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Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 09, 2007 12:30 pm


  • Imparare ad amarsi per abbandonarsi agli altri
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Continuo la riflessione iniziata il mese scorso col verbo camminarsi dentro proponendo un secondo verbo: amarsi o meglio (permettetemi una sgrammaticatura) aman-do-narsi.

È difficile amarsi. Noi ci amiamo solo se ci si sappiamo perdonare, se sappiamo scoprire l'angolino migliore di noi.

Nessuno può amare la parte peggiore di sé.

Il giorno che troveremo un angolino positivo, dal quel momento inizierà un vero cammino. Verso la piccola terra promessa alla quale ognuno ha il diritto di arrivare.

Per passare da corvi a colombe urge ricordare chi ci ha amati, chi ci ha messo dentro l'arca di Noè. Non ditemi che tiro fuori dalla manica un pezzo di antiquariato. A me piace l'arca, soprattutto perché ha permesso e permette l'ingresso anche agli animali selvatici.

L'arca ci salva lasciando intatte le nostre caratteristiche, non ci manipola, non esige che assumiamo sembianze non nostre, ci evita l'applicazione di maschere e di false identità.

Vorrei ripetervi una frase che dico spesso a me stesso: «L'amore ci libera da noi stessi, lasciandoci noi stessi!». E permettendoci il lusso del perdono.

Chi ama scopre il perdono, si perdona e perdona.

È un perdono che non è cerotto ma resurrezione.

Ho coniato il verbo amarsi in modo strano, abbinando tre concetti in uno solo: amarsi; abbandonarsi; donarsi = amandonarsi.

L'amore vero, liberatorio, rigenerativo, dopo aver scoperto i limiti della nostra anima, ci fa capire che possiamo amare donandoci, a un tempo, a noi e agli altri.

Questa società preoccupa perché non sa perdonare. Vuoi dire che non si ama. Dobbiamo riflettere su questa lacuna. Va colmata nei tempi brevi, pena un disagio generazionale trasversale e di lunga durata. Apriamo la finestra dell'arca, diamo spazio all'arcobaleno, esponiamo sul pennone del nostro cuore l'ulivo.

Vedo attorno all'arca tre tipi di uomini e di donne. Vedo uomini e donne che odiano la vita perché si sentono perdenti, sfortunati e poveri. Vedo uomini e donne che sfruttano la vita perché si sentono furbi e vincitori. Vedo uomini e donne che si meravigliano della vita. Spero che ciascuno di noi appartenga alla terza categoria cioè a quegli uomini e a quelle donne che si lasciano affascinare dalle incursioni che la Provvidenza fa dentro le ventiquattro ore di ogni giorno, cancellando le paure dei perdenti e le furbizie dei vincenti.

Continuo con la riflessione... Aspettare domani per cambiare è già tardi.

Impariamo a leggere tra i risvolti delle nostre attività quotidiane e troveremo una infinita voglia di riconoscenza, di benessere, di positività. Pensiamo di tanto in tanto a Madre Teresa di Calcutta, a don Bosco, a papa Giovanni XXIII. Sono persone che hanno tradotto nel migliore dei modi i piccoli gesti quotidiani. Tutti potremmo essere una piccola Madre Teresa o un mini don Bosco. Basterebbe lasciarsi inondare dalla bellezza dell'anima e non dall'ipocrisia, dalle scimmiottature e dalle farse da cartoni animati.
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar gen 09, 2007 3:59 pm


  • La nascita e il dramma dell'accoglienza negata
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Le recenti festività natalizie hanno riproposto all'attenzione il prodigioso evento della nascita: umile, quotidiano e pure carico di significati, che sprigiona da sé una luce, ci fa pensare e manifesta aspetti essenziali del senso del nostro esistere. Ce lo addita il contrasto tra la stalla di Betlemme, luogo oscuro dove nasce un figlio di gente umile, e la luce della stella, l'annuncio degli angeli e, poi, la manifestazione ai Magi, grandi in quanto saggi e in quanto re. Così si esprime la fede nella unicità divina di "quel" bambino, ma svela anche che in ogni nascita si affaccia una profondità di mistero.

Una nascita non è un evento a due, bensì a tre. La presenza del padre apre il rapporto madre-bambino e lo salva dal pericolo d'essere asfissiante per entrambi (le ricorrenti tragedie riportate dalla cronaca ci indicano quanto forti e talora devastanti possano essere g i affetti che si sprigionano in quel legame). Ma questo è simbolo anche del grande Terzo, silenzioso e luminoso, che è Dio stesso, segreta anima delle nostre relazioni, che le apre e le colma oltre se stesse, e che adotta come figlio e figlia ogni essere umano.

Una nascita non è un fatto solo biologico, bensì è un nuovo inizio del mondo ed è l'ingresso in una grande rete di significati simbolici. A condizione che sia una nascita: ossia che sia l'apertura di una libertà; che il figlio non sia considerato un possesso e trattenuto per sé, bensì accolto per esser donato a se stesso, al suo irripetibile cammino. Il percorso è dialettico: poiché all'inizio c'è impotenza, bisogno, totale dipendenza, cui risponde la cura materna e patema, gratuita e incondizionata, il nutrimento con cibo, parole, affetti, significati.

Una nascita è compiuta quando il figlio è autonomo nei confronti dei genitori e insieme riconosce, con gratitudine, l'inestinguibile legame con loro; quando la buona relazione con loro ha fatto maturare una buona relazione con se stesso e, quindi, la capacità di buone relazioni con gli altri.

A questa luce, più cruda ci appare la grande ombra dell'aborto: l'espulsione della vita dell'altro, compiuta dalla persona cui è proprio il dono di accogliere, ossia la madre. Una questione angosciosa: se neppure una madre è capace di ospitare il piccolo essere che porta in se stessa, se arriva a violentare il suo corpo e il suo cuore per scacciarlo, che ne è di noi, che ne è dell'umanità?

Ma il dramma dell'aborto è ben più vasto. La madre che abortisce è di norma una madre che è stata abortita. Che non è stata accolta dal suo compagno, dalla sua famiglia d'origine, dalla società, talora neppure dalla comunità cristiana (come dimenticare l'insegnante di religione licenziata perché incinta, senza esser sposata?).

Davvero la società fa tutto il possibile e il dovuto per le madri? Davvero rispetta tutte le madri? Davvero considera la maternità come la funzione più alta e il bene più prezioso? Davvero condizioni di lavoro, cure mediche, assistenza, abitazione, sono garantiti a tutte le madri, nella misura del bisogno loro e dei figli? Davvero le donne sono protette a sufficienza dal subire violenza, che le espone a esser madri di figli del loro violentatore?

Il miracolo di un amore per il figlio, comunque concepito, come narra La storia di Elsa Morante, può accadere. Ma come pretenderlo? La vita che la madre da è "relazione" e in tale relazione e di tale relazione deve essere lei stessa nutrita. La madre deve essere "contenuta" e sostenuta affinché possa tenere il figlio non solo nel corpo, ma nella "mente", investendo affetti positivi, e promuoverne la piena nascita, che non si conclude col parto: ciò è indispensabile perché si formi un essere umano sano e integro.

Per questo è aberrante la pratica dell'"utero in affitto", che spezza in modo drammatico l'intero senso e tessuto simbolico dell'evento. E pensino il rimedio d'emergenza per evitare un aborto (invitare a partorire e far poi adottare il bimbo) non è scevro di rischi. Che rapporto profondo avrà avuto col nascituro quella madre biologica? Quali le conseguenze sul figlio? Si può vietare o cercare di evitare l'aborto, ma non si può obbligare alla maternità (e paternità), che sono un gratuito ospitare in cuore e donarsi.

Ma, poi, siamo sicuri che l'aborto riguardi solo le donne incinte? La abortività non è forse diffusa e pervasiva nel nostro stile di vita? Come assistiamo i deboli che dipendono da noi? Come trattiamo gli anziani, i disabili, i malati, i rifugiati, chi emigra spinto dalla miseria? Come trattiamo chi è privo di lavoro, di casa? Che facciamo per i milioni di esseri umani che muoiono nel Terzo mondo di sete, fame, malattie, delle conseguenze delle guerre e del nostro modello di sviluppo? Se non sempre colpevoli, siamo però responsabili.

Dobbiamo confessarlo, davanti all'icona del Natale: noi ci rifiutiamo di accogliere, noi scacciamo dal grembo delle nostre esistenze, case, città e dalla nostra cura molte vite, che così si spengono.

C'è un "benessere" che implica anche la sistematica pratica di molte forme di aborto. Come pensare che le sole madri siano poi immuni dal contagio di tale mentalità e come condannare "solo" loro?
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da anna teresa » mar gen 09, 2007 11:51 pm

VIAGGIO APOSTOLICO A COLONIA
IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

SANTA MESSA NELLA SPIANATA DI MARIENFELD

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Colonia, Spianata di Marienfeld
Domenica, 21 agosto 2005


Parole del Santo Padre all'inizio della Celebrazione

Caro Cardinale Meisner,
cari giovani!

Vorrei ringraziarti cordialmente, caro Confratello nell'Episcopato, per queste tue parole commoventi che ci introducono tanto opportunamente in questa celebrazione liturgica. Avrei voluto percorrere col papamobile tutto il territorio in lungo e in largo per essere possibilmente vicino a ciascuno singolarmente. Per le difficoltà dei sentieri non era possibile, ma saluto ciascuno con tutto il cuore. Il Signore vede e ama ogni singola persona. Tutti noi formiamo insieme la Chiesa vivente e ringraziamo il Signore per questa ora in cui Egli ci dona il mistero della sua presenza e la possibilità di essere in comunione con Lui.

Sappiamo tutti di essere imperfetti, di non poter essere per Lui una casa appropriata. Per questo cominciamo la Santa Messa raccogliendoci e pregando il Signore di rimuovere da noi tutto ciò che ci separa da Lui e separa noi gli uni dagli altri. Ci faccia così il dono di celebrare degnamente i Santi Misteri.

***

Cari giovani!

Davanti all'Ostia sacra, nella quale Gesù per noi si è fatto pane che dall'interno sostiene e nutre la nostra vita (cfr Gv 6, 35), abbiamo ieri sera cominciato il cammino interiore dell'adorazione. Nell'Eucaristia l'adorazione deve diventare unione. Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell'"ora" di Gesù di cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l'Eucaristia questa sua "ora" diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli Egli celebrò la cena pasquale d'Israele, il memoriale dell'azione liberatrice di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i riti d'Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: "Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue". E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.

Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l'accetta nel suo intimo e la trasforma in un'azione di amore. Quello che dall'esterno è violenza brutale - la crocifissione -, dall'interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15, 28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l'atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l'ultima parola. È questa, per usare un'immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell'essere - la vittoria dell'amore sull'odio, la vittoria dell'amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.

Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l'unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L'adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo. Io trovo un'allusione molto bella a questo nuovo passo che l'Ultima Cena ci ha donato nella differente accezione che la parola "adorazione" ha in greco e in latino. La parola greca suona proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni. Questo gesto è necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste a questa prospettiva. Il farla completamente nostra sarà possibile soltanto nel secondo passo che l'Ultima Cena ci dischiude. La parola latina per adorazione è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere.

Torniamo ancora all'Ultima Cena. La novità che lì si verificò, stava nella nuova profondità dell'antica preghiera di benedizione d'Israele, che da allora diventa la parola della trasformazione e dona a noi la partecipazione all'"ora" di Cristo. Gesù non ci ha dato il compito di ripetere la Cena pasquale che, del resto, in quanto anniversario, non è ripetibile a piacimento. Ci ha dato il compito di entrare nella sua "ora". Entriamo in essa mediante la parola del potere sacro della consacrazione - una trasformazione che si realizza mediante la preghiera di lode, che ci pone in continuità con Israele e con tutta la storia della salvezza, e al contempo ci dona la novità verso cui quella preghiera per sua intima natura tendeva. Questa preghiera - chiamata dalla Chiesa "preghiera eucaristica" - pone in essere l'Eucaristia. Essa è parola di potere, che trasforma i doni della terra in modo del tutto nuovo nel dono di sé di Dio e ci coinvolge in questo processo di trasformazione. Per questo chiamiamo questo avvenimento Eucaristia, che è la traduzione della parola ebraica beracha - ringraziamento, lode, benedizione, e così trasformazione a partire dal Signore: presenza della sua "ora". L'ora di Gesù è l'ora in cui vince l'amore. In altri termini: è Dio che ha vinto, perché Egli è l'Amore. L'ora di Gesù vuole diventare la nostra ora e lo diventerà, se noi, mediante la celebrazione dell'Eucaristia, ci lasciamo tirare dentro quel processo di trasformazioni che il Signore ha di mira. L'Eucaristia deve diventare il centro della nostra vita. Non è positivismo o brama di potere, se la Chiesa ci dice che l'Eucaristia è parte della domenica. Al mattino di Pasqua, prima le donne e poi i discepoli ebbero la grazia di vedere il Signore. D'allora in poi essi seppero che ormai il primo giorno della settimana, la domenica, sarebbe stato il giorno di Lui, di Cristo. Il giorno dell'inizio della creazione diventava il giorno del rinnovamento della creazione. Creazione e redenzione vanno insieme. Per questo è così importante la domenica. È bello che oggi, in molte culture, la domenica sia un giorno libero o, insieme col sabato, costituisca addirittura il cosiddetto "fine-settimana" libero. Questo tempo libero, tuttavia, rimane vuoto se in esso non c'è Dio. Cari amici! Qualche volta, in un primo momento, può risultare piuttosto scomodo dover programmare nella domenica anche la Messa. Ma se vi ponete impegno, constaterete poi che è proprio questo che dà il giusto centro al tempo libero. Non lasciatevi dissuadere dal partecipare all'Eucaristia domenicale ed aiutate anche gli altri a scoprirla. Certo, perché da essa si sprigioni la gioia di cui abbiamo bisogno, dobbiamo imparare a comprenderla sempre di più nelle sue profondità, dobbiamo imparare ad amarla. Impegniamoci in questo senso - ne vale la pena! Scopriamo l'intima ricchezza della liturgia della Chiesa e la sua vera grandezza: non siamo noi a far festa per noi, ma è invece lo stesso Dio vivente a preparare per noi una festa. Con l'amore per l'Eucaristia riscoprirete anche il sacramento della Riconciliazione, nel quale la bontà misericordiosa di Dio consente sempre un nuovo inizio alla nostra vita.

Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Ma al tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di tutto e di tutti. Vien fatto di esclamare: Non è possibile che questa sia la vita! Davvero no. E così insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un boom del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c'è in questo contesto. Può esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del "fai da te" alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell'ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l'amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura. È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua fede crescente e l'ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della verità (cfr Gv 16, 13). Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un'opera meravigliosa, nella quale la fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale Catechismo, che è stato anche elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi.

Ovviamente, i libri da soli non bastano. Formate delle comunità sulla base della fede! Negli ultimi decenni sono nati movimenti e comunità in cui la forza del Vangelo si fa sentire con vivacità. Cercate la comunione nella fede come compagni di cammino che insieme continuano a seguire la strada del grande pellegrinaggio che i Magi dell'Oriente ci hanno indicato per primi. La spontaneità delle nuove comunità è importante, ma è pure importante conservare la comunione col Papa e con i Vescovi. Sono essi a garantire che non si sta cercando dei sentieri privati, ma invece si sta vivendo in quella grande famiglia di Dio che il Signore ha fondato con i dodici Apostoli.

Ancora una volta devo ritornare all'Eucaristia. "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" dice san Paolo (1 Cor 10, 17). Con ciò intende dire: Poiché riceviamo il medesimo Signore ed Egli ci accoglie e ci attira dentro di sé, siamo una cosa sola anche tra di noi. Questo deve manifestarsi nella vita. Deve mostrarsi nella capacità del perdono. Deve manifestarsi nella sensibilità per le necessità dell'altro. Deve manifestarsi nella disponibilità a condividere. Deve manifestarsi nell'impegno per il prossimo, per quello vicino come per quello esternamente lontano, che però ci riguarda sempre da vicino.

Esistono oggi forme di volontariato, modelli di servizio vicendevole, di cui proprio la nostra società ha urgentemente bisogno. Non dobbiamo, ad esempio, abbandonare gli anziani alla loro solitudine, non dobbiamo passare oltre di fronte ai sofferenti. Se pensiamo e viviamo in virtù della comunione con Cristo, allora ci si aprono gli occhi. Allora non ci adatteremo più a vivacchiare preoccupati solo di noi stessi, ma vedremo dove e come siamo necessari.

