e perfino razzista, se presa alla lettera. Ma dimentichiamo il Belgio e concentriamoci sul significato profondo di questa invettiva. Davvero non ci riguarda questa pretesa «che l’uomo può tutto»? O, meglio, che tutto possa essere fatto dall’uomo? Così, senza rimorsi, come se fosse un gioco giocato da un bambino.
  • Alessandro Zaccuri
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 10, 2013 4:15 pm


  • Madiba, l'uomo del plurale
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Ricordare Nelson Mandela è un dovere per chiunque creda nel sacrosanto valore della libertà e dell’uguaglianza dei popoli. E la chiave di lettura del suo carisma, quello che ha scosso le coscienze del Pianeta intero, è racchiusa in una citazione di Marianne Williamson che egli lesse durante il suo discorso inaugurale da presidente del nuovo Sudafrica, nel 1994. «La nostra paura più profonda – disse – non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più...». E Mandela, congedandosi da questo mondo, in cui ha vissuto intensamente, ha dimostrato d’essere stato sempre se stesso, andando al di là di ogni compromesso, con grande senso di responsabilità. Proprio perché, citando sempre Williamson, «quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso».

D’altronde, Mandela non è stato solo un celebre premio Nobel, un presidente autorevole, il padre della Patria che tutti sognavano in Sudafrica, ma, soprattutto, l’eroe nella lotta contro l’apartheid, uno dei peggiori abomini perpetrati dalla colonizzazione occidentale in Africa. Si era ritirato ufficialmente dalla vita pubblica nel 1999, ma non ha mai interrotto la sua indefessa azione in difesa degli ultimi, portando un’instancabile battaglia per la pace e la giustizia oltre i confini del Sudafrica. Reso fragile dall’età e dai 27 anni trascorsi nelle galere del regime segregazionista bianco, già nel 1994, all’epoca delle prime elezioni libere, Mandela riteneva che non fosse opportuno fare il presidente a vita. Per lui, forgiato dalla passione impostagli dal regime di Pretoria, l’esercizio del potere doveva essere inteso unicamente come servizio alla nazione. Unanimemente riconosciuto come il leader africano che ha maggiormente contribuito a segnare l’epoca del riscatto dopo l’onta coloniale e le pessime performance di molti regimi, Mandela ha avuto il merito di scongiurare una guerra civile che avrebbe sconvolto il Sudafrica, con conseguenze forse irreparabili. Era un giorno limpido di fine estate nell’emisfero australe, quell’11 febbraio del 1990, quando dal cancello del penitenziario di Victor Vester, vicino a Città del Capo, usciva dopo 27 anni il detenuto politico numero "46664". All’anagrafe risultava "Rolihlahla Dalibhunga", nato nel villaggio di Mzevo il 18 luglio 1918, ma per tutti era Mandela, detto anche "Madiba", come veniva chiamato dalla gente, con riferimento al suo clan.

A dare l’ordine di liberarlo era stato Frederik Willem de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e premio Nobel per la pace con lo stesso ex prigioniero nel 1993. Va affidato alla storia il giudizio sugli esiti della "Commissione per la Verità e la Riconciliazione", voluta proprio da Mandela e presieduta dal vescovo anglicano e a sua volta Nobel per la Pace Desmond Tutu. I cinque volumi di rapporto, costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimonianze e centinaia e centinaia di audizioni, sono quantomeno serviti, sul piano umano, ad avviare un processo di cicatrizzazione delle ferite causate dall’odio razziale, perché alla lunga possano rimarginarsi del tutto.

Lontano da ogni retorica di circostanza, Mandela ha colmato un vuoto nella leadership del continente africano, che si era aperto con l’uscita di scena dei "padri della patria", i Senghor, Nyerere... Dopo aver colpevolmente tollerato per troppi anni il razzismo, il mondo forse ancora oggi non ha compreso l’enorme valore del miracolo che si è compiuto vent’anni fa in Sudafrica. «Forse non si vuole ammettere – ha saggiamente scritto l’africanista Giampaolo Calchi Novati riguardo al contributo politico e antropologico di Mandela – che accettare e praticare il "plurale" voluto dalla storia, alla sola condizione di ripudiare il razzismo e la discriminazione, è meglio che pretendere di "territorializzare" i diritti dei popoli o le aspettative delle minoranze». Il Sudafrica, insomma, ha incarnato il buon azzardo dell’utopia, proprio grazie al sacrificio di Mandela. Ancora oggi, questa nazione, nel bene e nel male, può costituire un termine di riferimento, con tutte le sue contraddizioni, per ogni politica intesa ad alleviare i problemi della transizione in Africa. Grazie, dunque, "Madiba", per aver tracciato nei cuori il solco della speranza.
  • Giulio Albanese
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 17, 2013 3:44 pm