Vivendo ed agendo così ci accorgeremo ben presto che è molto più bello essere utili e stare a disposizione degli altri che preoccuparsi solo delle comodità che ci vengono offerte. Io so che voi come giovani aspirate alle cose grandi, che volete impegnarvi per un mondo migliore. Dimostratelo agli uomini, dimostratelo al mondo, che aspetta proprio questa testimonianza dai discepoli di Gesù Cristo e che, soprattutto mediante il vostro amore, potrà scoprire la stella che noi seguiamo.

Andiamo avanti con Cristo e viviamo la nostra vita da veri adoratori di Dio! Amen.

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun gen 15, 2007 4:50 pm


  • Il volo della colomba della pace, unico linguaggio delle Chiese
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Una volta un uomo sposato andò da un monaco a dirgli: «Come può un uomo sposato diventare santo? Quali preghiere devo dire? Quali azioni buone devo compiere?». Gli rispose il monaco: «Torna a casa tua e ascolta bene quello che ti dice tua moglie. Se avrai fatto questo, sarai sulla buona strada per la santità». Dopo alcuni mesi quell'uomo si ripresentò al monaco dicendo: «In verità ho faticato non poco a rispettare il proposito tutti i giorni, ma credo di esserci riuscito. Sono dunque giunto alla santità o mi manca ancora?». «Se vuoi davvero progredire nella santità della tua vita matrimoniale», aggiunse il saggio, «ora torna a casa e ascolta quello che tua moglie non ti dice; e sarai perfetto».

Questo "detto", che riecheggia quelli dei Padri del deserto, introduce bene alla Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani del 18-25 gennaio 2007: «Fa sentire i sordi e fa parlare i muti» (Marco 7,31-37).

Guarire dalla sordità equivale a divenire Chiesa e credenti consapevoli del perché si hanno due orecchi: l'uno per ascoltare quello che viene detto e l'altro per ascoltare quello che non viene detto, e questo tra Chiese, tra cristiani, con i credenti non cristiani e con i non credenti.

Così come si hanno due occhi per vedere oltre, due narici per fiutare oltre e due mani per accogliere bene l'altro, con lucidità, "dice la mano sinistra", e con amore, "dice la mano destra". Ma una sola è la bocca, e guarita è quella del «sì - sì, no - no», quella del linguaggio semplice e non duplice. Chiese reciprocamente sorde e mute sentono pertanto il bisogno di rivolgersi al loro Signore in una unica invocazione di guarigione che costituirebbe lo stupore del mondo: «Tutti erano meravigliati e dicevano: "È straordinario! Fa sentire i sordi e fa parlare i muti"» (Marco 7,37).

Straordinaria sarebbe questa nuova e diffusa lettura di sé da parte delle Chiese: insieme divenire l'ascolto del dolore della terra e insieme divenire presenza parlante della parola sanatrice del Cristo, riscoprendosi come Chiese la cui verità sta nel non appartenersi, da Cristo per il mondo spezzando esemplarmente in sé la ragione degli odi del mondo, le appartenenze che generano l'avversario.

In questa ottica possono essere comprese alcune indicazioni emerse dalla IX Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese tenutasi a Porto Alegre nel febbraio 2006. In specie l'impegno come cristiani di un determinato luogo a una formazione comune di ascolto della Parola e di ascolto dell'uomo, a quest'ultimo "bocca" del Cristo e testimonianza della prassi della giustizia trasformatrice di Cristo, sapendo che in questo sta l'uscita evangelica dalla sordità e dal mutismo.

E in questa ottica può essere letto il viaggio di Benedetto XVI in Turchia, indice di un sottile ascolto del non detto da parte dell'islam, eppure percepito e tradotto in un gesto eloquente che non necessita di commenti, la preghiera alla Moschea blu adorando il Dio unico e misericordioso, e dicendo alla Turchia e a tutti che l'unico linguaggio della Chiesa e delle Chiese non può essere che quello di una finalmente liberata colomba della pace.
  • Giancarlo Bruni
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer gen 24, 2007 3:01 pm


  • Quando nei racconti dei nonni ritroviamo i valori della vita
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Il rinnovo della patente è una di quelle incombenze che bisogna fare di persona, senza possibilità di sostituzioni. Recatomi alla scuola guida, nell'orario indicatomi, ho trovato una lunga fila. Quelli che mi precedevano erano tutti piuttosto anziani.

Improvvisamente un signore mi si avvicina e mi dice: «Lei è uno che conosco, anche se non so dove l'ho vista». Quando gli dico il mio nome, mi sorride: «Ora capisco. Rotto il ghiaccio mi racconta un pezzo della sua vita da giovane: da poco diplomato all'istituto tecnico industriale della città, gli morì il padre; per sostenere la famiglia e sua sorella fu costretto a gestire un distributore di benzina, nel centro della città. Il distributore oggi non esiste più. Ma la scelta di allora, a 78 anni suonati, ancora gli pesa. Il diploma di allora avrebbe potuto aprirgli altre strade di lavoro.

Saputo che ero prete, in meno di mezz'ora mi ricorda la sua adolescenza presso i circoli cattolici della sua epoca, luoghi, attività e i nomi di sacerdoti tutti scomparsi. Lo fa con un senso di gioia. La sua vita da ragazzo era stata inten¬sa e piena di iniziative. Con difficoltà seguo i suoi ricordi perché mi cita uomini, donne, sacerdoti, che non ho conosciuto di persona.

Mi incanta ascoltarlo. Un po' sordo, parlando ad alta voce, fa radunare intorno a me un capannello di persone. Un signore, anch'egli anziano, si avvicina e noto che ha una mano anchilosata. Dopo la visita del medico, gli chiedo come sia andata per la patente. Mi risponde che ogni volta deve spiegare che cosa ha avuto. Anch'io gli chiedo che cosa sia successo. Sembrava non aspettasse altro.

Prima di rispondere tira fuori dalla tasca due foglietti e mi dice: «Leggi». Il primo foglietto è la dichiarazione di un colonnello tedesco che lo ringrazia per aver salvato un commilitone, nel 1941, in Libia. Nell'altro leggo la decorazione della croce di bronzo al valor militare per lo stesso motivo. Mentre leggo, egli ripete a memoria e ad alta voce la motivazione della decorazione. Spiega poi di aver avuto tagliati i tendini del braccio, per cui la mano è rimasta offesa. Avendo vent'anni, si era offerto volontario per recuperare il tedesco ferito. Aggiunge che gli altri che avevano rifiutato di esporsi al pericolo erano tutti morti perché una granata li aveva colpiti mentre sembravano al sicuro. La chiamata del medico interrompe il capannello.

Ripensando a quel gruppo di persone anziane, provo un senso di tristezza. Eppure i ricordi di infanzia non sono questi. I nonni erano le persone migliori, quasi più dei genitori: saggi, pazienti, affettuosi, generosi. In pochi decenni l'immagine della tenerezza e della saggezza è scomparsa. Paiono diventati di peso, costosi, di impedimento alla libertà. Mi sono chiesto perché questo sia avvenuto. La risposta è nella cultura che negli ultimi trent'anni ci hanno inculcato.

Potenza, giovinezza, salute, bellezza sono i parametri validi. Dopo il martellamento continuo e incessante, la nostra stessa sensibilità è cambiata. Peccato, perché con la modernità, abbiamo perduto un valore grande.
  • Vinicio Albanesi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 01, 2007 11:24 am


  • Yanah ibn Mansur, vero nome di un grande padre della Chiesa
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Correva il secolo VII dell'era cristiana. Nelle attuali Siria, Palestina, Giordania e Iraq le popolazioni arabe erano - da diversi secoli - cristianizzate. La guerra tra l'Impero bizantino e il Regno persiano aveva tuttavia indebolito le due potenze, aprendo la strada alla conquista musulmana, facilitata anche da una cristianità così frastagliata da generare il proverbio arabo: «Quando 10 cristiani si riuniscono, formano in genere 11 opinioni diverse». In particolare, le tre grandi Chiese orientali (calcedonese, monofisita e nestoriana), si alternavano nelle grazie dei vari imperatori, mescolando lingue e tradizioni in un magma tanto fertile quanto bruciante.

A tale situazione, ben si adattava la disponibilità degli invasori che, dalla conquista di Gerusalemme, andavano riconoscendo alle "Genti del libro" lo statuto di «protezione»; a ebrei e cristiani, «mediante promessa di sottomissione e di pagamento di un annuale tributo, era assicurata la sicurezza di persone e proprietà, oltre che la libertà religiosa» (R. Le Coz).

Si aggiunga infine che, per molti decenni almeno, la fede maomettana era catalogata a Occidente come una delle tante eresie (o Chiese) cristiane, motivo per cui molti dei partiti in minoranza presso persiani o bizantini accolsero i nuovi dominatori senza troppa riluttanza.

Tale situazione spiega la presenza ancora oggi di comunità cristiane arabe in alcune regioni del Medio Oriente. Spiega soprattutto come, quando il governatore di Damasco, da cui discenderanno gli attuali musulmani sunniti, decise di muovere battaglia contro Bisanzio, tra le file arabe fossero presenti tribù cristiane monofisite, schierate sotto lo stendardo della croce e dei santi.

Anche il fatto che la capitale musulmana fosse Damasco merita una piccola digressione: lì, forse per la prima volta, i califfi vennero a contatto con un cristianesimo colto e nobile, figlio di una tradizione secolare di teologia ed esegesi e, ancora per diversi anni dopo la conquista islamica, la città resterà a maggioranza cristiana. Lo scontro e l'incontro tra i due mondi si risolse in un intreccio di collaborazioni, a livello di speculazione teologica, di politica e di organizzazione statale, che forse meriterebbero di essere più ricordate.

Durante il governo del primo califfo di Damasco, ad esempio, uno dei più alti funzionari dell'amministrazione era il cristiano Mansur ibn Sarjun (chiaramente considerato traditore dalla tradizione bizantina), «le cui mani reggevano le più importanti leve di comando dell'impero arabo» (]. Nasrallah). Suo figlio, pure cristiano, gli successe nell'incarico di amministratore delle finanze anche sotto il califfo successivo, nonostante un progressivo irrigidimento della protezione accordata e l'inizio di persecuzioni e umiliazioni pubbliche, che precedettero l'avvento dei primi martiri e dei più sanguinosi secoli successivi. Anche il nipote di Mansur, cristiano, sembrò inizialmente destinato a seguire le orme di una delle famiglie più potenti dell'epoca.

Il nome con cui è citato nelle cronache è Yanah ibn Mansur ibn Sarjun, ma non conosciamo con esattezza né la sua data di nascita, né altri particolari della sua gioventù. Sappiamo che crebbe alle migliori scuole del Paese, acquisendo grande padronanza sia della cultura greca classica che di quella araba. Soprattutto, intorno ai 30-40 anni (gli storici discutono se nel 705 o nel 720), abbandonò la vita politica e abbracciò la vita monastica a San Saba, presso Gerusalemme.

Ordinato prete dal patriarca Giovanni, divenne uno dei più grandi teologi cristiani dell'epoca, distinguendosi come il difensore strenuo dell'ortodossia contro il fenomeno dell'iconoclasmo, che travaglierà la cristianità per buona parte dell'VIII secolo.

Nonostante l'origine geografica e i precedenti familiari, le sue opere godranno di grande stima anche presso la stessa Chiesa bizantina, e ancor più in Occidente: la struttura de La Fede Ortodossa ispirerà le divisioni classiche della teologia scolastica medievale che, da Pier Lombardo in poi, guarderà a Yanah ibn Mansur come a un maestro indiscusso.

Che questo nome sia in realtà quasi sconosciuto dipende anche dal fatto che, quando personalità del calibro di Tommaso d'Aquino lo additeranno come autorità nelle questioni più spinose, si preferirà citarlo con il nome latino, lo stesso con cui è presente anche nei nostri calendari il 4 dicembre: «Giovanni di Damasco» o ancora più frequentemente «Giovanni Damasceno», santo e dottore della Chiesa.

In alcuni manuali, appare come il "sigillo" della patristica greca, in altri come l'inizio della teologia medievale. In anni come i nostri, può essere utile non dimenticare che era arabo.
  • Marco Ronconi
Ultima modifica di miriam bolfissimo il gio feb 01, 2007 11:55 am, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 01, 2007 11:30 am

  • Lustrini, potere e denaro non riempiono di senso la vita
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Lasciateli pur dire. Vi diranno che questa idea della morte come maestra di vita è dovuta soltanto a un momento di depressione: bisogna reagire, ragazzi, evvia! Quanto è comodo questo pretesto della depressione, questa paura che ci hanno messo in corpo di non essere costantemente all'altezza della situazione, per impadronirsi delle nostre coscienze, per toglierci dal nostro silenzio, per costringerci a vivere nell'ombra e nel riflesso dei potenti di ogni genere e grandezza.

Avete, invece, mai notato come sia spesso proprio la morte di una persona che si conosce appena a darle tutto il suo misterioso significato, a scoprire anche nel fallimento, e forse soltanto nel suo apparente fallimento, tutto il valore di una vita?

Diciamoci la verità: i personaggi "di successo" ci hanno saziato. Abbiamo scoperto il loro trucco. Basta un attimo di terribile verità perché appaiano in tutto il loro repertorio di modesti prestigiatori: indossano marsine da avanspettacolo, il loro ridicolo cilindro è perfettamente vuoto, nelle tasche non nascondono neppure un coniglio impaurito, le loro invincibili spade si accartocciano al primo tocco.

«Vuoi saperne una? È morto Felicino», mi disse un giorno qualcuno. Forse vi ho già parlato di lui, non ricordo, ma ogni volta che penso all'umiltà di una vita, ripenso a Felicino. Si chiamava Felice, ma tutti lo chiamavano Felicino. Faceva il bidello alle scuole serali di ***. Pallido, minutino, i capelli fini e ondulati, un po' ciarlone. La moglie faceva anche lei la bidella, ma al turno di giorno, ai bambini delle elementari. Era malata di petto. Le era stato consigliato di andare a vivere in Riviera. Ci andavano, infatti, tutte le estati, a Riva Trigoso, in due stanze in affitto con il gabinetto sul retro e la botola a pedana. Si sa, una casa un po' vecchia, una volta di contadini oggi anche loro inurbati, spinta quasi sotto il monte, lontanuccia dal mare. Venti giorni di vacanza. Di più i due bidelli non potevano permettersi. Fatto sta che, nonostante la scomodità del gabinetto, la lontananza dal mare e il periodo di soggiorno troppo breve, si erano andati affezionando a quell'angolo di Liguria che era diventato, a poco a poco, il loro lusso e la loro speranza. Lui ci pensava sempre nei pomeriggi del sabato in cui faceva lo straordinario per la serale. Passava quei pomeriggi a saltellare per l'atrio della scuola. Avrebbe voluto, una volta in pensione, passare anche l'inverno nella casa di Riva Trigoso, ma gli affitti erano troppo cari. Intanto trascorreva quei suoi pomeriggi nell'atrio dove spifferavano correnti d'aria e diventava sempre più verde. Una volta mi aveva parlato di non so che erba profumata che andava a cercare nei prati, al di là della ferrovia, e che mescolava con l'insalata.

Ecco, scusatemi, ma non ho potuto fare a meno di raccontarvi, forse ancora una volta, quella vita del tutto insignificante. Ebbene, che senso poteva avere un'esistenza così, come metterla a paragone, per esempio, con quella di un qualunque uomo politico che fa parlare di sé, in bene o in male, non importa, i telegiornali, le prime pagine dei quotidiani; o, se preferite, con quella di una qualche diva o di un qualche attore, conduttore, o cantante che riempie di sé con foto a colori le pagine dei rotocalchi, appare quale ospite d'onore negli spettacoli televisivi?

Me lo chiedo ma vi confesso che non trovo risposta. Eppure il senso è proprio lì, nel fatto che, almeno in apparenza, un'esistenza come quella di Felicino, di senso pare non averne davvero nessuno.

Ed è questo, appunto, lo scandalo: che la vita ha maggior senso proprio quando sembra non averne nessuno.

Rivolgerò, perciò, una personale preghiera ai nostri uomini e donne di successo, ai nostri uomini di potere: vivete come meglio sapete ma, per favore, non pretendete di riempire le nostre vite con i prestigiosi avvenimenti delle vostre. Lasciateci ai nostri fallimenti. È solo perché eravamo stanchi e depressi che vi abbiamo seguito fino ad oggi con tanta paziente, eccessiva attenzione.

Un ultimo pensiero prima di spegnere la luce sul comodino.

È buffo: la vita, in apparenza, sembra incredibilmente semplice, ma se vai a osservarla da vicino ti confonde, non riesci a trovarne il bandolo come di un gomitolo aggrovigliato. Forse proprio perché non riusciamo a capire di che vivono gli uomini ci riesce ancora più difficile aiutarli a vivere.
  • Ferruccio Parazzoli
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 05, 2007 6:28 pm


  • La società dei consumi? Il nostro "vitello d'oro"
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Se vogliamo concludere in modo efficace la riflessione e il pellegrinaggio all'interno della nostra anima (cioè il "camminarsi dentro") dobbiamo con decisione affrontare la fatica degli ultimi chilometri. Tutti sappiamo che i campionati si fanno duri nelle ultime partite, che la piscina ti ruba il fiato negli ultimi metri, che il Giro d'Italia o il Tour de France lo si decide su una tappa a cronometro o sul terzo monte da scalare.

C'è una parola tanto pesante quanto affascinante che va interpretata non alla luce di conquiste fasulle ma nell'ottica della radicalità evangelica. Si chiama liberazione (dal verbo liberarsi). Ogni esodo ha un suo territorio da liberare e ha un suo idolo da scavalcare. Per gli ebrei è stato il vitello d'oro e per noi è la società dei consumi.

L'odierno resto d'Israele non canta presso il fiume straniero ma arranca dentro l'alveo purulento del surplus. Dobbiamo incominciare a credere che si possa vivere in altro modo anche in questo mondo. Creiamo un campo magnetico positivo intorno a noi che alimenti le sue turbine con il Cantico delle creature, con il saio, il bastone e i piedi scalzi di Francesco d'Assisi. Trasformiamoci in un piccolo gruppo di pressione profetica.

Di solito quando noi parliamo di Vangelo, di apostolato, di mondo migliore, di «un solo gregge e di un solo pastore», ci compaiono davanti i dodici apostoli ripuliti e rinati dalle lingue di fuoco della Pentecoste. A me piace proponi anche un'altra figura altrettanto carismatica e pentecostale: la piccola famiglia di Noè e dei suoi figli mentre esce dall'arca dopo il diluvio universale. Attorno c'era ben poco. Si sono accontentati di un arcobaleno, di un ramo d'ulivo, di una colomba e di pochi altri animali selvatici. Non erano nemmeno in dodici, forse otto, eppure da quel gruppetto è partita una fetta importante della salvezza biblica.

Siamo troppo affascinati dalle quantità, dagli oggetti, dai ninnoli, dai balocchi dorati e dal bisogno di omologazione. "Camminarsi dentro" per 40 anni o per 40 giorni o per 3 giorni, senza riuscire a risorgere o a liberarsi, sarebbe una fatica deleteria e autolesiva, come un Nuovo Testamento senza Pentecoste.

Dico ai miei ragazzi e ai miei operatori che, lavorando nel mondo del disagio, troppe volte ci accontentiamo di lavorare tanto per portare a casa poco. L'equazione è diseguale ed è semplicemente all'opposto delle equazioni degli "altri", che fanno il minimo sforzo con il massimo rendimento per portare a casa soldi, mentre noi facciamo il massimo sforzo con il minimo rendimento per portare a casa persone. Questa eresia deve essere sconfitta. Guai a coloro che si accontentano del poco.
  • don Antonio Mazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 14, 2007 11:02 am


  • I grandi temi evocati e confusi, sollevati dal caso Welby
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Con la morte di Pier Giorgio Welby, i problemi sollevati su molti piani dal suo dramma sono tutt'altro che chiusi. Nei dibattiti che hanno accompagnato la vicenda, cinque diversi temi sono stati evocati e spesso confusi: l'accanimento terapeutico (l'insistere con terapie, anche invasive e dolorose, prolungando solo l'agonia), che tutti respingono, in carenza però di criteri precisi per definirlo; il testamento biologico (la documentata manifestazione della volontà personale circa le cure eccezionali e invasive - pensiamo a un trapianto d'organi - cui si accetta di essere sottoposti, nel caso in cui si sia non più coscienti) che tutti approvano, ma che non è normato; il principio (ora vigente) che esige il consenso del paziente alle cure (e quindi il diritto di rifiutarle o interromperle: pensiamo a una chemioterapia), che però si può trovare in conflitto con l'obbligo del medico di istituire una terapia, se altrimenti ne segua la morte del paziente; l’ "eutanasia attiva" (la legittimazione di interventi medici aventi per scopo diretto la soppressione indolore della vita di pazienti consenzienti, molto sofferenti e inguaribili), sostenuta solo da una piccola minoranza; l'ambigua "eutanasia passiva", ma con cui si intende per lo più l'astenersi (col consenso del paziente) dal ritardare la morte naturale con terapie inutili e dolorose, e che è allora affine al non accanimento.

Che il suo dramma divenisse un "caso" è stata volontà di Pier Giorgio Welby, i quale, oltre a risolvere la propria situazione, ha inteso sollevare un problema generale di diritti della persona malata a decidere per sé, facendo così emergere la necessità da tutti riconosciuta di migliori e più chiare norme legislative.

Sul piano etico, è emerso come non basti rifiutare da un lato l'eutanasia e dall'altro l'accanimento terapeutico, ma vi sia una zona grigia sulla quale la riflessione si deve impegnare.

Il progresso tecnologico ha infatti provocato un cambiamento delle nozioni di "vita" e di "morte" e fatto scoprire l'intrinseca difficoltà nel definirle. Esempio ne sono, da un lato, le procedure che regolano l'espianto di organi a cuore battente ma a cervello ormai morto (circostanza che per esser verificata richiede sofisticate tecnologie). D'altro lato, sussidi tecnologici rendono possibile il prolun¬gamento della vita cerebrale di persone il cui organismo ha perso la capacità di espletare naturalmente le essenziali funzioni vitali.

C'è un obbligo morale a curarsi, non c'è dubbio. Ma quali sono i limiti di tale obbligo? In specie, quando la terapia consista nel supporto dato da un macchinario, si pone la spinosa questione del rapporto tra essere umano e macchina, tra naturalità o artificialità della vita e della morte. Nell'ambito della riproduzione umana, l'etica cattolica sostanzialmente respinge quanto non è naturale. E quando l'attività della macchina non sia un sussidio temporaneo per superare una crisi né sia solo (come il pacemaker) sostegno di una funzionalità ridotta, bensì sostituisca funzioni vitali naturali ormai impossibili, c'è un obbligo morale a ricorrervi? E, se tale obbligo non sussiste, non è anche lecito sospendere il ricorso ad essa?

Pone evidentemente problemi etici non solo "staccare", ma anche se e quando "attaccare" la spina. Anche perché la gran parte del mondo ha il problema opposto al nostro: ossia la mancanza anche di ben più elementari presidi sanitari, l'impossibilità per moltitudini di avere un'assistenza minima.

Peraltro, c'è un grandissimo bisogno di "eutanasia", intesa in ben altro senso: ossia, come adeguata formazione e cultura diffusa, ora quasi assenti, della assistenza alle persone morenti, sia in ospedale sia e soprattutto a casa. Come se il trapasso non abbisognasse di cura fisica, psicologica e morale, oltre che spirituale.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 19, 2007 11:08 am


  • Il "banchiere dei poveri" e il nuovo nome della pace
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Ricordate lo slogan coniato da Paolo VI per esprimere in forma sintetica ed efficace il senso della Populorum progressio del 1967, il suo grido d'allarme per il sottosviluppo, le sperequazioni, la miseria, la fame? Eccolo: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace».

È una pagina che mi è tornata alla mente leggendo l'intervento pronunciato dal "banchiere dei poveri", l'indiano Muhammed Yunus, all'atto del conferimento del Premio Nobel per la pace a Oslo. Un premio che, come ha notato egli stesso, suggella il nesso tra lotta alla povertà e causa della pace. Non è circostanza scontata in questo scorcio d'inizio secolo.

Il nuovo millennio si era aperto con l'impegno a ridurre la povertà del 50 per cento entro il 2015. Siamo lontanissimi da quel traguardo. E se qualche passo è stato compiuto, lo si deve all'autonomo sviluppo dì India e Cina. E le statistiche sulla povertà celano differenziali ancor più vistosi, perché, all'avanzamento di quei due grandi Paesi, corrisponde lo sprofondamento di altre regioni del mondo, a cominciare dall'Africa subsahariana.

Un solo dato: per la lotta al terrorismo gli Usa hanno già speso 530 miliardi di dollari, mentre è sensibilmente calato l'impegno della comunità internazionale nella cooperazione allo sviluppo. Eppure, come ha notato Yunus, due verità sono inconfutabili: il terrorismo non può essere sconfitto unicamente con l'azione militare; la pace è minacciata da un ordine economico, sociale e politico ingiusto.

È istruttivo il percorso seguito da Yunus. Cito: «La povertà era intorno a me e io non potevo voltare la testa di fronte a essa. Nel 1974 trovai difficile insegnare eleganti teorie economiche nelle aule universitarie mentre infuriava la terribile carestia del Bangladesh. All'improvviso sentii la vacuità delle teorie a fronte della fame e della povertà crescenti».

Si interessò così personalmente alle vittime dello strozzinaggio nel villaggio vicino alla sua università. Fornì dì tasca sua piccole somme a quaranta persone che si erano indebitate. Scoprì che bastava poco per risolvere un grande problema per quelle famiglie. Poi provò - invano - a convincere la banca che disponeva di uno sportello nel campus universitario a prestare soldi ai poveri. Infine, nel 1983, aprì un'apposita banca per i poveri.

La molla, la forza del "banchiere dei poveri" è stata ed è la convinzione che la povertà non è un destino, che essa ha precise cause e può essere vinta. La povertà, conclude, «è creata e sostenuta dal sistema economico e sociale che abbiamo realizzato per noi stessi, dalle istituzioni e dalle concezioni che ne stanno alla base, dalle politiche che perseguiamo».

Ci piace pensare che queste parole e, più in radice, il Premio Nobel conferito a Muhammed Yunus siano un segno dei tempi. Che rivelino la ripresa di una visione più larga, meno gretta, meno schiacciata sulla paura e sulle minacce contingenti sulle sorti del mondo. Un indizio di quell'umanesimo integrale e di quell'intelligenza profonda e lungimirante nei quali si inscriveva l'allarme di Paolo VI.

Ci piacerebbe considerare la cosa come segnale di una revisione circa l'agenda delle priorità della comunità internazionale. Ci piacerebbe, ma non ne siamo così sicuri.
  • Franco Monaco
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 26, 2007 2:30 pm


  • La Tv uccide la realtà e la coscienza si svuota
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L'innovazione tecnologica nel campo dell'informazione, con lo sviluppo di un sistema multimediale nel quale interagiscono mezzi diversi con effetto moltiplicatore, ha avuto (e ha) ricadute profonde non solo sullo strutturarsi della vita sociale, ma anche (e ancor più profondamente) sulla formazione della coscienza individuale. Mentre infatti emergono, da un lato, nuove potenzialità - dovute soprattutto all'ampliarsi delle conoscenze - e maturano nuove abilità- come la rapidità dei processi decisionali e la capacità di dar vita ad assemblaggi sempre più estesi - si corre, dall'altro, il rischio che vengano atrofizzate altre potenzialità e abilità strettamente connesse all'articolarsi delle relazioni con gli altri e con il mondo.

Il prevalere di linguaggi logico-matematici propri dei sistemi informatici - si pensi al linguaggio binario del computer- e la loro pervasività in tutti gli ambiti della vita quotidiana determina il ridimensionamento (fino talora alla sparizione) del linguaggio simbolico che sta alla base dei rapporti intersoggettivi; mentre, a sua volta, il radicale mutamento delle coordinate spazio-temporali che concorrono, in misura determinante, a "situare" l'esperienza umana- la comunicazione può ormai realizzarsi "in tempo reale" a enormi distanze geografiche - crea difficoltà di stabilizzazione e di rapporto con la realtà.

La mutazione in atto si può, in definitiva, ricondurre alla vanificazione del "reale" e alla sua sostituzione con il "virtuale". Lo stato di alienazione che da questo deriva (e non può che derivare) è efficacemente descritto, con il linguaggio suggestivo che gli è proprio, da Jean Baudrillard, filosofo e sociologo francese, in un'opera recente dal titolo Il Patto di lucidità o l'intelligenza del Male (Cortina), dove vengono ampiamente illustrate le caratteristiche del processo di informatizzazione in corso e i fattori che l'hanno determinato, ma soprattutto le vastissime dimensioni che ha assunto.

Il "virtuale" è per Baudrillard "realtà-surrogato" ma anche "surrogata"; è l'abbandono del dato oggettivo per fare posto - come egli scrive - al «tecnicamente materializzato, privo di riferimenti a qualsiasi principio, a qualsiasi destinazione finale»; è il venir meno della capacità di immaginazione creativa e la totale dipendenza dall'immaginazione tecnica, quella fornita dal medium, che prende possesso del nostro mondo interiore e lo plasma "a sua immagine e somiglianza".

Baudrillard aveva già preannunciato questa deriva in un'opera precedente (edita in traduzione italiana anch'essa da Cortina), dove il "delitto perfetto" (è questo il titolo dell'opera) veniva identificato nell'uccisione della realtà a opera della televisione, la quale - egli osserva - ci obbliga al confronto con la rappresentazione della realtà (che è sempre anche un'interpretazione) e trasforma il rapporto con gli altri in un confronto tra rappresentazioni diverse, accentuando pertanto la distanza dal mondo reale, che viene occultato e persino negato.

Il passaggio alla multimedialità ha ulteriormente amplificato questo fenomeno. L'artefatto tecnico è diventato il mondo, sottraendo all'uomo ogni possibile via di uscita: il computer ha ormai acquisito il carattere di "protesi", trasformandoci in un "ectoplasma" dello schermo, il quale, anziché essere specchio che riflette la realtà fa da specchio a essa. Il mancato dispiegarsi del tempo, ridotto a un "eterno presente" e l'impossibilità di definire la distanza spaziale - annullata o resa infinita - accentuano il processo di espansione del "virtuale", che è pura simulazione: a esistere non è infatti ciò che accade ma ciò che viene rappresentato e a contare non è l'informazione sugli eventi ma l'evento dell'informazione. Il dato con il quale ci si confronta è radicalmente illusorio: tutto si svolge infatti all'interno di un reticolo ben definito che delimita le possibilità di espressione e fissa previamente le condizioni dell'agire. Ma il fatto ancora più grave è lo svuotamento della coscienza, il suo trasformarsi in epifenomeno di processi esterni, che, oltre a provocare la semplificazione della realtà, ne mortificano profondamente la dimensione interiore.

La via da percorrere, se si vuole reagire correttamente a tale situazione, non consiste nel rifiuto dei mezzi di informazione, che offrono possibilità inedite di espansione delle potenzialità umane, ma nel dar vita a un'azione educativa di grande portata, che conduca a una più precisa conoscenza dei linguaggi (con la possibilità di demistificarli) e alla definizione di un progetto culturale e valoriale che recuperi le grandi domande di senso e sappia risituarle nel contesto odierno, accogliendo le provocazioni della scienza e della tecnica e filtrandole criticamente mediante il ricorso alla grande tradizione umanistica dell'Occidente.
  • Giannino Piana
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mar 07, 2007 9:51 am


  • Un'emergenza sottovalutata che causa cinquemila morti l'anno
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Avrebbe fatto molto bene il ministro Turco a insistere sul divieto di vendita di alcol ai ragazzi fino ai diciotto anni. Non capisco perché alcuni colleghi del ministro abbiano bocciato la proposta. Questi politici ci fanno sempre venire pensieri cattivi. Credo che non sia più sufficiente la campagna di informazione nelle scuole e in famiglia. Alcune iniziative vanno prese urgentemente.

Sono 36 milioni (sette italiani su dieci) le persone che dichiarano di aver consumato alcol una volta nell'ultimo anno. Il 25% dei ragazzi tra i sedici e i venticinque anni si è ubriacato tre volte nell'ultimo anno. Ma la cosa che ci sconvolge di più riguarda quasi il 5% dei ragazzi e il 2% delle ragazze tra gli undici e i quindici anni. Ammettono di bere fino a ubriacarsi almeno tre volte la settimana. Se vogliamo continuare con le statistiche: sono 800 mila i bevitori under 15 e sono 5 mila le morti causate dall'alcol. Non sottovalutiamo anche il fenomeno birra e il pullulare improvviso e spaventoso di pub. Il 70% dei nostri teenager strabeve birra.