  • Alziamoci, Gesù viene con la gioia che ci manca
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Il giorno in cui non aspetti più nessuno è il giorno più triste della vita. Quando il telefono non squilla, il citofono non suona. Il giorno in cui nessuno si ricorda più di te. È forse allora che si comincia un po’ a morire. L’uomo è comunione. Ha bisogno dell’altro. Non basta a se stesso. Don Tonino Bello direbbe che ha una ala sola per cui non può volare. Perciò l’altro non è solo necessario, ma indispensabile. Ho bisogno di te. Per raccontarti le mie ore. I mie progetti. Ho bisogno di te perché mi aiuti a portare il mio fardello. Ho bisogno di una guancia da accarezzare. Di qualcuno con cui sognare. È importante sognare. Occorre insegnarlo ai figli. Quando non ci sono più sogni da sognare, prepotenti si fanno avanti gli incubi. Paurosi e incomprensibili. Siamo fatti per amare. Tante cose cambieranno nella nostra vita, il bisogno di amare e di essere amati no. Quello non passa mai.

Che cos’è la gioia? Chi la sperimenta sono certo che non lo saprebbe dire. Molti la confondono con il piacere, altri con il benessere economico, altri ancora con la salute fisica. Da questa confusione dipendono tanti guai. Tutti ne sentono un bisogno immenso, ma pochi riescono ad averla veramente per amica. È deludente avere tra le mani un oggetto falso pensando di possedere l’originale. La gioia sfugge a qualsiasi tentativo di essere accaparrata. Non si lascia comprare, né incatenare facilmente. Non la si può pretendere. Sfugge alla logica dell’avere, del possedere, del primeggiare. È dolce. È gentile. Si nasconde e si lascia trovare nei luoghi più impensati. Gesù ci avverte: «C’è più gioia nel dare che nell’avere». Provare per credere.

Nel donare a un altro qualcosa che ti appartiene abita la gioia. Dunque, non nella ricerca affannosa del benessere e del prestigio personale, ma in un concreto atto di carità. Allora non c’è mai un donare senza ricompensa. E quale ricompensa! Forse è questo il motivo per cui nelle case e nei paesi poveri, nonostante tutto, capita di trovare arcobaleni di gioia vera? Ma il chicco deve marcire – dice il Vangelo – se vuole diventare pane. Non è facile morire a se stessi. Rinnegare il proprio orgoglio e le proprie comodità. Non è facile fare spazio a chi non ha dove dormire questa notte. Rinunciare a un paio di scarpe nuove per mettere al calduccio i piedini di un bambino scalzo. Non è facile, ma è bello. È una sfida. Una sfida per scoprire che cos’è la gioia. E, bada, nessuno può farlo al posto tuo. La gioia è come l’amore. Solo chi lo vive ha il diritto di parlarne.

Beati coloro ai quali è stata insegnata la strada della gioia e hanno deciso di percorrerla. Attraverseranno gli anni e le vie del mondo, assaggeranno i dolori e le tempeste della vita, ma la gioia non li abbonderà giammai. La gioia non è qualcosa di astratto. La gioia è una persona. Gesù viene. Per tutti. Per i poveri e i ricchi. Per i credenti e i non credenti. Viene perché possiamo riprendere fiato. Riposarci sulla sua spalla. Viene per dirci che non è stanco di noi. Che ci ama di un amore folle. Che è disposto a perdonare tutto. Tutto. Purché lo vogliamo. In fondo siamo noi ad avere la chiave per aprirgli il cuore. Certo, perché per amare occorre essere in due. Perché l’amore non si può pretendere. Perché l’amato non si compra, né si corrompe.

Al Signore che chiama occorre rispondere. Con libertà. E allora che tra noi nasce una storia di amore. A volte si nasconde, è vero, ma solo per essere cercato. A volte non risponde, è vero, ma solo per insegnarci a salire più in alto. A volte ci vuole sulla croce, è vero. Ma per tenerci più vicini ed essere aiutato a salvare il mondo. Avvento è parola bella. Piena di fascino e futuro. Avvento e tempo di speranza e di perdono. Gesù viene. Alziamoci. Buttiamo via il mantello che ci intralcia. Corriamogli incontro. Gettiamogli la braccia al collo. Mettiamo al sicuro nel suo cuore immenso il nostro piccolo cuore. Viene per portare gioia. Si, proprio quella gioia, soffio irresistibile e inafferrabile, che da sempre cerchiamo e poche volte troviamo.
  • Maurizio Patriciello
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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