Dopo questi numeri siamo tutti presi, come minimo, da crampi allo stomaco. Non possiamo più accontentarci di elencare percentuali. Nessuno di noi si deve chiamar fuori da questa allarmante emergenza. Dobbiamo a tutti i costi indire una guerra civile contro il triplice nemico dei nostri figli: alcol, droga e fumo. Mentre sul fumo e la droga stiamo facendo qualche cosa, contro l'alcol, peggiore assassino di tutti noi grandi e piccoli, non facciamo assolutamente niente. Troppi interessi, troppe connivenze, troppa simpatia per il bicchiere bloccano ogni programma serio e prolungato. Finiamola con le giornate contro l'alcol oppure con le campagne che lasciano il tempo che trovano.

Vorrei, da educatore, suggerire tre ipotesi di lavoro più una. Abolire tutti gli spot che inneggiano ai vari tipi di alcol, proibire la programmazione di film e fiction nelle quali i protagonisti usano in modo smodato alcol, obbligare i padri e gli adulti in generale a fare un uso moderato della bottiglia di vino a cena e a pranzo per evitare che i figli imparino già in famiglia le cose peggiori.

Infine, aggiungerei: non fermiamo la lotta all'alcol solo per ridurre le stragi del sabato sera. La diffusione di questa sostanza è molto più larga. Si è infiltrata in tutte le manifestazioni familiari e sociali.

Ad esempio, in molte parrocchie e in molti nostri paesi, tra le settimane festaiole è entrata la settimana della birra. Sono convintissimo che nessuno ha mai pensato tra i parroci e i sindaci che questa potesse trasformarsi in una occasione pericolosa simile a una prima iniziazione all'alcol. Mi direte che sono esagerato e che vedo ubriachi dappertutto. Vi dico solo che molti adolescenti partono da lì: dalla birra in pizzeria, dalle feste della birra alle quali vanno con i genitori e al bicchierino di whisky sbevacchiato a una delle tante festicciole di compleanno tra coetanei. Se mi sbagliassi ne sarei molto felice...
  • don Antonio Mazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 12, 2007 11:23 am


  • La santità del matrimonio mortificata dal "familismo"
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Vive polemiche sta suscitando il disegno di legge inteso a normare anche in Italia (come in quasi tutti i Paesi occidentali) diritti (e doveri) delle persone conviventi. Si può dubitare che tutti i politici avversi alla legge siano in buona fede. Non si ricordano obiezioni di coscienza e clamori, infatti, quando il Parlamento attribuì in sordina ai propri componenti quegli stessi diritti (e forse qualcuno di più), che pare valgano anche per gli iscritti all'ordine dei giornalisti.

Le autorità ecclesiastiche cattoliche esprimono forte contrarietà, accusando la legge di favorire lo sgretolarsi dell'istituto del matrimonio nella coscienza sociale. Ma in che senso riconoscere diritti e doveri dei conviventi può portare a un tale esito, che giustamente preoccupa la Chiesa? È vero che i simboli stimolano e non solo rispecchiano dei costumi; equiparare, sul livello simbolico del diritto, altre realtà al matrimonio significa e può indurre un minore apprezzamento del valore di quest'ultimo. Ma la legge sembra attenta a non farlo. Anzi, per prudenza, evita allargamenti in sé non da demonizzare.

In una società piena di persone sole, perché non si potrebbe riconoscere un patto di solidarietà stretto tra amici, non su base amorosa e non coabitanti, ma che si scelgono come persona di riferimento, assumendosi dei doveri e chiedendo qualche diritto? D'altra parte, se alcuni si sposassero per assicurarsi alcuni diritti, ben felici di non farlo se li potessero conseguire altrimenti, quei matrimoni sarebbero degni di tale nome? È vero piuttosto che la legge, prendendo atto delle scelte di vita non illegali (ma in contrasto con la morale cattolica) di un non irrisorio numero di cittadini e tutelando i loro diritti personali, rende palese il fatto che l'ispirazione cristiana non è più culturalmente egemone; ma è questo il fine dell'azione della Chiesa o il presupposto della evangelizzazione? La responsabilità ecclesiale verso il matrimonio non dovrebbe procedere su quest'ultima via?

La Chiesa ha sul matrimonio una dottrina altissima, addirittura una mistica. Ma è una attenzione ecclesiale abbastanza viva? La Chiesa docente ne è veramente convinta, così da convincere? Il matrimonio vissuto dai cristiani è una realtà luminosa e gioiosa, umanamente attraente ed ecclesialmente valorizzata in quanto tale?

È relativamente recente, non ancora permeante la coscienza diffusa, anzi ora in fase di regressione (con rare, lodevoli eccezioni), una riflessione teologica positiva sul matrimonio, che non lo veda come vita cristiana di seconda scelta (rimedio alla concupiscenza) per chi non si innalzi alla castità perfetta; che non si limiti a proibire: i rapporti sessuali prematrimoniali; ogni e qualsiasi singolo rapporto coniugale non aperto alla procreazione; la infedeltà, sempre intesa come trasgressione sessuale; una riflessione che, invece, veda nella indissolubilità una grazia promessa e non un arcigno divieto; che valorizzi il ministero ecclesiale degli sposi, non confondendolo con compiti svolti da questi nella comunità ecclesiale.

Chi crede veramente che l'amore degli sposi abbia, in quanto tale, nel fascino della sua bellezza e in tutte le sue espressioni, da insegnare su Dio alla Chiesa qualcosa che altrimenti non avrebbe un suo simbolo nella realtà umana? Chi riflette a fondo sulla portata teologica del riconoscimento di fede, specificamente cattolico, che il matrimonio, nella sua naturalità, è un sacramento, del quale sono ministri gli sposi? Chi ne trae tutte le conseguenze quanto al ministero specifico che tale sacramento conferisce?

La pastorale è più indirizzata alla famiglia, e talvolta in senso "familistico", senza distinguere abbastanza la relazione tra i coniugi dagli altri rapporti familiari che da essa derivano; e tende piuttosto a "salvare" la famiglia mediante la partecipazione alle iniziative ecclesiali, che non a far crescere la consapevolezza di essere, come sposi e come famiglia, un prezioso luogo ecclesiale, in cui si manifestano le nozze di Dio con l'umanità: non sacralizzata né profana, ma santa.

Se gli sposi saranno più attori e non solo oggetti della pastorale, e se sempre più la teologia sarà lavoro comune di uomini e donne, di chierici e laici, si ovvierà a quel diffuso deficit di sensibilità in materia, non slegato dal fatto che il clero cattolico sia composto solo da uomini celibi, pur riconoscendo che ad alcuni di essi si debbono le più profonde e alte elaborazioni teologiche sul matrimonio.

Se ben compreso e vissuto, il matrimonio non solo non viene insidiato da altre realtà, ma è in grado di illuminarle di una luce calda e sanante. A questa luce, ciò che appare deviazione, trasgressione o scadimento, può esser visto come una traccia, presente sia pure a mo' di canna fessa e dì lucignolo fumigante, di ciò che anima il e al matrimonio: la disposizione ad accogliere incondizionatamente un altro, a salvare la propria vita e persona mettendole al sicuro nello dimensione della relazione, del dono totale anche nel tempo, pronti a gioire della nuova vita che questo dischiude e sapendo che di tale accoglienza ognuno di noi vive: da quella della madre e del padre a quella di Dio.
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 19, 2007 3:06 pm


  • Se i jeans sdruciti dei nostri figli sono un messaggio per noi adulti
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Ho notato che a Natale i ragazzi indossavano jeans strappati, di marche celebri. Quasi un non senso, nonostante i lussi e le feste. Mi hanno detto che costano molto: molto più di quelli di importazione a basso costo. Alla domanda circa il loro modo di vestire, la risposta più ovvia è che così vuole la moda. Verranno altre mode ed essi si adegueranno. In fondo - hanno notato gli studiosi - i nostri figli sono molto considerati dalle industrie, perché ottimi consumatori. Per questo sono adulati, captati nelle loro fantasie, accompagnati nei loro linguaggi e nei loro tic.

Nello sforzo di volerli comunque comprendere e, in qualche modo, assolverli, ho pensato che quella moda dimessa di vestire, quasi fossero poveri, nascondesse il desiderio della semplicità. Un modo di vivere essenziale che il benessere delle nostre famiglie ha dimenticato: sono riempiti di cose, di regali, di strumenti più o meno inutili, perché non soffrano della solitudine a cui, nonostante le dichiarazioni contrarie, sono costretti a vivere.

Le notizie sul loro conto non sono buone: sono descritti come fannulloni, incapaci di resistere al dolore, soprattutto mai pronti ad affrontare la vita. Non hanno coraggio perché non sono cresciuti. Vivono nel mondo "virtuale", dove il freddo e il caldo, la fame e la sete non li toccheranno. Le manifestazioni delle loro infrazioni e pazzie sono sempre più allarmanti: riescono a rubare, a fare i bulli nelle scuole, a essere cinici e crudeli. L'età delle loro trasgressioni è sempre più precoce: sballano, imbrogliano, imbrattano, sfasciano; non riescono a diventare adulti.

Da educatori saggi è necessario chiedersi del perché di una simile triste prospettiva. Le ragioni non possono essere cercate in loro: in fondo sono nati nelle nostre case e noi li abbiamo cresciuti. Né, come spesso accade, si possono addossare alle famiglie tutte le responsabilità. Gli stessi genitori sono soli, incerti, incapaci di esprimere una linea sicura di educazione. La riflessione deve essere più complessiva. Va a toccare gangli vitali del modo di vivere. Le domande allora sono molte. Ma possono essere riassunte in una sola: quale strada stiamo seguendo, tutti insieme? Possiamo anche chiamarla il senso della vita. Quale cultura dunque stiamo vivendo e quindi proponendo?

Non è possibile dare risposte dettagliate e forse è anche inutile: gli adulti decidono loro che cosa fare degli affetti, della famiglia, del lavoro, della politica, della cultura, della religione, del tempo libero. Forse i ragazzi stanno inviando messaggi che non comprendiamo o che comunque non riusciamo a captare. Ci dicono che desiderano diventare autonomi, avendo stima delle loro possibilità e chiedendo aiuto per realizzare i loro sogni. Vogliono conoscere che cosa è importante e che cosa effimero. Ci implorano per essere addestrati ad affrontare il futuro. Se le risposte ovvie non sono possibili, sarebbe già molto se ci ponessimo, con serietà, la domanda. Allora il colore e la manifattura dei jeans sarebbe meno problematica.
  • Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 26, 2007 2:36 pm


  • Lo strano mistero della luce che si accende nella nostra vita
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Molte chiacchiere. Ieri sera eravamo in un salotto ben arredato, ciascuno di noi stringeva tra le dita il gambo di un calice colmo di vino chiaro e prezioso.

Civettavamo tra noi sull'età, sul tempo che passa, sul nostro stato di conservazione, ci scambiavamo reciproci quanto, nella maggior parte dei casi, falsi complimenti. Con l'avanzare della notte i discorsi si sono fatti di mano in mano più impegnativi: dalle molteplici forme dell'arte si è passati alla valutazione dei vari atteggiamenti dell'uomo nella vita; poi, non si sa perché, la discussione è caduta sul diavolo, sì, Satana, proprio lui, che il mondo ha riscoperto con un pizzico di stupida meraviglia; infine si è giunti a parlare dello "svantaggio" di chi crede rispetto a chi non crede o, se si vuole, anche viceversa.

Uno di noi, diventando improvvisamente serio e chiudendo gli occhi, come volesse cancellare ogni cosa e ogni presenza attorno a sé, ha detto: «Nessuno di voi ha mai notato che, di colpo, si può fare buio come se qualcuno abbia spento la luce? L'altra sera ho avuto paura. Ascoltavo Beethoven e mi sono reso conto che non provavo più alcuna emozione. Ho creduto di essere già morto e che nulla, nessuna gioia, nessun dolore, avrebbe avuto ormai il potere di resuscitarmi».

«Certo, la vita può riservare sorprese», intervenne un altro accompagnando le parole con una lieve smorfia delle labbra come non si ricordasse più bene come si facesse a sorridere. «A chi la luce si accende e a chi la luce si spegne, Vi riferirò un caso accaduto a un mio caro amico così come me lo raccontò egli stesso. Improvvisamente, proprio per nessun fatto particolare, una bella mattina si alzò che era ateo. Non credeva più che esistesse un Dio come, appunto, dice la parola stessa: ateo, niente dio. Ne era convinto, non poteva farci niente. Era terribile, era come se, ora, si trovasse costretto a ripensare radicalmente tutta la sua vita, come vedesse le cose completamente nuove, estranee. Come se tutto il mondo lo guardasse vivere e lui guardasse vivere il mondo così come si guardano i pesci andare avanti e indietro in un acquario e come, probabilmente, i pesci dell'acquario vedono coloro che li guardano mentre vanno assurdamente avanti e indietro. E questo non aveva alcun senso. Come vedete», concluse, «qui si da il caso che la luce si sia spenta».

«Vi racconterò un caso contrario», intervenne un terzo tra i presenti, «in cui, invece, la luce sì è accesa. Un uomo aveva passato la vita a chiedersi quale fosse per lui la volontà di Dio. Era un uomo colto, si era sposato, aveva avuto dei figli, aveva lavorato. Ma sempre qualcosa di sé gli avanzava e si tormentava per capire bene cosa fosse, in quale ricchezza eccedesse e si domandava in qua e modo Dio gli chiedesse di utilizzarla. Ma Dio, secondo il suo solito, taceva. Così, ogni mattina, quest'uomo pregava invano Dio che gli indicasse quale fosse la sua volontà e che cosa egli dovesse fare. Amava la moglie e i figli, badò al loro mantenimento, alla loro istruzione e a prepararli alla vita, passò così per molte gioie e molti dolori, ma ancora questo non poteva essere tutto, sentiva il peso di quell'eccesso di ricchezza, una sensazione piacevole e inquietante. Finché diventò vecchio e si trovò sul letto di morte. E ancora si chiedeva quale fosse la volontà di Dio per lui, ancora cosa avrebbe dovuto dare, lasciare. Venne la sera e, al tramonto, l'uomo peggiorò e capì che quello era l'ultimo sole che vedeva. C'era un piccolo Crocefisso sul comodino, che non c'era mai stato prima, ma ora lo aveva voluto accanto a sé. E l'uomo lo guardò mentre il sole spariva, come per chiedergli ancora una volta che gli fosse spiegato il mistero della vita, quale fosse stata per lui la volontà di Dio che sempre aveva cercato e mai aveva trovato. Ma questa volta, guardando quel povero Crocefisso posto lì sul comodino, dove per tutta la vita si erano alternati i molti libri che l'uomo leggeva ogni sera per cercare se per caso potesse trovare in qualcuno di essi la risposta alla sua domanda, questa volta l'uomo non provò inquietudine, ma sentì montargli dal fondo della gola un pizzicorino, come se gli venisse voglia di piangere. Invece il pizzicorino montò e, arrivato su, addolcì i vecchi lineamenti dell'uomo che provò meraviglia non fosse pianto, quello, ma un sorriso, profondo e umido, completo: l'uomo sentiva sorridere tutta l'anima sua e, per la prima volta, provò una pace completa, una pienezza di vita mai provata. E, in quel momento, morì».
  • Ferruccio Parazzoli
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 02, 2007 4:15 pm


  • Conferenza Episcopale Italiana

    Nota del Consiglio Episcopale Permanente
    a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio
    e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto
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L’ampio dibattito che si è aperto intorno ai temi fondamentali della vita e della famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo e che continuano a produrre frutti preziosi di amore, di fedeltà e di servizio agli altri, come testimoniano ogni giorno tante famiglie. Ci sentiamo responsabili di illuminare la coscienza dei credenti, perché trovino il modo migliore di incarnare la visione cristiana dell’uomo e della società nell’impegno quotidiano, personale e sociale, e di offrire ragioni valide e condivisibili da tutti a vantaggio del bene comune.

La Chiesa da sempre ha a cuore la famiglia e la sostiene con le sue cure e da sempre chiede che il legislatore la promuova e la difenda. Per questo, la presentazione di alcuni disegni di legge che intendono legalizzare le unioni di fatto ancora una volta è stata oggetto di riflessione nel corso dei nostri lavori, raccogliendo la voce di numerosi Vescovi che si sono già pubblicamente espressi in proposito. È compito infatti del Consiglio Episcopale Permanente «approvare dichiarazioni o documenti concernenti problemi di speciale rilievo per la Chiesa o per la società in Italia, che meritano un’autorevole considerazione e valutazione anche per favorire l’azione convergente dei Vescovi» (Statuto C.E.I., art. 23, b).

Non abbiamo interessi politici da affermare; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi. Siamo convinti, insieme con moltissimi altri, anche non credenti, del valore rappresentato dalla famiglia per la crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. Poter avere la sicurezza dell’affetto dei genitori, essere introdotti da loro nel mondo complesso della società, è un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita. E questo patrimonio è garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio, proprio per l’impegno che essa porta con sé: impegno di fedeltà stabile tra i coniugi e impegno di amore ed educazione dei figli.

Anche per la società l’esistenza della famiglia è una risorsa insostituibile, tutelata dalla stessa Costituzione italiana (cfr artt. 29 e 31). Anzitutto per il bene della procreazione dei figli: solo la famiglia aperta alla vita può essere considerata vera cellula della società perché garantisce la continuità e la cura delle generazioni. È quindi interesse della società e dello Stato che la famiglia sia solida e cresca nel modo più equilibrato possibile.

A partire da queste considerazioni, riteniamo la legalizzazione delle unioni di fatto inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo. Quale che sia l’intenzione di chi propone questa scelta, l’effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del resto, la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume.

Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile.

Queste riflessioni non pregiudicano il riconoscimento della dignità di ogni persona; a tutti confermiamo il nostro rispetto e la nostra sollecitudine pastorale. Vogliamo però ricordare che il diritto non esiste allo scopo di dare forma giuridica a qualsiasi tipo di convivenza o di fornire riconoscimenti ideologici: ha invece il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza.

Siamo consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili garanzie e tutele giuridiche per la persona che convive. A questa attenzione non siamo per principio contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare.

Una parola impegnativa ci sentiamo di rivolgere specialmente ai cattolici che operano in ambito politico. Lo facciamo con l’insegnamento del Papa nella sua recente Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis: «i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana», tra i quali rientra «la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna» (n. 83). «I Vescovi – continua il Santo Padre – sono tenuti a richiamare costantemente tali valori; ciò fa parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato» (ivi). Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto.

In particolare ricordiamo l’affermazione precisa della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di «un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge» (Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 3 giugno 2003, n. 10).

Il fedele cristiano è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi seriamente con l’insegnamento del Magistero e pertanto non «può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società» (Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 5).

Comprendiamo la fatica e le tensioni sperimentate dai cattolici impegnati in politica in un contesto culturale come quello attuale, nel quale la visione autenticamente umana della persona è contestata in modo radicale. Ma è anche per questo che i cristiani sono chiamati a impegnarsi in politica.

Affidiamo queste riflessioni alla coscienza di tutti e in particolare a quanti hanno la responsabilità di fare le leggi, affinché si interroghino sulle scelte coerenti da compiere e sulle conseguenze future delle loro decisioni. Questa Nota rientra nella sollecitudine pastorale che l’intera comunità cristiana è chiamata quotidianamente ad esprimere verso le persone e le famiglie e che nasce dall’amore di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità.
  • Roma, 28 marzo 2007
    I Vescovi del Consiglio Permanente della C.E.I.
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer apr 11, 2007 6:37 pm


  • Essere credenti non può mai essere una bandiera identitaria
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Oltre che dalla questione "in quale Dio crede", ovvero dalla "immagine" di Dio che accoglie in sé, il profilo di chi si professa credente è determinato da ciò che intende per credere, da come "crede" e da come esprime e testimonia tale suo credere.

L'essere, insegna Aristotele, si dice in molti modi. Per comprendere - in modo assai approssimativo - il senso di tale asserzione, pensiamo solo a come la lingua spagnola usi in modo differenziato ser - essere, per esprimere ciò che caratterizza alcunché in modo costante e estar - stare, per indicare la condizione in cui momentaneamente ci si trova. Così, si "è" un bambino, un anziano, un uomo, una donna; ma si "sta" malati, allegri, tristi, in piedi, in viaggio... tutte circostanze che cambiano.

Anche il credere non è affatto un atteggiamento univoco, bensì si dice in molti modi! Ci illuminano a riguardo alcune belle pagine (una grande predica di una laica) in cui Natalia Ginzburg tratta "Del credere e non credere in Dio" (contenute ne suo volume dal titolo Mai devi domandarmi). In tale scritto, Ginzburg difende la "causa" di chi crede in Dio dagli attacchi di chi ritiene che il credere sia «stupido, ridicolo e vile» e individua come cuore della disparità tra l'atteggiamento di chi non crede e quello di chi crede il fatto che «chi non crede è fiero di non credere, avendo costruito intorno al suo non credere idee orgogliose», L'epoca il cui il testo fu scritto (1970) rende forse comprensibile tale percezione: oggi riuscirebbe difficile difendere tale schematizzazione.

In generale, il saggio rende, sì, poca giustizia a chi non crede, ma è prezioso per le indicazioni che, specularmente, ne derivano per chi crede, e può essere letto come uno schizzo che delinea due opposti e alternativi modi di credere. «Il credere di chi crede è [...] così incredulo, che assomiglia straordinariamente al non credere», scrive Ginzburg; è come un mozzicone di «candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d'inverno»; per questo, il credente non può essere pieno di baldanza e, però, ha la sensazione, che se lo fosse, «questa sorta d'orgoglio sarebbe infinitamente più detestabile» de «l'orgoglio di chi non crede».

Il credere, scrive ancora Ginzburg, «non è per niente come una bandiera da portarsi in gloria; anzi appena sembra che diventi una bandiera, si prova subito repulsione e il desiderio di gettarla a terra»; infatti in tal caso i credenti «si sentirebbero [...] come un esercito di soldati, che cammina in trionfo [...] e trae orgoglio e forza dal fatto di formare una schiera numerosa e unita; e allora ciascuno si accorgerebbe che Dio sta esattamente dall'altra parte», giacché, per quanto poco si sappia di Dio, «si pensa però che non deve piacergli affatto di essere amato come gli eserciti amano la vittoria».

È chiaro che questo credere non si oppone solo a un non credere orgoglioso e sprezzante, ma anche (e quanto!) a quei modi di credere, purtroppo non rari, sia nella storia passata sia al presente, in cui la fede viene ostentata e insieme strumentalizzata, in cui si fa di Dio una bandiera, in cui "ci si fa forti" del proprio credere, in cui la fede non è - come ha felicemente formulato Angelo Casati (parroco e scrittore milanese) - «a bassa voce», ma è a toni alti, plateale, soddisfatta di sé, vogliosa di egemonia e pronta a mettersi in concorrenza con poteri e istanze sociali, culturali e politiche, sullo stesso piano.

E un "io credo" in cui 'accento cade sull’io" e non sul Chi, in cui credo; che ha dimenticato di essere un dono, un cammino che si fa in speranza. È, più che un credere, un pensare e presentare se stessi come "i credenti", senza avere sempre ben chiara una distinzione essenziale. Credente non è un aggettivo, ma un participio presente, Ossia è il credere che fa di noi dei credenti: se, quando e nella misura in cui crediamo. Nella misura in cui accogliamo in obbedienza la Parola vivente di Dio e ci lasciamo guidare dallo Spirito.

Ma molti aspetti della nostra vita, azione e cultura derivano da altro, non sono affatto (e molti neppure lo dovrebbero essere) frutti del credere. L'esser credenti "abita" in noi, se e quando non lo contrastiamo troppo; ma non diventa una apposizione fissa della nostra persona, tale per cui, qualunque cosa sì faccia e si pensi, questa sia già (per il solo fatto che chi la compie è un battezzato che cerca di credere) una azione da credente, una azione qualificata dalla fede.

Il credere è cosa delicata e si snatura subito quando diventi un vanto o ce se ne appropri come una identità, invece di essere riconoscimento grato e ospitalità di un Chi che ci trascende.

Più che essere credenti, stiamo, per grazia, sempre di nuovo verso e nel credere. Curare questa distinzione sottrae la fede dal degradarsi e dall'esser catturata dalla ideologia e la lascia libera per la testimonianza dell'Evangelo: una parola "altra" (da noi e dalla nostre parole), una parola del grande "Altro", che ci si è fatto e ci si fa prossimo.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 17, 2007 10:38 am


  • Ernesto Balducci, infaticabile contemplativo sulle vie del mondo
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A una parete della sua stanza aveva appesa una grande carta geografica. Se nella casa-scuola di Barbiana del suo amico don Lorenzo Milani campeggiava la scritta I care, "mi importa, mi interessa", quella carta geografica nella stanza di padre Ernesto Balducci sembrava spiegare: «Mi interessa perché anch'io sono responsabile della ingiustizia che ferisce la Terra». Sulle mappe gli Stati che compongono il nostro pianeta sono segnati a colori diversi e i confini sottolineati; da quel grande intellettuale che era, padre Balducci - della cui morte celebriamo questo mese il quindicesimo anniversario - sapeva bene, e continuava a insegnarcelo, che quei confini erano illusori. Una fitta rete di poteri occulti o non "ufficiali" imbriglia la Terra, blocca il respiro di chi vuole giustizia, imbavaglia il grido dei popoli poveri che chiedono il pane della speranza e della dignità.

Balducci ci insegnava a leggere realtà nascoste dietro nomi roboanti, o negate con sdegno: parlava dei delitti della conquista, delle economie del cosiddetto Terzo mondo piegate agli interessi delle "madrepatrie" e, dopo il crollo del paleocolonialismo, dal neocolonialismo delle grandi imprese transazionali. Ci additava le immense migrazioni dei popoli poveri (strazianti condanne all'esilio), l'ecocidio che spossessava di risorse le generazioni future attraverso i meccanismi di un mercato selvaggio, spietato e quasi onnipotente; e ci diceva una scomodissima verità: «Siamo tutti responsabili, noi dei Paesi dell'agiatezza perché, lo vogliamo o no, godiamo dei frutti perversi dell'ingiustizia».

E, anche, ci diceva: «La Terra si è fatta piccina, non basta più occuparsi delle nostre famiglie e neppure delle nostre nazioni: la nostra responsabilità è ormai collettiva, ciascuno di noi deve trasformarsi in homo planetarius, capace di unirsi a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per progettare e realizzare un mondo nuovo, più amabile».

Questo messaggio gli sembrava da rivolgere soprattutto ai cristiani, chiamati a ricordare che Gesù si è identificato nei poveri e di tutti i popoli ha voluto fare un popolo solo «da un confine all'altro della Terra».

Chi ha conosciuto Balducci da vicino non potrà mai dimenticare come questo scrittore di successo, polemista insuperabile, teologo e storico di eccezionale levatura, fosse soprattutto un uomo di preghiera. Le sue Messe - soprattutto quelle celebrate non nella chiesa della Badia Fiesolana, ogni domenica gremita di fedeli (e di persone che altri consideravano "lontane"), ma nell'intimità della cappella "privata" - erano testimonianze di un incontro d'amore con il Signore della sua vita. Tuttavia, l'uomo che tornava appena poteva al suo chiostro, lo lasciava incessantemente ogni volta che una comunità gli chiedesse di aprirle il Vangelo.

Si può dire che Balducci aveva fatto suo quello che padre de Foucauld lasciò scritto: bisogna vivere la contemplazione sulle vie del mondo.
  • Ettore Masina
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 23, 2007 2:24 pm


  • Noi, piccoli cristiani che preghiamo in ascensore
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A noi, poveri mortali incapaci di mantenerci fermi in un proposito anche soltanto per un quarto d'ora, gli effetti trasfiguranti della preghiera sarà difficile raggiungerli, ma Papa Ratzinger non può suggerirci se non il massimo. Ed ecco, quindi, indicarci nel giorno della Trasfigurazione di Gesù, che «sale sul monte a pregare», il culmine della preghiera: «Entrare nella vita eterna». Che non vuoi dire procacciarsi un posto in Paradiso, ma entrare in «Dio stesso» che è la «vita».

Comunque sia, il richiamo alla preghiera, più pasquale che non quaresimale perché di esultanza interrare, è giunto opportuno in un momento di sete di raccoglimento sempre più percepibile nella vita di ogni giorno anche se tenuto nascosto da un artificioso elogio della dissipazione dietro le maschere convenzionate della modernità e dell'anarchia individuale.

È bastato un film come Il grande silenzio di Philip Groning per risvegliare in un pubblico abituato a ben altri rumori, la nostalgia di qualcosa che non si è provato mai o si è perduto, Non c'è intellettuale che non io lodi con un sorriso un po' malinconico che vorrebbe forse dire: «Oh meraviglia! Come sarebbe bello trovare quella pace!». A costoro verrebbe voglia di rispondere con la sfida tremenda che il Bernanos di Sotto il sole di Satana fa lanciare dal suo santo curato di Lumbres al celebre romanziere che, in cerca del segreto della preghiera e della pace interiore, lo scopre cadavere oltre le tendine del confessionale: «Tu volevi la mia pace. E vientela a prendere!...».

No, non è facile pregare, entrare nella dimensione di Dio. Personalmente ho resistito tre giorni, poi ho tirato un respiro di sollievo quando il treno mi ha scaricato sotto le caotiche arcate della stazione Centrale di Milano. Avevo trascorso quei tre giorni in un monastero cistercense condividendo i tempi della comunità claustrale ritmati dai momenti della preghiera. Ricordo con speciale dolcezza e nostalgia la recita dei Salmi, alternata con lunghi silenzi, alle cinque del mattino, prima dell'alba, nel buio della chiesa gelata e nel coro dell'abside, gli uni accanto agli altri, ognuno con la sua piccola luce accesa sopra lo scranno; o l'ultima preghiera della sera, prima che scendesse il silentium magnum della notte. Ma che non fosse quella la mia forma di preghiera mi fu subito chiaro. E allora, quale avrebbe potuto essere?

Il cardinale Martini nel suo recente commento al Discorso della montagna pone il Padre nostro - la preghiera del cristiano: «Voi dunque pregate così» - al centro del Discorso. «C'è un significato nella centralità del Padre nostro: ci viene detto in questo modo che il Discorso può essere vissuto solo nella preghiera e a partire da essa... Il Discorso deve essere pregato, va intriso di preghiera, gli atteggiamenti che ci propone devono essere oggetto di richiesta a Dio, in quanto non ne siamo capaci e Lui soltanto ce li può donare».

Ma dalla montagna la folla è discesa, è tornata a sciamare per le strade, per le piazze, nei mercati, negli uffici, sui tram e nelle metropolitane, così come io stesso ero tornato là dove solo so nuotare in mezzo ai miei simili che nuotano e annaspano e qualche volta pregano così come possono e sanno. «Sai come inizio la mia giornata?», mi confessò un giorno un insospettabile dirigente di azienda. «Ogni mattina, quando scendo gli otto piani di casa mia dentro la cassa zincata dell'ascensore, recito la preghiera del Pellegrino russo: "Signore, abbi pietà di me"».

Ho conosciuto un uomo che confessava di avere pregato Dio per un lungo periodo della sua vita chiudendosi per pochi minuti in gabinetto. Quando sentiva il suo animo andare in pezzi e provava un infinito desiderio di ricomporlo dinanzi a Dio, si chiudeva nell'unico posto in cui potesse chiudersi, si inginocchiava sulle piastrelle del pavimento, appoggiava le mani giunte sul bordo della vasca da bagno, e quello stambugio diventava il suo tempio, il luogo in cui adorare e pregare. E quell'uomo lo raccontava in tutta semplicità, sorridendo un poco di se stesso.

La donna che dice il Rosario seduta in metropolitana: che fare se non pregare in silenzio con lei? Una mattina ho visto adorare Dio accanto a un pilastro della stazione Centrale: era una donna che si era inginocchiata per terra. Una squilibrata, si dirà. Davvero?

Come per Zaccheo la grazia ci può cogliere anche nel ridicolo, arrampicati come bambini in cima a un alberello. A noi, piccoli cristiani da ascensore e metro basterà aprire e chiudere la nostra giornata con un piccolo segno che possiamo pure chiamare preghiera, anche se è soltanto un briciolo di memoria e di speranza.
  • Ferruccio Parazzoli
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven mag 04, 2007 2:35 pm


  • Una falsa dialettica, quella tra penalizzazione e depenalizzazione
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Molti giovani d'oggi - non nascondiamoci dietro ipocrite circonlocuzioni - si fanno le canne e altre porcherie, perché si pensano fermi a un bivacco, in attesa di orientamenti. Da qualche tempo lo sballo è divenuto un fenomeno dilagante, perché promette ai giovani quei momenti di protagonismo facile, in sostituzione dell'altro più impegnativo e sempre più raro. Durante lo sballo, il senso di onnipotenza, di lucidità, di instancabilità, di attrazione, è alle punte massime. È questo che attrae i giovani. Perciò tenterei di non etichettare tutti come drogati, oppure di banalizzare le canne come fossero caramelle.

Il malessere sociale nel quale l'intera società è caduta non è facilmente definibile. In questa società chi non ha troppo, si sente nudo. E poiché gli eccessi ci sono stati offerti il giorno dopo che ognuno di noi è nato, tutti siamo avvelenati o affascinati solo dalla montagna di oggetti che possiamo concupire. Più stupidi sono gli oggetti e più abbiamo il dovere di concupirli. Purtroppo, al massimo di capricci è stato contrapposto il minimo di doveri. La stramaledetta società dei consumi ci ha evirati.

Dentro a questo vuoto di impegni, nascono false e banali dialettiche come quella riguardante il proibizionismo o l'antiproibizionismo; la depenalizzazione o la penalizzazione. Nessuno è diventato grande senza precise norme e adulti che lo abbiano sollecitato alle scelte, ai doveri, ai diritti e ai divertimenti. Fortunatamente, nessun uomo è un'isola. Chiamare proibizionisti coloro che indicano regole e obiettivi precisi ai giovani è scorretto. Se il professore dì lettere segna un errore sul tema, se sulla strada siamo invitati a velocità ridotte causa dissesti o curve pericolose, alle reazioni negative degli scolari o degli automobilisti sarebbe giusto che scattassero adeguate correzioni. Se non scattasse nulla, la società, nel suo articolarsi di responsabilità, sarebbe poco seria e soprattutto poco leale.

Fino a ieri, queste azioni si chiamavano proposte educative. Ai giovani urge proporre percorsi difficili e insegnare loro ad affrontarli. Non credo che i giovani d'oggi siano diversi da quelli di ieri. Tutti abbiamo mandato al diavolo la scuola, gli ordini dei genitori e le regole della società. Però, siamo poi stati i primi a capire che senza regole non si vive, senza fatica non si matura, senza scelte non si costruiscono identità forti. Le battute qualunquiste sui giovani d'oggi ci offendono come adulti e offendono i giovani stessi. È vero, però, che c'è modo e modo di spiegare ai giovani il perché di certi no. Sono curioso, ad esempio, di capire come socializzeremo la recente clamorosa retromarcia londinese nella quale si dichiara che la cannabis fa molto male e danneggia il cervello.

Vincerà il partito della saggezza o i partitelli libertari che hanno formulato lo stupidissimo proverbio: «Uno spinello al giorno toglie il medico di torno»? E qui torna sul tavolo non solo la saggezza, ma anche la pazienza e la credibilità con la quale spieghiamo ai giovani le nostre esperienze, i nostri sbagli e i nostri doveri. Dice William Phelps: «Se la felicità consistesse nell'agio fisico e nella libertà da ogni regola, allora l'individuo più felice non sarebbe né uomo né donna: sarebbe, io credo, una mucca americana».
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 07, 2007 3:17 pm

  • La controtestimonianza di una Chiesa bloccata dalla paura
Gli esegeti sono concordi nel ritenere che la prima redazione del Vangelo secondo Marco si concludesse, al capitolo 16, versetto 8, con le parole (riferite alle donne che erano andate al sepolcro di Gesù, trovandolo aperto e ricevendovi l'annuncio della resurrezione da parte dell'angelo): «Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura».

I versetti che seguono sono un'aggiunta successiva (il che, beninteso, non ne inficia in alcun modo l'ispirazione: essi sono ora parte integrante del Nuovo Testamento e hanno la stessa autorevolezza di ogni suo altro passo). L'analisi esegetica ci consegna comunque il dono di una versione arcaica del Vangelo nella quale è messa in forte, fortissima luce la paura, che avviluppa e paralizza la nostra umanità, quando non sia ridestata a nuova vita dallo Spirito, dono del Risorto, adempimento della promessa del Padre.

A conferma di ciò, il Vangelo secondo Giovanni ci presenta, alla sera di Pasqua, i discepoli riuniti a porte chiuse «per timore dei Giudei» (Gv 20,19). Come si riassume e simbolizza esemplarmente nell'episodio di Maria Maddalena al sepolcro (Gv 20,1 -18), sospesa tra il non sapere dov'è il suo Signore, il riconoscerlo, ma non poterne ancora godere pienamente la presenza di Risorto, e come richiama il timore degli apostoli al manifestarsi postpasquale (Lc 24,37) del Signore, scambiato per uno spettro, a questo stadio la comunità dei discepoli e delle discepole del Signore è come in boccio, come Adamo già impastato dall'argilla, ma sul quale non è ancora sceso il soffio di Dio, e non è ancora Chiesa. Lo diventa pienamente a Pentecoste quando lo Spirito irrompe nel luogo chiuso in cui si trovavano, simbolo della loro condizione di chiusura interiore, e dona loro la :capacità della testimonianza e dell'annuncio (Atti 2, 1-4).

La Chiesa nasce come estroversione e come chiamata e dono alla universalità. Ma questo presuppone il superamento, per grazia, della paura. Il tema della paura ricorre in tutta la Scrittura ma, in modo specifico, è tema non solo frequente, bensì contrassegnante l'incontro degli umani con l'Evangelo, e questo in modo dialettico: il Nuovo Testamento presenta, per lo più simultaneamente e in contrasto, la paura provata e l'invito a non temere, proveniente da Dio.

Si può dire che l'Evangelo si presenta come invito a non avere paura. A non avere paura di Dio, dell'incontro con Dio, a non avere paura della propria debolezza, a non avere paura dell'incontro con gli altri. Nelle traduzioni italiane si è (giustamente) giocato con due termini "paura" e "timore", ma il greco ha per lo più sempre lo stesso vocabolo fobos, in cui echeggia anche tutta l'irrazionalità insuperabile della "fobia". La chiamata alla fede come liberazione dalla paura e invito a dismetterla è una vera rivoluzione, perché, invece, la religione ha spesso come movente interno, più o meno nascosto, più o meno consapevole, la paura.

Certo, la paura fa parte della sanità psichica, segnala la pericolosità di una situazione e consente di potersene quindi difendere. Ma, da mezzo, a servizio dell'espanderei della nostra vita, essa tende a diventare una tirannica dominatrice, che impedisce di vivere.

Si ha paura di Dio e si cerca di placarne lo sdegno, di evitarne il castigo e di propiziarsene la benevolenza con culti, comportamenti… Si ha paura di Dio perché lo si pensa potente, ma si ha paura anche di tutti i potenti; si ha paura perché si è in generale figli della paura, esseri di paura. La paura rende, forse, talora, religiosi, ma sicuramente tende a rendere preoccupati, chiusi, diffidenti, egoisti.

L'esterno è una fonte di minaccia. Si teme per sé o per quelli che si riconoscono come propri cari. Si teme per la propria vita, beni, per la propria identità, che si vogliono salvaguardare. Il buon annuncio della salvezza coincide con la liberazione dalla paura: di sé, di Dio, degli altri. E si diventa Chiesa nello stesso momento in cui lo Spirito del Risorto libera dalla paura e apre alla gioia dell'accoglienza e della comunicazione. Il contrario della paura non è tanto il coraggio, bensì la speranza e la fiducia: in Dio, in sé, negli altri, derivante dal sentirsi avvolti, sostenuti e mossi dall'amore, in cui «non c'è timore» (I Gv 4,18).

Lo illustra bene il racconto degli Atti degli Apostoli: la comunità, prima raccolta in se stessa, esce, smette di temere i diversi e si rivolge a tutti, con una grande fiducia che tutti comprenderanno, parlando una lingua tale che ognuno la possa sentire come propria, possa sentirsi accolto e riconosciuto dalla comunità dei credenti, che trasmette lo sguardo dell'amore di Dio, scorgendo il valore e la bellezza di ognuno e annunciandoglieli.

Una Chiesa della paura e non della speranza e della fiducia nell'umano sarebbe (ed è, se e quando ciò si realizzi) un controsenso e una controtestimonianza, indotta come sarebbe o è a gesti di difesa, di chiusura, di preoccupazione, di esclusione: un rischio costante per la comunità e per ogni credente. Può essere la paura della Chiesa nei confronti dell'esterno o, entro la Chiesa, un degradarsi a paura del rispetto dovuto tra tutte le componenti del corpo ecclesiale, in particolare verso quanti hanno un ministero di guida.

Far Pasqua è un rinnovato invito a deporre tali bende che paralizzano e legano gli spiriti e le comunità, perché dove c'è paura non c'è lo Spirito di Dio. La nostra umanità è, sì, ancora sottoposta alla paura. Ma la Chiesa è sempre dì nuovo evangelizzata e per lei risuona la voce del suo Signore vivente: «Non avere paura!».
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 14, 2007 10:48 am


  • Il mistero del rifiuto di un figlio e il lungo iter di chi tenta l'adozione
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Mi capita sempre più spesso di incontrare coppie che vorrebbero adottare un bambino. In genere sono coniugi intorno ai 40-50 anni. Hanno fretta perché il divario tra il coniuge più giovane e il bambino non deve superare i 45 anni. Le procedure per essere genitori adeguati sono lunghe e meticolose: durano anche un anno. Al termine di una istruttoria complessa, il Tribunale per i minorenni dichiara l'idoneità della coppia. Ma quando tutto sembra finito incomincia il calvario.

I bambini italiani da adottare sono molto rari: difficile, infatti, che nessuno dei due genitori naturali si faccia avanti. Inoltre il tribunale è sempre molto prudente: solo di fronte alla certezza che il bimbo non sarà accudito adeguatamente da nessun componente della famiglia naturale, dichiara lo stato di adottabilità del minorenne. Nel frattempo dispone l'affidamento: un modo per far crescere il bambino o la bambina in casa di adulti accoglienti. Teoricamente quel bambino affidato potrebbe essere dichiarato adottabile: dipende dalle situazioni particolari. Non è poi raro il caso che in sede di ricorso, il Tribunale civile smentisca il dispositivo del Tribunale dei minorenni, dando ragione alla famiglia naturale e negando l'adottabilità del minore.

Per queste difficoltà le famiglie desiderose di adottare un bambino si dichiarano disposte ad accogliere anche un minore straniero. Ma nemmeno questa via è semplice. Solo le associazioni accreditate presso lo Stato italiano e presso ogni singola nazione straniera possono far da tramite per l'adozione di un bambino. Le file sono lunghe: l'incertezza può diventare attesa di anni. E non sono escluse amare sorprese e delusioni cocenti.

Certo, mi sono anche capitate situazioni inverse: una mamma che non voleva assolutamente la creatura concepita da un padre rimasto segreto. Eppure aveva completato la gravidanza, ma non aveva voluto sapere se era maschio o femmina; non si era sottoposta a nessuna ecografia e a nessuna visita. Aveva partorito, non aveva voluto vedere il neonato e l'aveva lasciato in ospedale. Quel bimbo, segnalato al tribunale, sarà uno dei rarissimi bimbi dati in adozione a famiglie italiane.

Di fronte a simili situazioni contraddittorie mi sono chiesto come sia possibile che davanti a un vero e proprio miracolo di Dio, quale la nascita di una creatura, sia possibile l'incertezza e l'ambiguità. Difficile dare una risposta esauriente: eppure la realtà dimostra che anche dinanzi a un neonato può esserci un grande desiderio o un grande rifiuto. Probabilmente è la traduzione della stessa domanda che ci poniamo di fronte al bene e al male. Come è mai possibile scegliere il male? Eppure l'esperienza dice che, contro ogni razionalità e contro ogni buon senso, a volte scegliamo il male. È il prezzo della libertà che Dio ci ha concesso e che non ha mai ritirato.
  • don Vinicio Albanesi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 21, 2007 11:01 am


  • MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
    PER LA XLI GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI - 20 MAGGIO 2007
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  • Tema: "I bambini e i mezzi di comunicazione: una sfida per l'educazione"
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Cari Fratelli e Sorelle,

1. Il tema della 41ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, "I bambini e i mezzi di comunicazione: una sfida per l'educazione", ci invita a riflettere su due aspetti che sono di particolare rilevanza. Uno è la formazione dei bambini. L’altro, forse meno ovvio ma non meno importante, è la formazione dei media.

Le complesse sfide che l’educazione contemporanea deve affrontare sono spesso collegate alla diffusa influenza dei media nel nostro mondo. Come aspetto del fenomeno della globalizzazione e facilitati dal rapido sviluppo della tecnologia, i media delineano fortemente l’ambiente culturale (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Il Rapido Sviluppo, 3). In verità, vi è chi afferma che l’influenza formativa dei media è in competizione con quella della scuola, della Chiesa e, forse, addirittura con quella della famiglia. "Per molte persone, la realtà corrisponde a ciò che i media definiscono come tale" (Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Aetatis Novae, 4).

2. Il rapporto tra bambini, media ed educazione può essere considerato da due prospettive: la formazione dei bambini da parte dei media e la formazione dei bambini per rispondere in modo appropriato ai media. Emerge una specie di reciprocità che punta alle responsabilità dei media come industria e al bisogno di una partecipazione attiva e critica da parte dei lettori, degli spettatori e degli ascoltatori. Dentro questo contesto, l'adeguata formazione ad un uso corretto dei media è essenziale per lo sviluppo culturale, morale e spirituale dei bambini.

In che modo questo bene comune deve essere protetto e promosso? Educare i bambini ad essere selettivi nell’uso dei media è responsabilità dei genitori, della Chiesa e della scuola. Il ruolo dei genitori è di primaria importanza. Essi hanno il diritto e il dovere di garantire un uso prudente dei media, formando la coscienza dei loro bambini affinché siano in grado di esprimere giudizi validi e obiettivi che li guideranno nello scegliere o rifiutare i programmi proposti (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 76). Nel fare questo, i genitori dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti dalla scuola e dalla parrocchia, nella certezza che questo difficile, sebbene gratificante, aspetto dell’essere genitori è sostenuto dall’intera comunità.

L’educazione ai media dovrebbe essere positiva. Ponendo i bambini di fronte a quello che è esteticamente e moralmente eccellente, essi vengono aiutati a sviluppare la propria opinione, la prudenza e la capacità di discernimento. È qui importante riconoscere il valore fondamentale dell’esempio dei genitori e i vantaggi nell'introdurre i giovani ai classici della letteratura infantile, alle belle arti e alla musica nobile. Mentre la letteratura popolare avrà sempre il proprio posto nella cultura, la tentazione di far sensazione non dovrebbe essere passivamente accettata nei luoghi di insegnamento. La bellezza, quasi specchio del divino, ispira e vivifica i cuori e le menti giovanili, mentre la bruttezza e la volgarità hanno un impatto deprimente sugli atteggiamenti ed i comportamenti.

Come l’educazione in generale, quella ai media richiede formazione nell’esercizio della libertà. Si tratta di una responsabilità impegnativa. Troppo spesso la libertà è presentata come un’instancabile ricerca del piacere o di nuove esperienze. Questa è una condanna, non una liberazione! La vera libertà non condannerebbe mai un individuo - soprattutto un bambino - all’insaziabile ricerca della novità. Alla luce della verità, l'autentica libertà viene sperimentata come una risposta definitiva al "sì" di Dio all’umanità, chiamandoci a scegliere, non indiscriminatamente ma deliberatamente, tutto quello che è buono, vero e bello. I genitori sono i guardiani di questa libertà e, dando gradualmente una maggiore libertà ai loro bambini, li introducono alla profonda gioia della vita (Discorso al V Incontro Mondiale delle Famiglie, Valencia, 8 Luglio 2006).

3. Questo desiderio profondamente sentito di genitori ed insegnanti di educare i bambini nella via della bellezza, della verità e della bontà può essere sostenuto dall’industria dei media solo nella misura in cui promuove la dignità fondamentale dell’essere umano, il vero valore del matrimonio e della vita familiare, le conquiste positive ed i traguardi dell’umanità. Da qui, la necessità che i media siano impegnati nell'effettiva formazione e nel rispetto dell’etica viene visto con particolare interesse ed urgenza non solo dai genitori, ma anche da coloro che hanno un senso di responsabilità civica.

Mentre si afferma che molti operatori dei media vogliono fare quello che è giusto (Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Etica nelle comunicazioni sociali, 4), occorre riconoscere che quanti lavorano in questo settore si confrontano con "pressioni psicologiche e dilemmi etici speciali" (Aetatis Novae, 19) che a volte vedono la competitività commerciale costringere i comunicatori ad abbassare gli standard. Ogni tendenza a produrre programmi - compresi film d’animazione e video games - che in nome del divertimento esaltano la violenza, riflettono comportamenti anti-sociali o volgarizzano la sessualità umana, è perversione, ancor di più quando questi programmi sono rivolti a bambini e adolescenti. Come spiegare questo "divertimento" agli innumerevoli giovani innocenti che sono nella realtà vittime della violenza, dello sfruttamento e dell’abuso? A tale proposito, tutti dovrebbero riflettere sul contrasto tra Cristo che "prendendoli fra le braccia (i bambini) e imponendo loro le mani li benediceva" (Mc 10,16) e quello che chi scandalizza uno di questi piccoli per lui "è meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino" (Lc 17,2). Faccio nuovamente appello ai responsabili dell’industria dei media, affinché formino ed incoraggino i produttori a salvaguardare il bene comune, a sostenere la verità, a proteggere la dignità umana individuale e a promuovere il rispetto per le necessità della famiglia.

4. La Chiesa stessa, alla luce del messaggio della salvezza che le è stato affidato, è anche maestra di umanità e vede con favore l'opportunità di offrire assistenza ai genitori, agli educatori, ai comunicatori ed ai giovani. Le parrocchie ed i programmi delle scuole oggi dovrebbero essere all’avanguardia per quanto riguarda l’educazione ai media. Soprattutto, la Chiesa vuole condividere una visione in cui la dignità umana sia il centro di ogni valida comunicazione. "Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno" (Deus Caritas Est, 18).
  • Dal Vaticano, 24 gennaio 2007, Festa di San Francesco di Sales

    BENEDICTUS PP. XVI
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 28, 2007 11:25 am


  • Serve una riflessione collettiva sulla crisi della famiglia in Italia
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Il recente acceso dibattito attorno ai Dico ha riportato alla ribalta dell'opinione pubblica la questione della famiglia e della crisi che essa attraversa. L'aumento crescente delle separazioni e dei divorzi, che avvengono peraltro in tempi sempre più ristretti - cioè a pochissima distanza dalla celebrazione del matrimonio - e la forte riduzione del tasso di natalità (pur con qualche timido segnale di inversione nei due ultimi anni) sono i sintomi più rilevanti di uno stato di disagio che suscita (e non può che suscitare) giustificata preoccupazione.

La solidità della famiglia è infatti garanzia dello sviluppo di una società ordinata e solidale. Le cause della crisi sono molte e di diversa natura.

Vi è chi tende a imputarla alle riforme legislative attuate nel nostro Paese in questo ultimo trentennio - dall'introduzione del divorzio fino alla proposta dei Dico - sostenendo che esse hanno causato un pesante indebolimento dei legami familiari e inferto, di conseguenza, un grave vulnus all'istituto matrimoniale.

Altri, rilevando l'insufficienza di tale interpretazione - i dispositivi legislativi segnalati sono semmai la conseguenza (e non la causa) del disagio - sottolineano la necessità di cercare le ragioni della crisi in un ambito più vasto, chiamando anzitutto in causa le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato in questi ultimi decenni, sia sul piano strutturale che culturale, la società italiana.

Sul primo piano - quello strutturale - grande rilievo viene assegnato all'estendersi dell'area di interscambio sociale, a causa della caduta delle barriere fisico-geografiche provocata dai nuovi mezzi dì trasporto e di comunicazione, e all'emergere di appartenenze altamente differenziate a seguito dell'accentuarsi del fenomeno della complessità sociale. L'estrema mobilità dei rapporti provoca infatti una costante dilatazione delle possibilità di scelta, che favorisce il rapido dissolversi delle relazioni e la moltiplicazione di nuove (e alternative) forme di convivenza con evidenti ripercussioni negative sulla stabilità della famiglia tradizionale.

Sul secondo piano - quello culturale - lo spettro dei fenomeni che hanno inciso (e incidono) sulla crisi attuale è assai vasto: si va dal diffondersi di una cultura individualista, che rende irrilevante la valenza sociale di ogni decisione, all'avanzare di una visione consumista della vita, che coinvolge anche le relazioni affettive rendendole più fragili, fino alla mancanza di itinerari educativi adeguati che abilitino ciascuno a fare scelte libere e seriamente motivate.

A questi fattori si devono poi aggiungere - e acquistano al momento attuale un rilievo sempre più marcato - i cambiamenti intervenuti nella sfera economica. Partendo dalla considerazione dell'aumento accelerato del numero delle famiglie verificatosi all'inizio degli anni 70 - l'aumento è stato in Italia, dal 1971 al '91, del 36%, mentre, nello stesso periodo, la popolazione è cresciuta di poco più del 5% - e dell'abbassamento del tasso di natalità.

Roberto Volpi in un saggio recente dal titolo La fine dello famiglia. La rivoluzione di cui non ci siamo accorti (Mondadori) rileva come la crescita del reddito procapite e l'incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, anziché favorire un'espansione della natalità - come da taluni si prevedeva - ha causato la sua riduzione; mentre, d'altra parte, l'accresciuta indipendenza economica della donna e il moltiplicarsi delle occasioni di nuovi incontri ha favorito la nascita di nuclei familiari diversi da quelli tradizionali.

La crisi della famiglia, che presenta aspetti allarmanti, va dunque messa in relazione a un insieme di componenti tra loro intrecciate con le quali è doveroso fare i conti, aprendo una riflessione collettiva che coinvolga tanto le istituzioni civili e politiche quanto le agenzie educative (inclusa la Chiesa).

È infatti anzitutto urgente promuovere, sul piano strutturale, politiche sociali adeguate, che consentano di dare piena espressione alle legittime esigenze di coppia e di fare dignitosamente fronte ai bisogni della famiglia. Ma è ancora più urgente dare vita, con l'impegno di tutti gli educatori - genitori, insegnanti, sacerdoti, animatori sociali, ecc. - a cammini formativi incentrati sull'offerta di valori - quali il dialogo, la gratuità, la fedeltà, l'ospitalità, la solidarietà, il perdono, ecc. - che costituiscono il terreno sul quale è possibile costruire relazioni autentiche e garantire il loro consolidamento.

A queste forme di intervento è legato il destino della famiglia e la possibilità che essa svolga il ruolo essenziale che le compete all'interno della società.
  • Giannino Piana
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio mag 31, 2007 6:00 pm


  • Al Festival Biblico i Testi diventano corali
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Il libro della Bibbia torna a svolgere il ruolo di protagonista della terza edizione del Festival biblico, iniziativa promossa dalla diocesi di Vicenza e dal Centro culturale San Paolo, che avrà al centro delle giornate dal 30 maggio al 2 giugno il tema I tempi delle Scritture.

Una delle intuizioni più felici del Festival consiste nel restituire al Testo sacro la caratteristica che gli è propria: la "coralità". Si tratta, infatti, di un testo scritto a più mani, maturato lungo periodi differenti e, soprattutto, scaturito da contesti vitali molto eterogenei tra loro.

Il Festival biblico di Vicenza porta il Testo sacro oltre i recinti della liturgia e i confini rigorosi degli studi specialistici.

Sintonizzandosi con questa lunghezza d’onda, il Festival mette le Sacre Scritture ebraico-cristiane al centro di un crocevia di iniziative volte da una parte a svelare le potenzialità che si sprigionano (e che nel corso della storia si sono sprigionate...) dall’incontro fecondo con altri campi del sapere e delle arti, e dall’altra a mostrare la fecondità di un odierno accostamento non univoco e monocorde. Dunque una coralità di approcci e di espressioni si profila come la modalità più pertinente e produttiva per entrare in rapporto dinamico con le Scritture.

Da qui la ricca varietà delle sezioni del Festival. La Bibbia è portatrice di una "parolacheparla", che interpella l’intelligenza, suscita interrogativi e offre risposte alla sete di verità dell’uomo. Ecco allora un ampio ventaglio di conferenze, dibattiti e seminari formativi, in cui sarà possibile ascoltare le proposte di teologi quali Bruno Forte, Pierangelo Sequeri, Stella Morra, Diego Baldan e Dario Vivian, e raccogliere le riflessioni di biblisti, tra i quali ricordiamo Bruno Maggioni, Roberto Vignolo, Franco Mosconi e Augusto Barbi.

Ci si potrà pure immergere nell’ascolto gustoso di alcune pagine bibliche declamate da Claudia Koll e accompagnate dal commento di Gianfranco Ravasi. Ma non mancheranno gli apporti di discipline che solo apparentemente sembrano del tutto estranee al mondo biblico, ma che in realtà possono gettare luci inedite sul rapporto tra Scrittura e i campi cosiddetti "profani". Ecco la presenza di sociologi, pubblicisti ed economisti, fra i quali Armando Torno, Massimiano Bucchi, Vincenzo d’Andrea, Italo De Sandre e Bruno Tabacci, solo per citarne alcuni.

La bellezza delle Sacre Scritture può pervaderci pure attraverso i suadenti sentieri dell’arte figurativa e musicale, cui sono dedicate le sezioni "paroladavedere" e "profumodiparola", con la ricca offerta di concerti, spettacoli teatrali, mostre, percorsi artistici, balletti e proiezioni cinematografiche. Non stupisce, dunque, la presenza di Angelo Branduardi, Sonigt Tchakerian, Patrizia Laquidara, Lodovico Cardellino, del gruppo Settimane musicali dell’Olimpico e del coro Russia cristiana. Abbondantissime poi le esposizioni: le icone di Palazzo Leoni Montanari; i manoscritti, gli incunaboli e i volumi antichi della Biblioteca Civica Bertoliana; le ceramiche del Museo Civico di Nove; le preziose opere custodite nel Museo Diocesano e, in sintonia col tema di quest’anno, la singolare curiosità degli orologi notturni dei Papi.

Ce n’è proprio per tutti i gusti. Nemmeno i bambini son stati dimenticati: per loro, nella sezione "parolatralemani", verranno allestiti momenti di animazione con il teatro dei burattini e altre attività ricreative. Chi riteneva inadeguato o irriverente mettere in campo attività ludiche dovrà ricredersi, anche perché pure il palato viene in qualche modo coinvolto e stuzzicato: si potrà "gustarelaparola" anche con un fresco aperitivo e ascoltando buona musica.

Riaffiorano alla memoria le parole di Gregorio Magno che, riferendosi alle opere esegetiche di cui si avvaleva, ammetteva candidamente di sentire il bisogno di una coralità di voci che lo aiutassero per la comprensione del testo biblico: «So che per lo più molte cose nella Sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli». Non dimentichiamo poi che una delle potenzialità che si sprigionano dal confronto con la Bibbia, è la capacità di suscitare e sostenere la speranza, come emergerà dagli incontri con i testimoni del nostro tempo: saranno con noi il vescovo Giancarlo Bregantini e don Antonio Mazzi.

Nel grande cantiere del Festival non mancheranno momenti più prettamente formativi, indirizzati in particolar modo (pur non esclusivamente) agli operatori pastorali, animatori, catechisti e insegnanti di religione. Tre biblisti freschi di studi allestiranno un laboratorio ciascuno all’interno della rassegna "L’Eterno nel tempo". Carlo Broccardo si occuperà dei tre tempi che scandivano la vita nel periodo in cui visse Gesù: quello vissuto tra le pareti di casa, quello dedicato alla preghiera in sinagoga e quello consacrato alle liturgie solenni al tempio di Gerusalemme ("I momenti domestici e gli attimi del culto"). Martino Signoretto tratterà dei tempi della Bibbia accostando alcuni brani dei profeti con suggestivi commenti fotografici ("L’attesa tra nostalgia e profezia"). Infine, mediante una rassegna di sequenze cinematografiche tratte da alcuni film dedicati alla figura di Gesù, Aldo Martin mostrerà come diversi registi hanno intuito e reinterpretato i racconti evangelici ("Cristo ieri, oggi e sempre: a spasso tra i film...").

Oltre che al contenuto, i laboratori vogliono offrire una metodologia innovativa e disinvolta nell’utilizzo del computer, di internet e del linguaggio cinematografico all’interno della catechesi e dell’insegnamento.

Il Festival biblico 2007 offre tutto questo e altro ancora. In un caleidoscopio che avrebbe incontrato il plauso di un antico amante delle Sacre Scritture, come sant’Efrem, il quale ebbe a dire: «Il Signore ha colorato la sua Parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua Parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla».
  • a.mar. in Jesus, maggio 2007
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 04, 2007 2:46 pm


  • Anch'io, prete di strada, non smetto di essere figlio
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Maggio è sempre un bel mese. Lo dico perché è appena passato. In questo mese si ammucchiano matrimoni, comunioni, cresime, festività di ogni tipo. Una delle tante è la festa della mamma.

La mia è morta circa dieci anni fa, ma è ancora qui dentro, presente, viva e mi crea una infinità di complessi di colpa. Non smettiamo mai di essere figli. Quel cordone ombelicale mai reciso, ci ha portati troppo in fretta alla conoscenza del mondo. Siamo solo in parte usciti dal pancione e, romanticamente più che razionalmente, di tanto in tanto vi facciamo ritorno.

Non smettiamo mai di essere figli. Quei figli che hanno amato di un amore incondizionato prima e sempre più emozionale poi. Quell'amore si è infarcito di tenerezze, liberazioni, prigionie, rabbie, adorazioni, gratitudini e disperazioni. Quell'amore ci ha fatto crescere, ma a volte ci ha fatto del male. Un male sottile, ma doloroso. Ci ha impedito alcune scelte e ce ne ha fatto fare altre sicuramente non gradite. Non smettiamo mai di essere figli.

Desideriamo sempre quell'amore che protegge, come quando cuccioli ci si accoccolava tra le sua braccia. L'amore adulto non avrebbe nulla a che fare con le braccia di una madre, perché l'amore adulto chiede partecipazione, l'amore della madre solo abbandono... Invece siamo sempre sulla soglia del pancione. Quando il legame piano piano si recide perché così è il cammino della vita, ancora di più sentiamo il bisogno di tornare a essere figli in quell'abbraccio che protegge, che ci fa sentire meno soli, meno ingrati. Andiamo sempre ricercando quella saggezza che solo la lunga esperienza della vita ha saputo accumulare; quella parola detta nel momento preciso, quello sguardo donato anche da lontano, quella preghiera che invoca benedizioni.

Non smettiamo mai di essere figli. Anche nei sensi di colpa che ci portiamo dentro per non aver fatto, per non aver detto, per non aver agito o pensato. Anche per aver tradito le aspettative o non aver realizzato i progetti pensati da altri; per non aver amato troppo dimenticando noi stessi e trovando giustificazione nel prenderci cura degli altri. Non smettiamo mai di essere figli. Perché non vorremmo mai che la vita ci portasse via ciò che la vita ha generato.

Le riflessioni sulla madre ti martellano dentro, rimbalzano, ti frastornano, ti annientano. Dopo anni sei ancora incerto tra quello che hai dato e quello che hai ricevuto, tra le poche sicurezze e le molte insicurezze, tra le memorie e le pantomime, tra un'infanzia mai esaurita e una vecchiaia che ti è sopraggiunta un minuto dopo la sua morte. I pensieri si addensano dentro la testa cercando, come un ariete che sbatte contro la porta chiusa, una via d'uscita per scappare lontano, dissolversi, lasciandoti le carezze frantumate e le poesie consunte.

L'anima di tua madre ti si annida negli angoli più impensati ed esplode nei momenti meno opportuni. Mia madre è morta con il rosario in mano e con la speranza che suo figlio, finalmente, tornasse a fare il prete serio! E non il prete come me. Ora lei dorme il sonno del giusto ma suo figlio è ancora tempestato di dubbi e sensi di colpa, in un maggio più che mai strapieno di sole e di fiori.
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 11, 2007 2:18 pm


  • La violenza giovanile e le nostre responsabilità
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Nei mesi scorsi alcuni gravi episodi di violenza collettiva giovanile, in occasione di partite di calcio, hanno scosso l'opinione pubblica italiana. Alcune contromisure sono state prese, ma ora la cosa sembra non più così sentita: perciò vai la pena di pensarci. Il problema non riguarda solo il nostro Paese e ha radici e dimensioni che vanno ben oltre la pur grave istigazione all'aggressione che promana dai club degli ultras. Perché tanta violenza, espressa soprattutto da giovani e soprattutto in gruppo, in tante circostanze? Perché violenza anche legata al gioco, e non solo, come nella rivolta delle banlieus francesi, connessa a stati di disagio sociale? L'ambito del problema è vastissimo.

C'è da recuperare la memoria rimossa della quantità mostruosa di violenza che ha impastato la storia umana e improntato l'educazione di decine di generazioni. Ci ricordiamo che cosa si insegnava in Italia, ad esempio, fino a sessant'anni fa? Pensiamo che questo non lasci tracce profonde nelle menti, nelle strutture? Il nesso tra violenza e gioco, poi, non è nuovo: che cosa accadeva al Colosseo, nella civilissima Roma? C'è la violenza contro le donne, tema enorme, basilare e sottovalutato, i cui tratti specifici richiedono una riflessione a parte. Tutte dimensioni che non possono essere qui affrontate. Ma che dire della violenza "generica", insensata, in situazioni di relativo benessere economico, in Paesi che vivono un'epoca di ricerca di pace e di educazione alla pace?

La violenza appartiene allo stato di natura, in cui ognuno deve difendersi e conquistare la propria sopravvivenza contro altri. L'umanità è nata uscendo datale stato, mediante la politica: la rinuncia alla violenza entro una comunità, delegando solo lo Stato a usare la forza, unicamente in reazione ad atti violenti, per reprimerli. In cambio, ognuno trae "dal" e "nel" vivere associato le garanzie e i beni necessari alla propria esistenza. Si è poi fatta strada la coscienza che l'umanità è una e che la violenza tra gli Stati è altrettanto illegittima, In questo quadro si apre, e non si chiude, lo spazio dei conflitti e delle lotte sociali (non violente) per promuovere il riconoscimento di più soggetti, delle loro potenzialità, dignità ed esigenze e per conquistare più diritti per tutti, guidati dalla speranza in un futuro migliore.

Ma quali speranze hanno i giovani, nel nostro mondo? Il messaggio che ricevono è secco e inequivoco: è da sciocchi sognare di cambiare il mondo; fate in fretta ad adeguarvi alla realtà, a rendervi conto di non poter nulla contro i potentati che la reggono; cercate di ritagliarvi un piccolo spazio, ognuno perse, in dura competizione con gli altri, non per le medaglie olimpiche, ma per la base vitale, per il lavoro; siete del tutto in balia del potere economico, con sempre meno diritti; il vostro futuro è precario, incerto, non migliore di quello dei vostri padri; non occupatevi di politica: è cosa sporca, lasciatela agli altri (cioè lasciate che lei si occupi di voi, a vostra insaputa).

Il "crollo delle ideologie", tanto celebrato, è stato usato per instillare nei giovani il convincimento della inutilità dell'impegno collettivo. Il tornaconto è diventato palesemente, sfacciatamente la stella polare anche della lotta politica, svuotata non di ideologie, ma di ideali e della sua essenziale componente etica, E la politica, invece di essere il sostituto della violenza, è diventata violenza camuffata: il luogo non di confronti, anche aspri, tra progetti sociali, bensì quello del braccio di ferro tra contendenti destinati, almeno transitoriamente, a prevalere non per le ragioni che hanno, ma per la forza dei mezzi di cui dispongono, per i fan che possono accendere su se stessi.

Nel nostro Paese, si è aggiunto a ciò una perniciosa strategia di annullamento della memoria, un assalto continuo agli ideali ispiratori che hanno qualificato la nascita della nostra Repubblica, Si è fatto dì tutto perché la politica assumesse l'aspetto di un pallottoliere: solo quantità, senza qualità. Siamo tutti uguali, ma nel senso che tutte le idee si equivalgono, siamo tutti solo alla ricerca di soldi e di celebrità; e lustrini finti di celebrità vengono lanciati come confetti per non far percepire l'abisso che separa da chi non solo appare, ma ha le vere leve del comando. Il mondo è un mercato, le merci possono farci felici e valgono molto più della vita umana, E le relazioni e imprese umane vanno tutte ricondotte alla loro dimensione di transazione economica: che cosa ne ho in cambio, quanta ricchezza questo produce. Quale altro è l'ethos della gran parte dei programmi televisivi, che da (troppi) anni nutrono le menti, fin dall'infanzia?

Giovani che hanno incontrato l'Evangelo di Gesù, ma anche giovani non cristiani, nutriti di forti passioni civili e politiche, possono reagire e reagiscono, producendo con tenacia nuovi segni di speranza. Ma che altri, in questo vuoto di senso, ricadano nella violenza e, forse, esprimano così, in forma assurda, un'inconsapevole denuncia di una situazione intollerabile è cosa tragica, che non può certo esser giustificata, ma va stigmatizzata e repressa; dobbiamo però anche capirla, lasciarcene interpellare, assumendone ognuno e collettivamente la responsabilità.
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 18, 2007 10:57 am


  • La discriminazione delle donne? Un peccato vero per la fede cristiana
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Tra chi si rivolge a noi per chiedere aiuto, colpisce la grande differenza che esiste tra uomini e donne. I primi chiedono aiuto per se stessi; spesso sono vittime di scelte sbagliate e di disagio che si sono procurati (alcool, droga...). Le donne invece sono spesso vittime: di violenze, di tratta, di abbandoni.

Mentre i primi, ben che vada, riescono a sopravvivere, le donne sono cariche, oltre che della propria vita, anche della vita di altri: del marito lontano, dei figli che allevano, del benessere che in qualche modo debbono garantire per qualcuno. La ragazza straniera pensa al proprio futuro insieme a un figlio e alla famiglia; si priva del necessario per qualcuno; la ragazza madre non abbandona la sua creatura e, nonostante la violenza subita, riesce ancora a voler bene a chi l'ha picchiata e tormentata.

Perché questa grande differenza? La prima risposta, probabilmente la più ovvia, fa pensare alla maternità, che per definizione significa donazione, altruismo, attenzione all'altro. Ma forse non basta: sono più forti, più intelligenti, più costanti, più generose; resistono, in misura maggiore, alla fatica e al dolore. Non vale la pena discutere se ciò derivi dalla natura o dalla cultura; se è l'educazione data o tutto dipenda dall'istinto. La conclusione rimane la stessa: le donne sono più generose e donative.

Nonostante questa disparità a loro vantaggio, la cultura in genere, antica e moderna, non premia la loro generosità. Sono più soggette a giudizi e a pregiudizi; rischiano più solitudine; continuano a essere vittime di violenze e soprusi. A parità di lavoro, continuano a essere sottopagate; hanno carichi maggiori di fatiche. In fondo, anche nel rapporto uomo-donna si ripete la logica del dominio e del potere. Una logica, in questo caso, molto radicata e raffinata, che affonda le sue radici nella notte dei tempi, ma che, di epoca in epoca, si ripropone insistentemente. E nemmeno nella coscienza cattolica si fa strada maggiore rispetto e maggiore considerazione della donna. Quando, negli anni '70, iniziò il risveglio del cosiddetto femminismo, non era raro ascoltare giudizi sprezzanti nei confronti delle donne, usando pretestuosamente la pagina biblica: la Genesi non ci ha raccontato che per primo fu creato Adamo e dalla sua costola è nata la donna?

C'è molto da lavorare. I progressi fatti, in termini di parità, sono stati molti negli ultimi anni. Credo non siano ancora sufficienti. L'irritazione che nasce a fronte delle loro richieste ed esigenze è chiara manifestazione di perdita di privilegi e di potere. E il potere, nella spiritualità cristiana, è il primo grande peccato: nega infatti la sovranità di Dio e la parità tra tutte le sue creature.
  • don Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 25, 2007 10:50 am


  • I santi, perfetti nella carità ma mica sempre infallibili
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«I santi sono coloro che in una giornata peccano solo sette volte». Da qualche recondito meandro della memoria, mi è improvvisamente riapparsa questa sentenza, mentre ascoltavo un mio giovane studente brandire il diario di un santo recentemente canonizzato, sostenendo che un concetto ivi contenuto era perfetto e indiscutibile, semplicemente in virtù dell'autorità di chi l'aveva pronunziato. Per questo mio studente, era inconcepibile il fatto che avanzassi osservazioni critiche al suddetto concetto, perché significava automaticamente il mio disconoscimento della santità del personaggio, con tutto ciò che ne segue.

«I santi sono coloro che in una giornata peccano solo sette volte». All'epoca mi era sembrata una sentenza insopportabilmente spigolosa; solo ora mi accorgo che aveva il merito di evitare una confusione molto pericolosa: sovrapporre santità e infallibilità. La santità, dice il Catechismo della Chiesa cattolica, «è perfezione della carità e si attua nell'unione intima con Cristo e, in Lui, con la santissima Trinità». Perfezione della carità, tuttavia, non coincide con 'impossibilità di commettere umanissimi errori.

Nei primi secoli dell'era cristiana, era molto chiara la distinzione tra l'autorevolezza (che veniva dalla santità di vita) e la discutibilità delle singole posizioni. Non è raro trovare nella storia duri contrasti tra santi che, pur rispettandosi in modo profondo, non esitavano a criticarsi apertamente. Ricordiamo i feroci dissidi tra sant'lppolito e san Callista sulla disciplina ecclesiale, o fra san Gregorio di Nazianzo e san Damaso sul primato petrino. L'autorità che si rivestiva e l'autorevolezza che era riconosciuta non impedivano né di essere criticati schiettamente, né di affrontare le critiche per quello che erano.

In questo senso, è stato molto eloquente che Benedetto XVI, pubblicando il suo Gesù di Nazaret, abbia tenuto a precisare che si tratta di un'opinione apertamente criticabile, ovviamente nello scontato rispetto deontologico. Il suo richiamo giunge a proposito, poiché nella Chiesa attuale non sempre si riesce a distinguere tra una singola posizione e l'interezza della figura che la propone. E come se una singola affermazione sia discutibile solo nel caso estremo in cui si voglia abbattere l'intera figura. In realtà, si tratta di un timore ingiustificato e paralizzante, cui confesso di non essere immune nemmeno io.

Tempo fa, un amico mi chiese lumi su questo testo di san Girolamo in cui si proponeva un duro parallelismo tra la vita familiare e quella monastica: «Pensi forse che sia proprio la stessa cosa dedicarsi giorno e notte alla preghiera e al digiuno, e truccarsi la faccia in previsione dell'arrivo del marito, ostentare una molle andatura e fingere qualsiasi moina? La vergine si studia di apparire più brutta e di offuscare un dono di natura, mediante la mortificazione. La sposata invece continua a truccarsi davanti allo specchio e non fa che oltraggiare l'Artefice col suo tentativo di apparire più bella di quanto lo sia per natura. Inoltre, i bambini cinguettano, la servitù fa un baccano indiavolato, i figli le si aggrappano al collo; c'è da calcolare le spese e da predisporre gli acquisti, E poi arrivano a dirle che sono arrivati gli ospiti del manto (...). Ella, come un uccellino, vola a perlustrare tutto l'interno della casa, se i pavimenti sono stati ripuliti, se i bicchieri sono stati ben lucidati, se il pranzo è ormai preparato. Dimmi, ti prego: quando ci sarà la possibilità di pensare a Dio, in mezzo a tutte queste faccende? (...). Lodo le nozze, lodo la vita matrimoniale, ma perché mi generano dei vergini; colgo le rose fra le spine, l'oro dalla terra, la perla nella conchiglia».

Ora, la mia - giusta - prima preoccupazione è stata di avvertire che si tratta di un testo del IV secolo, che quindi va capito tenendo conto del contesto e del genere letterario, e che non si può nemmeno prescindere dagli altri scritti di Girolamo su medesimo argomento. Tutto vero e tutto giusto, ma forse potevo anche aggiungere - senza venir meno alla stima e alla devozione per il padre della Vulgata e per l'inarrivabile maestro d'esegesi e ascesi - che questo testo fa trasparire pregiudizi oggi faticosamente accettabili nel nome dello stesso Vangelo che Girolamo ha contribuito a tramandare.

Tramandando dei santi un'immagine irenica, dove ogni critica è sminuita e diluita, ho il timore che si tramandi l'ideale di una perfezione che loro stessi forse avrebbero rifiutato, associando alla loro santità non la carità eroica, quanto piuttosto una «superiorità» di stampo puramente umano, spesso soprattutto intellettuale.

Certo, se si possono criticare le affermazioni di un santo, o quelle di un Papa regnante (seguendo il suo stesso invito!), diventa a questo punto lecito ritenere che altrettanto potrebbe e dovrebbe essere fatto con alcune posizioni delle autorità ecclesiali, comprese quelle figure che oggi riconosciamo in odore di santità per un gesto, una prassi, una ricerca incessante di carità. Ma questo, per il mio giovane studente di cui sopra, è ancora insopportabile.
  • Marco Ronconi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 02, 2007 2:42 pm


  • Ripensare il "bene comune" ridefinendo la "comunità"
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Il tema del "bene comune", oggetto della Settimana sociale dei cattolici italiani, che si svolgerà a Pistola nel prossimo autunno, non gode oggi nel nostro Paese di buona reputazione.

L'affermarsi, in modo sempre più accentuato, di interessi individuali e corporativi, l'assenza o, quanto meno, la svalutazione della morale pubblica, l'affievolirsi del senso civico (peraltro già da sempre poco consistente) sono altrettanti fattori che concorrono a indebolire il senso dell'appartenenza collettiva, e dunque a sminuire, nelle coscienze, la percezione dei doveri verso la comunità. La stessa idea di "bene comune" suscita estraneità e diffidenza, al punto che molti si chiedono se, dopo il crollo delle ideologie e delle utopie rivoluzionarie, possa essere ancora ricuperata.

La crisi attuale ha radici profonde. La modernità è stata, fin dall'inizio, contrassegnata dal prevalere di una concezione "individualistica" dell'uomo, per la quale la dimensione sociale non appartiene intrinsecamente - come pensava la filosofia classica e medioevale - alla natura umana ma è una realtà del tutto "estrinseca" e "accidentale", una "sovrastruttura", cui l'uomo deve forzatamente sottomettersi. Si assiste così al passaggio da una politica fondata sulla "natura" a una politica fondata sul "contratto" e, di conseguenza, alla sostituzione del concetto di "bene comune", definito in termini oggettivi, con quello di "interesse generale", espressione di un consenso conseguito attraverso la mediazione degli interessi soggettivi. Ridotta a realtà convenzionale, la società appare sempre più estranea alle esigenze vere dell'uomo; mentre allo Stato e alle istituzioni pubbliche non viene, a sua volta, più riconosciuto il compito di promuovere la crescita collettiva, ma soltanto di vigilare perché siano rispettate le "regole" del patto.

Lo svuotamento del significato originario dell'idea di "bene comune" si accompagna poi a un sempre maggiore disinteresse verso la "cosa pubblica", concepita come res nullius e alla ricerca da parte di chi fa politica dell'interesse del proprio partito o del proprio gruppo, a scapito dell'interesse di tutti. D'altra parte, la crescente interdipendenza tra i vari settori della vita sociale e tra i popoli della terra sollecita la convergenza attorno a obiettivi comuni, nella consapevolezza che ci si salva (o si perisce) oggi soltanto insieme. La categoria di "bene comune" sembra così riacquisire (almeno a livello teorico) grande attualità; ma il suo concreto ricupero impone un necessario confronto con le esigenze della situazione attuale.

La prima di tale esigenze è legata alla centralità che la cultura occidentale ha assegnato - come già si è detto - all'individuo e alla sua realizzazione. L'istanza positiva che viene datale processo culturale è la sollecitazione a ripensare i "bene comune" nel quadro di una stretta relazione tra il "personale" e il "sociale", superando perciò tanto il rischio della privatizzazione quanto quello di un unanimismo che, cancellando le differenze, finisce per appiattire la realtà.

Si tratta di fare spazio, in altre parole, all'idea di "persona" in cui soggettività e socialità, singolarità e universalità non sono più entità parallele (o peggio in contrapposizione), bensì dimensioni convergenti e mutuamente interagenti di un'unica realtà. Ma si tratta anche (e soprattutto) di restituire consistenza all'idea di "comunità", che è il tessuto connettivo della vita sociale. Il "bene comune" assume pertanto il carattere di bene di ciascuno e di tutti e implica, di conseguenza, l'istituzione di feconde mediazioni tra privato e pubblico, tra soggettività sociali e istituzioni e, infine, tra società civile e Stato.

La seconda esigenza, che rinvia al fenomeno già segnalato della globalizzazione, consiste nella necessità di ridefinire il "bene comune" in una prospettiva universalistica. Il che comporta, in primo luogo, il superamento dei confini delle nazioni per allargare lo sguardo all'intera umanità esistente. Ma comporta anche - è questo l'universalismo che oggi si richiede e che conferisce al "bene comune" una dimensione non più soltanto sincronica ma diacronica- un'attenzione sempre maggiore alle generazioni future, nonché alla terra minacciata dal potere dispotico dell'uomo. Comporta, in definitiva, l'impegno a dare vita a un modello di sviluppo capace di promuovere il bene dell'umanità presente e futura in un mondo nel quale l'interdipendenza si trasformi in occasione per la crescita di una sempre più estesa solidarietà.
  • Giannino Piana
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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